Come compra un cliente

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Come compra un cliente: la Digital disruption e il percorso del prodotto Lead generation, ZMOT, customer journey: dal prodotto al cliente.

Le dispense di NETT Economy Formazione e informazione per l’ingresso nei mercati digitali

un progetto appleseed - agenzia di marketing digitale


SOMMARIO

La vera Sfida

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La Digital Disruption

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La verità, vi prego, sul web

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Perché il marketing digitale costa meno? Il processo d’acquisto nel mondo digitale

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Avete visto Minority Report?

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Un venale Grande fratellone

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Strano, ma vero: la verità paga

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Come compra un cliente?

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Qual è il nesso tra la birra e i pannolini?

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Dove sono i clienti?

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Comunicazione: tradizionale vs. digitale

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Sbagliando s’impara: il monitoraggio dei risultati

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E quindi?

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Feed the monster

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Il fattore umano

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Conclusioni

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Come compra un cliente: la Digital disruption e il percorso del prodotto Lead generation, ZMOT, customer journey: dal prodotto al cliente.

a cura di ​Franco Mennella

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Definizione: maggio 2018 NETT Economy è una realizzazione Appleseed srls, agenzia di Marketing digitale

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La vera Sfida Oggi il mondo digitale non è soltanto uno dei canali possibili per raggiungere il mercato, rappresenta il mercato stesso. Ma in che modo gli imprenditori si approcciano al problema? Spesso le imprese valutano con scetticismo la possibilità di integrare il loro business con modelli digitali, ritenendo ci sia poco di concreto. La verità è che, in altre aree del pianeta, l’uso professionale e globale di nuovi sistemi per lo sviluppo delle aziende rappresenta un presente già consolidato, con una sola regola: o ​ sei dentro o sei del tutto fuori! I pochi imprenditori che “ci provano” tendono ad associare il marketing digitale semplicemente all’utilizzo, più o meno professionale, di specifici strumenti. Per alcuni significa avere un sito o un blog, per altri significa essere posizionato su Google con alcune keywords, per altri ancora significa avere una pagina con tanti fan sui social network. In generale tendono a pensare che il problema sia dato dall’uso di tecnologie e strumenti. Vedremo in seguito quanto questa valutazione sia sbagliata. Il problema, invece, è che in pochi sanno realmente come funzionano queste tecnologie e questi strumenti, su che basi poggiano, perché dovrebbero essere utilizzati e quali sono le modalità più efficaci per raggiungere i risultati sperati. Quindi basano le loro scelte su quelle fatte da altri, senza considerare quali siano le vere necessità del proprio business. Senza le giuste informazioni, però, vediamo soltanto la parte esteriore delle azioni, il risultato finale, senza alcuna conoscenza delle modalità e delle premesse. È come guardare soltanto la fine di un film: ci sarà anche l’happy ending, ma prima potrebbe esserci stato l’inferno. Approfondendo seriamente la questione si comprende subito come guardarsi intorno sia spesso inutile, se non dannoso. L’arretratezza generale nell’applicazione di nuovi sistemi e la mancata comprensione delle logiche di base ci pone in fondo alle classifiche di “maturità digitale” tra i paesi del cosiddetto Primo Mondo. Le aziende che sono riuscite ad imporsi sul mercato sono tutte d’oltreoceano: Amazon, Uber, AirBnb e tutti i colossi digitali che hanno cambiato radicalmente i rispettivi settori di riferimento. Non lasciatevi ingannare dal mito della genialità mediterranea. Sicuramente esiste, ma serve soltanto a creare i prodotti. Ed effettivamente in questo, numeri alla mano, sia l’Italia che l’Europa in generale hanno una marcia in più. Ma quando si tratta di commercializzazione, la musica cambia ed a suonarla è la Silicon Valley con tutto il mondo digitale a stelle e strisce. Da queste parti, su questi temi, si vola basso e i risultati si vedono tutti. Anche gli imprenditori che provano a “fare qualcosa” si limitano a pensare di poter trarre in qualche modo dei vantaggi dal mondo digital. Creando un sito e sistemando i social credono di aver risolto i loro problemi, sottovalutando l’unico aspetto importante. Essere presenti sui canali digitali non basta, bisogna esserci nel modo giusto, nel posto giusto ed al momento giusto. Per dirla tutta ci vuole anche il prodotto giusto ed un’azienda in grado di costruirlo efficacemente. Troppa roba per affidarsi ad istinto ed esperienza. Ci vuole metodo e conoscenza.

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Un piccolo esempio di come la tecnologia stravolga completamente il business.Â

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La Digital Disruption Il termine ​digital disruption indica il momento in cui una nuova tecnologia origina il cambiamento di una determinata attività e modifica completamente il modello di business precedente. Si tratta del cambiamento che è avvenuto nel momento in cui le nuove tecnologie digitali, e i modelli di business sviluppati con esse, hanno cominciato ad influenzare il valore aggiunto, la​ value proposition​ di prodotti o servizi esistenti. La rivoluzione digitale sta cambiando tutto, in tanti settori, in maniera radicale e ad una velocità impressionante. Aziende che solo fino a pochi anni fa vantavano solide leadership di mercato, sono state travolte da nuovi “entranti digitali”, capaci di attivare modelli innovativi, “distruttivi” dell’esistente. Gli esempi sono tanti. Vi ricordate di Blockbuster? Era il leader globale nel settore dell’entertainment e, a metà anni novanta, vantava decine di migliaia di negozi “fisici” nel mondo. Questo mega colosso è stato spazzato via dal mercato in pochissimi anni. In questo caso non aveva compreso in tempo il profondo cambio di paradigma in corso, che rendeva il “noleggio fisico” rapidamente obsoleto a fronte della più efficiente “fruizione in streaming”. Cosa che, invece, ha perfettamente capito Netflix, nata nel 1999, nel momento di massimo splendore di Blockbuster, e che oggi vanta nel mondo oltre decine di milioni di abbonati ai suoi servizi. Se ne parla poco, ma anche un colosso digitale come Microsoft è stato colpito dalla Digital Disruption. Nei primi anni ‘90 Bill Gates dichiarò di non credere eccessivamente nello sviluppo di Internet. In quel momento il colosso di Redmond aveva tutte le carte in mano per diventare l’assoluto monopolista della digitalizzazione mondiale ma questa valutazione ha permesso ad un allora nascente azienda, Google Inc., di sorpassarla e piazzarsi in testa alla classifica. Ovviamente la potenza di Microsoft gli ha consentito di superare il momentaccio, ma il versante internet del mondo digitale è ormai totalmente colonizzato ed i tentativi di mettere in campo Bing e il cloud targato Windows non riescono a dare i risultati attesi. Sono storie che dimostrano una importante verità che in altri mercati è stata ormai acquisita: ​la ​digital disruption “distrugge” letteralmente i vecchi modelli di business e premia i nuovi “entranti digitali”​, permettendo la creazione di enorme valore in un battito d’ali. O la sua distruzione. Per comprendere meglio la situazione analizziamo le conclusioni di uno studio Accenture, svolto studiando modelli e performances di oltre 3.600 aziende in 82 Paesi per valutare l’impatto dei modelli ​disruptive ​nei diversi ambiti aziendali. Il quadro che ne emerge è chiaro: il cambiamento è divenuto parte integrante della quotidianità delle imprese: il 6o% affronta già attualmente livelli elevati di disruption e il restante 40% lo farà in un prossimo futuro. Lo studio evidenzia quattro modelli di disruption in base al tipo di vulnerabilità dell’azienda, cioè il versante più esposto o modificato dai nuovi assetti digitali.

