Nd aprmag 2016 rid

Page 1

APRILE / MAGGIO 2016

EUROPA (IN)DIFESA

LE BARRIERE POLITICHE E CULTURALI prezzo sostenitore 3,00 euro Anno 71 - n.4-5 ISSN 0029-0920

ND_CV_Aprile-MAggio_2016.indd 2-3

il punto di vista di Emma Bonino e delle immigrate, l’appello della rete femminista 03/04/16 20.35


I T A N O ABB O P M E IL T O S S E D ÈA adesso è h c o n r g e t s o pe s o u t l o de n g o s i b a h E N NOIDON adesso è h c r pe ra e b i l e n o i z a m or va difesa l’inf e t n adesso e t s i è s E h R e l c per to vuole essere un giorna s e u q i a m e h c più

Le possibilità di abbonamento a noidonne sono le seguenti:

ordinario 25 euro straordinario 60 euro (hai diritto a 3 indirizzi o 3 copie)

sostenitore 100 euro (hai diritto a 6 indirizzi o 6 copie)

Per informazioni redazione@noidonne.org 338 9452935 (Rinaldo)

ND_CV_Aprile-MAggio_2016.indd 4-5

1+1= 40 euro Due abbonamenti almeno una nuova abbonata con un unico bollettino di soli 40 euro (anzichè 50 euro)

Il versamento può essere effettuato con un bollettino di c/c postale sul conto nr. 000060673001 oppure con Bonifico su BancoPosta intestato a: Società Coop. Libera Stampa a rl c/o Studio Berto Fabio IBAN: IT57 D076 0103 2000 0006 0673 001

03/04/16 20.35


Aprile-Maggio 2016

DELFINA

di Cristina Gentile

1


www.noidonne.org

SOMMARIO

04

17

14/19 FOCUS / EUROPA (IN)DIFESA

01 / DELFINA di Cristina Gentile 03 / EDITORIALE

04 Il genere della stampa di Giancarla Codrignani 06 Se (anche) la religione non può fare a meno della tv di Stefania Friggeri

8/9 BIOETICA Vita Lunga. Soprattutto vita sana di Valerio Gennaio

16 Illusorio potere deLLe BARRIERE di Emanuela Irace 17 Rete femminista/Lettera aperta No muri no recinti 18 Il vecchio continente visto con gli occhi delle migranti

12 Scuola Elementale di Arte Ostetrica Ritorno alla cultura del femminile di Francesca Rugi e Anna Maria Rossetti

20 Donne in Campo/Veneto Intervista a Michela Brogliato di Tiziana Bartolini

24 Quando il welfare lo fanno le aziende di Giovanna Badalassi

Anno 71 - numero 4-5 Aprile-Maggio 2016

Presidente Maria Costanza Fanelli

Autorizzazione Tribunale di Roma n°360 del Registro della Stampa 18/03/1949 Poste Italiane S.p.A. Spedizione abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. In L.27/02/2004 n°46) art.1 comma 1 DCB Roma prezzo sostenitore €3.00 euro Filiale di Roma La testata fruisce dei contributi di cui alla legge n.250 del 7/8/90

Editore Cooperativa Libera Stampa a.r.l. Via della Lungara, 19 - 00165 Roma Stampa ADG PRINT s.r.l. Via Delle Viti, 1 00041 Pavona di Albano Laziale tel. 06 45557641 PROGETTO GRAFICO Elisa Serra - terragaia.elisa@gmail.com Abbonamenti Rinaldo - mob. 338 9452935 redazione@noidonne.org

29 EGITTO/ Il mondo raccontato dalle registe Il Cairo International Women’s Film Festival di Zenab Ataalla 30 KURDISTAN/Stato senza confini Il protagonismo delle curde Interviste a Dilar Dirik e Ala Ali di Silvia Vaccaro e Delia Merola

36 DonnaeSalute/Programmi

22 Moda, da sogno a realtà Imprenditrici dall’Ecuador di Cristina Melchiorri

Direttora Tiziana Bartolini

40

26 SLOVACCHIA/Il freddo vento dell’est di Cristina Carpinelli

42

34 Bella CostituZIOne/Serena Ballista e Judith Pinnock Viaggio in terza classe/Marta Ajò di Graziella Rivitti Nuovo teatro Made in Italy/Valentina Valentini di Elisabetta Colla

20/25 JOB&JOB

Mensile di politica, cultura e attualità fondato nel 1944

30

34/44 APPRODI

Europa, il mito di Paola Ortensi

10/13 INTRECCI 10 UDI verso il XVI Congresso Guardarsi dentro, guardare fuori, guardare oltre di Rosanna Marcodoppido

26

26 /33 MONDI

14 Il ‘ciascun per sé’ dell’Unione che non c’è Intervista a Emma Bonino di Tiziana Bartolini

4/7 ATTUALITà

aprile-maggio 2016 RUBRICHE

38 Spose bambine/Amnesty International Intervista a Isabel Russinova di Alma Daddario

amiche e amici del progetto noidonne

Clara Sereni Michele Serra Nicola Tranfaglia

Laura Balbo Luisella Battaglia Francesca Brezzi Rita Capponi Giancarla Codrignani Maria Rosa Cutrufelli Anna Finocchiaro Carlo Flamigni Umberto Galimberti Lilli Gruber Ela Mascia Elena Marinucci Luisa Morgantini Elena Paciotti Marina Piazza Marisa Rodano Gianna Schelotto

Ringraziamo chi ha già aderito al nuovo progetto, continuiamo ad accogliere adesioni e lavoriamo per delineare una sua più formale definizione L’editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e la possibilità di richiederne gratuitamente la rettifica o cancellazione contattando la redazione di noidonne (redazione@noidonne.org). Le informazioni custodite nell’archivio non saranno né comunicate né diffuse e verranno utilizzate al solo scopo di inviare agli abbonati il giornale ed eventuali vantaggiose proposte commerciali correlate. (L.196/03)

05 Versione Santippe di Camilla Ghedini 09 Il filo verde di Barbara Bruni 23 Strategie private di Cristina Melchiorri 44 SOS Filosofia di Francesca Brezzi 45 Salute BeneComune di Michele Grandolfo 46 Leggere l’albero di Bruna Baldassarre 46 Famiglia, sentiamo l’avvocata di Simona Napolitani 47 Spigolando di Paola Ortensi 48 Poesia Rita Proto Poesia tra cielo e terra di Luca Benassi

40 Terremoto/Un ponte dall’Emilia al Friuli di Antonella Iaschi 42 A teatro: La Merda/Silvia Gallerano WAX: We Are the X /Lorenzo Corvino di Elisabetta Colla

ringraziamo le amiche e gli amici che generosamente questo mese hanno collaborato

Stefania Friggeri Valerio Gennaro Cristina Gentile Camilla Ghedini Michele Grandolfo Antonella Iaschi Zenab Ataalla Emanuela Irace Giovanna Badalassi Rosanna Marcodoppido Bruna Baldassarre Cristina Melchiorri Tiziana Bartolini Delia Merola Luca Benassi Simona Napolitani Francesca Brezzi Paola Ortensi Barbara Bruni Graziella Rivitti Cristina Carpinelli Anna Maria Rossetti Giancarla Codrignani Francesca Rugi Elisabetta Colla Silvia Vaccaro Alma Daddario

‘noidonne’ è disponibile nelle librerie Feltrinelli ANCONA - Corso Garibaldi, 35 • BARI - Via Melo da Bari 117-119 • BOLOGNA - Piazza Galvani, 1/h • BOLOGNA - Piazza Porta Ravegnana, 1• FIRENZE - Via dei Cerretani, 30-32/r MILANO - Via Manzoni, 12 • MILANO - Corso Buenos Aires, 33 • MILANO - Via Ugo Foscolo, 1-3 • NAPOLI - Via Santa Caterina a Chiaia, 23 • PARMA - Via della Repubblica, 2 PERUGIA - Corso Vannucci, 78 - 82 • ROMA - Centro Com.le - Galleria Colonna 31-35 • ROMA - Via Vittorio E. Orlando, 78-81 • TORINO - Piazza Castello, 19


Aprile-Maggio 2016

PENSANDO A GIULIO E KHALED

Se le madri si prendono per mano

M

a che Europa è mai questa che, volendo fare la guerra totale al terrorismo, pensa bene di cominciare con l’erigere muri condividendo pari responsabilità tra i paesi che chiudono le frontiere e quelli che lo consentono. Il suo biglietto da visita l’Unione lo affida ai poliziotti, che controllano i confini e negano il passaggio a migliaia di profughi. Famiglie intere e bambini soli arrivano dopo viaggi inenarrabili e ad attenderli trovano rotoli di filo spinato che trafiggono sogni e intrappolano speranze. Le immagini e i racconti immersi nel fango di Idomeni sembrano arrivare dal set di un film che eccede nel rappresentare una realtà. Perché quella al di là delle barriere non può essere la nostra Europa, culla della civiltà dell’Occidente, del diritto e del rispetto per la dignità delle persone. La ferocia di Daesh conta sulla potenza della rete per la sua propaganda e affida alla follia solitaria dei kamikaze il messaggio di terrore con cui ha già vinto la sua guerra con l’assedio al cuore del Vecchio Continente. Di fronte alla straordinaria capacità di questo nuovo terrorismo di sfruttare la dimensione virtuale e di capitalizzare disponibilità di corpi pronti ad immolarsi, noi abbiamo scoperto le nostre fragilità politiche e culturali. I servizi (più o meno) segreti sono stati colti di sorpresa anche perché, almeno in teoria, avrebbero dovuto raccogliere e interpretare i belati di una classe dirigente che si è concentrata, invece, sul triangolo Bruxelles - Strasburgo - Francoforte per affinare le armi della burocrazia e gestire l’attacco della finanza internazionale. In questa inedita e asimmetrica guerra quanto di più palpabile esista - il corpo - si incontra, si scontra, si confronta con beni immateriali che consideriamo (consideravamo?) nelle nostre indiscusse disponibilità: libertà,

benessere, sicurezza, diritti. Quelle moltitudini di corpi affogati nel Mediterraneo, in marcia lungo le strade europee o aggrappati alle recinzioni sono un drammatico monumento alla nostra cecità. Di fronte all’unica certezza - la necessità di riconsiderare e rimodulare i nostri stili di vita - è indispensabile la saggezza di chi si pone con coraggio e umiltà nell’ottica di studiare e sperimentare con l’arma del dialogo. In questo senso va letto il messaggio di condoglianze destinato alla mamma di Giulio Regeni, il giovane ricercatore torturato e ucciso al Cairo a gennaio. “Sono con lei e sento il suo stesso dolore, come soffro, ogni giorno, fino ad ora, per Khaled. Voglio ringraziarla per essere con noi e per il suo interesse e per la preoccupazione per i casi di tortura in Egitto. Il lavoro di suo figlio sarà continuato”. La madre del blogger Khaled Said, assassinato a bastonate nel giugno 2010 da poliziotti ad Alessandria e considerato l’ispiratore della rivoluzione egiziana del 2011, ha affidato a YouTube il suo strazio ben comprendendo il ‘dolore necessario’ di Paola Regeni, madre di Giulio, che ha scolpito indelebilmente nelle nostre coscienze i patimenti del figlio. “Su quel viso ho visto tutto il male del mondo e mi sono chiesta perché tutto il male del mondo si è riversato su di lui”. Ci piace pensare che dall’incontro virtuale di due “madri dei martiri” si tragga la forza per reagire alla cultura della violenza che, direttamente e indirettamente, nutre tutti i terrorismi. Perché se una madre, con il carico di dolore che le schiaccia il cuore, ha la capacità di pronunciare queste parole “la morte di Giulio non è un caso isolato”, vuol dire che tutte e tutti possiamo credere e impegnarci per disegnare una nuova civiltà delle relazioni umane. Tiziana Bartolini

3


4

Aprile-Maggio 2016

IL GENERE DELLA STAMPA La vivacità e i limiti del giornalismo femminista e le numerose testate che hanno avuto vita breve. Un focus sulle esperienze romane degli anni Settanta del secolo scorso e non solo. La capacità di “NOIDONNE” di mantenere lo sguardo a livello nazionale di Giancarla Codrignani

L

e donne non hanno mai avuto un buon rapporto con l’informazione: le “suffragette” non sono mai riuscite a farsi chiamare suffragiste sui giornali né le “staffette” ad essere, come furono, partigiane. Anche le giornaliste ci giudicano strane se diciamo che voteremmo la Clinton per paura di Trump e per femminismo quasi quasi preferiremmo Sanders. Quando diventiamo editrici, entusiasmiamo le affiliate, ma viviamo di resistenza: in settant’anni di libera Repubblica abbiamo visto molte pubblicazioni nascere e morire per esaurimento delle redattrici e incostanza delle lettrici. C’entrano certamente le crisi e, anche oggi, la gente che per risparmiare si informa solo per tv (e se ne vedono i risultati!); ma non è così vero.

Di fatto, da un lato c’è il dato oggettivo di non avere “mecenati” di genere, ma conta soprattutto il cedimento a rabbie e scoraggiamenti indotti dal sistema che invade specificamente le donne, quelle che si disperano ma dopo i crolli tirano su le case. Finisce che non vanno a votare. Della serie come farsi ancor più male. Un numero di Genesis del 2008 riesaminava, in un articolo di Federica Paoli, la stampa femminista romana degli anni Settanta (del secolo scorso), nata dal bisogno di “partire da sé”, senza fermarsi solo al piccolo gruppo e senza condannarsi all’oralità: bisogno di avere un luogo del problematico e del non risolto. Noi Donne dal 1944 aveva aperto la strada; Adriana Seroni (sezione femminile Pci) nel ‘69 fece uscire “Donne e politica”, il Filf (Fronte di Liberazione Femminile) “Quarto mondo” e l’Mld (Movimento di Liberazione della Donna) “La nuova luna”; di “Compagna” uscirono solo quattro numeri; “Mezzo cielo” e “Se benche siamo donne” fecero parte dell’extrasinistra proletaria. Nel 1975 uscì DWF, cultural-accademica, che è ancora su piazza, mentre sono state meteore

solo romane altri fogli di controinformazione femminista (tra cui “Lilith”, “Zizzania”, “Tutte le donne”) che per ovvie ragioni pratiche non riuscirono ad impegnarsi in continuità. Tre testate, comunque, diverse tra loro, hanno rappresentato l’esperienza femminista di quegli anni: “Differenze”, “Quotidiano donna” ed “Effe” che, per la Paoli, rappresentò la testimonianza più significativa. Nasce all’inizio degli anni ‘70, dalle volontà di giornaliste e intellettuali che furono delle “maestre”. Oltre a Daniela Colombo, da non dimenticare: Adele Cambria, Grazia Francescato, Gabriella Parca, Alma Sabatini, Adele Teodori, Vanna Vannuccini. In dieci anni, tra debiti e divisioni interne al movimento, la volontà di contrapporsi ai giornali femminili del mercato e di fornire alla donne non solo romane, ma dell’intero paese l’informazione su ciò che “direttamente o indirettamente le riguardava” si scontra con le diverse scuole di pensiero femministe che contrapponevano emancipazione a liberazione. La rivista diventa mensile e tira fino a 30mila copie; pubblica i documenti femministi in circolazione, aspira ad essere il punto di riferimento nazionale, non vuole finanziamenti pubblici, non cerca egemonie, ogni articolo deve essere condiviso dalla redazione, l’obbligo di una direttrice non


Aprile-Maggio 2016

doveva significare maggior rappresentatività. Viene accusata di voler “dare la linea” al movimento, di banalizzare per andare incontro alle non-femministe, di diluire il “potenziale rivoluzionario” mancherà insomma il riconoscimento, mancherà la solidarietà alla portata politica della rivista. Troppo grande la difficoltà di chi muoveva dall’autocoscienza, dal partire da sé (ma non era per capire come coniugare le differenze tra noi), da un’aspirazione all’omogeneità per il solo fatto di essere l’Altra. Per questo rifiutava l’istituzione che, per essere stata (e continuare ad essere) ordinata al maschile, era estranea al pensiero delle donne. Voler destabilizzare il mondo dell’informazione senza avere un progetto alternativo - per esempio, anche nella distribuzione - non solo era un handicap, ma rischiava di risolversi in un adeguamento. E anche “Effe” fu assorbita dal “sistema”. Nei decenni successivi molti altri giornali potrebbero essere citati, dal settimanale “Il Paese delle Donne” (che inizia la sua avventura nel 1985 e che oggi è on line) a “Marea”, che ha festeggiato di recente venti anni di pubblicazioni. L’esempio della stampa femminista degli anni Settanta a Roma è molto parziale, ma indicativo. Negli anni e in molte città e paesi le iniziative sono state tantissime, ma assai poche di rilievo nazionale, consultabili pubblicamente e archiviate. Oggi molto viaggia su rete, anche qui con dubbi sulla futura conservazione dei materiali. “NOIDONNE” continua. È la sola che ce l’ha fatta su piano nazionale, senza cedere ai rotocalchi, senza prendere posizioni femministe di scuola, tenendo la testa in ordine in un mondo che sta sfuggendo ai controlli e in cui le donne rischiano assai. Ha sempre mediato in mezzo alle contrapposizioni sociali, alle mode, agli interessi politici e alle istituzioni democratiche (democratiche sì, ma quanto inclusive del nostro desiderio?). Fa parte della storia e per questo sente il diritto di essere sostenuta dallo Stato. Ma, soprattutto, proprio mentre il mondo cambia radicalmente e “NOIDONNE” vuole esserci, dalle donne che ne sentono la voglia. Fino a quando? b

di Camilla Ghedini

I

l 28 febbraio, a Ferrara, la mia città, ho avuto modo di intervistare e ascoltare Krysztof Charamsa, l’ex Ufficiale della Congregazione per la Dottrina della Fede, che lo scorso 4 ottobre, alla vigilia del Sinodo, ha fatto coming out, rivelando ‘in un botto’ di essere omosessuale e avere un compagno, Eduard, da 16 anni. Apriti cielo. Non solo per la Chiesa, che lo ha allontanato impedendogli il sacerdozio, ma anche per me, che in quei giorni ho dichiarato apertamente tutto il mio sdegno. Nella tempistica l’operazione mi sapeva di marketing. A peggiorare la situazione l’annuncio di un libro in uscita, che mi toglieva ogni dubbio. Una bella mattina ho messo nero su bianco la mia indignazione su Fb, il luogo in cui oggi facciamo passare tutti il ‘Verbo’. La Bibbia fai da te, per ca-

vizio dell’uomo, tant’è che alle mogli che subiscono violenza, nel segreto del confessionale si consiglia di pregare e perdonare il marito. Non ha risparmiato Papa Francesco, cui imputa la grande responsabilità di avere lasciato alla politica il dibattito sul ddl Cirinnà, poi snaturato con stralcio della stipchild adoption. Ha definito il celibato un crimine, in quanto non scelta. Io, giuro, ero ipnotizzata. Ho ‘relativizzato’ le mie posizioni ‘assolute’. E così dopo il Diluvio ho fatto un bel bagno di umiltà. Ha ragione lui, la sua battaglia non poteva farla ‘dentro’ la Chiesa. Ha ragione lui a rivendicare il dovere di non rinnegare se stessi. Ha ragione lui a non negare il bisogno di amore, che passa anche per il corpo, non prendiamoci in giro. Lo avrei ascoltato per ore, perché raramente le persone sanno parlare tan-

CHIESA E OMOSESSUALI. LA BELLEZZA DEL DUBBIO pirci. Poi la vita me lo ha fatto incontrare e ho rivisto il mio giudizio. Ho rivisto la mia stessa etica. Ho rivisto un modo di pensare, il mio, profondamente laico, in cui c’è sempre un’altra strada da percorrere, quando la mia non mi entusiasma più. Sentendo la sua voce, guardandone la postura e i movimenti, mi sono chiesta che diritto ho io di non credere al calvario di chi ha fede e al tempo stesso vuole vivere appieno. Io che pure l’ho, la fede, e non per questo sono bigotta. Lui è stato chiaro: ha sempre saputo di essere omosessuale ma non cercava un rifugio. Ha parlato dell’omofobia nella Chiesa, che ti costringe ad odiare te stesso e tutti quelli che hanno il coraggio di essere felici. E ha messo in relazione la paura dell’omosessualità con quella della donna, che la Chiesa considera inferiore e al ser-

to intensamente, con semplicità, cultura e senza retorica. Certo, io non posso misurare il grado di autenticità di ogni sua esternazione. Ma neppure posso immaginare il suo tormento e conflitto interiore. E neppure sminuire una necessità di uscire dall’armadio, come ha esemplificato lui, che prima di essere libertà è liberazione. Ha dichiarato di essere felice, con Eduard, Krysztof Charamsa, e io glielo auguro, perché la felicità fa bene a tutti. Meglio un uomo appagato che sappia parlare alla gente, mantenendo la propria fede e sapendola trasmettere, che uno frustrato, in qualsiasi contesto, Chiesa compresa. Non so se mi sono ricreduta al 100 per cento, ma so che ho un forte dubbio, che assomiglia alla speranza di avere inizialmente sbagliato opinione. Sarebbe davvero bellissimo.

5


6

Aprile-Maggio 2016

SE (ANCHE) LA RELIGIONE NON PUO’ FARE A MENO DELLA TV Aumentano le trasmissioni televisive e le ore dedicate alla religione cattolica mentre scarseggia l’informazione su altre confessioni.

