Nipoti di Maritain n. 07

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Editoriale di Filomena Piccolantonio

“il senso verso il quale ci muoviamo è da rinvenire nel tema della coscienza”

Questo numero di Nipoti di Maritain si è fatto attendere, ne siamo consci e ce ne scusiamo. Ma ne è valsa la pena. Anzitutto perché il lavoro fatto è stato di ampio respiro, cercando di mantenere anche un filo rosso tra le tematiche. Il senso verso il quale ci muoviamo è da rinvenire nel tema della coscienza: essa è qui interpellata su più fronti, ed è interrogata tanto nel lettore, quanto nel soggetto – più in generale – che è invitato a prendere parte alla vicenda pienamente, con il suo agire storicamente situato e, come tale, tessitore della storia. La coscienza non viene chiamata in campo come mera espressione di un pensiero acritico su una questione piuttosto che su un’altra, ma la scelta dei temi ivi presenti è stata operata perché essi conducano a una più genuina riflessione. Non vogliamo trattare una speculazione fine a se stessa. Nostro desiderio è piuttosto suscitare una vera e propria riflessione su di sé, affinché si possa uscire verso l’altro e lo si possa fare in modo nuovo. L’uomo infatti non vive la sua vita pienamente isolato dal mondo

che lo circonda: a meno che non compia una scelta deliberata in questo senso, di norma vive immerso in una rete di relazioni con l’altro da sé come uomo, animale, ambiente. Gli articoli di questo numero, già nella sezione del dibattito, indagano diversi fronti che nel quotidiano sottopongono ad un certo stress-test la coscienza del soggetto. Vengono messe in rilievo le modalità relazionali umane inquadrandole nel contesto della fandonia, entro la situazione critica della politica e nell’altrettanto difficoltoso terreno della pedagogia del religioso. La tematica della menzogna spiana la pista: essa, sovente, viene ad ergersi come uno dei pilastri dell’interrelazione tra gli uomini, e non solo. Da una breve fenomenologia della menzogna in quanto relata alla vicissitudini – anche emozionali – umane, quindi, attraverso una disamina psicoanalitica del fenomeno, emerge la visione di una specie di survivors’ kit necessario per affrontare un mondo sempre maggiormente complesso. Complessità di certo tessuta, secondo una ben precisa intenzionalità, da ogni singolo

soggetto. Perché il rischio insito nella verità nuda e cruda potrebbe mettere a dura prova la tenuta di una relazione, secondo l’ottica di chi si adagia sulle menzogne, anziché far considerare lo slancio nuovo che per essa invece comporterebbe. E in quanto a ciò è mirabile il confronto posto tra la posizione di Kant e quella di Constant: c’è una tensione etica tra l’imperativo di dire il vero e la realtà relazionale, ed essa assume un certo peso quando i due termini della relazione sono entità politiche in dialogo. Quello che in verità vuole essere chiamato qui in causa non sembra essere la liceità o meno della menzogna, ma l’assunzione di responsabilità come costituiva dell’umano. Circa la questione politica i contributi tratteggiano in quattro prospettive la democrazia, dal modo in cui viene intesa (e fraintesa) alle modalità effettive con le quali si esplica. Si constata come il populismo assurga a una traduzione – goffamente giacobina – della volontà di partecipazione all’azione politica da parte del popolo, senza che però esso sia tanto preparato quanto saggiamente guidato. Per contro, le indicazioni di papa Francesco delineano una vera e propria modalità partecipativa, nella forma di soggetto o corpo intermedio che sia, ma che si configuri come un “esserci per l’altro”, non snobbando gli ultimi – si veda la più volte rilanciata linea dell’inclusione e la lotta alla “cultura dello

scarto” – né estraniandosi in toto dall’ambiente in cui si vive. È efficace anche l’analisi della digressione democratica valutata nei termini di Polibio, il quale, per descrivere un potere non più pregno di solidità, rievoca con le sue disposizioni la fluidità dei miasmi fognari. Ciò non solo per la poca stabilità che genera, ma per la scarsa saldezza in sé che non può ergersi a fondamento della vita altrui, rendendo peraltro palese l’evanescenza del voto che, come tale, non ha più un effettivo peso. O forse lo ha, ma trascinando verso il basso. Ancora, la crisi viene pure letta non tanto in relazione alla democrazia quanto, piuttosto, al liberalismo. Di fatti non si tratta della forma di sovranità popolare toutcourt, ma di una configurazione il cui sviluppo è posteriore ed è legato a precisi fattori socioculturali, sottolineando il nesso tra il concetto di democrazia e la sua ideologizzazione attraverso, ad esempio, la sfera mediatica. L’ultimo accento viene posto sulla democrazia quale freno inibitore di forze lesive l’equo accesso alla gestione del potere. La terza sezione del numero compie una disamina circa la questione scottante dell’analfabetismo religioso. Provocazione attuale che mette in evidenza la perdita dello sguardo essenziale del credente. In sordina cadono la Parola e la vita di fede – a meno che non diventi un semplice formalismo di appartenenza – mentre emergono le difficoltà

“riconoscere tanto le proprie peculiarità quanto le proprie mancanze è indice di una persona in ricerca”


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