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Stabilità e durabilità​: Qui la disruption è evidente, ma non mette a rischio la sopravvivenza dell’azienda; i player tradizionali godono ancora di vantaggi strutturali e ottengono risultati rilevanti. Circa un quinto (19%) delle aziende intervistate ricade all’interno di questo stadio evolutivo dell’innovazione, e appartengono per lo più al settore della vendita e fornitura di parti in ambito automobilistico, a quello delle bevande alcoliche e al chimico. Vulnerabilità alla concorrenza​: L’attuale livello è moderato, ma le aziende dominanti sono sensibili alla disruption futura a causa di sfide strutturali di produttività rappresentate, per esempio, dall’elevato costo del lavoro. Questo stato comprende un quinto (19%) delle aziende, tra cui quelle operanti nel settore assicurativo, sanitario e dei discount. Volatilità del mercato​: Caratterizzato da una disruption violenta e improvvisa; quelli che un tempo rappresentavano punti di forza si sono ora trasformati in debolezze. Le aziende in questo stadio (il 25% di quelle coinvolte nello studio) sono prevalentemente operanti nel comparto della tecnologia di consumo, come pure in vari settori di servizi: quello bancario, della pubblicità e dei trasporti. Vitalità e capacità produttiva​: La disruption è costante; le fonti di vantaggio competitivo sono spesso effimere in quanto emergono continuamente nuove aziende totalmente disruptive. Questo stadio comprende più di un terzo (37%) delle aziende, tra queste emergono fornitori di software e piattaforme, telecomunicazioni, media e high-tech, nonché le case automobilistiche. “​Guardando all’evoluzione delle imprese e dei settori industriali negli ultimi anni, possiamo dire che la disruption oggi si presenta con due caratteristiche peculiari: è inevitabile, ma anche prevedibile ​– spiega Massimo Morielli, Managing Director, responsabile di Accenture Digital in Italia – ​In quest’ottica è fondamentale capire dove si colloca la propria azienda nel panorama della disruption e calcolare a quale ritmo è probabile che avvenga il cambiamento. Quanto più sarà chiara la consapevolezza dei mutamenti, tanto meglio riusciranno a prevedere e individuare le opportunità, creare valore a partire dall’innovazione e in ultima analisi, orientarsi verso il nuovo​”. Per chi non la conoscesse, Accenture è la più grande agenzia di consulenza aziendale del mondo, quindi non si tratta di un parere ma di una constatazione.

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La verità, vi prego, sul web Assodata l'urgenza di comprendere realmente cosa stia succedendo, mettiamo subito alcuni paletti preliminari sui quali non torneremo più. La presunzione di conoscenza è un problema antico, reso ancora più pericoloso dal proliferare di nozioni, più o meno affidabili, che è possibile reperire sui canali web. Considerato, però, che parliamo del nostro futuro economico non possiamo permetterci di andare a tentoni. Per questo motivo è necessario mettere alcuni punti fermi: ●

Il mercato digitale ​È​ il mercato Che ci vogliate credere o meno, il fatto non cambia. Anche in italia, 4 acquisti su 5 nascono comunque in Rete. Se non siete ben messi in questo mercato perdete l’80% dei vostri potenziali clienti. Il mercato digitale è affollatissimo Ogni 30 secondi, sul web, vengono pubblicati contenuti pari a 600 volte la versione estesa della Enciclopedia Britannica. Essere percepiti in questo enorme flusso d’informazioni non può essere semplicemente affidato al caso o alla bontà dei contenuti, reale o presunta. Il mercato digitale è competitivo e professionale I “cugggini smanettoni” hanno smesso da tempo di essere rilevanti sul web. La competizione si è fatta professionale e c’è un versante che si sottovaluta spesso: attraverso il web incontriamo miliardi di potenziali clienti, ma anche milioni di effettivi competitors. E molti di loro sanno come gestire il mercato digitale.

Ci sarebbero molti altri punti da considerare ma, ovviamente, in questa breve dispensa non affronteremo tutto il complesso mondo dei mercati digitali e delle strategie ​disruptive​. Per agevolare la comprensione ci concentreremo sull’elemento più contingente e sicuramente presente ad ogni imprenditore: ​la comunicazione e la vendita​. Ma questo servirà soltanto a comprendere l’impatto; per cercare le vere soluzioni non basteranno queste poche pagine. Sarà necessario approfondire ed entrare all’interno dei sistemi che reggono i nuovi modelli. Il primo passo, però, è sempre il momento più importante di un cammino e nelle prossime pagine cercheremo di tracciare il percorso che porta l’utente a diventare cliente. Incontreremo alcuni termini come ZMOT, Customer Journey, Lead Generation e altri che potranno anche sembrare “paroloni markettari” ma, in realtà, sono soltanto un modo come un altro per descrivere strategie, elementi e strumenti. Un passaggio importante: i termini sono soltanto un modo per trasferire facilmente informazioni e definire efficacemente di cosa si sta parlando. Sicuramente è utile conoscerli e comprenderli, a volte è anche necessario; ma quello che conta realmente sono i concetti che questi termini esprimono. E vi garantiamo che per voi è davvero importante cominciare a occuparvene seriamente.

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Ipse dixit Non continuare a fare quello che hai sempre fatto solo perché è la cosa più semplice!

Ian Minnis Prenditi il rischio e continua a testare, perché quello che funziona oggi non funzionerà domani, ma quello che ha funzionato ieri potrebbe non funzionare oggi.

Amrita Sahasrabudhe L’innovazione deve essere parte della nostra cultura. I consumatori si stanno trasformando più velocemente di noi, e se non teniamo il passo siamo nei guai.

Ian Schafer Il buono è nemico dell’eccellente. La maggior parte delle buone aziende rimangono buone. Ma buono non è eccellente.

Jim Collins Dedicati a una nicchia: smetti di voler essere tutto per tutti.

Andrew Davis Sii dove il mondo è diretto.

Beth Comstock

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Perché il marketing digitale costa meno? Il titolo di questo paragrafo è volutamente semplicistico, ma è un buon modo per attirare l’attenzione sul punto cardine di ogni tentativo di fare impresa: la Digital Disruption, e cioè l’avvento globalizzante delle nuove tecnologie e dei nuovi media, ha completamente cambiato le regole del gioco. Partendo da questo affronteremo, sia pur sommariamente, alcuni importanti argomenti che possono impattare direttamente sul vostro reddito​, sulla vostra attività. Decidete voi se vale la pena investire cinque minuti di attenzione. Entriamo in argomento spiegando dove, come e quando è cambiato il modello, focalizzando un punto abbastanza evidente del nostro business: il modo in cui i clienti effettuano un acquisto nell’era digitale. Comprendendo questo sarà palese perché il marketing digitale “costa meno”, ma anche perché n ​ on è più soltanto un’opportunità: è un’esigenza​.

Il processo d’acquisto nel mondo digitale La rivoluzione digitale ha cambiato le regole del gioco in maniera troppo veloce per essere pienamente metabolizzata. I cambiamenti sono stati apparentemente impercettibili ma effettivamente sostanziali. Per comprendere di cosa stiamo parlando dobbiamo concentraci sulle domande principali che bisogna avere in mente quando si parla di business: ● ● ● ●

Come compra un cliente? Cosa lo porta a scegliere il nostro prodotto? Quando scatta l’esigenza di acquisto? Perché dovrebbe preferire noi rispetto i nostri competitor?