D

di Stefania Friggeri

on Matteo, il sacerdote capace di risolvere oscuri delitti, potrebbe essere paragonato a Miss Marple, il personaggio, dopo quello celebre di Poirot, creato dalla fantasia di Agata Christie per portare un elemento di novità entro i canoni del giallo classico. Potrebbe… se letto ingenuamente. Perché in Italia la tv non si limita al simpatico don Matteo, ma si allarga a programmi di intrattenimento ove si parla, con grande disinvoltura e complici ammiccamenti, di guarigioni miracolose, di apparizioni, di visioni e simili amenità? In verità il miracolistico attira da sempre i credenti facili alle lacrime, fiduciosi nella potenza e nella benignità di un dio che, rispondendo alle preghiere di una singola creatura, la fa sentire unica, speciale, prescelta. Questa religiosità infantile che si esprime in una forma propiziatoria e superstiziosa, è presente in tutte le religioni e ad ogni latitudine, pertanto le persone sog-

gette all’infatuazione religiosa vanno comprese e rispettate. Stupisce però che ancora oggi, dopo le aperture del Concilio Vaticano II e l’alito rinnovatore che sembra attraversare la Chiesa con l’elezione di papa Francesco, la gerarchia non si impegni a scoraggiare il sentimentalismo religioso, la dipendenza emotiva e superficiale dallo straordinario. Vedi l’ostensione della salma di padre Pio. Le lunghe file che per ore rimangono in attesa di vedere le spoglie del santo confermerebbero la compatta identità cattolica dell’Italia che, invece, è ormai un paese plurale dal punto di vista religioso e sempre più secolarizzato (le statistiche ci dicono che nel percorso della secolarizzazione non vi sono salti, che si tratta di un processo continuo, e dunque profondo e ormai radicato). Nell’Italia di oggi sono molti coloro che si dichiarano convintamente cattolici: chi entra in chiesa solo per un

battesimo o un matrimonio, o per turismo; chi nella vita privata dimostra una crescente autonomia dalle direttive delle gerarchie cattoliche, soprattutto nella vita sessuale; chi dice confusamente “qualcosa deve pur esserci”; chi brandisce il crocefisso come una spada contro la presenza di immigrati musulmani; chi infine, sono gli atei devoti, strumentalizza la religione per colpire, anche dentro la chiesa, le frange progressiste della società. È pur vero tuttavia, come ha detto Benedetto Croce, che “non possiamo non dirci cristiani”, ovvero che non possiamo minimizzare l’eredità storica che ci ha lasciato il cristianesimo. E se l’Europa è intrisa di cultura cristiana, noi italiani lo siamo in modo particolare poiché, oltre al lascito teologico-culturale, la nostra storia si è intrecciata nei secoli con quella del Vaticano la cui influenza è ormai così forte che può permettersi di intervenire nelle questioni inter-


Aprile-Maggio 2016

ne dello Stato italiano: ad esempio può promuovere le leggi (legge 40) o bocciarle (ddl Cirinnà). Ma questo non avviene per caso. Vale la pena ricordare quando, anni fa, Amato e Bertinotti (allora autorità dello Stato) esprimevano pubblicamente i loro assillanti interrogativi in materia di fede e quando Bersani a Rimini salutava il pubblico di Comunione e Liberazione chiamandolo “la meglio gioventù”. È vero che “il viandante del terzo millennio è un pellegrino in un mondo secolarizzato che ha smarrito le certezze antiche” (Alessandro dal Lago) ma queste testimonianze (e non sono state le sole) hanno contribuito ad incrementare lo scivolamento pericoloso della classe politica verso la mediatizzazione del discorso religioso secondo modalità scorrette. Infatti, nonostante le ripetute promesse di riformare la Rai, affidandola ad un corpus di figure competenti che lavorano in autonomia, ancora oggi la televisione persevera nel promuovere un’offerta politico-culturale che ignora la pluralità delle voci in ogni settore, dunque anche in materia religiosa: la schiacciante presenza politicomediatica della religione cattolica nei palinsesti sta infatti a dimostrare che, dopo la breve parentesi risorgimentale, il principio di laicità, fondamento della democrazia, è stato progressivamente eroso nell’intento di compiacere la “chiesa del potere”, di assicurarsi appoggi e… voti. Secondo i dati pubblicati nel “V Rapporto sulle confessioni religiose e tv”, forniti a “Critica liberale” da Geco Italia (la stessa società cui si rivolge l’Agcom, dunque affidabili), nel periodo tra il 1° settembre 2014 e il 31 agosto 2015 la religione cattolica ha occupato l’86 per cento dei programmi di attualità, con la presenza di un 82,5 per cento di suoi rappresentanti; quasi 60 ore sono state dedicate a programmi che hanno trattato temi religiosi, ma solo

un’ora in tutto l’anno (1,6 per cento) ha informato sugli scandali che hanno colpito il Vaticano (pedofilia, Vatileaks, illeciti finanziari); forte l’incremento di trasmissioni dedicate a miracoli, santuari, vite di santi ecc. Le fiction religiose, decuplicate dal 2010 ad oggi, sono raddoppiate nell’ultimo anno: da 311 a 603 per un totale di 487 ore, per esempio Rai2 da 19 a 282 ore, Rete4 da 22 a 56 (una precisazione: il 91,9 per cento delle fiction è sulla religione cattolica, il 6,8 per cento su quella giudaico-cristiana, a tutte le altre confessioni l’1,3 per cento). Ai protestanti e agli ebrei sono dedicate alternativamente, all’1,20 di notte la domenica e il lunedì, due trasmissioni che vengono poi repli-

cate il lunedì mattina una settimana dopo; ancor peggio per le religioni che non sono praticate da italiani autoctoni, come lo sono gli ebrei e i protestanti: se vengono invitati nei talk show gli ortodossi sono chiamati soprattutto per esprimersi sulle problematiche legate alle badanti slave, i musulmani per affrontare il tema del terrorismo, i buddisti per commentare la visita del Dalai Lama ad Assisi (e l’argomento centrale diventa San

Francesco, non il buddismo). A parte “Uomini e profeti” (l’unica trasmissione che non parla della “religione” ma riflette in modo libero e problematico sul tema religioso, in onda il sabato e la domenica mattina per il pubblico esigente e preparato di Radio Tre) è grave l’assenza di argomenti che richiedono di essere affrontati da persone acculturate in campo teologico o filosofico. È vero che un gran numero di fedeli chiede ai religiosi rassicurazione e conforto piuttosto che approfondimenti accademici, ma poi, paradossalmente, anche i cattolici sono penalizzati dall’uso di privilegiare nei palinsesti non i valori di fondo del cristianesimo, ma la cerimonia, la messa e il personaggio carismatico. Proprio oggi infatti, quando va allargandosi la convinzione che il tempo delle certezze sia finito, i programmi televisivi accreditano presso i fedeli la popolarità di personaggi la cui vita esemplare può aiutare a riempire di senso anche la vita degli uomini contemporanei, morsi dal dubbio e dalla precarietà: sono papi, santi, martiri ecc. Tra di loro padre Pio, di cui però si tace la cattiva fama dentro il Vaticano, il sospetto di aver utilizzato acido fenico per alimentare le stimmate, la vicinanza al regime. Attraverso queste figure emblematiche o di religiosi invitati nei talk show, la Chiesa cattolica diventa maestra di etica, sia nel senso etimologico di costume, sia nel senso di precetti morali, e infatti, se viene affrontato un problema sociale, al sacerdote è riconosciuta la competenza e l’autorevolezza per indicare i valori guida della società. Ma non è facile camminare sul filo stretto che separa la divulgazione affidabile dalla faciloneria, occorre un bravo comunicatore. Come, appunto, papa Francesco, che non a caso compare in tv tutti i giorni, a differenza di quanto era riservato ad un intellettuale puro come Ratzinger. v

7


8

Aprile-Maggio 2016

di Valerio Gennaro* Istituto Italiano di Bioetica www.istitutobioetica.org

VITA LUNGA, SOPRATTUTTO VITA SANA In Italia nel 2015 si è ridotta la Speranza di Vita, ma la Speranza di Vita SANA sta diminuendo già dal 2004. Specialmente nelle donne. Vogliamo iniziare a comprenderne le cause per invertire la tendenza?

IL 20

gennaio scorso l’INSEE e ‘Le Monde’ hanno certificato per la Francia quanto circa un mese prima (dicembre 2015) era stato evidenziato per l’Italia dal quasi analogo l’istituto nazionale di statistica ISTAT (1; 2). In entrambi i paesi si confermava la notizia che nel 2015 si era verificato un grave aumento nel numero di decessi rispetto al valore standard “atteso”. In Italia, in particolare, si è stimato addirittura l’11,3 per cento, corrispondente a circa 67mila decessi in più. Si è quindi ridotta la speranza (aspettativa) di vita (Life Expectancy, LE). Data la gravità dell’evento, ci chiediamo se poteva essere evitabile, perché prevedibile, questa catastrofe definita “misteriosa” da uno dei principali quotidiani nazionali. Forse bastava considerare, anziché trascurare, quei gravi “sintomi” che da tempo alcuni di noi (con meno “prove”, lo ammetto, ma già dal 2001 al G8

di Genova) segnalavano. Bastava quindi ascoltare quello che - oltre ai Medici per l’Ambiente (ISDE) - altre categorie sociosanitarie orientate alla prevenzione avevano segnalato. Sintomi che dal 2004 si sono consolidati in gravi malattie croniche con evidente accorciamento della durata della vita SANA a causa dell’anticipazione dell’età media di insorgenza della disabilità, da 70 a circa 61 anni. Si tratta di una importante perdita di salute che fa perdere l’autosufficienza, prova “naturale” di salute. Stiamo parlando quindi dell’aspettativa di vita SANA (ufficialmente Healthy Life Expectancy; Healthy Life Years; HLE). Queste analisi sono prodotte annualmente da EUROSTAT per l’intera comunità europea, Italia inclusa. Un indicatore che l’Europa consiglia di utilizzare, assieme all’altro indicatore complementare, quello dell’aspettativa di vita (LE) come verificabile “termometro” di progresso di un paese. Personalmente da parecchio tempo cercavo di far riflettere anche sull’accorciamento della durata della vita SANA attraverso articoli, conferenze e congressi scientifici (Gennaro, Ghirga, Corradi, It.J.Ped, 2012; AIE,2015) in rete e nei vari blog (Grillo ecc.). Quando ho scoperto questi dati, dopo aver cercato di comprenderli meglio, verificarli ed essermi ripreso dal profondo sconforto, ho continuato a diffonderli, ma ho ricevuto davvero poco ascolto, nessun incoraggiamento e due tipologie di risposte apparentemente contradditorie.

L’establishment informativo-politico-sanitario ha praticamente ignorato, negato e deriso questi dati (ed anche il sottoscritto). Tuttavia le altre persone che venivano a conoscenza di questi dati, in modo bipartisan, al contrario, sembravano non stupirsi affatto. Da molti anni, dati molto più favorevoli e rassicuranti erano invece diffusi capillarmente, periodicamente ed energicamente dai mass-media e dai “tranquillanti” di massa. Si trattava dell’”altra metà del cielo” dell’informazione. Dati riferiti all’aspettativa di vita media, ma generica (speranza di vita; LE) che non quantifica la durata della vita vissuta senza disabilità come proporzione con la durata dell’aspettativa complessiva né, men che meno, individua l’età di comparsa della disabilità grave e/o media. Questo dato vero, ma assolutamente parziale, sull’aumento della durata della vita (LE), sempre certificato da EUROSTAT e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS-WHO) era sicuramente rassicurante ed anche – probabilmente - vero, fino al 2014. Appariva tuttavia parziale e strumentale perché era usato per sostenere che “tutto va bene, lasciateci lavorare senza disturbare, non credete ai gufi, ecc..” Insomma, fidatevi di noi e delle nostre scelte di politica economica, ambientale, sociale e sanitaria. In effetti anche recentemente (AIE, 2015) avevamo segnalato alcune carenze in questi dati pubblicati dall’OMS che non pareva avessero esaminato le differenze di genere, né il trend tem-


Aprile-Maggio 2016

9

Il filo verde porale, né la distribuzione geografica e socio-economica della popolazione italiana. Ma le nostre osservazioni erano cadute regolarmente nel vuoto. Cosa abbiamo fatto? Per comprendere meglio spread e trend dell’Aspettativa di Vita SANA (HLE) degli anni di vita vissuti senza disabilità in Italia, abbiamo utilizzato i dati pubblicati annualmente da EUROSTAT (2015) che risultavano più approfonditi, aggiornati al 2013 ed orientati ai paesi della Comunità Europea. L’HLE, indicatore EUROSTAT ereditato dall’ OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e Sviluppo Economico), stima il numero medio di anni di vita sana alla nascita, e/o a 65 anni, che ci si può aspettare di vivere senza subire limitazioni nelle normali attività quotidiane causate da problemi di salute (disabilità). Ogni anno EUROSTAT analizza un campione rappresentativo dei paesi europei (circa 273mila persone), Italia inclusa, a cui propone una specifica domanda orientata a conoscere il livello dei problemi di salute insorti negli ultimi 6 mesi valutando le connesse limitazioni nelle normali attività quotidiane. Con il metodo Sullivan si analizzano infine i dati di mortalità e morbilità specifici per sesso, età, periodo ed area geografica. Che risultati abbiamo osservato fino al 2013? In entrambi i generi si evidenziava un trend temporale in miglioramento per quanto riguarda la LE, ma è stato anche confermato il peggioramento della HLE. In particolare nel periodo 2004-2013, donne e uomini alla nascita perdono rispettivamente circa 10 e 7 anni di vita in salute. Analogamente a 65 anni assistiamo ad una progressiva diminuzione della durata della vita in salute maggiore per le donne che per gli uomini. Il confronto di genere in Italia ed in Europa. Premesso che in letteratura è già nota la relazione tra LE e determinanti distali di salute (socio-economici, ambientali, ecc), se concentriamo l’analisi sul raffronto di genere, ci appare importante evidenziare il peggioramento dal 2004 dell’HLE nelle donne italiane, sia alla nascita sia a 65 anni, rispetto ai maschi italiani e al corrispon-

dente andamento europeo: dal 2005 in Italia si registra anche una preoccupante “inversione” di genere, inaspettata e persistente fino all’ultimo anno registrato (2013). Riassumendo. In Italia dal 2004 si è ridotta bruscamente la speranza di vita senza disabilità (HLE) sia alla nascita sia a 65 anni. Prevalentemente per le donne. Conseguentemente dal 2015 è fortemente diminuita anche la speranza di vita (LE). I dati EUROSTAT ed ISTAT confermano quanto appare ben percepito dalle persone: l’aumento dei problemi socio-sanitari ed economico-ambientali. Il ‘combinato disposto’ tra l’aumento della speranza di vita (fino al 2014) e la diminuzione della speranza di vita senza disabilità, ha determinato per la popolazione italiana un consistente allungamento medio del periodo di vita vissuto in cattiva salute con disabilità di livello medio e/o grave (fino al 2014). Dal 2015 l’accorciamento di entrambi gli indicatori ha ridotto la durata della vita vissuta con gravi cronicità (eutanasia di massa?). Le 2 informazioni (HLE e LE) dovrebbero comunque essere sempre considerate congiuntamente per comprenderne la complementarietà, la forte domanda di SALUTE (es. prevenzione primaria) ma anche di SANITA’ che continua a ricevere risposte controproducenti ed inadeguate come la riduzione dei fondi per i servizi sociali e per il SSN che verrà diminuito fino al 2017 di oltre 2,3 miliardi di euro. Le misure dell’HLE contengono una forte eterogeneità tra Stati che andrebbe ulteriormente indagata: la Grecia, oggi nota per la grave crisi economica, fino al 2013 risulta comunque aver mantenuto un’aspettativa di vita in salute migliore della nostra e, ancor di più, della stessa Germania. *Valerio Gennaro, Epidemiologia IRCCS Ospedale Università San Martino, Istituto Nazionale Ricerca sul Cancro (IST), Genova

di Barbara Bruni

CRESCE LA DOMANDA DI ENERGIA SOLARE

Dopo tre anni consecutivi di declino, torna a crescere il solare in Europa. Nel 2015, con 8 GW di connessioni in più in rete, si è registrato un aumento del 15 per cento nella domanda di energia solare. Con circa 100 GW installati, l’Europa si conferma il continente con la maggiore quantità di energia prodotta tramite impianti solari, e con una media di consumo di quasi il 4 per cento dell’elettricità prodotta. La domanda di energia solare in Europa lo scorso anno è arrivata soprattutto dalla Gran Bretagna, dalla Germania e dalla Francia, tre Paesi che da soli hanno totalizzato il 75 per cento delle nuove connessioni.

LA PARKWAY ITALIANA

È allo studio la realizzazione di una Parkway, ossia un percorso dedicato al turismo, lento e sostenibile, che va dalle Cinque Terre, agli arcipelaghi della Maddalena e Toscano, fino al Parco Nazionale del Circeo. L’idea è quella di valorizzare la biodiversità nei parchi nazionali dell’area tirrenica, realizzando una sorta di percorso turistico verde, sopra e sotto il mare, che coinvolga i territori protetti. Il fine del progetto sarebbe di promuovere tra gli amanti della natura: dall’agricoltura alle specialità enogastronomiche, dall’offerta storicoculturale alle bellezze del nostro paesaggio.

I DANNI DI FUKUSHIMA

Secondo i dati dell’ultimo rapporto di Greenpeace Giappone, l’impatto ambientale del disastro nucleare di Fukushima - di cui è appena è ricorso il quinto anniversario - avrà conseguenze enormi su foreste e fiumi, conseguenze che dureranno decenni, se non secoli. Gli scienziati hanno rilevato i primi segni di mutazioni ereditarie e di alterazioni nel Dna di diverse forme di vita nelle foreste, dagli alberi alle farfalle. Rilevata anche la contaminazione da cesio in pesci d’acqua dolce, importanti dal punto vista commerciale. Greenpeace Giappone ha da poco lanciato un’indagine sulla contaminazione radioattiva delle acque dell’Oceano Pacifico lungo le coste in un raggio di 20 chilometri dalla centrale nucleare.

ELEFANTI, È ANCORA BRACCONAGGIO

Oltre la metà delle morti di elefanti nel mondo avviene ancora per mano dei bracconieri. Secondo i dati della fondazione Born Free, dall’inizio dell’anno sarebbero stati già uccisi 1.500 pachidermi per il loro avorio. Solo nel 2015 si stima che i bracconieri in cerca di avorio abbiano abbattuto oltre 20mila elefanti africani. Una piaga, quella del bracconaggio e dei traffici illegali, che sta decimando la popolazione mondiale dei pachidermi, così come emerge nell’ultimo rapporto del Cites. Nonostante il calo rispetto al picco negativo registrato nel 2011, il bracconaggio risulta ancora una minaccia, immediata e seria, per la sopravvivenza degli elefanti africani perché è superiore al normale tasso di crescita della loro popolazione.


10

Aprile-Maggio 2016

VERSO IL XVI CONGRESSO —

GUARDARSI DENTRO GUARDARE FUORI GUARDARE OLTRE di Rosanna Marcodoppido

Con l’Anteprima del 30 gennaio è iniziato il percorso che porterà al congresso (Roma 6-7-8 maggio 2016), che ha come titolo ‘DONNE E FEMMINISMO NEL MONDO CHE CAMBIA’. Tra le questioni da affrontare l’inessenzialità del punto di vista della differenza femminile nel nostro paese e la possibilità di trasformare la frammentazione in ricchezza

C

ongresso è per noi dell’Udi parola ingombrante, pesante, eppure di difficile sostituzione. Chi viene eletta negli organismi dirigenti nazionali sa perfettamente che non riceverà stipendi né contributi, ma solo rimborsi. Sa anche che il potere che eserciterà coincide con la responsabilità di portare a compimento le decisioni prese collegialmente nelle assemblee nazionali e che il prestigio che ne deriva è in genere circoscritto nel perimetro dell’associazione e poco oltre, vista anche la persistente disattenzione dei media nei confronti dell’agire politico delle donne, soprattutto di quelle che come noi non hanno padroni. Sono queste le condizioni di una democrazia sostanziale e di una autonomia reale, ne conosciamo i costi e continuiamo con orgoglio a scegliere di pagarli. Naturalmente restano aperti anche da noi i rischi di conflitti e di spaccature, la difficoltà ad assumere fino in fondo la cura politica delle relazioni, presupposto fondamentale per arrivare a decisioni e scelte condivise. Un Congresso anche per l’Udi rappresenta un momento speciale, una parentesi che ogni 4 o 5 anni decidiamo di aprire nel quotidiano svolgersi di molteplici attività, con

l’intento di verificare a livello nazionale l’efficacia della nostra politica, prestando una attenzione particolare a quello che ci succede e che succede attorno a noi. Una lettura del contesto a più voci, anche esterne all’Udi, è iniziata il 30 gennaio con l’Anteprima, durante la quale si è avviata una riflessione sulla realtà in cui viviamo e sui soggetti che la abitano. I soggetti dunque, a cominciare da noi. Noi dell’Udi chi siamo? Molti anni fa ci definimmo “donne della vita quotidiana” a fronte di una deriva specialistica del neofemminismo con la nascita di associazioni di filosofe, di storiche, di scienziate le quali, pur nella ricchezza di elaborazioni teoriche fondanti, si trovano strette nelle logiche di una frammentazione del sapere propria delle discipline accademiche, distanti perciò dalla complessità dell’esperienza così come era emersa, con tutta la sua travolgente carica di verità, grazie alla pratica dell’autocoscienza. Volevamo infatti porci consapevolmente come soggetti nell’interezza della vita materiale e simbolica di ciascuna, attente alle altre donne e alla conoscenza e diffusione degli studi femministi in ogni campo. Siamo ancora questo: donne della vita quotidiana,