Il titolo di questo paragrafo è la traduzione “alla Google translate” di un termine chiave del marketing di ogni tempo: ​customer journey​. Questa definizione si riferisce al percorso che si innesca quando una persona inizia a pensare di comprare un bene o un servizio (a volte anche un attimo prima) e si conclude (ma solo apparentemente) con l’acquisto. Analizzare questo cammino ci permette di essere a ​ l posto giusto nel momento giusto​. Provate a ripercorrere mentalmente l’ultima volta che avete fatto un acquisto “significativo”. Facciamola semplice e ipotizziamo che vi viene fame. Il bisogno vi porta a cercare una soluzione. Sempre per “minimizzare” diciamo che fate mente locale sui bar nelle vicinanze, sulle cose particolari che offrono, sulle vostre esperienze precedenti, se siete già stati in uno dei bar, o magari su una pubblicità, un volantino o anche il parere di un amico. Sulla base di tutte queste informazioni scegliete il bar, lo raggiungete, mangiate il vostro cornetto. Se vi è piaciuto, probabilmente consigliate il bar ad un vostro amico che, a sua volta, quando si troverà ad avere fame, saprà che in quello specifico bar fanno dei buoni cornetti. Questo potrebbe avviare una nuova Customer Journey e così possiamo proseguire in una catena virtualmente infinita.

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Questa è la “versione base” del ragionamento ed è una struttura “senza tempo”. Valeva per le “botteghe del caffè” veneziane del ‘400 e vale per i “lounge bar” ultramoderni. Lo scenario, invece, è cambiato totalmente. In particolare negli ultimi anni. Prima di entrare nel dettaglio, facciamo una piccola modifica al viaggio del nostro ipotetico consumatore verso il suo agognato cornetto. Immaginate che, proprio quando lo stomaco comincia a brontolare e sale la sensazione di fame, sulla scrivania del nostro soggetto compaia un volantino del bar sottostante con la pubblicità di un cornetto fumante in offerta speciale. Siamo tutti d’accordo che le possibilità del bar di conquistare un nuovo cliente aumenterebbero verticalmente? Ovviamente è abbastanza complicato far comparire un volantino sulla scrivania di un cliente. Qui entrano in gioco gli strumenti della ​rivoluzione digitale​, principalmente quella mobile.

Avete visto Minority Report? Premessa doverosa: la fantascienza è spesso un semplice espediente narrativo per raccontare storie immaginarie, ma per qualche autore davvero bravo è un modo per dare una sbirciatina nei futuri possibili. ​Philip K. Dick è uno di questi ed il pubblico lo conosce fondamentalmente per due titoli fagocitati dal cinema: B ​ lade Runner​ e M ​ inority Report​. Nel secondo, a parte l’adrenalinica storia centrale, c’è un sottofondo interessante. La società è governata da multinazionali private che seguono ogni singolo istante della nostra vita, ma l’obiettivo non è tanto quello del controllo sociale: si tratta soltanto di poter comprendere cosa piace ad ogni singolo soggetto per offrirgli sempre un possibile prodotto da acquistare. In ​Minority report (scritto nel ‘56) l’interazione con gli utenti avviene attraverso una rete di sensori e di totem multimediali che ci seguono in ogni momento, registrando cosa ci piace, cosa facciamo, cosa desideriamo. Nel 1956 non c’erano gli smartphone e nemmeno i ​social network​. Non c’era Internet e quel complesso sistema di schermi e sensori era l’unica soluzione pensabile. Oggi è diverso. Negli anni ‘50 si pensava che avremmo dovuto “forzare” gli utenti per avere informazioni sui loro gusti e sui loro interessi. Il web ed i social network ci hanno portato a fornire ogni minimo dettaglio sulla nostra vita ed il ​mobile h ​ a reso tutto questo ​costante e pervasivo​. Ogni volta che visitiamo una pagina, leggiamo un post su un blog, condividiamo un contenuto, mettiamo un ​like ​su Facebook o, comunque, clicchiamo su qualcosa, diamo preziose ​informazioni su cosa ci piace e su cosa (e come) compriamo​. Parallelamente si è sviluppata la scienza e la tecnologia dei sistemi di analisi e monitoraggio. I colossi del web usano complessi ​sistemi d’intelligenza artificiale per “capire” cosa facciamo e “dedurre” cosa, quando e come compriamo. Conosciamo tutti quella sensazione quasi di stalking che si prova nei giorni seguenti a quando abbiamo fatto una ricerca su un prodotto. Un giorno ci mettiamo a cercare “gommoni fuoribordo” su Google e da allora su tutti i siti che visitiamo, nello spazio delle inserzioni su Facebook e, spesso, anche nella nostra casella di posta, siamo bombardati da offerte e proposte per gommoni fuoribordo.

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E questa è solo la punta dell’iceberg, la parte visibile. Ce ne accorgiamo perché abbiamo fatto una esplicita ricerca e si nota subito come questa sovrabbondanza di offerte sia legata direttamente alla nostra azione. Ma i più bravi agiscono prima.

Un venale Grande fratellone Un colosso come Google è in grado di seguire in maniera totale la tua vita sul web. Ad esempio, terrà traccia di quando si giunge ad effettuare davvero un acquisto. A quel punto i suoi server analizzano “a ritroso” le azioni precedenti all’acquisto, anche queste memorizzate sui loro mega computer ed elaborate da potenti algoritmi ad intelligenza artificiale. L’obiettivo centrale di questo immane impiego di risorse è la ricerca dei momenti chiave, quelli che hanno influenzato realmente la decisione degli utenti verso un prodotto rispetto un’altro. O anche quei momenti in cui l’utente non ancora deciso davvero di comprare un prodotto, ma comincia a sentirne la necessità. Facciamo un esempio: ipotizziamo un appassionato di archeologia che compra una vacanza e che, solitamente, cerca di associare il viaggio alla sua passione. Probabilmente, prima di valutare una vacanza, farà delle specifiche ricerche sull’argomento della sua passione, per individuare la meta. Andiamo ancora più nel dettaglio e supponiamo che il nostro potenziale cliente/turista voglia visitare le vestigia della civiltà greca. Probabilmente cercherà informazioni (possibilmente con materiale multimediale) che riguardano quella civiltà. Ad occhio questo sembrerebbe un buon momento per “fare comparire il nostro volantino”, proseguendo l'esempio precedente sul bar ed i cornetti. Cioè associare la visualizzazione della nostra offerta alle ricerche sull’interesse, in questo caso la civiltà greca. Ma queste ricerche potrebbero essere fatte per curiosità, per motivi di studio o anche per lavoro e siccome “fare comparire il volantino” costa, ci troveremmo a spendere un sacco di soldi inutilmente. Fortunatamente per noi, il sistema è più complesso. I sistemi digitali sono in grado di associare un numero smisurato di altri elementi per valutare se quello specifico utente stia effettuando quella ricerca per mera informazione o in vista di un successivo acquisto, da quelli più intuitivi (come il periodo dell’anno più canonicamente dedicato alle prenotazioni) a quelli più “invasivi”. Ad esempio la cronologia delle ricerche. Se nei giorni precedenti, ad esempio, hai fatto una ricerca sulle procedure per rinnovare il passaporto, questo dice molto sulle tue intenzioni. E poi c’è il traffico dei B ​ ig Data​. Le compagnie di ogni settore si scambiano tra di loro, a suon di bigliettoni, interi database sul comportamento dei propri clienti. Non è escluso, quindi, che avendo comprato sempre presso una O ​ TA ​o presso un’agenzia di viaggio, a Google & co. sia ben chiaro cosa fai prima di scegliere una destinazione. Con tutti questi dati e con gli enormi cervelloni che lavorano nei Data Center di tutto il mondo, è un gioco da ragazzi, per le Big Company del digitale, ​comprendere come, dove quando e perchè fare comparire la nostra proposta ad uno specifico utente​.

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Sembra roba alla Grande Fratello, certo, ma per essere onesti, al momento appare un po’ meno preoccupante di quello raccontato da Orwell. Il vantaggio è che sembra davvero poco interessato al controllo sociale, mentre non lascia scappare niente quando si tratta di business. Un Grande Fratellone, quindi, magari un po’ venale, ma meno pericoloso di quanto si ipotizzava all’inizio.

Strano, ma vero: la verità paga L’altro versante interessante (e per certi versi rassicurante) riguarda il ruolo degli utenti​. Il sistema si basa sull’analisi comportamentale, sui modelli di soddisfacimento dei bisogni, sulla realizzazione del cliente e sulla condivisione delle opinioni in merito. La correttezza delle informazioni, la loro veridicità è il carburante essenziale dell’intero meccanismo. Google riesce ad affermarsi realmente come colosso economico solo dopo avere “sconfitto” i webmaster smanettoni in grado di manipolare i risultati di ricerca. Nessuno compra risultati manipolabili. Se li devo vendere devono essere corretti. Insomma, non sarà per motivi etici, ma il punto è che, alla fine, oggi l’onestà paga. La “fuffa”, infatti, non sta sulle caratteristiche del prodotto. Chi vende aria fritta, ad ogni livello, se vuole almeno provarci punta a creare un desidero fittizio. Se, invece, provasse a creare un prodotto fittizio, molto probabilmente verrebbe immediatamente scoperto e, in un mondo così interconnesso, altrettanto velocemente escluso dal mercato. Un bisogno o un desiderio generato, per quanto artificiosamente, è un po’ più duro a morire. E chiunque abbia con sé uno smartphone da mille euro sa di cosa sto parlando… La verità, o comunque la precisione nella comunicazione, paga anche in un altro senso. Possiamo trovare i nostri potenziali utenti a distanze che ci erano precluse ai tempi della comunicazione tradizionale. L’unica condizione è quella di essere estremamente specifici nelle nostre proposte: se una volta dovevamo provare ad “allargare” la valenza della nostra offerta, cercando d’inglobare più bisogni possibili, oggi è vero l’esatto contrario. ​Dobbiamo modulare ogni singola offerta su di un singolo bisogno​. E dobbiamo essere onesti fino in fondo. Essere onesti, però, non è soltanto una questione di “volontà”, almeno nel mondo digitale. Bisogna anche essere “riconosciuti” come tali dagli utenti e dai sistemi automatici, e non è una cosa immediata. Bisogna sapere cosa fare ma anche come farlo. Fin qui abbiamo valutato solo il versante “premiale” della correttezza globale della nostra comunicazione. Ma in realtà, il problema è così sentito che Google ha lanciato, nell’ultimo decennio, centinaia di aggiornamenti del proprio algoritmo per penalizzare pesantemente i “furbetti della tastierina”. Ha anche messo in campo miglia di Quality rater​, soggetti fisici che guardano materialmente le nostre pagine e sanciscono standard di comportamento. Se ci mettete anche la recente guerra di Facebook contro le ​fake news​, il quadro è completo.

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Come compra un cliente? Lo abbiamo detto all’inizio: questa è la domanda centrale e le possibili risposte sono state cercate, nel tempo, attraverso studi approfonditi e l’analisi di innumerevoli ​case history​. Tra queste, uno dei modelli più lineari è sicuramente quello chiamato dei ​momenti di verità​. In questo approccio, riepilogando e semplificando, possiamo dividere in 3 momenti topici il cammino di un utente verso l’acquisto del prodotto. Più un quarto, formulato recentemente da Google e che riguarda specificatamente il digitale.

Tutto inizia quando il cliente viene a conoscenza del prodotto, in qualsiasi modo: pubblicità, passaparola, post su Facebook, ecc… Questo momento è chiamato ​Stimolo. ​Acquisita l’informazione sul prodotto, se tutto va bene e l’aspettativa solletica l’interesse, il nostro cliente si propone di acquistarlo e va nel negozio (o si reca sul sito). Vede il prodotto sullo scaffale (reale o virtuale che sia) e decide se lo convince, se il primo impatto rispetta le aspettative scatenate dallo Stimolo. Questo è chiamato Primo Momento di Verità (​FMOT​, ​First Moment of Truth​). Se si convince, compra il prodotto e lo prova. Si arriva al Secondo Momento di Verità (​SMOT​, ​Second Moment of Truth​), quando l’utente usa effettivamente il prodotto. Se il nostro consumatore è soddisfatto dalla prova diventerà probabilmente un cliente abituale o, meglio ancora, un promotore del nostro prodotto. In questo percorso Google aggiunge un altro elemento (​ZMOT​, Zero Moment of Truth​) che gioca un ruolo importante in questa partita. È quel momento in cui girovaghiamo su qualsiasi ambito digitale, dal Pc al mobile, e siamo pronti, più o meno consapevolmente, ad accogliere una proposta d’acquisto. Un momento a cui, oggi, diventa complesso assegnare

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uno spazio o un tempo predefinito: siamo costantemente connessi e ogni momento della giornata può scatenare uno Stimolo o, più produttivamente, uno ZMOT. Avendolo individuato Google è abbastanza intuibile su cosa si fondi lo ZMOT. Rappresenta il frutto delle strategie di profilazione degli utenti, del monitoraggio della navigazione sui siti, dell’applicazione di poderosi algoritmi alimentati dall’Intelligenza Artificiale che fanno di tutto per comprendere quale sia il momento più adatto per lanciare una proposta commerciale. Abbiamo già sottolineato come Big G e tutti gli altri sistemi digitali (Facebook in testa), usino gran parte delle loro risorse proprio per fare questo: scoprire i nostri interessi, le nostre caratteristiche, le nostre abitudini. Poi confrontano il nostro profilo con dei modelli generali (quelli che si chiamano Big Data) e incrociando questi dati cercano di comprendere se, in un dato momento, siamo più o meno disponibili ad acquistare. Usando i canali promozionali di questi sistemi possiamo utilizzare questi dati a nostro vantaggio. Ovviamente sapendo come fare. Questo è uno degli impatti più ampiamente ​disruptive ​delle nuove tecnologie. Ampio perché attraversa tutte le tipologie d’azienda; disruptive perché sta tracciando una linea sempre più netta fra chi si adegua utilizzando pienamente i nuovi modelli di business (e prospera) e chi resiste (e fallisce). Per comprendere cosa significa aseguarsi dobbiamo entrare all’interno dei meccanismi. Parlando del percorso d’acquisto, la cosa più importante da tenere presente è che abbiamo parlato di “momenti”; questo testimonia un fattore “tempo” che non va sottovalutato. Perché l’acquisto si realizza se la nostra proposta raggiunge il cliente giusto al momento giusto. Quando è disponibile all’acquisto, quando ci sono circostanze che lo favoriscono, quando ha la disponibilità di tempo o di risorse, ecc… Raggiungere il cliente giusto al momento sbagliato equivale a non raggiungerlo.

Qual è il nesso tra la birra e i pannolini? Visto che dobbiamo tracciare un percorso, quello che porterà l’utente verso il prodotto, cominciamo a tracciare alcune coordinate e oltre al ​Tempo ​introduciamo il concetto di Distanza​. Nella visione che proponiamo, la Distanza non vuole rappresentare una misura semplicemente fisica, ma vuole identificare un preciso rapporto tra diversi elementi. Quelli centrali sono sicuramente due: ● ●

la distanza fisica tra il cliente ed il punto dove poter acquistare l’oggetto della nostra proposta la sua prossimità agli interessi, i desideri, i bisogni del cliente,quanto esattamente risponde al suo desiderio.