Aprile-Maggio 2016

analizzata con chiavi di lettura sessuate e una pratica politica che intreccia, come sempre, la riflessione e l’azione, il lavoro del pensiero e la fatica di un fare collettivo, generatore a sua volta di conoscenza, in grado di diventare gesto pubblico e dunque trasformativo. Donne radicate saldamente nella storia del proprio genere, con varie sedi fisiche e simboliche da curare e da mantenere. Siamo consapevoli di essere una fra le tante realtà femminili che si muovono nel nostro paese per costruire una diversa civiltà umana, libera da violenze, sopraffazioni e discriminazioni. Siamo anche convinte che, se vogliamo determinare cambiamenti radicali, la relazione tra donne resta ancora passaggio ineludibile. Ma a che punto sono oggi le relazioni tra le donne? Assistiamo purtroppo ogni giorno ad un perdersi di sé come soggetto sessuato da parte di donne presenti nei luoghi in cui si decide, dove la differenza femminile si riduce, tranne qualche eccezione, a presenza di corpi differenti ma incapaci di parlare un linguaggio radicato nel proprio genere e nella sua storia. Assistiamo con sconcerto al paradosso rappresentato dal mondo della scuola e dei media dove, nonostante il numero rilevante delle insegnanti e delle giornaliste, trasmissione e informazione continuano a mantenere un alto tasso di sessismo, occultando e depotenziando saperi, pratiche, figure femminili di cui è ricca la cultura e l’esperienza storica delle donne. Come mai? Siamo tante, brave, competenti, ma viviamo purtroppo tutte in piccole o grandi frazioni di spazi poco comunicanti tra loro: una frammentazione senza interlocuzione. Questa è la nostra vera miseria, dovuta non solo alla resistenza maschile al cambiamento, ma anche e soprattutto ad un deficit di relazione tra donne. Ogni tanto qualcuna pensa di dare vita ad un nuovo soggetto nazionale o di mettersi alla testa di una rete, senza passare per l’esercizio faticoso della democrazia e del reciproco riconoscimento, con il risultato che restiamo tutte, ininfluenti, nella coda di un grosso corpo a testa maschile. Il problema non è tanto superare la frammentazione quanto saperla trasformare in ricchezza in grado di contrastare l’inessenzialità del punto di vista della differenza femminile nel panorama politico e istituzionale del nostro paese. Noi dell’Udi abbiamo avuto sin dalla nostra nascita la tensione verso l’unità con le altre; la scelta di fare anche questa volta un congresso aperto a tutte ha questo significato. Sappiamo che non è cosa semplice, soprattutto in questo nostro tempo segnato da logiche neoliberiste che erodono soggettività e tendono a trasformarci in narcise pronte al consumo. Eppure in questo mondo mercificato e globalizzato, accanto a fondamentalismi di ogni tipo e a tragici respingimenti, restano anche sacche di resistenza per una libertà diffusa, capace di attraversare confini geografici e identitari, abbattere muri e steccati in-

terni ed esterni, rompere persino il binarismo sessuale e la sua forza normativa. Si stanno pertanto rivelando inadeguate o insufficienti alcune nostre categorie interpretative a causa anche di nuove tecnologie e della bioeconomia che immette nel mercato ovociti, sperma, placenta, utero...: nuovi modi di restare al mondo, venire al mondo, mettere al mondo. Tutto questo richiede uno sforzo di risignificazione dell’esperienza umana che non ammette scorciatoie: tra proibire e consentire occorre imporsi la pazienza per comprendere, esercitare l’empatia e l’ascolto come valori irrinunciabili, evitando la logica sterile dello schieramento e della strumentalizzazione. Bisogna perciò individuare nuove chiavi di lettura e scegliere forme dello stare insieme che consentano una pratica all’altezza delle sfide del presente, capace di edificare ponti con nuovi soggetti, primi tra tutti le ultime generazioni, le donne migranti e anche quegli uomini che sono in cammino verso una loro difficile libertà. Questo credo che tenteremo di fare e continuare a fare noi dell’Udi, ma non basta. Oggi più che mai, nello scenario inquietante e complesso in cui siamo immerse, c’è bisogno di unire forze, competenze, passione, per costruire tutte insieme un soggetto politico femminile policentrico ed interrelato, capace di contrastare con efficacia e autorevolezza vecchi e nuovi patriarcati e di affermare ovunque autodeterminazione e libertà femminile. Spero che il Congresso possa rappresentare un passaggio fecondo per la vita dell’Udi e nello stesso tempo l’avvio di una forte relazione politica tra le tante realtà femminili e femministe presenti in Italia e non solo. Sarebbe bello oltre che necessario riscoprire la felicità di camminare insieme e insieme cambiare radicalmente questo nostro mondo che sembra andare sempre più alla deriva. Con dentro al cuore questa speranza, vado verso il XVI Congresso insieme a tutte quelle che con intelligenza e coraggio vorranno guardarsi dentro, guardare fuori, ma soprattutto guardare oltre. b La versione integrale dell’articolo è su http://www.noidonne.org/blog.php?ID=07047

11


12

Aprile-Maggio 2016

RITORNO ALLA CULTURA DEL FEMMINILE SEAO Rise, il nuovo progetto della Scuola Elementale di Arte Ostetrica. Alla riscoperta del nostro valore e dei nostri valori di Francesca Rugi e Anna Maria Rossetti

L

a Scuola Elementale di Arte Ostetrica (SEAO) nasce nel 1996 su un progetto di Verena Schmid, ostetrica e formatrice in Italia e all’estero, ed è da oltre vent’anni un punto di riferimento per l’aggiornamento e la formazione post universitaria dedicata a operatori e operatrici della nascita La SEAO, oltre ad essere casa editrice di letteratura specialistica e di settore, è uno dei centri internazionali propulsori della cultura della buona nascita, per una assistenza ai processi riproduttivi femminili che sia più vicina ai bisogni delle donne, dei bambini e delle famiglie. In questa collaudata realtà culturale nasce il progetto SEAO Rise, con cui la SEAO vuole dare un segnale importante di presenza nella società civile, estendendo i propri principi e promuovendo la cultura del femminile oltre i confini dell’assistenza alla donna. La SEAO ha sempre considerato la salute biologica della donna non scindibile dalla sua salute sociale, dalla tutela dei diritti, dalla conoscenza dei propri specifici strumenti. Con questa precisa visione il tema della nascita è sempre stato affrontato: mettendo la donna al centro e puntando sulle sue risorse. Risorse immense, doni utilizzabili in ogni momento del ciclo di vita della donna. La consapevolezza del sapere biologico del corpo è fondamentale per la salute fisicapsichica-emotiva-sociale delle donne ed è essenziale per un reale e concreto recupero della profonda cultura del femminile. C’è stata un’epoca lontanissima, di cui abbiamo perso la memoria, in cui la vita delle comunità era determinata dal tempo del corpo delle donne. Quando ancora la luce della luna regolava i cicli ovulatori, le donne mestruavano insieme, e insieme si ritiravano nelle tende rosse, allontanandosi dalla comunità. Non perché considerate impure,

come più tardi è accaduto in molte culture, bensì perché rispettate nel bisogno di riposo, cura, condivisione con le sorelle di sangue. In questi tempi remoti il corpo delle donne era considerato sacro perché capace di generare, ma anche perché capace di nutrire i piccoli e di sanguinare ogni mese rinnovandosi e ritrovando nuove forze invece che morire. Dalla semplice osservazione del proprio corpo e delle sue capacità, le nostre antenate crescevano affidandosi ad esso e lasciandosi guidare dalle sue competenze. In un tempo in cui non era ancora stata operata l’innaturale e dannosa opera di scissione, le donne vivevano utilizzando l’intero funzionante sistema corpospirito-emozioni-rete femminile. Sistema che richiede di essere integro per far sì che le donne restino in salute e possano esprimere pienamente le loro potenzialità. Non è casuale che il corpo delle donne sia stato il centro della repressione della cultura patriarcale. Su di esso si è accanita e continua ad accanirsi la coercizione fisica, morale, culturale. Perché allontanare le donne dalle risorse del loro corpo significava mutilarle delle loro capacità e limitarle. La consapevolezza della necessità di riappropriarsi della relazione profonda con il corpo e con i reali strumenti del


Aprile-Maggio 2016

femminile si sta facendo strada in molte donne, che sono in cammino su questo percorso e che nuovamente abitano questo spazio culturale, sociale e biologico. Lo fanno in modi diversi: riportando in vita loro specifica e antica cultura, riscoprendo la rete della sorellanza, ripensando una nuova dialettica per combattere la cultura dello stupro, reclamando i diritti del lavoro, lottando per i diritti umani lungo il percorso della maternità. Si stanno così riappropriando del proprio corpo e delle sue risorse, del suo sapere e del suo valore. Si riappropriano della loro spiritualità. Si riappropriano del loro diritto ad essere ascoltate, tutelate, sostenute. Cuore di questo movimento è il sostegno ad un cambiamento culturale che riguarda tutti, uomini e donne, in un’ottica umanista volta a riconoscere le diversità di genere per unire la società anziché dividerla. In questa ottica nasce il progetto Seao Rise, nuovo settore della Scuola Elementale di Arte Ostetrica dedicato a tutte le donne, nato dal desiderio di promuovere la cultura femminile e sostenerla in tutte le sue forme: partendo dalla conoscenza profonda dei passaggi biologici (menarca, sessualità, mestruazioni, maternità, menopausa), del ruolo bio-sociale delle donne, fino al tema dei diritti umani e di genere. Seao Rise sostiene, promuove e diffonde la cultura del femminile; offre terreno, nutrimento, spazio di incontro e confronto: • cura la rete di solidarietà del femminile e le sue connessioni • sostiene e dà voce ai diritti delle donne • promuove la salute della donna che è inscindibile dalle sue risorse emotive e biologiche • organizza incontri e seminari sui temi centrali nella vita delle donne. Il neonato progetto SEAO Rise è stato presentato il 12 marzo 2016 all’Open Day della SEAO e in tale occasione sono state illustrate le sue prime azioni: — il seminario “Happy Yoni. Viaggio nei doni della sessualità, della ciclicità, della libido: alla scoperta del piacere di essere donne” che si terrà sabato 21 maggio 2016 presso la sede della SEAO a Firenze. Sarà condotto da Anna Maria

Rossetti, ostetrica esperta di cicli femminili, Francesca Rugi, storica dell’arte e vedrà la partecipazione di Bottega della Luna. La una giornata sarà rivolta a tutte le donne e, partendo dal concetto di yoni -“termine che viene dall’ambiente religioso indiano e dal sanscrito che indica l’organo genitale femminile nella sua interezza, nella sua essenza fisica e spirituale” (Elena Skoko) - verrà affrontato in modo inedito il tema dei doni della sessualità. — La collaborazione con il nuovo progetto di Bottega della Luna, realtà storicamente impegnata nella diffusione della salute del femminile, che ha creato “Liberadì”, portale di informazione per le donne. — Il ciclo di incontri “Parole di donne”, che si svolgeranno presso la sede della Scuola a Firenze (aprile/maggio 2016), attività condotta dalla Dott.ssa Patrizia Niddomi, psicologa esperta di comunicazione dei gruppi, e volta a stimolare il confronto su temi comuni e a riattivare la connessione fra le donne quale risorsa. L’intento di Seao Rise, non si ferma alle attività del presente. Nutrendo la cultura di genere intende operare attivamente sulle modificazioni del tessuto sociale, tracciare un futuro. Creare una dialettica fra donne e una dialettica di madri per le figlie per favorire una sana trasmissione di conoscenze e un sano ribaltamento culturale dei tabù che crea le basi per una società consapevole, dove il sapere del femminile non è più un segreto. Radicare un terreno comunicativo che sia strumento di riferimento per i genitori. L’obiettivo è quindi anche a lungo termine, la riappropriazione della cultura del femminile parte dalle donne di oggi e attraverso di loro arriva alle donne di domani, che stanno crescendo e che cresceranno con una percezione nuovamente integra del femminile. b

Informazioni e iscrizioni: www.marsupioscuola.it seaorise@marsupioscuola.it tel. 055/576266

13


14

Aprile-Maggio 2016

EUROPA (in)DIFESA | 1

IL‘CIASCUN PER SÉ’ DELL’UNIONE CHE NON C’È di Tiziana Bartolini

La complessità del fenomeno del terrorismo, i nazionalismi montanti e le leadership deboli. L’Europa arranca e le donne stanno a guardare

L

ucidità e chiarezza continuano ad essere il tratto caratterizzante dell’analisi politica di Emma Bonino, leader radicale di lungo corso e con una solida esperienza internazionale maturata anche come ministra degli Esteri e nel ruolo di Commissaria europea. Le abbiamo chiesto alcune valutazioni sulla difficile situazione che attraversa un’Europa che sembra intrappolata tra terrorismo e nazionalismi, raccogliendo il suo sguardo ampio sul mondo.

A novembre la strage di Parigi e a marzo la carneficina di Bruxelles. Di fronte a tanta violenza l’Europa appare disorientata, sembra incapace di reagire e difendersi con efficacia dal terrorismo jihadista. Ma era davvero un qualcosa di imprevedibile? Siamo sempre presi alla sprovvista. Guardiamo gli Stati Uniti, un paese molto più potente di noi in termini di servizi segreti e apparati militari e pensiamo a come fu preso alla sprovvista dall’attacco alle Torri Gemelle. Siamo di fronte ad un fenomeno molto mutevole, i gruppi sono in una sorta di franchising e passano da al Qaeda a Isis, poi si fanno la guerra tra di loro. Non dimentichiamo mai che non è un fenomeno ‘normale’, come può essere la lotta di un esercito contro un altro esercito. È un qualcosa di difficile comprensione e, aggiungo, la nostra non conoscenza dell’arabo rende tutto più complicato. Anche quando ci sono registrazioni, le traduzioni richiedono tempi biblici. Quindi siamo di fronte ad un fenomeno che non conosciamo e che viene da una regione che conosciamo anche meno, a partire dalla capacità di leggere la stampa locale o di parlare con le popolazioni locali. Le nostre relazioni sono tra stato e stato, e tutte in inglese, cosa che poco ci aiuta a

capire quelle realtà e le mutazioni. Non facciamoci illusioni, non era affatto facile capire quello che stava accadendo e non avevamo gli strumenti di base adeguati: la lingua non è un fatto secondario. Seconda questione: quale Europa... È l’Europa che hanno voluto gli Stati membri e non è l’Europa della sicurezza, è tanto semplice... L’illusione che la politica estera, la politica di difesa e la politica di sicurezza potevano rimanere nazionali è scritta nei Trattati; questa è l’Europa che i paesi hanno voluto. Infatti mi irrita sempre, in occasione degli incontri mensili dei Capi di stato, sentire chi ha voluto avocare a sé alcune competenze prendersela con l’Europa... come se fosse un corpo estraneo. L’Europa è il risultato della ‘saggezza’ - si fa per dire - che i Capi di stato e di governo hanno avuto. La responsabilità non può essere attribuita a qualche burocrate a Bruxelles. Però di fronte alle crisi (dell’economia, dell’immigrazione o quella di cui stiamo parlando) la tendenza è che ognuno faccia da sé. Invece di andare avanti verso l’integrazione - che non è la soluzione o la panacea di tutti i mali ma certo è


Aprile-Maggio 2016

uno strumento importante - ognuno pensa a sé e si tiene il suo esercito, peraltro completamente inutile. Siamo il secondo continente in termini di spese militari e abbiamo 28 eserciti, 28 politiche estere, 28 servizi di sicurezza… che è rimasta, appunto, una competenza nazionale. Alcuni ‘illusi’ come me pensano che bisogna andare avanti sulla strada dell’integrazione, ma l’atmosfera generale è invece di chiudere le frontiere e che ognuno faccia da sé.

Ci sono leader, orientamenti politici e anche stati che vedono nel filo spinato e nei muri la soluzione dell’immigrazione e l’argine al terrorismo… Al Consiglio europeo non ci sono singoli politici, ma Capi di stato e di governo che appartengono a partiti democristiani o socialisti..ma anche loro sono nella scia nazionalista: guardiamo l’Ungheria, la Polonia o l’Austria.

Gli slogan dei nazionalisti arrivano chiari, mentre rimangono flebili le voci di chi propone altre visioni e idee sulla gestione dei pesanti problemi che pongono il terrorismo e le migrazioni. Nessuno vuole parlare di maggiore integrazione europea, proprio non è aria... Se pensiamo che in questa situazione gli inglesi hanno il referendum per uscire, il trend è completamente all’opposto.

Il terrorismo è un fenomeno temporaneo oppure dobbiamo pensarlo come una realtà in qualche modo strutturale alla società contemporanea? Dobbiamo sapere che nel mondo islamico si combattono da sempre guerre tra sunniti e tra sunniti e sciiti. Tutti vogliono il potere politico, ma da una parte - Fratelli musulmani ed altri - c’è chi pensa alla strada elettorale - che non è la strada democratica-, chi invece da sempre pensa all’uso di gruppi più estremisti. Al Qaeda non nasce nel 2001, ma ben prima. È un fenomeno che esiste da un sacco di tempo, non è una novità. Addirittura direi dal 1997, cioè da quando i talebani prendono il potere a Kabul e l’Afghanistan diventa un campo a cielo aperto di formazione dei gruppi terroristi; quando l’ho denunciato nessuno ci ha fatto caso più di tanto. Quindi il terrorismo non è un fenomeno nuovo ma un fenomeno molto, molto complesso che non è stato visto per molti anni e rispetto al quale siamo impreparati. La cosa peggiore è che invece di darci gli strumenti per riuscire a governarlo almeno un po’, stiamo andando nella deriva opposta.

Questo accentua ancora di più il senso di insicurezza… E la leadership politica in generale non spinge verso l’integrazione, ma verso il nazionalismo. L’Italia non è un pa-

ese con un forte senso nazionalista, ma anche grazie a ‘stravaganze’ di politici come Salvini si muove in questa direzione… dovremmo riflettere un po’.

Pensa che le donne e le lotte per il riconoscimento dei loro diritti possano portare un contributo positivo in questo difficile contesto? Al di là dei nostri stereotipi, le donne che io conosco e frequento del mondo arabo, islamico e africano mi sembrano, sono, molto più vivaci e attive delle donne nel nostro paese. Ci sono cose su cui potremmo attivarci subito... Per esempio abbiamo un problema di immigrate vittime di tratta che riguarda le nigeriane e che è ben documentata con dati, ma non mi sembra di vedere in Europa un’attenzione particolare. I dati sono allarmanti: erano circa 19mila l’anno scorso e arrivano tutte praticamente dalla stessa zona della Nigeria, dove c’è un problema con tutta evidenza. Penso anche all’alto numero di minori non accompagnati, ma non vedo una particolare attenzione del mondo femminile in Italia e quando vado in giro a parlare di questi temi sono sempre sola.

E a proposito di andare in giro, a marzo ha partecipato a New York alla Commissione sulla condizione delle donne (CSW60). Quali impressioni ci riporta? Ho ricevuto da parte di alcuni gruppi richieste di sostegno sulle battaglie che fanno a casa loro, magari non contro il terrorismo, ma sulle mutilazioni genitali femminili o sui matrimoni forzati. È diventato più facile scrivere una dichiarazione o una risoluzione sui diritti delle donne, ma la loro difficoltà è essere efficaci in loco o trovare sostegni.

Quali sono le priorità che le donne italiane dovrebbero darsi? Ci vogliamo occupare delle donne immigrate nel nostro paese? A parte poche e coraggiosissime organizzazioni che si occupano dei migranti, non vedo altro. Molto si potrebbe fare: si può premere per cambiare la legge sulla cittadinanza, per cambiare la legge sulla clandestinità, si può premere per avere finalmente una legge sul diritto d’asilo. Vedo poco interesse, non c’è una mobilitazione e l’attenzione è solo di gruppi sparuti ed eroici.