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Non possiamo dare un valore assoluto alla distanza, ma è importante tenere presente che la distanza fisica viene “compensata”, almeno in parte, quando il prodotto rientra perfettamente tra i miei interessi e soddisfa pienamente un mio specifico bisogno. L’esempio più palese riguarda la scelta di un ristorante o, comunque, un posto dove mangiare qualcosa di particolare: siamo disposti a fare dei chilometri in più per andare in un agriturismo che riteniamo eccellente. Ed è vero anche il contrario. Quando ci accontentiamo di un caffè non eccezionale nel bar sotto l’ufficio, la breve distanza fisica sopperisce alla “distanza” dal desiderio di un caffè eccellente. Interesse e spazio fisico che ci divide dal prodotto: il gioco tra questo due fattori ci fornisce il valore reale della Distanza in termini di marketing. Solo che la lontananza dai nostri interessi non si misura in metri ed è tutto fuorché lineare. E arriviamo al titolo di questo paragrafo. Che cosa hanno in comune birra e pannolini?

Nelle scuole americane di marketing si parla spesso di pannolini e birra. È stato infatti dimostrato come esista una correlazione diretta e consistente tra la vendita dei due prodotti, presumibilmente legata al fatto che, nella cultura media americana, i papà vengono spesso mandati dalla moglie al supermercato per cercare i pannolini per il loro bimbi e loro approfittano del momento per comprarsi qualche birra. In molti supermercati degli Stati Uniti si tende a metterli vicini o sullo stesso percorso tra gli scaffali, per sfruttare al meglio questa associazione. I primi ad accorgersene sono stati quelli della catena di ​Wallmart​. Confrontando gli scontrini è stata notata una certa ricorrenza nell’acquisto congiunto dei due prodotti. Un’analisi più approfondita ha appurato la relazione, che potrebbe essere legata alla necessità dell’uomo di giustificare, attraverso l’acquisto di un prodotto caratterizzante come la birra, la presunta poca virilità connessa all’acquisto dei pannolini. Ma quello che veramente conta è che sia immediatamente partito l’ordine di servizio per tutte le sedi del discount: mettete vicini birra e pannolini. L’incremento medio di vendita di birra è salito del 10-20%. Questa correlazione nasce dalla scoperta di ​una relazione (o potremmo dire una Distanza) che difficilmente avremmo intuito, rilevata grazie all’analisi dei dati​. E oggi, grazie proprio al

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digitale, i dati sono alla portata di tutti, bisogna solo saperli leggere ed usare. Adesso abbiamo una possibile risposta ai dubbi iniziali su come sia possibile misurare la Distanza. La risposta sta in due termini: ​monitoraggio ​e a ​ nalisi strategica dei dati​. Perché questo è importante? Guardiamo un risvolto della storiella della relazione tra birra e pannolini. La “trovata” del supermercato non ha incrementato il consumo totale medio di birra nella zona servita; ha soltanto aumentato le vendite di uno specifico esercizio. Altre attività nelle vicinanze, di contro, avranno registrato un sensibile calo nelle vendite, probabilmente molto vicino, sommando tutti i numeri negativi, all’incremento segnato dal supermercato. Un elemento in più per ribadire una delle leggi centrali del marketing di ogni tempo: ​quello che non fai tu lo faranno i tuoi concorrenti​. Per chiudere il discorso sulla Distanza va considerato che stiamo parlando di un valore dato dal rapporto tra la distanza fisica e la “vicinanza” con i desideri del potenziale utente. Questo vuol dire che, per migliorare il valore possiamo agire quasi indifferentemente su uno dei due campi: avvicinare fisicamente il prodotto al cliente o aumentarne il soddisfacimento; il risultato è virtualmente lo stesso. Perché, come direbbe Totò: ​è la somma che fa il totale​. Quello che conta è avere obiettivi chiari. I metodi più efficaci saranno sempre dettati dal mercato, se lo sappiamo ascoltare.

Dove sono i clienti? Assodato come, per innescare correttamente il percorso d’acquisto, il primo irrinunciabile passaggio sia intercettare l’utente al momento giusto, poniamoci un paio di domande. Quando è questo momento? Come individuiamo l’attimo esatto per farci trovare? E insieme al “quando” è importante ragionare anche sul “dove”. Per farlo ci affidiamo ad un grafico che ci permette di avere un approccio visivo al problema. Mettiamoci all’interno di un sistema di assi cartesiani dove l’asse orizzontale delle X rappresenta la ​Distanza (per come ne abbiamo parlato nel paragrafo precedente), mentre quello delle Y rappresenta il ​Tempo​, quando, cioè, l’utente si trova nelle condizioni ottimali per essere raggiunto dalla nostra proposta d’acquisto. Nel’incrocio tra le assi mettiamo la nostra proposta che rappresenta il punto, nel tempo e nello spazio, da cui parte la campagna. I piccoli punti sparsi sul grafico rappresentano tanti “magic moments”, i ​dove e quando dobbiamo essere presenti per presentare una proposta efficace ad uno specifico utente, gli Stimoli e gli ZMOT del percorso d’acquisto verso il nostro prodotto.

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Comunicazione: tradizionale vs. digitale Abbiamo chiarito le definizioni dei due assi, quindi analizziamo come possiamo intercettare i possibili punti di contatto con l’utente​. Ribadiamo che si tratta di quei momenti nei quali il nostro potenziale cliente si trova nelle condizioni giuste per avviare il percorso che lo potrebbe portare verso l’acquisto del nostro prodotto. Qualunque sia la portata della nostra azione, il risultato positivo sarà possibile soltanto quando la nostra comunicazione raggiungerà l’utente in uno dei momenti “designati”. Com’è assolutamente normale, la rappresentazione di questi momenti sul nostro grafico è assolutamente puntiforme, con dei punti di aggregazione legati sia alla ​Distanza ​che al Tempo​. Adesso si tratta di comprendere come possiamo coprire in maniera più efficace ed efficiente questi momenti. E anche di rispondere alla domanda iniziale: perché il marketing digitale costa meno? Nella successiva visualizzazione del nostro grafico sui momenti di contatto sovrapponiamo i modelli di comunicazione. il modello di comunicazione tradizionale è rappresentato dalle “onde” successive che si spandono dal centro del grafico (la nostra proposta) allargandosi nel Tempo e nella Distanza. Allargamenti che prevedono un impegno consistente di risorse, rappresentato graficamente dalle aree di copertura necessarie per raggiungere i diversi “momenti ottimali” per l’acquisto.

Immaginate una promozione in Tv: dobbiamo modularla all’interno del palinsesto per intercettare i target desiderati e dobbiamo programmarla nel tempo per sperare d’intercettare il “magic moment”. Stesso modello per una comunicazione su carta. In questo caso, per intercettare target diversi, dobbiamo spostarci su canali diversi, ad esempio riviste di settore. L’allargamento della sfera d’influenza, sia in termini di distanza che di tempo, comporta un consistente consumo di risorse​. Per allargare la sfera devo comprare spazi di promozione specifici che coprano quella determinata zona o, comunque, raggiungano una specifica

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community. Se il tempo di possibile risposta del mio potenziale cliente è distante nel tempo, devo sopportare i costi di promozione per un periodo maggiore. Nel modello digitale cambia tutto. Il gioco sta nell’individuare i “momenti” e ​coprire quel segmento (e dintorni). Invece di sprecare munizioni abbondando in sventagliate di mitra, ci si concede il tempo di prendere adeguatamente la mira e si opera da “checchini”. L’area di copertura ottenuta attraverso i modelli digitali è quella evidenziata attraverso i piccoli quadratini verdi. La dimensione del quadratino rappresenta il costo in termini economici e di risorse generali per “presidiare” quell’area. Aree che diventano infinitesimali rispetto il pubblico generale e comportano un consumo di risorse nettamente inferiore. La sovrapposizione dei grafici ci mostra quanta “area” (e quindi quante risorse) viene inutilmente (e costosamente) occupata nel modello tradizionale. Dove stà il trucco? Nessun trucco: ma a sparare a grana grossa son buoni tutti. Per fare il cecchino c’è bisogno di abilità e conoscenza. E quindi smentiamo (in parte) l’affermazione iniziale: ​non è vero che il marketing digitale costa meno. La verità è che costa meglio​. Nel senso che possiamo modulare con esattezza i nostri interventi e le nostre azioni rispetto i nostri obiettivi, adattarli al budget e renderli un investimento, piuttosto che un costo. Il problema è che bisogna saperlo fare e, prima di tutto, bisogna prendere atto come gran parte dei vecchi modelli siano stati spazzati via dalla rivoluzione digitale, rendendo oggi più che mai vera l’affermazione di Philip Kotler, uno dei g ​ uru d ​ el marketing: ci sono soltanto due tipi di imprese: quelle che si evolvono e quelle che falliscono Noi lo ripetiamo spesso, come un mantra.

Sbagliando s’impara: il monitoraggio dei risultati Ma che succede se se non siamo dei checchini eccezionali e sbagliamo l’obiettivo? Se sbagliate davvero di tanto, prendete in considerazione l’idea di cambiare ambito, approccio o consulente. In caso contrario, poco male: fa parte del gioco. Perché l’approccio digitale ha un’altro vantaggio, probabilmente ancora più rilevante della sua “economicità”. I modelli digitali rendono possibile un ​monitoraggio accurato di ogni singola azione ed interazione che avviene con i propri clienti, per fornire costantemente le indicazioni su come migliorare questo rapporto e, conseguentemente, le nostre vendite. Per essere più precisi, non lo rendono semplicemente possibile: lo rendono necessario e lo pongono come premessa ineludibile. Quando mettiamo in atto una campagna di presenza digitale possiamo avere a disposizione una miriade di opzioni per valutare i risultati delle nostre azioni e avere costantemente preziose informazioni per aggiustare il tiro e migliorare i risultati. Sono a disposizione, anche gratuitamente, ma sono utilizzati poco e male. Strumenti come AdWords o FacebookAds, ma anche YouTube o i marketplace come Amazon, sono considerati normali canali di promozione e vendita. In realtà sono degli strumenti di marketing avanzato che rispondono a logiche completamente diverse.

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Lanciando una campagna con ​Google AdWords​, il principale circuito di advertising online, ed integrandolo correttamente con gli altri strumenti del colosso di Mountain View (​Analitycs​, My Business​, ​Google+​, ​Search Console​, ecc…) abbiamo la possibilità di conoscere nel dettaglio il percorso dei nostri utenti, comprenderne la provenienza, gli interessi, la loro propensione all’acquisto, quali strategie funzionano meglio, se esistono dei colli di bottiglia che fermano il percorso dell'utente e quant’altro ci possa servire per migliorare il nostro approccio verso i nostri potenziali clienti. Lo stesso accade (anche se ancora con minore dettaglio), se inizi una campagna su Facebook ​o su qualsiasi altro social media. Inoltre ci sono diversi sistemi che permettono letture integrate dei dati ancora più approfondite, magari in grado di collegarsi direttamente ai cicli produttivi aziendali. Ed è proprio qua un’altro dei punti focali, forse il più importante: l’intero sistema si basa sul monitoraggio costante delle performances e dei risultati e sul conseguente aggiustamento permanente delle strategie. Questo non è un “plus” delle proposte di advertising digitale. Si tratta proprio del pilastro centrale della loro azione. Il motivo, se ci si ferma un attimo a riflettere, è facilmente intuibile. Quando promuovi il tuo prodotto sul web ti apri, potenzialmente, ad un mercato enorme, calcolabile in miliardi di potenziali utenti. Ma anche in milioni di concorrenti. Questo è un pensiero che si tende ad accantonare, ma è purtroppo inevitabile. Più grande sarà l’ambito in cui ci si muove, più facilmente ci si dovrà scontrare con un prodotto/servizio analogo offerto da un concorrente. Che magari è una multinazionale come Amazon o, semplicemente, è più ​vicino d ​ i noi rispetto l’utente. Ipotizziamo di promuovere un albergo di una città di mare. Per quanto il luogo sia bellissimo ed accattivante, mi scontrerò inevitabilmente con strutture che si trovano altre località di mare, da Ibiza alle Hawaii. Se il mio albergo, però, offre un servizio particolare, ad esempio ammette gli animali ed ha un centro di Pet House per accudire il tuo cane o gatto mentre vai a mare, oppure propone una esperienza esclusiva, come una cena per due in una location riservata e storica, magari con un servizio da “famiglia reale”, le cose cambiano. Dettagliando così la mia offerta potranno diminuire i miei potenziali clienti, ma di sicuro diminuiranno drasticamente i miei concorrenti. Perchè l’unica possibilità, in un mercato così ampio, sta nel segmentare il proprio pubblico alla ricerca delle più piccole nicchie. Ritornando ancora a Kotler, Il mercato digitale tende a configurarsi come una somma infinita di nicchie Spieghiamo bene perché con una esemplificazione che, comunque, è sostanzialmente corretta: ​in una competizione globale i posti a disposizione sono pochi​. Prendete ad esempio proprio i sistemi di advertising su Google e Facebook. Gli spazi non sono infiniti: nei risultati di ricerca sono da due a sei, più o meno è lo stesso su Facebook. Se proviamo a competere su mercati generalistici è inevitabile trovare tutte queste posizioni occupate da chi ha a disposizione risorse non paragonabili alle nostre.

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Gli investimenti delle OTA come Booking e Tripadvisor si valutano in centinaia di milioni di dollari l’anno. Se decidono di presidiare una fetta di mercato sono virtualmente imbattibili. Se ci ritagliamo una nostra nicchia, con proposte delineate, specifiche e ben formattate, il sistema tenderà a privilegiare la nostra offerta, se l’utente è in qualche modo “vicino” alle caratteristiche del prodotto che proponiamo. Se il mio Hotel offre servizi per il cicloturismo (officina, bici di cortesia, mappe per itinerari, ecc..) e l’utente che sta effettuando la ricerca di un albergo ha fra i suoi interessi dichiarati la bicicletta e il cicloturismo, gli algoritmi dei sistemi a pagamento tenderanno a preferire la nostra offerta rispetto ad altre più generaliste, entro certi limiti anche se più finanziate. Lo scontro tra le aziende si è spostato su questo campo: il termine tecnico è ​marketing data driven​, letteralmente un marketing guidato dai dati. La ​digital disruption l’ha reso l’unico campo di gioco praticabile, il resto è destinato ad implodere nei prossimi anni.