Perché il Parlamento con il più alto numero di donne e il più giovane dal dopoguerra non riesce a mostrare una particolare sensibilità e ad essere dinamico su questo fronte? Non lo so… penso vada chiesto alle parlamentari. Abbiamo visto recentemente un dibattito patetico sui matrimoni civili, sulla gravidanza in affitto. Che pena…◆

15


16

Aprile-Maggio 2016

EUROPA (in)DIFESA | 2

ILLUSORIO POTERE DELLE BARRIERE di Emanuela Irace

Sono una cinquantina le trincee o le fortificazioni erette nel mondo per separare gruppi di diversa etnia e credo religioso, o per far fronte all’ondata migratoria che tanto preoccupa l’Ue “Le fortezze sono generalmente molto più dannose che utili”

U

Niccolò Machiavelli

n elegante grattacielo con terrazze a raggiera. I balconi ampi con piscina privata e piante ornamentali fuoriescono dalla struttura disegnando un’elica simile al DNA. In basso campi da tennis e strutture sportive immerse nel verde. A delimitare quest’angolo di bellezza abitativa sospesa corre un muro che globalmente copre 11 km della città. Dall’altra parte una delle tante favelas brasiliane con baracche ammonticchiate l’una all’altra e fogne a cielo aperto. Il contrasto è feroce ed eloquente come solo una fotografia riesce a dare. L’immagine è di Rio del Janeiro ma potrebbe essere scattata anche altrove. Dappertutto nel mondo la separazione tra ricchi e poveri può venire marcata da barriere in cemento e filo spinato. Ovunque la disperazione economica può essere insopportabile e pericolosa da guardare tanto è diventata estranea e non assimilabile. Come a Lima, la capitale del Perù, nel quartiere di San Juan de Miraflores: 10 km di recinzione per allontanare gli ultimi nella scala sociale da chi vi sta in cima, rendendo assurda e complicata la vita soprattutto alle donne, costrette a percorrere molta più strada per procurarsi acqua e farina. Sono una cinquantina le trincee o le fortificazioni erette nel mondo per separare gruppi di diversa etnia e credo religioso, o per far fronte all’ondata migratoria che tanto preoccupa l’Ue. Dalla frontiera Usa-Messico a quella tra In-

dia e Pakistan. Dalla divisione di Cipro e Corea alle nuove barriere in Ungheria e Bulgaria. In Arabia Saudita le fortificazioni nel deserto mirano a tener lontane le popolazioni shiite con strutture in cemento alte più di tre metri ai confine con lo Yemen. In Marocco e nord Africa migliaia di km di deserto vengono scavati per creare trincee e rendere impossibile l’attraversamento agli automezzi di terroristi e contrabbandieri. Ai confini con la Libia crescono ormai quotidianamente le fortificazioni per contrastare la marcia delle pattuglie jihadiste verso il nord del Maghreb. E poi ci sono i muri politici voluti dai Governi in ambito neo-coloniale, recinzioni che blindano letteralmente la vita a intere generazioni, come i palestinesi in Cisgiordania e a Gaza, come i Sahrawi, “gated communities”. Popoli senza Stato, segregati e ridotti a sopravvivere con aiuti umanitari in prigioni a cielo aperto per decisione unilaterale del Governo di Israele o del Re del Marocco. Ancora una volta sono le donne le principali vittime nei regimi di apartheid. Donne che subiscono doppiamente la violenza dello Stato e della famiglia. “A Gaza sono le prime vittime del disagio sociale, preda di violenze e abusi che quando non uccidono ammalano” - spiega un responsabile della Croce Rossa -. Sono il bersaglio della frustrazione di mariti e familiari, uomini che non lavorano e che passano la giornata in cattività come bestie”. Tra le popolazioni arabo berbere del Sahara Occidentale le donne sono le più perseguitate da esercito e polizia. I rapimenti sono all’ordine del giorno. Chi riesce a fuggire dopo anni di torture nelle prigioni segrete scavate nel deserto, diventa attivista politica. Testimone dell’orrore, come le protagoniste del documentario patrocinato da Amnesty International: “Solo per farti sapere che sono viva”. Costruito a metà degli anni ’80 dal Governo marocchino per mantenere il controllo su un territorio strategico ricco di miniere di fosfati, il muro del Sahara Occidentale è tra i più lunghi del mondo. Oltre 2700 km di filo spinato, bunker, fossati e campi minati. Emblema dell’architettura dell’occupazione e simbolo della vergogna in epoca di post-nazionalismo. Migliaia di cittadelle all’apparenza impenetrabili vorrebbero ingenuamente realizzare quell’eterno bisogno di sicurezza che lo Stato non potrà mai soddisfare. Eppure, come scrive Bauman, è da ambienti etnicamente o socialmente omogenei che si smette di imparare a vivere: “Più a lungo le persone rimangono in un ambiente uniforme (…) più perdono quello sforzo di capire, di negoziare, di trovare un compromesso che impone il vivere tra e con le differenze”. ◆


Aprile-Maggio 2016

EUROPA (in)DiFESA | 3

“nO MURi, nO RECinTi” apriamo i confini aLLe persone in cerca di asiLo

S

ta emergendo in Europa uno spietato cuore di tenebra. Di fronte al perdurare delle tragiche morti nel Mediterraneo, e alla terribile condizione di migliaia di richiedenti asilo davanti alle frontiere chiuse e ai fili spinati, c’è chi in nome dell’Europa pronuncia parole orribili intrise di razzismo e di crudele indifferenza. Sbarrare le porte dell’Europa a migliaia di persone in pericolo significa nei fatti spingerle alla disperazione e condannarle a morte, com’è accaduto alla frontiera macedone dove tre giovani, tra cui una donna, sono stati travolti dai gorghi del fiume Suva Reka nel tentativo di passare a nuoto il confine.

Come Rete femminista “No muri, no recinti” abbiamo lanciato un appello per chiedere un altro genere di politiche europee sull’immigrazione che ha raccolto numerose adesioni di gruppi e associazioni di donne in Italia, in Spagna e in Grecia. Nuove adesioni da altri paesi europei stanno arrivando. Intanto continua la splendida solidarietà di tante persone comuni, e il lavoro eroico della gente di mare che salva ogni giorno quante più vite possibile a Idomeni, in Macedonia, a Lampedusa…Ma non basta. Dobbiamo far sentire la voce di tante donne che dicono “Apriamo le porte dell’Europa, apriamo i cuori, apriamo i confini”. Abbiamo bisogno che le voci di tante donne autorevoli e di tante donne singole si uniscano a noi per sostenere la richiesta di accogliere le persone migranti con dignità, umanità e sicurezza, sottraendole alla violenza e allo sfruttamento degli scafisti e dei passeur. Una decisione urgente e necessaria, per la loro salvezza ma anche per la nostra, se non vogliamo farci inghiottire pure noi da quel terribile buio.

Ecco quindi perché ti mandiamo questa lettera aperta e perché abbiamo deciso di lanciare anche una petizione su Change.org. Vogliamo raccogliere quanta più forza possibile, quante più voci possibili attorno a una proposta molto concreta:l’Europa smetta di finanziare la Turchia dove non si rispettano i diritti umani, e usi quei soldi per salvare le persone in fuga dalla morte in mare, organizzando viaggi sicuri e un’accoglienza degna sul suolo europeo. A te, cara amica nota o sconosciuta, chiediamo di firmare l’appello e la petizione, ringraziandoti di cuore. ◆ Rete Femminista “No muri, no recinti” info: nomurinorecinti@gmail.com www.facebook.com/Rete-femminista-No-muri-no-recinti-895889287177047/

17


18

Aprile-Maggio 2016

EUROPA (in)DIFESA | 4

IL VECCHIO CONTINENTE VISTO CON GLI OCCHI DELLE MIGRANTI

non a caso, interessante. E pur nella stringatezza dell’esposizione, anche perché l’italiano di molte non è fluente, conferma tante delle idee e riflessioni che l’informazione ci presenta ogni giorno. Le dieci donne presenti - provenienti da Italia, Nigeria, Bangladesh, Libia, Etiopia, Alba-

di Paola Ortensi

L’Italia è il paese dell’accoglienza ma che non riesce a dare lavoro. Alcune migranti raccontano l’Europa che sognano e sperano di trovare

I

l luogo dove la chiacchierata nasce, quasi per caso, è uno spazio tranquillo, piacevole, nel cuore della Capitale. Un gruppetto di donne sono ospiti di un’associazione che a Roma si occupa di intercultura e che, fra le diverse iniziative, organizza laboratori dove si imparano attività interessanti e utili. Un luogo in cui si trascorre anche del tempo, conoscendosi e scambiando parole ed esperienze che trovano radici comuni in culture anche molto diverse e geograficamente lontane. Un luogo in cui si tessono rapporti che guardano oltre il quotidiano, quel quotidiano che pur ci tiene insieme e tocca tutti e tutte. Oggi si lavora all’uncinetto, mentre qualcuna ricama, realizzando piccoli manufatti utili: scialli e sciarpe, retine per la spesa e porta oggetti, presine, borsette, centrini e tovagliette e tanto d’altro suggerito dalla fantasia. Alimentato da quegli spunti che nascono improvvisi, magari dettati dalle ultime notizie ascoltate, l’argomento che prende piede sembra troppo impegnativo, eppure è così intrecciato alla vita di tutte le donne presenti da risultare,

nia - mettono insieme diversi luoghi di nascita e raccontano tanti percorsi di vita. Si può comprendere perché le idee che si intrecciano risultino più che interessanti. Sono donne arrivate in Italia da non meno di quattro o cinque anni - una di loro addirittura da venti anni - e hanno raggiunto il nostro paese per le ragioni più diverse, compresa l’Università, la guerra o il ricongiungimento familiare. Seppure, in alcune, con la confusione di chi lascia il proprio paese spinto da necessità, si può dire che l’idea che l’Italia fosse anche Europa è confermata praticamente da tutte, insieme al pensare di poter poi ripartire anche da qui per raggiungere altri stati, sempre con l’obiettivo di trovare lavoro. E qui si sottolinea il primo nodo, quello ritenuto il più importante e che le accomuna tutte: il lavoro. Il lavoro è il problema, riconosciuto come il traguardo per vivere con dignità per chi ha scelto l’Italia dopo averci studiato e poi per dare un senso alla fuga dal paese in cui si viveva, lasciato sempre con dolore e spesso per le violenze che lo attraversavano; paese lasciato anche abbandonando attività avviate e di successo, come per esempio un negozio o un ristorante. Qualcuna racconta che, non trovando lavoro con tutta la famiglia, dall’Italia ha tentato il passaggio in un altro paese nel Nord Europa, fino in Finlandia. E poi la speranza di insediarsi in Ger-


Aprile-Maggio 2016

mania, perché lì il lavoro c’è ma, secondo le regole, sono molti quelli rispediti in Italia in quanto paese di arrivo. L’Italia, dice qualcuna, rappresenta il paese che dal mare salva tutte e tutti quelli che può, ma il lavoro che ci avevano raccontato che avremmo trovato bisogna andare altrove per averlo, qui troviamo forse più solidarietà, ma il lavoro no! La Germania ritorna nei discorsi e qualcuna dice che, però, li sono selettivi; ultimamente hanno fatto entrare solo quelli che vengono dalla guerra della Siria e i più preparati. Parlando di Germania affiora un’idea della Cancelliera Merkel come “amica” degli emigrati ma che non può tutto. Sull’Europa, e su alcuni dei paesi che la compongono, cadono anche forti critiche. Aver ucciso Gheddafi, sottolinea qualcuna, ha scatenato la guerra e ha provocato la fuga dal terrore, perché lui “dava un ordine” all’Africa e lavoro a tanti. Tornando all’Europa, chi in Italia è venuta per studiare e vi è rimasta, non avendolo programmato, per amore, ricorda il sogno europeo che nacque a Ventotene da un gruppo di giovani che immaginavano un’unione basata sulla convivenza, costruita poi gradualmente di riforma in riforma. E a lei fa eco chi ricorda, fra le italiane presenti, che tanto più in questo momento di attacco all’Europa bisogna ricostruire ideali e pensare ad un insieme di stati, uniti politicamente più che economicamente, impegnati a tornare allo spirito originario. Un’Europa di tutti che risponda al sogno che molti hanno immaginato raggiungendola, ma che non si realizza, viene sottolineato, se l’Unione Europea non risolve i suoi problemi. Chi lo dice era diretta in Canada ma si è fermata qui, diversi anni fa, “in questo paese così bello e che mi ha accolta”. E ragionando sull’oggi, ancora una considerazione che si aggiunge pensando agli emigrati dei nostri giorni, all’accordo recente che li vede in tanti “gestiti” dalla Turchia e ai quali, dice qualcuna, “l’Europa risponde male”. E parlando ancora di migranti, un altro argomento si fa strada: fino a che troppi stati, anche d’Europa, si appropriano delle materie prime e delle risorse dei paesi più poveri, la gente lascerà sempre la propria terra cercando riparo altrove. Concetti e parole, quelle riportate, che nella loro semplicità d’espressione rispecchiano il sentire di tante e tanti e a cui bisogna dare udienza come non mai in un momento in cui l’Europa è sotto attacco e, per farcela, deve stringersi, abbracciando interessi comuni. ◆ Ringraziamo Ametula, Deby, Edith, Fafour, Farida, M.Teresa, Morsina, Paola, Shammi,Taio per aver condiviso con noi, e con le lettrici di NOIDONNE, i loro pensieri.

19

IL MITO DI EUROPA Questa è la storia del mito, che affonda le radici nelle vicende degli dei dell’antica Grecia, della giovane principessa da cui viene il nome alla “nostra” Europa; e più specificatamente le avventure in cui la coinvolse Zeus, il re degli dei, chiamato poi Giove dai Latini. Europa è figlia di Agenore, re di Tiro, città Fenicia situata in quella terra che oggi chiamiamo Libano. Era una ragazza bellissima e di lei si invaghì Zeus, che approfittando dell’abitudine della giovane di passeggiare e giocare con le ancelle sulle rive del mare, trasformatosi in un possente toro bianco, si mescolò nella mandria del Re portata al pascolo nelle vicinanze delle fanciulle. Tale era la bellezza della bestia e la sua mansuetudine, come narrò Ovidio nelle Metamorfosi, che Europa ne rimase affascinata e lo carezzò e vezzeggiò mettendo fra le sue corna una ghirlanda di fiori. Volle provare a cavalcarlo e fu allora che il toro, alzatosi, iniziò a volare e attraversò il mare fino ad arrivare all’isola di Creta. Lì, in un boschetto di platani, “fece sua” Europa, la quale, per ringraziare i platani dell’accoglienza, concesse loro di non perdere mai le foglie. Da quell’unione nacquero tre figli: Sarpedone, Radamanto e Minosse, ed Europa divenne regina di Creta in quanto Zeus la affidò ad Asterio, re dell’isola, che riconobbe anche i figli come suoi. Sarà poi Minosse a divenire erede al trono e il suo regno fu a sua volta origine di miti e leggende, fra cui la più nota è quella del Minotauro. Europa ebbe da Zeus anche tre doni, su cui diverse e plurime risultano le ipotesi di cosa simboleggino: Talos (l’uomo di bronzo), Laelaps (il cane guardiano) e un giavellotto che, scagliato, centrava sempre l’obiettivo. In modo vario, e con più versioni e interpretazioni nei secoli, all’immagine del toro e delle sue possenti corna è collegato lo spicchio della luna. Alla luna in qualche modo si congiunge anche la figura di Europa, che secondo alcune interpretazioni della parola stessa avrebbe il significato di “quella dal grande occhio”, ovvero ancora una volta la luna. Certo è che poi il toro, quasi a firmarne la divinità, fu identificato in una costellazione celeste che ancora possiamo osservare fra le stelle. Tante le spiegazioni e le teorie che spiegano perché Europa divenne il nome del nostro continente, ma tutte richiamano il legame profondo fra le civiltà greca e romana che in modi diversi arrivarono a segnare, alle origini, la storia del nostro continente. Si calcola che siano circa 200 le raffigurazioni del mito di Europa e una di queste, in un mosaico di Sparta risalente al III secolo dopo Cristo è, non a caso, rappresentata nella moneta da 2 Euro della Grecia. Infinite, come è immaginabile e come potrà scoprire chi avrà voglia di approfondire la ricerca, le considerazioni, storie e interpretazioni di un mito che ha alla base una donna, il potere, la divinità, la bellezza, il cielo e tanto d’altro. Per molte/i di noi un’aspirazione su tutte: che l’Europa, pur con tutte le critiche e le modifiche necessarie alle sue politiche, consolidi la sua unità come luogo di pace e civiltà. Paola Ortensi


20

Aprile-Maggio 2016

LA FORZA DELLA RETE PER UN’AGRICOLTURA DI QUALITÀ di Tiziana Bartolini

Le idee e la passione delle donne per un’imprenditoria che punta sull’innovazione e sull’educazione del consumatore. La storia e l’esperienza di Michela Brogliato, presidente Donne in Campo Veneto

I

l cammino della sua vita adulta sembrava tracciato: una laurea in giurisprudenza e l’esercizio della professione di avvocata dietro l’angolo. Ma poi qualcosa è cambiato e quella giovane ha visto un’altra possibilità che ha voluto sperimentare. Era il 2008 e Michela Brogliato, a 28 anni, dopo la morte del nonno ha deciso di prendere le redini dell’azienda agricola vicino Vicenza. “Abbiamo ristrutturato la casa di famiglia e avviato l’agriturismo. Abbiamo puntato sulla naturalità e sulla tipicità cercando di tradurre in pratica l’idea di sostenibilità attraverso impianti fotovoltaici, con il riscaldamento a pavimento e a legna”. In sostanza Michela ha cambiato l’impronta dell’azienda, che era prevalentemente seminativa, e in buona parte si è riconvertita in ortofrutticola (www.agriturismovillacorona.com). “Abbiamo aperto un punto vendita per la commercializzazione diretta dei nostri prodotti scegliendo come punto di forza la qualità e la stagionalità”. Ma l’idea, da subito, è stata quella di vendere, insieme alle mele, una filosofia di vita. “Il concetto è cercare di mantenere intatta la vera essenza della natura e la naturalità dei prodotti, di evitare forzature. L’innovazione è stata indispensabile per ridare slancio all’azienda. Non è facile combinare tradizione e innovazione, ma è possibile, e sono due aspetti fondamentali per guardare al futuro…”. Michela Brogliato, è da poco presidente Donne in Campo regionale del Veneto e a giugno diventerà mamma per la seconda volta, è alla guida di un’azienda a conduzione famigliare che ha saputo cogliere le possibilità offerte dalla multifunzionalità in agricoltura. “Abbiamo iniziato con l’agriturismo e la vendita diretta, siamo attenti all’accoglienza dei visitatori: li informiamo sul nostro lavoro, diamo loro la possibilità anche di raccogliere direttamente i prodotti e cerchiamo anche in agriturismo di

mettere sul piatto oltre che la stagionalità e la tipicità anche la nostra storia, riproducendo e rivisitando le ricette di una volta. Pian piano avvieremo altre attività: è un impegno di medio termine e un obiettivo in cui crediamo anche perché constatiamo giorno per giorno che le persone capiscono la differenza che passa tra i prodotti che si trovano nei supermercati e i nostri. Sempre di più è apprezzata e ricercata la qualità e la naturalità di quello che si mette in tavola”. Ma chi sono i consumatori più attenti? “Senza dubbio sono di ceto e cultura medio-alta, sono molto attenti alla salute e sono disposti anche a pagare di più, comprendono benissimo che con i prodotti più commerciali noi non possiamo metterci in competizione sui prezzi ma sanno anche apprezzare la diversa qualità e sanno valutare che la salute ne ha giovamento. Chi non ha possibilità economiche non è ancora entrato in


Aprile-Maggio 2016

questa logica, guarda soprattutto al risparmio anche se va a discapito della salute”. L’impegno per un cambiamento prima di tutto culturale Michela lo ha sostenuto a partire dai suoi genitori, che “si aspettavano un futuro diverso per la loro figlia, nella consapevolezza che la terra comporta molti sacrifici”, infatti, non a caso, hanno lasciato la conduzione dei terreni prevalentemente ai terzisti. E adesso? “Adesso sono soddisfatti e sono anche orgogliosi di vedere come sta crescendo l’azienda”. L’entusiasmo di Michela ha coinvolto in questo cammino anche il suo compagno di vita, Alberto, che l’ha seguita lasciando il precedente lavoro e inserendosi perfettamente nella gestione. Ma qual è l’attrazione ‘fatale’ per la terra che prova una giovane, oggi, e che la porta a scegliere l’agricoltura? “La passione, l’amore, un diverso approccio alla vita. Vedo le mie amiche che fanno le avvocate e con le quali sono rimasta in contatto. Capisco che mi manca qualcosa ma sono consapevole che ho molto altro, per esempio un rapporto diverso con i miei figli e un diverso modo di vivere e concepire la vita. Del resto è qualcosa che hai dentro e che non ha una spiegazione razionale, già mentre facevo l’università pensavo di organizzare un posto tutto mio. La vita all’aria aperta ti da una libertà incredibile, essere svincolata da orari è meraviglioso e capisci che gli altri sono più frustrati. Questo non significa che sia tutto perfetto e nella gestione quotidiana, da imprenditrice, la lista dei problemi è infinita e il tempo libero davvero pochissimo”. Quali sono le questioni che pesano di più? “La burocrazia è uno scoglio importante, se non hai un supporto e un aiuto è dura. Un giorno a settimana va via tra carte e incombenze amministrative e il lunedì, che sarebbe il mio giorno di libertà, lo devo impiegare per questi aspetti. Poi, certo, non bisogna avere paura di fare sacrifici: non ci sono orari, non hai ferie, gli animali hanno bisogno di esse-

re accuditi tutti i giorni… ma gli aspetti positivi sono maggiori rispetto a quelli negativi. Però bisogna essere obiettivi e va detto che, se non hai una famiglia alle spalle, è difficile farcela iniziando da zero e per chi non ha una tradizione e anche terre di proprietà è quasi impossibile. Lo stato dovrebbe aiutare i e le giovani”. Ecco, venendo all’aspetto delle politiche, chiediamo a Michela rispetto al suo ruolo di presidente del Veneto di Donne in Campo. “L’associazione è un supporto importante per farci crescere come imprenditrici. È decisivo per essere pienamente nel solco dell’innovazione sentendoci parte di un gruppo. Penso al ‘baratto dei saperi’, programma ideato come scambio che ci porta in aziende forti in un particolare settore: vediamo come funziona e osserviamo le criticità; in questo modo possiamo valutare se e come quell’esperienza è attuabile nella nostra realtà. In questo modo è possibile evitare errori o sbagliare investimenti, è un crescere insieme prendendo forza l’una dall’altra sia come imprese che come persone. Ci sentiamo molto coinvolte in un progetto nazionale, di cui stiamo discutendo a livello governativo, che offre opportunità e riparo nelle aziende agricole alle donne vittime di violenza. L’altro aspetto che rende Donne in Campo parte importante del nostro lavoro è quello di compensare lo svantaggio che deriva dalle nostre dimensioni piccole o piccolissime. Una recente conferenza sulla rete di impresa è stata occasione per stringere maggiori legami in un’ottica strategica al fine di aumentare per ciascuna di noi la possibilità di raggiungere nuovi mercati. I nostri sono spesso prodotti di nicchia e si fa fatica a farli conoscere; la rete sarebbe un punto di forza importante che consentirebbe di aumentare le esportazioni e le vendite. Una piccola azienda da sola non può farcela, anche perché il mercato è spietato e solo insieme riusciamo ad essere più concorrenziali e a far capire la differenza tra i prodotti di qualità e quelli industriali. Sappiamo che tutto il lavoro di educazione ai consumi e di apprezzamento della qualità è indispensabile per favorire un approccio nuovo verso gli alimenti. In questo senso è importante il lavoro di chi va nelle scuole e insegna a fare l’orto, è un modo diretto per sensibilizzare ed educare”. E le donne di Donne in Campo? “Sono un traino decisivo per il settore: hanno capito prima degli uomini quali strade andavano percorse e stanno lavorando con grande passione. In fondo è proprio la passione a fare la differenza: le donne ci mettono il cuore ed è il valore aggiunto su cui puntare. Le donne e i giovani sono l’investimento per il futuro”. ❂

21


22

Aprile-Maggio 2016

MODA DA SOGNO A REALTÀ di Cristina Melchiorri

Un evento-spettacolo di moda, musica e cibo ecuadoriano del Consolato dell’Ecuador al SIAM di Milano

T

utto è cominciato con un progetto di riscatto sociale rivolto a donne fragili fortemente voluto dalla Console dell’Ecuador a Milano, Narcisa Soria Valencia, da sempre impegnata nel sostegno della popolazione ecuadoriana all’estero, soprattutto delle donne. Tema dell’evento-spettacolo, che si è tenuto l’otto marzo e voluto dal Consolato dell’Ecuador al SIAM di Milano, è stata la sfilata di moda delle stiliste ecuadoriane Rosario Jumbo e Mariana Veintimilla Casillas del gruppo “Da donne vulnerabili a donne imprenditrici”, che anch’io ho supportato con un percorso di valorizzazione delle loro risorse personali e professionali. Le modelle, professioniste e alcune scelte fra le stesse donne del progetto, erano truccate sapientemente dallo staff di Backstage Academy. L’architetta Pierina Correa ha illustrato le politiche del governo ecuadoriano a sostegno delle donne e si è esibita come cantante in una travolgente performance. Giulio Gallera, Assessore regionale alle Pari Opportunità e all’Inclusione Sociale e Patrizia Bisio, dell’assessorato Moda e Design del Comune di Milano, hanno portato il saluto delle istituzioni. Abbiamo chiesto a Rosario Jumbo ‘chi è Rosario’? Sono prima di tutto una donna, una mamma, anche una nonna. E sono una persona che ama l’arte! Perché sei qui? Il mio sogno era venire a Milano, nella citta della moda! E nel 2000 sono venuta come turista. Mi è piaciuto tutto, la gente, l’ambiente e mia cugina dell’Ecuador poteva ospitarmi. Così ho deciso di restare! Come è stato l’impatto con Milano? Quando sono arrivata non sapevo l’italiano e ho cominciato

a fare la baby sitter. Mi piaceva, perché era come essere a casa, in famiglia. Ho provato a fare corsi all’Accademia della Moda, ma tutti mi dicevano ‘non hai bisogno di fare corsi, sei già capace…’. Quindi per tutte le persone che conoscevo cucivo i vestiti, dalle cose più semplici a quelle più eleganti. La signora per la quale lavoravo un giorno mi ha chiesto: ‘qual è il tuo hobby?’ Io ho risposto: ‘cucire!’ e lei mi ha regalato una macchina per cucire…. Poi cosa è successo? La signora Console ha organizzato un gruppo di donne leader. Mi sono detta, bello! Chissà cosa significa…Mi interessa.. Nel gruppo sono poi arrivate alcune donne maltrattate, alle quali avevano portato via i figli. Sono entrata in crisi, pensando che avrei dovuto lasciare il posto a chi aveva più bisogno di me di un supporto. Ma il posto per me nel progetto c’è stato, potevo insegnare a cucire ad altre ragazze! Come ti sei ispirata? Vedo una donna e immagino con quale vestito potrebbe stare bene…La donna che lotta la vestirei di leopardo… La donna creativa la vestirei con i colori. Il nero è perfetto per la donna elegante e classica. Se tu dovessi dare un consiglio ad altre donne che vogliono seguire la tua strada? Direi studia tanto… Come l’artista prepara la tela per il quadro, sceglie i colori e si lascia ispirare, anche tu puoi farcela! Se hai un sogno non perderlo mai, anche se non va bene subito… E se una ragazza ha bisogno di un aiuto io ci sono!