E quindi? E quindi bisogna seguire l’onda. I sistemi digitali sono in grado di individuare i momenti perfetti per ogni singola possibile offerta e il pubblico più predisposto ad accettarla. Questo crea un’importante differenza rispetto i sistemi di comunicazione tradizionale, dove sostanzialmente, bastava pagare per comprare uno specifico spazio, attendendosi dei risultati alla fine di un lungo processo. L’unico dato misurabile era l’eventuale impatto sulle vendite e sul fatturato, valutabile dopo mesi. Nell’advertising digitale non funziona così. Tutto è veloce, tutto è misurabile, tutto risponde a criteri e schemi ben precisi che bisogna conoscere e saper utilizzare. Le componenti tradizionali della comunicazione promozionale, come un buon ​claim ​e una grafica accattivante, rimangono rilevanti ma sono quello che abbiamo detto all’inizio: una componente. Ed in un certo senso nemmeno la più importante. Pensate ad una campagna AdWords. Chi lo usa sa di cosa parlo, per gli altri basti sapere che il funzionamento è più o meno questo: scrivo un annuncio e lo associo ad una serie di parole chiave, chiedendo che l’annuncio venga visualizzato ogni qualvolta un utente cerchi quel termine. Nello stesso tempo mi dichiaro disponibile a pagare una data cifra per ogni clic sulla mia offerta. Quando un utente effettua una ricerca, il sistema identifica tutte le offerte che sono state inserite che prevedano quella specifica parola chiave e parte una sorta di “asta istantanea” che si basa su due valori fondamentali: ●

l’offerta economica rappresenta la cifra che siamo disposti a spendere per ogni singolo clic sul nostro annuncio nelle campagne CPC (Cost Per Clic). il punteggio di qualità una parametro definito da Google che tiene conto della qualità formale dell’annuncio (com’è scritto, se propone un’offerta chiara, se utilizza le parole chiave principali,

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ecc…), della qualità della pagina di destinazione (correttezza tecnica, velocità del sito, focus sull’offerta, ecc…) e della omogeneità tra questi due elementi. Tecnicamente l’asta si basa sull’offerta economica, che funziona pressapoco così: Ipotizziamo tre inserzionisti che hanno fatto offerte simili sulla stessa parola chiave, ad esempio “alberghi sul mare”. Ognuno ha fatto offerte CPC diverse: il primo ha messo 0,10 €, il secondo 0,30 € ed il terzo 0,60 €. Non tenendo conto del punteggio di qualità, l’asta sarebbe vinta dal terzo inserzionista che pagherebbe, se qualcuno cliccherà sull’annuncio visualizzato, 0,31 €, un centesimo in più di quanto serviva per battere il secondo. Abbiamo già sottolineato come su alcune parole chiave si possono registrare migliaia di competitors ed i posti a disposizione sono davvero pochi, più o meno da due a sei. Chi sceglierà Google? Abbiamo visto come la scelta sia in legata all’offerta economica ma una parte determinante nella scelta di AdWords è legata alla qualità dell’offerta. Il punteggio di qualità è una sorta di “modificatore” che s’intreccia con l’offerta economica e permette ad offerte economicamente più basse di vincere su competitor più “spendaccioni”. Non stupitevi: Google sa benissimo che se vuole rimanere sul mercato, la gente deve cliccare sui suoi annunci e, per fare in modo che questo avvenga, gli conviene che, dietro al suo annuncio, ci sia sempre una buona offerta. Fin quando gli utenti saranno soddisfatti delle offerte proposte da Google queste continueranno ad essere vendute. Meglio guadagnare qualche centesimo in meno ma garantirsi un utente soddisfatto. Altra piccola nota a margine. Smettetela di pensare alle parole chiave come si faceva negli anni ‘90. Oggi non si tratta più di beccare la parola esatta ma piuttosto di creare un “ambiente semantico”, un insieme di contenuti legati tra di loro che illustrano le diverse sfaccettature del nostro prodotto, almeno quelle che vogliamo usare nella comunicazione. Abbiamo detto, però, che Google cerca contenuti “onesti” e per farlo non si accontenta di quello scriviamo noi sulla pagina. Si guarda intorno, cerca di comprendere se la fonte è affidabile, se le persone che l’hanno usata sono rimaste soddisfatte e, per capire seriamente l’argomento, analizza parole, link, immagini e quant’altro gli possa servire a farsi una idea. Come si risolve tutto questo? Semplicemente accontentando Google e fornendogli contenuti “onesti”. Unica condizione collaterale: usare tecnologie per la diffusione dei contenuti che agevolino la lettura da parte di motori di ricerca e sistemi automatici. Ancora una volta la parola d’ordine è: competenza. Questo, in realtà, basterebbe per rispondere alla domanda “e quindi?”, ma vogliamo essere più espliciti. Bisogna attrezzarsi sul serio e questo può essere fatto soltanto ripensando complessivamente alla propria azienda, al proprio mercato, al proprio prodotto ed alle proprie modalità di comunicazione e distribuzione. Insomma, bisogna fare marketing, e le scelte sono due: o ci si informa (e ci si forma) o si trova un partner affidabile. E, se è davvero affidabile, si faccia senza remore quello che il termine suggerisce: ci si affidi.

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Feed the monster Chiarite le premesse cerchiamo di entrare nel dettaglio e proviamo a comprendere come funziona “praticamente” questo meccanismo e cosa possiamo fare per utilizzarlo a nostro vantaggio. Per comprenderlo bisogna avere una pur minima ​conoscenza dei meccanismi tecnici, logici e tecnologici che tengono insieme i mercati digitali​. Torniamo a sottolinere alcuni punti chiave: 1. I numeri del web sono enormi, sia in termini di aumento dell’utenza potenziale che in termini di potenziale concorrenza; 2. Gli algoritmi di motori di ricerca e social utilizzano una impressionante mole di dati sul nostro comportamento in rete e li elaborano con complessi sistemi d'intelligenza artificiale per individuare le nostre propensioni, in particolare quelle d’acquisto; 3. Per comprendere i contenuti sul web, si utilizzano regole semantiche e sistemi di categorizzazione standard. Incrociando questi punti con quanto detto, arriviamo alla tesi centrale di questo articolo: La comunicazione, nel marketing digitale, si basa sulla descrizione dettagliata e tecnologicamente comprensibile del nostro prodotto, unita alla precisa identificazione del nostro target potenziale. Il resto del lavoro lo fa il web. Aggiungiamo un’altra angolazione per ribadire il concetto: aziende come Google e Facebook hanno ampiamente vinto la sfida del mercato e dettano le regole del gioco. Acquisito questo, la domanda diventa: qual è il centro del loro business? Per dirla in maniera più spicciola: come fanno soldi? Poderosi studi di marketing dettagliano la risposta, ma semplificando al limite della banalizzazione, possiamo dire che i colossi del web ci seguono e controllano in ogni ambito che gli viene permesso​ per conoscerci e comprendere alcune cose di noi: ● ● ● ●

cosa ci piace cosa compriamo come compriamo quando compriamo

Un lavoro che gli viene reso facile dalla propensione generale all’utilizzo social del web e, oggi, dalle nuove tecnologie di m ​ achine learning ed intelligenza artificiale​. Acquisita questa informazione, il loro interesse è fornirci il contenuto più adatto ai nostri gusti, ai nostri interessi, alle nostre esigenze, anche momentanee, magari dedotte da azioni specifiche sul web. L’esempio più palese (ma anche il più grossolano) è l’affollarsi di pubbicità su un argomento che abbiamo ricercato il giorno prima. In pratica ci aiutano a vendere, trattenendosi sempre una percentuale. Piccola, per carità, ma se pensate al numero di transazioni, capirete come Google e Facebook siano le aziende più grandi al mondo.