STRATEGIE

PRIVATE Abbiamo chiesto a Mariana Ventimiglia ‘chi è Mariana’? Sono nata a La Tacunga in Ecuador, sono la sesta di dodici figli. E in Ecuador mi sono diplomata come maestra in taglio e cucito ed ho avviato una micro impresa. Nel 1999, la crisi economica in Ecuador mi ha portato ad emigrare lasciando l’impresa che avevo aperto e due figli. Quando sono arrivata all’aeroporto di Linate avevo paura di essere rimandata in Ecuador insieme alla mia valigia piena di debiti ma con un sogno, quello di potermi realizzare anche in Italia come imprenditrice. Appena atterrata all’aeroporto è stato un shock! Sono stata sottoposta ad una perquisizione da parte dell’ufficio immigrazione. Ho sentito i due addetti dell’ufficio immigrazione, parlando tra di loro, dire ‘lasciala andare intanto finirà sulla strada come tante’. Invece ce l’ho fatta! Ho trovato una sistemazione presso una conoscente che aveva un bilocale dove vivevano altre otto persone che non conoscevo. Mi mancava l’aria! Poi ho trovato lavoro presso la sartoria Tincati. Da quel momento per me è iniziata una nuova esperienza di vita e di lavoro nella moda.

Dalla collaborazione con questo imprenditore sono nate tante opportunità, fino ad aprire tre punti vendita di abiti su misura di alta moda, finché è arrivata la mia terza figlia Elisabetta. Ho Lavorato duramente, anche come domestica il sabato e la domenica. Grazie a questi lavori, dopo sei mesi mi sono potuta comprare una macchina per cucire manuale, per poter preparare la mia prima collezione in Italia, per lo stilista ComEsthor che aveva uno Showroom in Duomo. Ho potuto realizzare la mia prima collezione grazie ad un luogo ricavato da uno scantinato che mi ha messo a disposizione una mia conoscente di nome Angela, per me è stata una grande soddisfazione professionale. Ho visto realizzare il mio sogno! Se dovessi definire con una parola le tue collezioni cosa diresti? Che sono “speciali” e un po’ di lusso . Se dovessi dare un consiglio ad altre donne che vogliono seguire la tua strada? Direi: grandi soddisfazioni e grandi sacrifici! Ma la passione e l’amore per ciò che fai i sacrifici non te li fa pesare. ❂

Aprile-Maggio 2016

di Cristina Melchiorri

“STAY HUNGRY, STAY FOOLISH” Sono J. una ragazza di venticinque anni dell’Ecuador, immigrata in Italia a causa di violenza domestica. Sto cercando di capire cosa posso fare qui, quale lavoro per realizzarmi. Al momento sto facendo la baby sitter e la domestica, ma la mia passione è l’arte. Sono molto triste nel pensare che dovrò rinunciare a disegnare, perché non credo che la mia passione mi darà da vivere… (J.S. Milano) Cara J., difficile oggi trovare la propria strada, anche per i giovani e le giovani del nostro paese. Difficile ma non impossibile. Come disse Steve Job ai laureandi di Stanford: “Stay hungry, stay foolish”. Di solito è tradotto: “Siate affamati, siate folli”. In realtà nel messaggio c’è molto di più. È un invito a mantenere nel corso di tutta la propria vita la voglia di imparare, la curiosità, l’ambizione, il coraggio di fare scelte non condivise dagli altri e di seguire le proprie passioni. Lo stesso Steve Job interruppe i corsi regolari del college, non trovando stimoli sufficienti. Frequentò, per pura curiosità, un corso di calligrafia, e lì trovò la storia, l’arte, la bellezza. Qualcosa che sembrava inutile nel suo lavoro tecnico. Ma, grazie a questo stimolo, quando dieci anni dopo progettò il Macintosh, lo fece dotandolo di capacità grafiche evolute. Non rinunciare a ciò che ami! Ami l’arte? Perché non cerchi in quella direzione? Ad esempio, questa tua capacità artistica può incontrare il lavoro delle stiliste dell’Ecuador che lavorano a Milano e che potrebbero utilizzare le tue dote nel design e nelle decorazioni dei loro abiti da cerimonia. Disse ancora Steve Job: “credere che alla fine tutti i puntini si uniranno ci darà la fiducia necessaria per seguire il nostro cuore, anche quando questo ci porterà lontano dalle scelte più sicure e scontate, e farà la differenza nella nostra vita”. C’è da credergli. Apple, nata da un’idea di due ragazzini in un garage, è diventata un impero da 2 miliardi di dollari e 4.000 dipendenti.

23


24

Aprile-Maggio 2016

QUANDO IL WELFARE LO FANNO LE AZIENDE di Giovanna Badalassi

Si parla molto in questi ultimi anni di welfare aziendale e dell’impegno delle aziende nel favorire la conciliazione e il benessere dei lavoratori, nonché del ruolo che queste dovrebbero assumere in futuro anche per compensare le carenze crescenti dello Stato. Ma perché le aziende dovrebbero farlo? Quale interesse avrebbero? I dati ci dicono che in effetti conviene, in termini economici e non solo. Ci vuole però una classe dirigente lungimirante e una cultura d’impresa particolarmente illuminata. Dati i tempi, un’utopia? Ci piace pensare di no

N

el dibattito pubblico su lavoro, famiglia e conciliazione, si sta discutendo molto sul ruolo dello Stato nel welfare, sulla progressiva riduzione delle risorse dedicate, e sul tentativo di sviluppare maggiormente il welfare secondario o di secondo livello, cioè quello che coinvolti anche altri attori quali ad esempio il terzo settore e, soprattutto, le aziende. Le possibilità di sviluppo del welfare aziendale devono purtroppo fare i conti con la realtà italiana: il nanismo delle nostre aziende rappresenta un ostacolo insormontabile per l’adozione di servizi che richiedono ben altre economie di scala: basti ricordare che il 52,5 per cento dei lavoratori/ trici in Italia è impiegato in aziende con meno di 50 dipendenti (Istat). Ad ogni modo in questi anni il welfare aziendale sta co-

noscendo un crescente interesse anche grazie ad un miglioramento della cultura di responsabilità sociale delle aziende, che rappresenta una condizione di partenza indispensabile. Per comprendere bene la portata di questa tendenza è sempre bene riflettere sui numeri. Quante sono in Italia le aziende che fanno iniziative di welfare aziendale? Una rilevazione dell’Istat ha messo in evidenza che il 37 per cento delle aziende in Italia adotta strumenti dedicati alla flessibilizzazione dell’orario di lavoro per favorire la conciliazione dei/delle dipendenti, mentre il 17,5 per cento delle aziende offre servizi per gli asili nido, servizi sociali, di assistenza, ricreativi e di sostegno. Indagando sulle aziende che hanno adottato tali servizi, si vede chiaramente che il settore maggiormente attivo nella conciliazione vita-lavoro è quello dei servizi, seguito dalla manifattura e, buon ultimo, il commercio. Nel caso dei servizi, addirittura la metà delle aziende (50,5 per cento) adotta strumenti di flessibilizzazione del lavoro, e il 30,7 per cento è impegnata nell’offrire servizi per la conciliazione. La sensibilità delle aziende verso la responsabilità sociale e il welfare aziendale è quindi spesso stimolata dal tipo di attività che queste conducono. La tipologia di aziende più attive vede infatti maggiormente interessate quelle grandi, le aziende nel settore dei servizi ad elevato tasso di femminilizzazione, le aziende nel settore dei servizi ad elevato contenuto tecnologico, le aziende manifatturiere ad elevato tasso di femminilizzazione, le aziende attive nei servizi di cura alla persona, le aziende con particolari criticità stressogene per i dipendenti, Tra i fattori che le invogliano ad intervenire su questi temi vi sono infatti l’elevata presenza di donne nella forza lavoro, che portano necessariamente le imprese a prendere coscienza delle problematiche di conciliazione che influiscono sulla loro produttività, l’aumento delle attività legate al terziario avanzato, che spingono verso una maggiore valorizzazione del capitale umano, l’esigenza di motivare maggiormente il personale e di migliorare la reputazione dell’azienda presso i propri stakeholder. Interessanti sono inoltre le ricadute economiche e i benefici del welfare aziendale in termini di redditività e contenimento dei costi. La fiscalità applicata al welfare aziendale rende infatti tali servizi convenienti sia per l’impresa sia per il lavoratore. Confrontando i diversi trattamenti fiscali attribuiti ad un ipotetico aumento di stipendio rispetto ad una erogazione di servizi per la conciliazione di pari importo, si osserva un’importante riduzione dei costi per l’azienda e un aumento di retribuzione per il lavoratori. Ad esempio, su un ipotetico importo di 250 euro spesi per il welfare aziendale l’azienda godrebbe di un risparmio di 118 euro e il lavoratore di 92 euro.


Aprile-Maggio 2016

Figura: Imprese che hanno adottato iniziative di welfare aziendale dedicate alla conciliazione per macrosettore Anno 2014

Figura: Vantaggi fiscali del Welfare Aziendale – Lato Azienda

Fonte: Istat, indagine sul clima di fiducia delle imprese manifatturiere e dei servizi

Un’altra categoria di costi che si possono ridurre grazie a queste strategie riguarda i costi per l’assenteismo e il turnover dei dipendenti. Una ricerca della McKinsey ha infatti stimato che un piano integrato e condiviso di welfare può portare ad assenze per maternità più brevi (1,6 mesi, pari a 1.200 euro di minori costi per dipendente), a una riduzione delle assenze per assistenza agli anziani del 15 per cento (pari a circa 1.350 euro all’anno), e alla disponibilità a lavorare di più (+5 per cento, pari a 1.600 euro l’anno). La ricaduta positiva in termini di maggiore produttività aziendale - e quindi incremento di fatturato - può invece essere illustrata citando alcune indagini: •

le aziendeimpegnate nel welfare aziendale presentano un tasso di crescita delle vendite nell’arco di un periodo di 5 anni superiore rispetto alla media; hanno performance in termini di ritorno per gli azionisti superiori del 22 per cento rispetto alle aziende con una attenzione media a questa tematica e del 38 per cento rispetto a quelle che hanno una bassa considerazione;

un buon clima aziendale e l’attenzione alla qualità della vita dei dipendenti significa per l’azienda il 31 per cento in più di produttività, il 37 per cento in più di capacità di vendita e il triplo della creatività (Harvard Business Review).

Se quindi il welfare aziendale è così conveniente per tutti, perché solo il 37 per cento delle aziende è impegnata in una qualsiasi iniziativa di conciliazione e il 17,5 per cento in servizi di welfare aziendale? Le piccole dimensioni del nostro tessuto imprenditoriale rappresenta certamente un ostacolo, però superabile con forme di aggregazione ge-

25

stite dalle associazioni datoriali, ad esempio, come in alcune realtà sta già succedendo. Non ci si può nascondere però che, per quanto si possa dimostrare dati alla mano la convenienza di queste attività, ci voglia comunque una cultura di impresa moderna, avanzata e lungimirante. È importante quindi superare lo stereotipo dell’azienda padronale e dello sfruttamento del lavoratore/trice, ma anzi, al contrario, aumentare la consapevolezza di quanto il capitale umano sia importante per il successo dell’azienda. Ci vuole quindi a monte un impegno nella crescita e miglioramento della cultura aziendale che la crisi attuale sta certamente rallentando, ma che comunque sta crescendo, anche se con molta lentezza e in mezzo a numerose difficoltà. L’unica certezza è che l’elevato numero di donne impegnate nelle risorse umane delle aziende è fondamentale per favorire questi processi.

Figura: Vantaggi fiscali del Welfare Aziendale – Lato Lavoratore


26

Aprile-Maggio 2016

IL FREDDO VENTO DELL’EST

Avanza la destra e il movimento anti-gender, il partito socialdemocratico del premier uscente Robert Fico perde la maggioranza assoluta. Le recenti elezioni politiche spostano il paese verso il populismo e la xenofobia

slovacchia

di Cristina Carpinelli

La campagna elettorale anti-Rom, ha fatto presa soprattutto sull’elettorato della Slovacchia rurale del Nord

L

a Slovacchia ha recentemente rinnovato il proprio parlamento (primi di marzo 2016) con un dimezzamento dei voti del partito socialdemocratico uscente di Robert Fico (Smer-SD), che perde la maggioranza assoluta pur rimanendo il primo partito, con un avanzamento netto dell’asse conservatore-nazionalista, che vede il rilancio del partito nazionale slovacco (Sns), il quale rientra tra gli scranni parlamentari, e con l’ingresso, per la prima volta nel piccolo paese del centro Europa, di un partito di estrema destra “Partito popolare Slovacchia nostra” (L’sns), presidente Marian Kotleba, che conquista l’8,1 per

cento dei voti, superando lo sbarramento del 5 per cento. Un partito, quest’ultimo, che non nasconde le sue posizioni neonaziste e la nostalgia per quello Stato slovacco indipendente, che fu satellite del Terzo Reich, sorto con lo smembramento della Cecoslovacchia. La vittoria di L’sns è da attribuirsi alla campagna anti-sistema e, soprattutto, anti-Rom, che ha avuto una presa straordinaria sull’elettorato della Slovacchia rurale del Nord (e a Banská Bystrica), una regione che vive costantemente difficoltà economiche e disagi sociali. Festeggia, pure, il movimento anti-gender “Sme Rodina” dell’imprenditore Boris Kollár, nato sull’onda del fallito referendum sulla famiglia (febbraio 2015 - non aveva raggiunto il quorum del 50 per cento richiesto dalla legge slovacca), che si afferma con il 6,6 per cento dei voti, conquistando 11 deputati all’Assemblea nazionale. Tre i temi messi in campo da “Sme Rodina”: famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, ‘no’ all’adozione per le coppie omosessuali, “no” all’imposizione della teoria del gender nelle scuole. Nonostante il fallito referendum sulla famiglia, sostanzialmente motivato con il fatto che i slovacchi non hanno eccessiva fiducia nella partecipazione alle votazioni (su otto referendum nei 24 anni d’indipendenza della Slovacchia, solo quello sull’ingresso


Aprile-Maggio 2016

27

slovacchia

Alle ultime

Le ultime elezioni parlamentari in Slonell’Ue raggiunse il quorum e fu dichiaelezioni i vacchia hanno determinato uno sporato valido), questi tre temi sono cari al socialdemocratici stamento dell’asse politico a “destra”, perdono popolo slovacco - che è a maggioranza la maggioranza poiché la grande parte dell’elettorato ha cattolica, e alla Chiesa cattolica slovacassoluta gradito la linea di quei partiti conservatoca notoriamente schierata su posizioni e in parlamento ri e nazionalisti (in testa - il partito naziointegraliste e politicamente impegnata entra per la prima nale slovacco) che in campagna elettorale nel Paese a difesa della famiglia tradiziovolta un partito avevano indicato come principali nemici nale. Basti solo ricordare il peso che la di estrema destra del paese - l’Unione europea, le popolazioChiesa ebbe nel 2014 nel condizionare con l’8,1% dei voti ni Rom e i migranti, nonostante il l’approvazione del divieto costituzionafatto che il partito socialdemocrale riguardante i matrimoni gay e nel far tico avesse già dichiarato prima inserire nella Costituzione il concetto di e dopo la campagna elettorale di matrimonio inteso come “unione coniuvoler difendere le frontiere estergale tra un uomo e una donna”. ne di Schengen, di non accettare La lettera pastorale pubblicata nel il piano Ue di redistribuzione dei mese di dicembre 2013 dalla Conferifugiati, ma soprattutto di chiuderenza dei vescovi slovacchi (KBS) dere il proprio territorio ai profughi di finiva la famiglia come un’istituzione religione musulmana (“in Slovacdivina, formata da un uomo e una donchia non potrà mai formarsi una na, e coloro che la minacciavano venivacomunità musulmana unificata!”). no bollati come “attori della cultura della Anche se al momento, i dati uffimorte” (aktéri kultúry smrti). La decisiociali contano solo 5mila persone ne del divieto costituzionale alle nozze di fede musulmana regolarmente gay in Slovacchia, seguiva a quella asregistrate, ed il sistema delle quosunta nel dicembre 2013 dalla Croazia, te richiederebbe a Bratislava l’apertura dei confini per soli dove una valanga di “si” a un referendum aveva introdotto 803 rifugiati. Tuttavia, l’accento anti-europeo e la retorica uno stesso divieto costituzionale. Dunque, questo Paese si populista anti-migranti portata avanti dal premier Robert allineava ad altri dell’ex blocco comunista, come appunto Fico, più che altro a fini strategici elettorali, non sono stati la Croazia, o Polonia, Ungheria, Bulgaria, Lituania e Lettovincenti, poiché di fatto ha favorito le formazioni estremiste nia, che avevano preso una simile decisione sul matrimodi destra che su come risolvere, ad esempio, la questione nio. Nei due Paesi baltici (come in Russia) c’è persino una migranti, avevano delle idee più chiare e semplici rispetto legge che impedisce alle associazioni di chiedere diritti e ai social-democratici slovacchi. E nulla è valsa anche la tutele per gli omosessuali, perché è considerato come una decisione del premier, del tutto incurante di rappresentare forma di propaganda. Anche il parlamento della Romania un partito socialdemocratico, di appoggiare a suo tempo ha respinto ogni ipotesi di riconoscimento e parificazione l’approvazione del disegno di legge contro le unioni omotra matrimonio e unioni omosessuali, e proprio in questi sessuali, atto che Robert Fico non aveva esitato a definire ultimi mesi le associazioni pro-family sono riuscite a raccocome un importante “evento storico”. gliere più di due milioni di L’atmosfera che si respira oggi nella piccola Repubfirme (ben oltre la soglia blica slovacca non ha nulla della festa. La politica dei necessaria di 500mila tre pilastri - Dio, Patria, Famiglia - su cui poggia tutto firme prevista dalla leglo schieramento conservatore di destra, sta creando i ge) per introdurre una presupposti per una deriva autoritaria e xenofoba nel modifica costituzionale di paese, che tenta di rispolverare la cittadinanza etnica (la garanzia per la famiglia, democrazia etnica è quella che si basa sullo ius sanguinis) che veda presente nella e di vietare l’aborto. Come non ricordare le 85mila persone definizione di matrimonio in marcia per la vita nel settembre 2015 a Bratislava. O l’ola specificità che gli sposi pera assidua della piattaforma “Forum per la vita” (Fórum possano essere solo una života – presidente Marcela Dobešová), che con il suo donna e un uomo e i geprogetto “Una candela per i bambini non nati” (Sviečka nitori solo “una mamma e za nenarodené deti) sollecita ogni anno i propri membri e un papà”.


28

Aprile-Maggio 2016

IL mONDO RaccONTaTO DALLE REGISTE slovacchia

di Zenab Ataalla volontari a recarsi in visita presso scuole, comunità e varie istituzioni per parlare della necessità di proteggere la vita umana e la sua dignità dal momento del concepimento. O, infine, lo scontro sull’aborto al Parlamento Ue, nell’ottobre 2013, che ebbe tra i principali protagonisti contrari alla proposta di Risoluzione su “Salute e diritti sessuali e riproduttivi”, l’eurodeputata popolare slovacca Anna Záborská. Chiaro segno che la Slovacchia non si arrende all’aborto e agli attacchi contro chi attenta al diritto naturale. In ballo è ora una proposta di modifica legislativa in materia di protezione della vita e di aiuto alle donne in gravidanza in situazione di crisi. L’obiettivo è arrivare a proteggere la vita di “tutte le persone senza distinzione, anche i bambini non ancora nati”. Eppure, si potrebbe ricordare a questo paese la barbara pratica della sterilizzazione forzata delle donne Rom, di cui si è macchiato per decenni - anche dopo la “rivoluzione di velluto”. Una brutta vicenda - pare - “non ancora del tutto archiviata”, nonostante il Codice penale slovacco abbia IL paESE NON introdotto il delitto di sterilizzazione SI aRRENDE forzata. Ma la paura che le nascite aLL’aBORTO “bianche” possano superare quelE DIScuTE uNa le Rom, giustifica qualsiasi misura. pROpOSTa Questo è quello che pensano quelle DI mODIFIca forze politiche di destra, che duLEgISLaTIVa rante la campagna elettorale sono pER aRRIVaRE scese in piazza a difesa della vita e a pROTEggERE La VITa DI “TuTTE della famiglia naturale. LE pERSONE SENza Il popolo slovacco sembra avere DISTINzIONE, aNchE una coscienza ben salda nei vaDEI BamBINI NON lori tradizionali. Un recente sonaNcORa NaTI” daggio (2015) ha mostrato che tra il 70-90 per cento dei cittadini slovacchi sono a favore della famiglia tradizionale e contro l’“ideologia” del gender. Un’ideologia considerata di stampo “antinazionale”, che si sta insinuando ovunque, in Occidente e non solo, e che va combattuta a ogni costo per il bene del paese. ❂

il caIRO INTERNaTIONaL WOmEN’S FILm FESTIVaL, rAssegnA cinemAtogrAFicA Al Femminile con sessAntA pellicole nAzionAli ed internAzionAli, si È rivolto Ai cineFili ed Ai proFessionisti del settore

una iniziativa culturale che, attraverso il cinema, mette al centro dell’attenzione la creatività delle donne e punta tutto sullo scambio di idee. per far tornare il cinema egiziano ai fasti di un tempo

A

rrivato alla sua nona edizione, il Cairo International Women’s Film Festival si è confermato uno spazio di incontro e confronto tra artiste provenienti da quaranta paesi del mondo. “Anche in questa edizione il festival ha attirato uomini e donne di diverse età e strati sociali. E questo è sempre stato il nostro obiettivo. Non vogliamo limitare la visione solo ad un pubblico d’elite, ma vogliamo che tutti possano avvicinarsi ad un diverso tipo di cinema ed al messaggio che vuole veicolare” dice Amal Ramsis, ideatrice e fondatrice del Festival. Si tratta di un appuntamento che mira a superare le barriere linguistiche prima di tutto e, per raggiungere questo scopo, chi assiste alle proiezioni può godersi i film stranieri con i sottotitoli in arabo.


e non ai messaggi da veicolare”. Per questo il CIWFF ha una sua importanza. Non vuole solo essere una vetrina per le artiste, ma intende anche trasformarsi nello strumento parlante e visivo con cui capire ed analizzare la società, anzi le società nelle quali viviamo. “Ad esempio, è possibile guardare un film boliviano e capire che ciò che accade lì è lo stesso che accade qui da noi. Questo è il potere del grande schermo, perché più ci si avvicina al cinema ben fatto e più siamo in grado di valutare noi stessi ed il mondo che ci circonda”. Amal Ramsis critica l’assenza di un pensiero critico in questo momento storico, troppe Ma si vuole andare anche oltre. Nonostante i pochissimi fondi statali messi a disposizione e grazie all’autofinanziamento, le ideatrici del Festival hanno deciso fin dall’inizio che la visione delle pellicole fosse gratuita. Un’idea che si è rivelata vincente anche quest’anno, tanto da far registrare un più 2 per cento di pubblico nelle tre location che hanno ospitato le proiezioni - l’Operà de Il Cairo, l’Istituto Goethe ed il Teatro Falaki - tra il 27 febbraio ed il 3 marzo 2016. Il Cairo International Women’s Film Festival è pensato per le menti creative delle registe, ma è rivolto a tutti, come sottolinea Amal Ramsis: “miriamo a far conoscere i film delle artiste provenienti da ogni parte del mondo, ma soprattutto vogliamo aprirci a nuovi orizzonti che sono offerti dai diversi punti di vista femminili”. Regista ed artista a sua volta e formatasi a Madrid, Amal Ramses ha anche un sogno nel cassetto. Vuole far ritornare il cinema arabo, ed in particolare quello egiziano, ai fasti del passato. “Una volta eravamo famosi per la nostra industria cinematografica. Ed è stato così fino agli anni Ottanta, quando ancora lavoravano registi importanti come Mohamed Khan, Khairy Bishara, Raafat ElMihi e Ali Badrakhan. Oggi invece stiamo assistendo ad un tipo di cinema interessato solo ai guadagni

volte messo a tacere dalle produzioni cinematografiche che mirano solo a fare cassa. Ma non è il caso de il Cairo International Women’s Film Festival, che nel corso degli anni “ha guadagnato una buona reputazione in ambito internazionale non solo perché dà spazio alle registe, ma perché permette di affrontare tematiche e problematiche femminili che riguardano tutte le donne del mondo, e non solo quelle che vivono in questa parte di mondo. Un esempio vale per tutti: la violenza domestica, dramma che colpisce indifferentemente le donne ricche e quelle povere in ogni parte del pianeta”. Alla rassegna quest’anno è stata aggiunta una nuova sezione dedicata al “cinema e la danza” nell’intento di indagare lo stretto rapporto, sempre esistito, tra queste due forme d’arte. Tale decisione può essere letta anche quale testimonianza di una positiva evoluzione dell’evento e del fatto che il pubblico che lo segue è sempre più esigente ed interessato a conoscere la sinergia delle diverse forme di espressione artistica. ❂

29

slovacchia EGiTTo

Aprile-Maggio 2016


30

Aprile-Maggio 2016

IL PROTAGONISMO DELLE CURDE kurdistan, STATo SENZA CONFINI

Dilar Dirik e Ala Ali, entrambe curde ma di origini diverse per storia politica ed età anagrafica, raccontano il ruolo centrale delle donne curde nelle zone più calde e martoriate del Medio Oriente

Interviste e testo di Silvia Vaccaro Foto e ricerca immagini e dati di Delia Merola

IL POPOLO DEI CURDI

D

a quando cinque anni fa è scoppiata la guerra in Siria, le pagine dei giornali occidentali si sono riempite dei volti fieri delle combattenti curde. Lo stupore iniziale dei giornalisti e del pubblico per queste giovanissime in mimetica e scarpe da ginnastica si è trasformato talvolta in curiosità eccessiva, in un sentimento lontano da una profonda consapevolezza dell’orrore della guerra. D’altro canto, però, è anche grazie all’interesse nato attorno a loro se la causa curda, ignorata per decenni, adesso è conosciuta in tutto il mondo. A partire dal 1923, quando il Kurdistan fu diviso a tavolino e i suoi pezzi furono inglobati all’interno di Turchia, Siria, Iraq e Iran, i curdi hanno subito ovunque deportazioni, intimidazioni, violenze e mutilazioni culturali. Da quel momento infatti si affermò con forza l’ideologia degli stati nazionali a base etnica, che riteneva le minoranze un pericolo. I curdi persero diritti, lavoro, proprietà, e i Governi vararono politiche di assimilazione violenta, pulizia etnica e trasferimenti coatti.

I curdi, stimati tra i 25 e 35 milioni, sono il quarto gruppo etnico più numeroso del Medio Oriente. La loro storia si colloca geograficamente a cavallo di quattro stati a seguito dei confini tracciati dalle potenze occidentali nel 1923 con il trattato di Losanna. In Turchia rappresentano circa il 16 per cento sul totale della popolazione, in Siria il 9 per cento, in Iraq il 17 per cento e in Iran il 10 per cento.

“Noi vogliamo vivere in autonomia e insieme alle altre minoranze. Non vogliamo uno stato etnico. Vogliamo continuare a vivere come abbiamo sempre fatto insieme a cristiani, turcomanni, aziri, armeni, ebrei. La nostra è una terra per tutti. È questo che dà fastidio”, aveva dichiarato sulle pagine di questa rivista ormai un anno fa Nilufer Koc, co-presidente del KNK, il Congresso Nazionale Kurdo, organismo che raggruppa tutti i partiti curdi nei quattro Stati. Invece di migliorare però, a causa della guerra, in questi ultimi cinque anni la vita dei curdi è peggiorata. È proprio il KNK a denunciare gli omicidi che avvengono quasi quotidianamente in Turchia nelle città di Cizre, Diyarbakır, Silopi e Nusaybin. Dall’agosto 2015 si contano più di 700


Aprile-Maggio Marzo 2016 2016

AMARGI, OVVERO ‘LIBERTA’ Questo simbolo è la rappresentazione del termine amargi o amagi, la prima parola conosciuta di un linguaggio umano per indicare la “libertà”. Si tratta di un termine sumero e letteralmente significa “ritorno alla madre” dal momento che era proprio questo che si concedeva ai “forzati del debito”, ovvero quelli a cui venivano estinti i debiti e che tornavano in possesso della terra. A questi individui veniva permesso di fare ritorno alle loro famiglie e da qui il significato letterale del termine. Di questo vocabolo ne scrive David Graeber nel libro “Debito, i primi 5.000 anni”, ma dobbiamo a Dilar Dirik la scoperta di questo termine.

a tua volta è l’unica possibilità di salvezza. La possibilità di intervistare due attiviste curde, Ala Ali e DilarDirik, ha aperto nuove prospettive di ragionamento e ha consentito una maggiore comprensione anche delle differenze che esistono tra loro nelle diverse zone. Alcune imbracciano il fucile, altre insegnano sotto le bombe, altre ancora assistono quelle che hanno subito traumi durante la guerra dentro e fuori i campi profughi. Altre conducono ricerche e fanno pressioni sui governi affinché si occupino anche della sorte di donne e bambini invece di considerare gli stupri e la tratta di esseri umani solo come danni collaterali del conflitto. Appare complicato, con una guerra ancora in corso e un clima di diffusa instabilità politica in vaste aree del Medio Oriente, pensare ai curdi come ad un unico popolo che aspira ancora alla riunificazione e a uno stato unitario. Diversa è la storia delle rivendicazioni curde nei quattro stati in cui vivono, diverse appaiono oggi le istanze e le soluzioni proposte. Sia Dilar che Ala sono però convinte che è impossibile costruire alternative di libertà e pace se le donne non stanno al centro dei processi di autodeterminazione e di cambiamento, se non vengono considerate attrici cruciali per porre fine alla guerra e allo strapotere maschile ancora forte in molte società medio orientali, e non solo là. Servono le donne anche per abbattere il muro più resistente, quello del patriarcato, che sta ancora in piedi nonostante le bombe e i proiettili.

kurdistan, STATo SENZA CONFINI

morti tra i civili, nel silenzio quasi totale della stampa internazionale e nel disinteresse dei governi europei che, incuranti di questi massacri, hanno siglato un’intesa con il governo turco per il controllo dei flussi migratori lo scorso 18 marzo, un accordo giudicato da Amnesty International “un colpo di proporzioni storiche ai diritti umani”. Non va meglio in Siria dove, in continuità con le violenze inflitte al popolo curdo da Assad, avvengono ogni giorno omicidi e stupri etnici, perpetrati sia dai miliziani di Daesh che dall’esercito di liberazione siriano, 30mila solo nel biennio tra il 2009 e il 2011, come denunciava la parlamentare Mulkiye Birtane intervistata da Emanuela Irace (NOIDONNE, agosto 2013). Anche la storia dei curdo-iracheni è stata segnata da violenze di ogni sorta soprattutto fino alla caduta del regime di Saddam Hussein, acerrimo nemico del popolo curdo e fautore di massacri passati alla storia come l’attacco chimico di Halabja in cui morirono oltre cinquemila curdi. Oggi però la situazione appare diversa nel Kurdistan iracheno, che ha esteso nel 2003 i suoi confini anche a Sud. Tre sono le regioni riconosciute dal governo centrale, Sulaymaniyya, la capitale Erbile Dahuk, mentre altri territori sono ancora oggetto di dispute tra curdi e arabi. Proprio nel Kurdistan iracheno oggi, a causa della guerra, vivono circa 250mila curdo-siriani negli enormi campi profughi delle città di Arbat, Erbil, Kalar, Kirkuk, tra le altre. Questo rapporto particolare tra curdi di origini diverse è stato raccontato nel documentario indipendente “Due paesi un esilio” realizzato dal cooperante italiano Federico Dessì e dal videomaker francese Justin de Gonzague, e fa parte del progetto Focus on Syria (www.focusonsyria.org). Tanti, inoltre, sono i rifugiati curdo-siriani che lavorano nei cantieri per la costruzione di grattacieli e grandi opere. Una realtà, quella del Kurdistan iracheno, che dal punto di vista socio-economico somiglia molto di più al modello occidentale che al confederalismo democratico teorizzato da Abdullah Öcalan, leader curdo che nel 1978 ha fondato il PKK, Partito dei lavoratori del Kurdistan, e che dal 1999 è detenuto in isolamento nell’isola turca di İmralı. Sue le idee che ispirano le coraggiose combattenti delle YPJ, l’ala femminile dello YPG, letteralmente ‘Unità per la protezione della popolazione’, la cui vita e visione politica è raccontata nel film ‘Her War: Women vs. ISIS’. Si deve a queste combattenti la liberazione di Kobane nel gennaio del 2015 ed è proprio nella regione del Rojava che è divenuta realtà un’idea di comunità e di democrazia dal basso in cui la parità di genere in ogni ambito della sfera pubblica e privata costituisce la base su cui creare prosperità, pace e libertà per tutti e tutte. Sebbene il fine ultimo sia una società pacifica, le combattenti in Rojava rivendicano il loro ruolo come donne guerrigliere, anche perché è difficile rifiutare l’idea di combattere quando le armi del nemico sono a pochi metri da te e imbracciarle

31


32

Aprile-Maggio 2016

LE DONNE DEVONO PARTECIPARE ALLA COSTRUZIONE DELLA PACE Intervista ad Ala Ali

kurdistan, STATo SENZA CONFINI

D

ella delegazione irachena invitata dall’ong “Un ponte per” giunta a Roma a marzo faceva parte anche Ala Ali, ricercatrice curda irachena, esperta in analisi del conflitto, strategie di peacebuilding e democratizzazione con focus di genere. Durante l’incontro avvenuto presso la Casa Internazionale delle donne, le sue prime parole sono state contro la guerra che lei conosce da quando era bambina. In Iraq solo dal 2003 a oggi si contano 500mila morti tra i civili. Un numero talmente enorme che da solo dovrebbe servire da deterrente per nuovi interventi militari. “Non è con gli eserciti e le bombe che si ferma Daesh ma con un lavoro politico e istituzionale basato sulle proposte della popolazione irachena, capace, dopo anni di guerra, di formulare le strategie più efficaci affinché il conflitto si risolva”. Oggi molte donne sono coinvolte nel processo di pace. Oltre ottanta organizzazioni, formate da attiviste ma anche da tante donne normali, hanno sensibilizzato l’opinione pubblica internazionale sulle condizioni che le donne vivono nel Kurdistan iracheno e nei tanti campi profughi. Solo in Iraq si contano, secondo le Nazioni Unite, oltre tre milioni e mezzo di rifugiati. Di questi circa 900mila (sebbene altre stime parlino di oltre un milione e mezzo) vivono nel Kurdistan iracheno e oltre un quarto di loro è siriano. Grazie al lavoro di queste organizzazioni l’Iraq è stato il primo paese a recepire la raccomandazione 1325 dell’ONU che riconosce il ruolo fondamentale delle donne nella costruzione dei processi di pace”. Ala ha curato importanti analisi e report e si è occupata moltissimo di raccontare la resistenza delle donne all’estremismo. Una pratica quotidiana come quella che ha portato una irachena di religione sunnita a proteggere quattro soldati sciiti spacciandoli come mariti delle sue figlie. Con loro, Um Khalid, questo il nome della donna, ha attraversato sette check-point dell’ISIS riuscendo a farli uscire dall’Iraq ed evitando che venissero scoperti, fatti prigionieri e uccisi. Quando i miliziani di Daesh hanno saputo cosa aveva fatto, per punirla hanno ucciso il

suo unico figlio maschio. “Sono tante le storie di coraggio al femminile - commenta Ala -, tantissime donne e bambine sono state violentate e hanno subito traumi ma non ricevono alcuna assistenza. In questo caso non basta nemmeno l’aiuto esterno, servono operatrici in grado di parlare la lingua delle donne che vivono nei campi. È necessario quindi che le stesse donne irachene vengano istruite e possano occuparsi di assistere le altre”.

Per cosa combattono le donne irachene? Si battono per i loro diritti, per l’uguaglianza, la giustizia e la pace. Vorrebbero non essere più discriminate, vivere in pace, smettere di avere paura e di sentirsi in pericolo. Vogliono uscire la sera e sentirsi al sicuro, sia fuori che dentro le loro case. Cosa possono fare la comunità internazionale e le femministe occidentali per aiutare le donne che vivono nel Kurdistan iracheno? È importante che l’attenzione si focalizzi sulla reale situazione delle irachene e curdo-irachene. Servirebbe una campagna internazionale in grado di spiegare come veramente vivono le donne nei campi profughi e altrove, quanta sofferenza è presente nella loro vita quotidiana. Cosa pensa delle donne curde di Kobane che imbracciano il fucile? Provo per loro sentimenti contrastanti. Sono emotivamente toccata dal loro coraggio. Al tempo stesso però sono fortemente contro la guerra e credo che le attività militari non portino alla pace. Vivo un conflitto dentro di me perché da un lato sono orgogliosa di loro, dall’altro ne ho compassione. Mi piacerebbe che avessero una vita normale come tutte le ragazze di diciassette, diciotto anni, che ricevessero un’istruzione e che si potessero costruire un futuro. Quindi non vorrei che venissero incoraggiate a combattere, ma aiutate ad avere una vita normale.


Aprile-Maggio 2016

33

NON SOLO RESISTENZA. IN ROJAVA È IN CORSO UNA VERA RIVOLUZIONE SOCIALE

D

el modello del confederalismo democratico ha parlato Dilar Dirik, giovane ricercatrice curda cresciuta in Germania. Attualmente vive a Cambridge, dove sta svolgendo un dottorato in sociologia in cui esamina il ruolo delle lotte e dei movimenti delle donne nella costruzione di una società curda libera. Dilar ha soggiornato alcuni giorni in Italia ed ha tenuto delle conferenze all’Università Sapienza e presso la casa delle donne Lucha y Siesta di Roma. Riportiamo un estratto dell’intervista (versione integrale in: http://www. noidonne.org/blog.php?ID=07069). Qual è il peggior nemico delle donne curde e dei curdi in generale? Direi che è il sistema formato da patriarcato, capitalismo e lo Stato Nazione. Non posso dire se è uno Stato oppure di un gruppo, poiché un gruppo etnico non può mai essere tuo nemico. Le persone diventano nemiche le une delle altre quando vivono in un sistema basato sul razzismo, sul colonialismo e sul capitalismo. Aggiungerei inoltre che questo sistema è nemico anche di tutte le persone marginalizzate come le persone LGBTQ e quelle povere, le minoranze religiose, etniche, linguistiche e cosi via. È un nemico comune per tutte le persone del mondo ad esclusione di piccole élites. Perché il Rojava è da considerarsi un luogo così diverso dal resto del mondo? Prima di tutto dobbiamo capire contro chi lottano le donne curde. Lottano contro Daesh, un sistema stupratore che usa la violenza sessuale contro le donne come principale strumento di propaganda e il cui scopo è soprattutto quello di distruggere le donne, il loro ruolo, la loro identità, il loro potere. Daesh è un nemico esplicitamente, apertamente, orgogliosamente patriarcale. Ma Daesh prima di tutto è una mentalità. I terroristi non

sono diventati così potenti perché in possesso di un grande armamentario, ma attraverso l’ideologia e bombardarli non li eliminerà. Quello che sta avvenendo in Rojava non è solamente una lotta armata bensì un’articolata rivoluzione sociale. Non si tratta di una reazione ma di un progetto politico basato sull’idea del confederalismo democratico, il che significa che tutte le persone che vivono in quell’area, siano curdi, arabi, turchi, armeni, siriani, cristiani, collaborano insieme per creare una società basata sulla democrazia radicale, sulla messa in comune dei beni, sulla liberazione della donna e sull’ecologia. Ovviamente suona come molto idealistico, ma questo è quello che si sta cercando di realizzare concretamente al fine di mobilitare le persone verso una coscienza politica soggettiva che possa portare a decidere per sé. Quello che rende Rojava unica è che la liberazione delle donne non viene considerata un problema secondario, qualcosa da attuare dopo la fine del conflitto, bensì è un tema considerato nella sua immediatezza. Cosa possiamo fare noi, come comunità internazionale? Aiutare le persone a Rojava o in Kurdistan significa sfidare il sistema in cui viviamo. Nel caso dell’Italia si deve fare pressione sul Governo circa la sua posizione nelle guerre in Medio Oriente o in Africa, o rispetto ai soldi che vengono dati alla Turchia per fermare i rifugiati che attraversano il Mediterraneo. Aggiungo che occorre rompere questo embargo dell’informazione su quello che accade in Turchia ai curdi. C’è totale silenzio rispetto a quello che avviene in alcune città contro i civili. Questo blocco dei media è legato al ruolo importante che la Turchia ha per i paesi dell’Unione Europea. Capire le connessioni tra guerre, rifugiati e ruolo della politica è importante per riuscire ad essere solidali con le persone e a influenzare i media e dare voce a chi non ce l’ha. Non si tratta solo di problemi di questo o quel popolo, ma riguarda anche quello che avete da dire voi come cittadini italiani rispetto alla vostra situazione politica. Significa essere cittadini attivi e avere consapevolezza di quello che accade in Europa e fuori dai suoi confini. b Interviste e testo di Silvia Vaccaro Foto e ricerca immagini e dati di Delia Merola