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In questa fase, comunque, ci basta focalizzare un concetto: l’interesse dei Big Player del web è quello di fornire i contenuti all’utente giusto nel momento giusto. La loro redditività è strettamente legata ai risultati degli inserzionisti: non è sufficiente vendere spazi pubblicitari, come si usava nella comunicazione old media. Bisogna essere in grado di stimolare efficacemente una vendita. Basti pensare al CPA target, un’opzione di AdWords per impostare le offerte in modo da ottenere il maggior numero di conversioni possibile ad un Costo Per Acquisizione (CPA) predefinito. Questa strategia utilizza un sistema avanzato di ​machine learning per ottimizzare le offerte e in pratica, vi consente di trasformare realmente la spesa pubblicitaria in un investimento programmabile in base agli obiettivi. Per dirla in soldoni, definite cosa sia l’acquisizione nel vostro business (ad esempio, per una struttura ricettiva sarebbe la prenotazione sul booking engine) ed assegnate un valore a quell’azione. Al resto ci pensa Google (più o meno). Ovviamente c’è dell’altro ma questo basta a comprendere che Google, come tutti i Big Player digitali, nutre il suo business leggendo ed analizzando dati. Per questo vuole che siano affidabili. Per affermarsi economicamente, Google ha combattuto una vera guerra contro i webmaster smanettoni che, alla fine degli anni ‘90, manipolavano a loro piacimento i risultati dei motori di ricerca: chi avrebbe pagato per un risultato manipolabile? Sui mercati digitali, oggi, la verità paga. Si tratta di un passaggio importante per comprendere il cambiamento in atto. Ma torniamo a parlare di cambiamenti ​disruptive​. Nella comunicazione stiamo vivendo cambiamenti assoluti, in particolare nella diffusione dei contenuti promozionali. ●

Nei ​modelli promozionali old media​, il risultato era totalmente a carico di chi produceva il contenuto. L’editore deve soltanto garantire un’​audience numericamente adeguata. Il successo o meno della campagna rimaneva legato essenzialmente ai contenuti della campagna e non al vettore.

Nel ​marketing digitale​, i nuovi editori (e cioè Facebook e Google), stanno spostando sempre più il loro business verso la vendita dei risultati, non puntando alla semplice semplice visualizzazione o al mero ​click ​in pagina. ​Sistemi evoluti consentono di monitorare l’intero processo di acquisto e, quindi, di basare il rapporto economico con gli inserzionisti direttamente sulla vendita. Fino ad oggi pagavi i click, adesso puoi arrivare a pagare soltanto i contatti effettivamente produttivi.

Detta così sembra bellissimo ed anche facile, ed effettivamente il problema non è complicato, ma è sicuramente complesso. Per essere certo di fornire ad uno specifico utente il contenuto più “adatto” a quello specifico momento, gli algoritmi devono avere informazioni precise e dettagliate sui due elementi principali coinvolti in questo processo: ● ●

l’utente​, i suoi interessi, le sue predisposizioni, abitudini d’acquisto, condizione momentanea, ecc.. il contenuto​, argomento trattato, fondatezza, affidabilità, livello di condivisione, ecc… ma anche prezzo, condizioni di vendita, dettagli di produzione o altro, quando si tratta di un prodotto o servizio.

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I dati dell’utente sono nelle loro mani, questo lo abbiamo acquisito, ma dobbiamo tenere ben presente che la diffusione corretta dei contenuti relativi al nostro prodotto, le informazioni su cosa lo renda unico e preferibile ad altri, è un problema fondamentalmente nostro. Gli algoritmi sono agevolmente in grado di ​associare i desideri dell’utente con le caratteristiche del nostro prodotto​. Ma per associare i dati del nostro contenuto devono prima di tutto essere in grado di “leggerli” correttamente. E qui entriamo nel pieno della complessità “tecnica” della questione che, come abbiamo detto, non è un problema vostro. Il compito dell'imprenditore è quello di evidenziare quale siano le caratteristiche distintive del proprio contenuto o prodotto, la sua percezione del mercato e gli obiettivi che si prefigge. Per questo basta la ​conoscenza del prodotto​, un foglio di carta e una biro. Il resto è pura tecnica ed è un problema dei fornitori di servizi. Ma questo non deve far pensare che siano tagliati fuori i “piccoli”, quelli che non hanno un budget sufficiente per accedere ai servizi di un fornitore. ​Il sistema è estremamente “modulare” ed entro certi limiti, si può anche procedere “artigianalmente”​. Quello che oggi non è più tecnicamente possibile è pensare di poter procedere “alla carlona”. Anche chi è costretto a gestire “in proprio” la propria presenza digitale deve riuscire ad acquisire le conoscenze minime per restare sul mercato. L’intero progetto NETT Economy ha come obiettivo dichiarato accompagnare PMI e microimprese verso l’ingresso nei mercati digitali. Lo abbiamo creato per questo.

Il fattore umano La Digital Disruption ha reso chiaro uno scenario: l’uso efficace della tecnologia è il fattore di base della sopravvivenza aziendale, l’elemento umano è il fattore di base per il successo. La disponibilità assoluta e per tutti delle nuove tecnologie digitali le rende inutili come fattore competitivo, relegandole al ruolo di “condizione necessaria e non sufficiente”. Ma quando parliamo di fattore umano non ci riferiamo a singolarità ed eccellenza. Pensiamo, invece, alla creazione di ​team operativi​, organizzati attraverso efficaci ​modelli di gestione che ci permettano di indirizzare il progetto verso o ​ biettivi precisi​. In altre dispense affronteremo proprio questi argomenti e scoprirete, forse con un po’ di sorpresa, che quello di cui abbiamo parlato è soltanto la punta dell’iceberg e che la chiave per superare la crisi e riacquistare competitività è nel posto che, dalle nostre parti, è probabilmente il più trascurato e snobbato: la p ​ rogrammazione ​e la​ gestione aziendale​. A questo che si riferisce il manager di Accenture quando parla di innovazione, non dell’installazione di nuovi computer o dell’aggiornamento di un software. Ma questa, davvero, è tutta un’altra storia...

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Conclusioni Tirando le somme, potremmo dire che ​il problema è più complesso che complicato​. Complesso perché è necessario tenere conto di una miriade di fattori e perché, in un modello che vede al centro il nostro utente, dobbiamo essere abbastanza flessibili per adattarci alle molteplici, singole esigenze. Non è complicato perché è lo stesso sistema a fornire strumenti efficaci per recuperare ed utilizzare i dati. Questa sottile differenza tra complicato e complesso ci porta ai due errori principali che impediscono l’affermarsi di un approccio efficiente al marketing digitale. Alcuni pensano che sia un ambito ​eccessivamente tecnologico​, futuristico, riservato alle grosse imprese che possono avvalersi dei megaconsulenti. Altri pensano che sia ​semplice​, un gioco da smanettoni: qualche post su Facebook, un paio di campagne su adwords, un sito “bellino” ed il gioco è fatto. Entrambi si sbagliano. E di brutto, anche. L’approccio al marketing digitale è tutt’altro che “selettivo”. E sicuramente gli investimenti non rappresentano il nodo centrale del problema. Questo perché, diversamente dall’approccio tradizionale, in particolare sulla comunicazione, è possibile agganciare la spesa al risultato rendendo quasi ininfluenti i costi di comunicazione. Se ho una ragionevole certezza che investendo 100 euro ho un ricavo di 500 euro, è scorretto considerare i 100 euro come un costo. Prendete un piccolo b&b internato in una campagna fuori dai circuiti turistici. Oggettivamente non avrebbe alcuna possibilità di essere trovato senza appoggiarsi alle grandi OTA come Booking.com. Booking.com prende una percentuale che oscilla dal 15 al 25% sulla transazione. Lo volete considerare un costo? Ovviamente riduce il vostro ricavo su quella singola transazione ma, oggettivamente, avreste concluso quella vendita senza utilizzare quello strumento? State pagando il 25% o state ricevendo il 75%? La risposta sta nel mezzo e, volendo attingere alla saggezza popolare, il proverbio che rende meglio l’idea è: ​aiutati che Dio t’aiuta​, anche se in questo caso parliamo solo di sistemi di advertising e promozione online. Per vincere servono un buon prodotto ​e​ un marketing efficace. Perché la rivoluzione digitale ci offre le strade per raggiungere il mondo, ma le offre a tutti e questo alza tantissimo il livello della competizione. Il marketing è una guerra continua per conquistare quote di mercato e la legge base è molto semplice. L’abbiamo già enunciata, ma vale davvero la pena riproporla in chiusura di questa dispensa: quello che non fai tu, probabilmente lo farà il tuo concorrente​. Pensateci...

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