kurdistan, STATo SENZA CONFINI

Intervista a Dilar Dirik


34

Aprile-Maggio 2016

LIBRI a cura di Tiziana Bartolini

IL VOTO ALLE DONNE SETTANTA ANNI DOPO E LA COSTITUZIONE Dopo “Bellezza femminile e verità” e “A tavola con Platone” Serena Ballista e Judith Pinnock presentano un nuovo testo, anch’esso nato dall’esperienza di laboratori scolastici tenuti in istituti medi inferiori e superiori di Modena e che le due autrici hanno progettato e condotto per Libera e ANPI. Questa volta il tema è la partecipazione attiva delle giovani generazioni alla vita sociale, culturale e politica del Paese. “L’attenzione nel corso degli incontri è sempre stata massima e nel libro sono riportate osservazioni e riflessioni dei e delle partecipanti spiegano le autrici, aggiungendo che - tra gli argomenti più sentiti c’è stata la laicità dello Stato e quelli relativi alla disparità di trattamento tra uomini e donne nel mondo del lavoro”. La multiculturalità, affrontata in chiave critica, ha suscitato molto interesse “in quanto i ragazzi italiani, pur trovandosi in classi con una forte presenza multiculturale, hanno riportato frequenti e forti esempi di intolleranza, cosa che ha dato luogo a profonde discussioni con i compagni di origine straniera”. Dalla legalità alle discriminazioni di genere, dalle barriere architettoniche alla gestione dei conflitti “in tutte le classi si è registrato un grande interesse per la storia del suffragio universale, anche perché abbiamo sottolineato come le lotte delle donne abbiano sempre portato vantaggi a tutti e due i generi” osservano Ballista e Pinnock sottolineando come “i pensieri e le elaborazioni dei e delle giovani che abbiamo incontrato hanno dimostrato quanto abbiano bisogno che la scuola offra loro in modo permanente spazi di riflessione su questi temi, cosa

che invece manca del tutto”. Da non sottovalutare, poi, “l’entusiasmo degli/delle insegnanti, che hanno unanimemente dichiarato il loro bisogno di lavorare su questi filoni tematici e concetti”. “Bella CostituZIOne. Madri e padri costituenti crescono” (Ed FerrariSinibaldi) è un libro-quaderno fortemente interattivo che, nel 70° anniversario della conquista e dall’esercizio di voto da parte delle donne italiane, accompagna chi legge alla scoperta di come la nostra Costituzione sia nata e di come permei la vita quotidiana di ogni persona. Il libro fa appello alle giovani e ai giovani affinché evochino dentro di sé lo spirito delle partigiane e dei partigiani che ci hanno permesso di godere di una democrazia che non va mai data per scontata. Il testo è ricco di schede, rimandi bibliografici, esercitazioni, e si presta ad essere una guida anche per insegnanti che vogliano proporre il percorso nelle proprie classi. È acquistabile on line su Amazon, Ibs su ordinazione da Feltrinelli. Serena Ballista e Judith Pinnock Bella CostituZIOne Madri e padri costituenti crescono Ed FerrariSinibaldi, pagg 130, euro 17,00

DIRITTI E LIBERTà. A PARTIRE DAL GENERE E ANDANDO OLTRE “Pensavo che le battaglie per libertà e diritti umani non potessero avere genere”. Le parole di Marta Ajò, nel suo ultimo libro “Viaggio in terza classe” (ed L’Erudita), riecheggiano una attualità tuttora presente in questo paese. Il viaggio di Marta ripercorre, con note biografiche e in ottica di genere, un cammino storico e culturale, colmo ancora oggi di contraddizioni. Il periodo che l’autrice racconta - tra gli anni Settanta/Ottanta - è un cammino politico di una donna che entra in politica giovanissima, dal PSIUP al PSI, passando dal bisogno di comprendere, studiare, ricercare il perché dei fatti che si agitavano nel mondo, alla dirigenza politica nel comitato centrale del partito. E poi la candidatura, i comizi, le sconfitte e la crisi, fino ad un nuovo percorso, nella Commissione nazionale di parità, che segna “l’istituzionalizzazione della partecipazione politica femminile e una novità per l’ordinamento italiano”. I concetti, i progetti e le idee che da sempre l’autrice è abituata a pensare nella trasformazione della politica in pratica, ora riguardano il processo che le Nazioni Unite in quegli anni dedicano alle misure necessarie per il progresso delle donne nelle politiche destinate a produrre


Aprile-Maggio 2016

cambiamenti sociali ed economici per l’eliminazione di squilibri strutturali recanti svantaggi per le donne nella società. Quella frase desiderata “grazie a voi oggi possiamo aspirare ad avere un futuro” invocò con riconoscenza e gratitudine per Marta, la cui testimonianza è nel suo viaggio, consente di conoscere un pezzo di storia delle donne italiane, quella conoscenza che occorre presidiare e tramandare affinché siano note le origini del perdurare delle disuguaglianze di fatto ancora persistenti, sperando di continuare a costruire una storia di donne e uomini, attenta al genere dei soggetti. Un romanzotestimonianza in cui l’autrice ha preferito non usare espedienti diversi dal racconto in prima persona per ripercorrere e seguire i cambiamenti sociali e politici della storia del nostro Paese negli ultimi decenni, raccontandoli da protagonista. Non meri ricordi, dunque, ma ricerca della sostanza che l’ha portata a battersi nel tempo per quei principi di civiltà e di diritto ancora in via di realizzazione nella politica attuale e che in un filo unico li unisce e li spiega. Un vissuto personale ma anche politico e culturale. “Uno sguardo al femminile di un mondo tipicamente dominato, ancora oggi, dagli uomini”. (Per acquistare il libro rivolgersi a Perrone Editore-L’Erudita, mail: antsuns@alice.it). Graziella Rivitti Marta Ajò VIAGGIO IN TERZA CLASSE Ed L’Erudita, pagg 170, euro 16,00

UNA RILETTURA DEL ‘NUOVO TEATRO ITALIANO’ Studiosa e ricercatrice di problemi legati al mondo dello spettacolo, dell’arte e dei nuovi media nel Novecento, e docente di Arti performative ed Arti elettroniche e digitali presso il Dipartimento di Storia dell’Arte e Spettacolo dell’Università “La Sapienza” di Roma, Valentina Valentini, già affermata autrice, si cimenta, con capacità critiche non comuni, in una consistente monografia sul cosiddetto Nuovo Teatro Italiano, relativo cioè agli ultimi 50 anni. “Nuovo Te-

atro Made in Italy 1963-2013” propone un’attenta riflessione sul fenomeno, ripercorrendo l’arco di tempo compreso fra il 1963 ed il 2013, in cinque segmenti: dal 1963 al 1967 (dalla nascita del Gruppo 63 fino al suo scioglimento e al convegno di Ivrea); il decennio 1968-1978 (in cui si consolidano i caratteri identitari del Nuovo Teatro); il decennio 1978-1988 (con il teatro postmoderno e il suo esaurimento); gli anni Novanta (1989-1999), segnati dal sentimento di ‘essere postumi’; la linea del Duemila (2000-2013) che va oltre lo spettacolo, assumendo lo spettatore come soggetto dell’azione scenica. Lo studio inserisce il Nuovo Teatro, caratterizzato da ricchezza di pensiero, complessità di sperimentazione, radicalità delle proposte, pratica del rischio esistenziale e messa in crisi dell’establishment, in un orizzonte contiguo ad altre arti, ricostruendo un intreccio di relazioni che ne hanno fatto un crocevia per rileggere la storia della seconda metà del Novecento nei suoi aspetti sociali, ideologici, estetici e di costume. Arricchiscono il volume tre saggi di approfondimento, di Anna Barsotti, Cristina Grazioli e Donatella Orecchia, che analizzano rispettivamente la peculiarità dell’attore-autore italiano; l’utilizzo della luce come potenziale dinamico dell’evento spettacolare e la matrice popolare della formazione dell’attore nel Nuovo Teatro. “Un libro collettivo - afferma l’autrice nell’Avvertenza - perché riecheggia di tante voci, con cui dialogo con costanza o intermittenza ma presenti, vigili, appassionate … e perché è un libro su supporto cartaceo che contiene in sé un flusso, quello del sito web, costruito per integrare e corroborare l’analisi espressa dal testo scritto … e anche il sito web è un’impresa collettiva”. Non a caso il sito web www.nuovoteatromadeinitaly.com raccoglie e mette a disposizione dei lettori una scelta ragionata di documenti su alcuni dei protagonisti e degli spettacoli più significativi del teatro italiano fra il 1963 e il 2013. Elisabetta Colla Valentina Valentini NUOVO TEATRO MADE IN ITALY 1963-2013 Ed Bulzoni, pagg 380, euro 35,00

35


36

In collaborazione e con il sostegno di:

Aprile-Maggio 2016

Sede territoriale di Campobasso Evento patrocinato da:

Ministero del Lavoro, della Salute e delle Poli2che Sociali

Consigliera di Parità Regione Molise

9.00 Indirizzi di saluto Mario Zappia, Direttore Generale e Sanitario Fondazione Giovanni Paolo II Giuditta Lembo, Consigliera di Parità, Regione Molise 9.30 Relazione del Prof. Giovanni Scambia Direttore Dipartimento per la salute della Donna, della Vita nascente, del bambino e dell’adolescente, Fondazione Policlinico Gemelli, Università Cattolica - Roma, Direttore Scientifico della Fondazione Giovanni Paolo II - Campobasso 10.00 Presentazione Progetto nazionale Donna e Salute: un ponte tra buone pratiche a cura di Fortunata Dini, Psicologa Psicoterapeuta, Presidente Associazione Salute&Genere Interventi di: Giuseppina Sallustio. Direttore Dipartimento Immagini e servizi, Fondazione Ricerca e Cura Giovanni Paolo II – Università Cattolica - Campobasso Fabio Pacelli. Direttore Dipartimento Oncologia, Fondazione Ricerca e Cura Giovanni Paolo II - Campobasso Francesco Deodato. Responsabile Unità Operativa Semplice di Radioterapia per fasci esterni, Fondazione Ricerca e Cura Giovanni Paolo II - Campobasso Francesco Cosentino. Direttore Unità Operativa Complessa di Ginecologia Oncologica, Fondazione Ricerca e Cura Giovanni Paolo II - Campobasso Giovanna Mantegna. Servizio di Psiconcologia, Fondazione Ricerca e Cura Giovanni Paolo II - Campobasso Samantha Mignogna. Responsabile Reparto Oncologia Generale, Fondazione Ricerca e Cura Giovanni Paolo II Campobasso Carlo De Filippo. Direttore Unità Operativa Complessa di Cardiochirurgia, Fondazione Ricerca e Cura Giovanni Paolo II - Campobasso Piero Modugno, Responsabile unità Operativa Semplice di Chirurgia Vascolare, Fondazione Ricerca e Cura Giovanni Paolo II - Campobasso Domenico Mantegna. Presidente Associazione IRIS, Campobasso Antonio d’Aimmo. Responsabile Coordinamento Didattica, Ricerca e Relazioni esterne, Fondazione Ricerca e Cura Giovanni Paolo II - Campobasso Conclusioni a cura di Giuditta Lembo Consigliera di Parità, Regione Molise Modera: Tiziana Bartolini, giornalista, Direttora di NOIDONNE e www.noidonne.org

Un proge:o di:

www.donnaesalute.org www.noidonne.org


GLI ALTRI APPUNTAMENTI DI APRILE

Aprile-Maggio 2016

Con il patrocinio e la collaborazione di:

In collaborazione con:

24 Aprile 2016 ore 9.30 Parco di Migliarino San Rossore Massaciuccoli Camminata/marcia non compe77va immersi nella natura

aperta a tu<, dedicata alle donne e chi le rispe@a Contributo volontario per ogni partecipante 5 € Partecipazione gratuita per giovani fino a 26 anni e persone con disabilità + accompagnatrice/tore

Salu% is%tuzionali, interven% e tes%monianze di imprenditrici ed esper%/e del se6ore

Show-­‐cooking e degustazione prodo8

37


38

Aprile-Maggio 2016

L’INNOCENZA PERDUTA PER FORZA di Alma Daddario

Mai più spose bambine, la campagna di Amnesty International in Italia. Convegni e spettacoli in collaborazione con l’Università Roma Tre per far conoscere un dramma troppo spesso dimenticato. L’attrice Isabel Russinova firma e recita uno spettacolo

U

na serie di eventi partiti da Roma con eventi organizzati dall’Università Roma Tre insieme ad Amnesty International Italia, per ricordare all’opinione pubblica il dramma delle spose bambine. Il cammino è partito a marzo da Roma, con un convegno tenutosi presso il Dams (Discipline delle arti, della musica e dello spettacolo) - e al Teatro Palladium della Capitale con uno spettacolo scritto appositamente per l’occasione da Isabel Russinova, testimonial ufficiale di Amnesty. Ad aprile e a maggio sono programmate nuove rappresentazioni a Palermo e Bagheria. Abbiamo incontrato l’attrice a Roma durante le prove. Cosa ti ha colpito di questa vicenda delle spose bambine a cui ti sei ispirata? Colpisce il fatto che l’uomo continua mettere in scena da sempre lo stesso copione fatto di orrori, di ingiustizie, di bestialità e la violenza contro la donna e contro i più deboli è e rimane sempre l’atto che mi indigna di più, lo stupro etnico, la violenza, l’omicidio, la brutalità, continuano a perseguitare la donna. La guerra, la povertà, le disuguaglianze sociali esasperano le realtà dei paesi in crisi, ed ecco le storie che si ripetono, gli orrori che ritornano mentre continua l’indignazione di fronte a realtà agghiaccianti che si dimenticano troppo in fretta, ecco che cosa mi fa male. Paesi dove non si tutelano i diritti della donna

o paesi dove ci si sposa a 11, a volte addirittura a 9 anni, dove non vengono punite le violenze, gli abusi contro le bambine fatte sposare a forza, vendute per pochi spiccioli e usate come oggetti con cui si può giocare o usare come bottino di guerra. Per il Daesh, ad esempio, stuprare anche a morte ragazze jazide regala prestigio e valore allo stupratore. Tutto questo lo abbiamo già visto nella storia dell’umanità purtroppo, e si può iniziare con un elenco infi-

La storia

L

o spettacolo è ispirato alla storia vera di una donna siriana costretta a vivere nell’inferno della guerra. A Safa hanno tolto tutto, la famiglia, i figli, l’amore, la dignità, il futuro, si è abbattuto su di lei un orrore senza via di scampo, ma il destino le offre un’altra occasione per cui lottare, Awa. Awa è una piccola di 10 anni che come tante bambine ha smesso da troppo tempo di sorridere, è una sposa bambina. La famiglia l’ha data in moglie ad un uomo molto più grande di lei per poter pagare i debiti e tirare avanti. Quell’uomo, dopo averla presa, l’ha picchiata e torturata, ripetendo il macabro copione che colpisce migliaia e migliaia di bambine e che i conflitti non fanno altro che esasperare. Poi l’ha venduta ai soldati Daesh che l’hanno fatta diventare una loro schiava, come tante altre donne catturate, fatte prigioniere e piegate al malato volere e alla violenza dell’Is. È lì che Safa e Awa si incontrano, vittime degli stessi carnefici insieme ad altre donne. Awa è la più giovane tra le prigioniere e Safa vuole proteggerla, aiutarla, nel suo cuore la accoglie come una figlia e decide di cercare insieme a lei una via d’uscita.


Aprile-Maggio 2016

nito, la guerra in Bosnia, il genocidio degli ebrei, degli armeni e dei curdi, i nativi americani, i popoli precolombiani. E da attrice mi viene spontaneo il riferimento a una delle più importanti tragedie greche: “Le Troiane” di Euripide, una delle prime drammatiche denunce sulla sorte delle donne vittime della guerra. Il copione, ahimè, è sempre lo stesso perché l’uomo è sempre lo stesso e quello che è più triste che anche la ragione che muove tutto questo è la sempre stessa - economia, interessi, potere di qualcuno a discapito di altri…anche per questo quando la Prof.ssa Anna Lisa Tota dell’Università Roma Tre mi ha parlato di un progetto da realizzare con Amnesty, di cui mi onoro essere da tempo testimone, ho aderito con entusiasmo. A proposito di copione, pensi che il teatro sia un veicolo utile per parlare alla gente di questo problema? Certamente. La cultura attraverso Il teatro, il cinema, la musica, la letteratura o la danza, può e deve sensibilizzare l’opinione pubblica attraverso i propri strumenti, animando storie e personaggi, per raccontare anche l’orrore, per far conoscere verità e realtà, per far si che nasca sempre più consapevolezza, sopratutto tra le nuove generazioni. In Occidente si parla ancora poco di questo; quale può essere il nostro contributo per farlo conoscere? Stimolare la costruzione di una nuova coscienza, nuove leggi, capaci di tutelare la donna e i più deboli, ma questo si può fare lavorando soprattutto per sanare la realtà sociale dei paesi più a rischio, lavorare sulla formazione, la cultura porta conoscenza e quindi crescita e benessere, ma per fare questo ci vuole la volontà di chi è più forte. Purtroppo chi è più forte è in condizione di approfittare del più debole, soprattutto se questo è immerso nell’ignoranza e povertà. Le conseguenze sul fisico e sulla psiche di queste bambine sono devastanti, nella tua storia Safa e Awa riescono a salvarsi? Molte delle spose bambine non sopravvivono alla violen-

I commenti Riccardo Noury, portavoce Amnesty International Italia. “Con Safa e la sposa bambina’ Isabel Russinova ci porta dentro l’inferno della guerra, ricordandoci che in quel contesto le popolazioni civili pagano il prezzo peggiore e, in particolare, le bambine subiscono violenze indicibili. Awa, la sposa bambina fatta schiava, è il simbolo dell’infanzia rubata, del futuro negato. Safa è la luce in fondo al tunnel, la speranza che i matrimoni forzati e precoci e la riduzione in schiavitù sessuale diventino presto un orrore del passato, da ricordare solo per non ripeterlo ancora”. Anna Lisa Tota, Prof.ssa Ordinario Università Roma Tre. “Il teatro, così come l’arte e la scienza, quando sono di qualità, possono contribuire a cambiare il mondo. Lo spettacolo di Isabel Russinova è una poesia in onore della solidarietà fra donne che subiscono l’orrore della violenza sessuale e della guerra. Esso da’ voce alle vittime invisibili, restituendo loro la dignità del nome. È uno spettacolo che ci porta sul baratro della violenza estrema, ma con il rispetto e la misura richiesti da un tema così difficile. Lo spettacolo ci sconvolge commuovendoci e ci cambia per sempre”.

za, alla gravidanza prematura, molte cercano di suicidarsi, altre vengono “suicidate” quando non servono più. È davvero vergognoso, terribile. E la cosa che più fa male è pensare che questo avviene nell’indifferenza del cosiddetto mondo “civile” soprattutto da noi in Occidente. Nella mia storia Safa ed Awa si aiutano, forse il calore che l’una può dare all’altra le potrà confortare, ma certo è che nella realtà queste sono ferite che non si rimarginano mai. È un messaggio di speranza? La speranza che qualcosa cambi c’è, soprattutto grazie alla consapevolezza e alla conoscenza data da iniziative come questa di Amnesty International sposata dall’Università Roma Tre. Ci auguriamo tutti che qualcosa cambi al più presto, e ognuno di noi può dare il suo contributo, chi come me recitando una storia, chi diffondendo, parlando, facendo in modo di sensibilizzare genti e governi. b

39


40

Aprile-Maggio 2016

DAI DIAMANTI NON NASCE NIENTE dai terremoti nascono… di Antonella Iaschi

Un ponte virtuale tra due regione e tanti paesi. Emilia e Friuli hanno vissuto il terremoto, non hanno dimenticato e hanno capito il senso profondo della parola solidarietà. A maggio un progetto per una ‘piccola geografia della memoria’ (www.officinavillafrova.incaneva.it)

U

n giorno Zio Terry (cugino minore di Orcolat ma non meno aggressivo per i corpi, per le menti e per i luoghi) si è svegliato in Emilia, in luoghi che si pensavano lontani da emergenze telluriche. Quella terra piatta e generosa la sapevamo “elastica” quindi nessuno lo aveva preso sul serio. Ma, alle quattro del mattino, le cose sono cambiate per tanti. In Friuli qualcuno ha pensato che sarebbe stato bello creare un ponte tra i luoghi che Orcolat aveva massacrato e le piatte distese afose del territorio di Zio Terry. Un ponte virtuale fatto di solidarietà, nuove conoscenze e qualche amicizia di quelle che una volta trovate non si lasciano più. Ma anche un ponte di mattoni, perché per ricostruire quelli servono! Era successo il contrario quasi quarant’anni prima, e il Friuli non ha dimenticato. C’era una fiera a Venzone e c’erano dei libri. La prima occasione per raccogliere fondi poi tanto altro è nato. In Friuli quest’anno ci si prepara a ricordare il terremoto, 40 anni dopo. “Piccola Geografia della memoria” il ponte virtuale nato per l’Emilia, ha luoghi fisici dove ognuno mette a disposizione la propria professionalità, la propria arte, il proprio sentire. Crea nuovo e trasmette memoria. A maggio donne diverse per età e per provenienza si troveranno nel progetto con il loro lavoro. Le fotografie di Sandra Calzolari (Camposanto - Mo), le terrecotte di Anna Maria Fanzutto (Buja- Ud) e le mie parole saranno lo sguardo femminile sull’emergenza tellurica del 1976 e del 2012 e su tutte le altre. L’allestimento della mostra sarà frutto del lavoro e della


Aprile-Maggio 2016

professionalità di Francesca Marchioni, Giovanna Carlot e Sara Cao dell’Officina Villa Frova. “Il terremoto è di tutti” scriveva il Messaggero Veneto nel 1976 e vogliamo parlarne senza sottolineare il dolore, portando emozioni da condividere che siano segno di futuro. Donne e bambini che leggono, giocano, vivono nelle terrecotte di Anna Maria. Bambini, vecchi e donne che affrontano i giorni da sfollati con gesti “normali” nelle fotografie di Sandra, donne che si chiedono “Io cosa posso fare” nel testo di “Orcolat: terra o matrigna?” Il tutto amalgamato nel “noi” di un lavoro collettivo con i fotografi Emiliano Rinaldi (Ferrara) e Villiam Covasso (Buja). Qualcuno potrebbe chiedersi a cosa serve. I mattoni sono tangibili, il resto? Il resto in questa storia serve semplicemente a creare un “noi” e a parlare di prevenzione. Prossimo appuntamento promosso dal Comune di Caneva e da Villa Frova officina della sostenibilità, Piazza San Marco, Caneva di Sacile (PN) dal 16 aprile al 15 maggio. Sono già in calendario Parma, Camposanto e Tricesimo. b

41


42

Aprile-Maggio 2016

TEATRO

Quando ‘La Merda’ si trasforma in scandalosa bellezza di Elisabetta Colla

La performer Silvia Gallerano eccelle in uno spettacolo scritto da Cristian Ceresoli: un brutale ed appassionato monologo sulla società contemporanea che disumanizza donne e uomini

G

randi occhi chiari su un viso aperto e sorridente, voce che risuona forte e chiara nello spazio scenico essenziale, la piccola/grande interprete dello spettacolo ‘La Merda’, Silvia Gallerano, una giovane attrice-performer-interprete dal talento prorompente e camaleontico, lascia il pubblico affascinato, sgomento e spiazzato: non sono solo la bellezza ed attualità del testo (dell’autore e scrittore Cristian Ceresoli) o le poliedriche capacità recitative e d’immedesimazione nel personaggio femminile che domina la scena in totale nudità per circa un’ora, a turbare e rianimare anche i più spenti fra gli spettatori, ma la perfetta, disturbante e vitalissima simbiosi fra tutti gli elementi messi in campo. Una ragazza rannicchiata su un trespolo si racconta senza veli, tra passato e presente: disposta a tutto per entrare nello showbusiness, la protagonista, semplice e naïf come una ragazzina ma aggressiva e viscerale nella sua determinazione al ‘successo’, ci conduce in una catabasi senza ritorno, fatta di compromessi aberranti e bieche umiliazioni, psicologiche e sessuali, così come di modificazioni fisiche violente (ad esempio a causa delle sue ‘cosce imperfette’), che portano la ragazza a dimagrire, vomitare e financo a mangiare i suoi escrementi, come segno finale di ap-

propriazione e totale aderenza con un sistema maschilista e becero che l’ha plasmata a sua immagine e somiglianza. Silvia Gallerano racconta a NOIDONNE il significato di questa esperienza. Come è nata l’idea di questo spettacolo e chi è la protagonista che porti in scena? C’è un intento etico nel descriverla? La pièce nasce da un’intuizione dello scrittore Cristian Ceresoli, dalla necessità di descrivere ciò che vediamo intorno e dentro di noi a contatto con la società in cui viviamo. La protagonista è creata su misura per una mia maschera vocale pre-esistente, a cui Ceresoli ha dato voce: è una ragazza pronta a tutto pur di farcela nel mondo dello spettacolo, un mondo che, in questo momento storico, sembra l’aspirazione di tutti. Lo spettacolo non ha alcun intento moralistico né intende dare un giudizio sulla persona, è piuttosto un affresco, una descrizione della realtà. Proprio per questo la ragazza è nuda ed io, nell’interpretarla, non posso non immedesimarmi in una parte di lei, né posso giudicarla se non con uno sguardo profondamente umano che racconti la vulnerabilità assoluta che si nasconde dietro a tanta mostruosità. La tua performance sul testo ‘La Merda’ ti ha lanciata sui palcoscenici di tutto il mondo, nonostante la forza del testo e la nudità in scena non rendano lo spettacolo di facile accesso per un cartellone ‘standard’… Sì, infatti lo spettacolo ha suscitato molto scandalo, sia per il titolo sia per la nudità, e non è stato accettato dai teatri a livello nazionale, tantomeno dagli stabili (ancora oggi, dopo i premi vinti all’estero, solo da pochissimi); ma né lo scrittore del testo, né io volevamo darci per vinti, così l’abbiamo portato al Valle Occupato di Roma ed in alcuni spazi non teatrali, poi lo abbiamo tradotto in inglese e proposto al Fringe Festival di Edimburgo nel 2012,


Aprile-Maggio 2016

NOI, I ‘SACRIFICABILI’

Il film di Lorenzo Corvino, WAX: We Are the X, sui trentenni di oggi tra ricerca di lavoro e nuove tecnologie

43

dove è stata acclamata come opera vincitrice dell’Award 2012 for Writing Excellence ed ha fatto incetta di premi.

U

n narratore di tutto rispetto, l’incanutito Rutger Hauer mai dimenticato ‘replicante’ nel film cult ‘Blade Runner’ - racconta ad un investigatore la storia di due giovani italiani e di una ragazza francese, inviati a Monte Carlo per girare uno spot e poi scomparsi nel nulla, e gli chiede di avviare un’indagine per scoprire cosa sia accaduto: così si apre WAX: We Are the X, film sui trentenni europei, i cosiddetti Sacrificabili, coinvolti più di altri nella crisi finanziaria e privi di futuro, in cerca di dignità e riscatto per un’intera generazione, attraverso l’intraprendenza ed il lavoro. Opera prima del regista Lorenzo Corvino, il film si avvale di una factory interamente under 40, anch’essa esordiente ma validissima, dal produttore al direttore della fotografia, dallo scenografo al musicista e al casting director. La trama del film, che intreccia diversi generi cinematografici, si dipana tra road movie, opera di formazione, thriller, commedia e dramma socio-giovanile. Interamente realizzato con la macchina da presa in soggettiva, la pellicola si è avvalsa sul set dell’uso degli smartphone e delle tecnologie social, oggi tanto importanti per i giovani - e non solo - dando piena libertà d’espressione agli attori e sperimentando nuovi modelli di linguaggio e fruizione per lo spettatore. “Dopo aver reperito sponsor nazionali e internazionali, anche attraverso il tax credit - ha spiegato il regista - e pur trattandosi di un esordio, l’opera non ha rinunciato ad affrontare numerose sfide, come quella di girare in quattro nazioni diverse, a 30mila piedi di altezza su un aereo di linea nel cuore dell’Atlantico, in mezzo al deserto, su un treno francese del 1892 nel cuore della Provenza e persino sulla terrazza dell’Hotel Fairmont di Monte Carlo. Il regista, il produttore e gli altri collaboratori hanno conquistato la stima di attori importanti come Rutger Hauer e Jean-Marc Barr, che hanno preso parte al progetto trascinati dall’entusiasmo dei giovani attori italiani e francesi”. La pellicola, premiata come “Miglior Film in Lingua Straniera” all’International Filmmaker Festival of World Cinema London (febbraio 2015) ed interpretata con talento e passione da - fra gli altri - Jacopo Maria Bicocchi, Gwendolyn Gourvenec, Davide Paganini, Rutger Hauer e Jean-Marc Barr, intende avviare un dibattito che affronti il tema della scelta tra sacrificio e riscatto. E. C.

Pensi che in qualche modo questo spettacolo possa considerarsi ‘femminista’ o che tocchi in senso ampio, al di là dei generi, la disumanità che sempre più sembra dilagare nella nostra società? Si tratta di una rappresentazione di come possiamo umiliare noi stessi, i nostri corpi ed essere umiliati come esseri umani. Si parla dell’assenza di autostima, del dare importanza alle apparenze, del consumismo di oggetti, corpi e valori, dell’assenza di bellezza o piuttosto della perdita della reale possibilità di capire dove si trovi la bellezza. Certamente le donne sono più spesso toccate da queste situazioni, sono più vulnerabili, ma non dimentichiamo che ‘La Merda’ è stata scritta da un uomo e riguarda gli esseri umani in generale Conduci dei laboratori dedicati alle sole donne ed alle loro ‘nudità’, sul testo dello spettacolo: come ti senti in questo lavoro? Trovi che le donne di oggi siano disinibite e disinvolte o, al contrario, piuttosto inibite? Mi piace molto trovarmi a fare questo lavoro tra sole donne, di tutte le età, perché si crea subito un clima rilassato in cui si lavora bene: il testo ci offre molti spunti ed avendo spesso un vissuto comune, per certi aspetti, ci confrontiamo velocemente e senza pudore, anche in una situazione di nudità, su temi molto delicati; le donne che ho incontrato hanno subito offerto racconti molto intimi, come se bastasse offrire un luogo di confronto perché si potesse aprire una narrazione, che altrimenti viene ricacciata dentro e rimossa. Ci sono molte cose da raccontare e pochi luoghi, consessi, disposti ad ascoltare: a me piace molto avere la possibilità di tenere aperto uno spazio del genere. Le donne più grandi, adulte o quasi anziane, sono spesso più disinibite, tranquille rispetto al proprio corpo, le giovani talvolta hanno maggiori inibizioni, si misurano in maniera più attenta con il pudore, il corpo e le emozioni. b

Note Bio: Diplomata alla Scuola d’Arte Drammatica ‘Paolo Grassi’ di Milano, Silvia Gallerano ha studiato, fra gli altri, con Marcel Marceau, Francesca De Sapio, Gabriele Vacis, Yoshi Oida, Giampiero Solari. Fondatrice della Compagnia Teatrale Dionisi, ha lavorato anche nel cinema, per Silvio Soldini e Marina Spada e, di recente, ha partecipato ai film ‘Asino Vola’ di Tripodi e Fonte, prodotto da Tempesta Film - presentato al Film Festival di Locarno 2015 - ed ‘Assolo’ di Laura Morante. Con lo spettacolo ‘La Merda’, che interpreta anche nella versione inglese e prossimamente francese, ha vinto moltissimi premi in tutto il mondo tra cui il The Stage Award 2012 come Best Solo Performance (prima attrice italiana ad ottenere tale riconoscimento) al Fringe Festival di Edimburgo 2012, l’Arches Brick Award 2012 ed una nomination ai Total Theatre Award 2012. .


44

Aprile-Maggio 2016

LA RESPONSABILITÀ È RELAZIONE Da Aristotele a Jean Tronto, passando per Hannah Arendt, l’etica della cura come pratica sociale. E l’autonomia morale femminista “relazionale”

M

aternità surrogata, gravidanze a sessant’anni, step child adoption, aborto clandestino e relative multe (!!!! anche di questo si è parlato). Tanti sono i messaggi dai media, il cui filo comune è la chiamata in causa del corpo della donna; tuttavia mi voglio soffermare su un concetto che sostiene gli altri in questa intricata matassa, la responsabilità. Non unicamente una riflessione su una nozione antica, forse desueta, ma anche mie risonanze emotive per pensare insieme. Responsabilità, termine che arricchisce sfere e contesti diversi, con Aristotele, si potrebbe dichiarare “responsabilità si dice in molti modi”: nel Novecento e in questi nostri tempi l’espressione ha assunto una posizione centrale, pur nelle sue infinite metamorfosi, e per la sua presenza nell’ambito giuridico, politico e filosofico-morale. Se nel livello giuridico, responsabilità si collega a imputabilità, in quello politico esprime il rispondere, il rendere conto, collegato strettamente (più interessante ed urgente per noi) con il livello etico, in cui il pensiero delle donne ha espresso incalzanti novità o un pensare diverso. Il punto di partenza è il drammatico: chi sono io? quali le caratte-

ristiche dell’individuo moderno, in un contesto di caduta dell’universalismo? Le filosofe a cui mi richiamo (Arendt, Heller, Weil, ma altre - e altri - si potrebbero ricordare) hanno risposto con il disegno del soggetto storico, contingente e limitato, frutto del caso, la creatura di cui Heller dice che agisce senza stampelle o che è avvolta in una busta senza indirizzo. Il soggetto-persona (uomo e donna), tuttavia libero, autore di decisioni quindi responsabile, non già apatico, egocentrico, insulare e disimpegnato ma vincolato e riconoscente: riconoscimento della dipendenza, valorizzazione dell’asimmetria. Agente relazionale, reciprocus, autonomo che opera in una sfera pubblica come zona in cui s’intrecciano, diritti, passioni e interessi sociali. Mi piace ricordare come il pensiero femminile abbandoni la strada delle etiche metafisiche o religiose (Jonas e Lévinas) per incamminarsi sul sentiero della responsabilità quale cura del mondo comune, per dirla con Arendt o cura politica secondo Jean Tronto. Tralasciando sullo sfondo il dibattito nato dal testo di Carol Gilligan, A different Voice, Tronto definisce la cura come pratica sociale, o cura democratica, che comporta la “riduzione delle asimmetrie” nelle relazioni stesse di cura. La cura quindi non confinata solo nel privato dei legami personali, ma quale dimensione morale e politica del rapporto individui-stato, da cui si disegna la ricontestualizzazione della politica in termini pluralistici e democratici. Non solo, ma la respon-

sabilità risponde alle pressioni dell’individualismo esasperato e rompe l’isolamento, consente di ritrovare un sentimento di appartenenza, un impegno con l’altro in quanto segno significativo dell’identità dell’Io. Il soggetto morale femminile - lontano da un’etica dei diritti e delle norme, privilegiata dalla riflessione maschile - pronuncia nuove parole e disegna inedite prassi: libertà (di costruirsi come persona, sfuggendo dai ruoli prefissati o funzioni rigide umanamente ingiuste, libertà dell’interscambio dei ruoli). Responsabilità, che sostanzia un’autonomia morale femminista “relazionale”, differente


Aprile-Maggio 2016

quindi dalla proposta kantiana, ma anche dall’utilitarismo: non si nasce e vive da soli, né si è mai stati tali. Disegnare una libertà e responsabilità femminile, comporta una ridefinizione dei problemi legati alla sessualità e alla procreazione, colti come momenti di scelta autonoma - relazionale, contestuale - e non sotto il segno della necessità. Etica della responsabilità per le donne impegnate in difficili scelte procreative è l’altra faccia di un’etica fondata solo sulla libertà. Si abbandona, infatti, la grammatica dei diritti (diritto della donna e diritto del feto), poiché non si tratta di diritti di due individui indipendenti, ma di una relazione tra due entità inscindibili che vivono la stessa vita, che a loro volta sono legate da una rete di relazioni con altri esseri (padre, altri figli, progetto di vita, etc.). Etica della responsabilità essenziale anche in ambito politico, seguendo ancora Aristotele (chapeau!) secondo il quale - come è noto - l’etica è scienza politica, e a sua volta la politica è luogo della responsabilità. Responsabilità, paradossi e problematicità, un‘ultima tessitura dei termini: la relazione tra i soggetti è improntata al riconoscimento di ciascuno/a come soggetto nella reciprocità e nella responsabilità. b

45

I luoghi del parto: domicilio, case di maternità, ospedali?

O

ggi si discute della chiusura dei centri nascita con numero di nati inferiore a 500 o a 1000, in quanto non garantiscono standard di sicurezza. Che questo possa essere un problema non vi è dubbio, tuttavia non è affatto detto che in tal modo si riducano i rischi in modo significativo visti i risultati della sorveglianza della mortalità materna. La qualità delle comunicazioni è un determinante come fattore di rischio e non sono da sottovalutare quei fattori che generalmente vengono iscritti nel quadro della medicalizzazione del travaglio parto e puerperio. Giusto per fare un esempio, è fattore protettivo dell’emorragia post partum, una delle principali cause dirette di morte materna, la combinazione del contatto pelle-pelle immediato e prolungato e il (conseguente) attacco al seno entro la mezz’ora dal parto. La liberazione massiva di ossitocina endogena che ne deriva è la chiave di volta. Tale combinazione favorisce il secondamento spontaneo, maggiore soddisfazione, minore percezione del dolore a 24 ore dal parto e l’avvio corretto dell’allattamento al seno e alla sua persistenza nel tempo, a cui sono associati innumerevoli benefici di salute per la mamma e per la persona che nasce, a breve, media e lunga distanza. Dall’indagine “population based” condotta dall’ISS nel 2009-10 in 25 ASL (rapporto ISTISAN 12/39, www.iss.it/binary/publ/cont/12_39_web.pdf) tale combinazione di procedure altamente raccomandate da tutte le linee guida riguarda meno del 50% dei parti. Che dire poi delle procedure interferenti la dinamica del travaglio parto? Le luci eccessive, i rumori, il via vai di operatori, la posizione litotomica, l’induzione, la stessa anestesia epidurale (diritto sacrosanto ad averla se richiesta) hanno effetti deleteri, dal trauma perineale al taglio cesareo. Ancora più importante, a mio parere, è l’induzione di senso di incompetenza che la medicalizzazione induce sia nella donna che nella persona che nasce. Il senso di incompetenza è particolarmente pernicioso per la mortificazione e depressione che ne deriva, in una circostanza in cui è necessario fare ricorso a tutte le risorse per affrontare l’entusiasmante avventura di una nuova nascita, evento che rivoluziona lo stato delle cose presente. Non si può parlare di gravidanza, parto e puerperi rispettati. Il percorso della nascita è una manifestazione di competenze che vanno fatte emergere, valorizzate, promosse, sostenute e protette, a maggior ragione nei casi di emergenza ostetrica in cui la condizione patologica può favorire la delega. Per questo la figura professionale di riferimento è l’ostetrica, eventualmente affiancata, per lo stretto indispensabile, dall’esperto di patologia in caso di emergenza ostetrica. Per questo è fondamentale che l’ostetrica possa ricettare quanto è raccomandato di routine, per questo è fondamentale che nelle Regioni si varino leggi per il rimborso dei parti a domicilio, per questo è fondamentale che si aprano case del parto a gestione autonoma delle ostetriche.


46

Aprile-Maggio 2016

LEGGErE L’ALBERO

FAMIGLIA

LA FIGURA MATERNA E LE RADICI INTERIORI

IL DIFFICILE COMPITO DEI GENITORI

DI BrUNA BALDASSArrE

Cara Bruna, sono un filippino di 55 anni e vivo e lavoro in Italia da circa diciotto anni. Sono presidente dell’Associazione A.N.A.K, della Comunità filippina a Roma. Nonostante i miei studi, per lavorare faccio le pulizie con diversi datori di lavoro. Purtroppo sono ritornato nel mio paese per fare un indispensabile intervento chirurgico e al mio ritorno, dopo due mesi di malattia, sono stato licenziato in tronco da uno dei miei datori, una signora molto anziana. Potevo anche denunciarla ma ho preferito non farlo perché amo questo paese e gli italiani. Che dici del mio disegno dell’albero? Mel Caro Mel, intanto complimenti per la tua integrazione, simpatia verso l’Italia e verso quella “vecchietta” che certamente non ha capito il tuo valore! Senza il supporto delle folte radici il tronco non potrebbe sostenersi e l’albero non sopravvivrebbe! Albero e radici: una forma di legame positiva per entrambi. Le radici rappresentano le nostre emozioni, passioni, il passato che ci lega al mondo inconscio e all’universo materno. Un legame, quello con la figura materna, che segna il nostro mondo interiore e le modalità di rapporto con tutti i suoi aspetti contrastanti. Le radici sono la parte nascosta dell’albero e nel tuo caso tutto è alla luce del sole fino a trasformarsi in un albero rovesciato! Un albero essenziale nella sua forma artistica ma allo stesso tempo come se la primavera dovesse ancora fare capolino nella tua vita. Radici vincolanti le tue, che possono far emergere dei sensi di colpa soprattutto nella scelta obbligata verso una concreta indipendenza. I traumi maggiori che emergono dal disegno del tronco si riscontrano negli anni quattro e mezzo, circa 14, circa 24, 31, 50. Secondo la teoria biografica ti trovi nel rispecchiamento del periodo della vita vissuto tra i sette e i 14 anni. Sei alla fine della fase dello sviluppo in cui prevale la scoperta di nuovi organi di percezione. Nella fase tra i 49 e 56 anni la saggezza può fiorire e progredire: è la fase dell’anima ispirativa in cui è necessario ascoltare per poi godere la tendenza della fase successiva caratterizzata dall’introversione, quella definita ‘fase mistica’.

Sentiamo l’Avvocata

di Simona Napolitani mail: simonanapolitani@libero.it

F

amiglie del mulino bianco, famiglie problematiche o persino assassine, in crisi o dissolte, famiglie liquide, famiglie malate o separate, diverse, omosessuali. Qualche tempo fa in un liceo della periferia romana ho fatto un intervento sul diritto di famiglia e sulla violenza domestica. Ho chiesto agli studenti e studentesse, tra i 15 e i 16 anni, se sapevano spiegare quali fossero i diritti della persona indicati dalla nostra Costituzione e cosa si intende per violenza domestica. Nessuno ha risposto, ho solo sentito qualche mezza parola, che si è poi spenta sulle labbra di una o due ragazze. Mi sono domandata come fossero le loro famiglie, quale realtà conoscessero, quali sentimenti e relazioni familiari. Mi sono domandata se conoscessero amore, solidarietà, fratellanza. Nell’andare via una ragazza mi ha rincorso chiedendo i miei recapiti; dopo ho saputo che aveva un figlio di 3 anni, frutto di una violenza. Su un noto quotidiano ho letto che la Corte di Appello di Catanzaro ha collocato un figlio presso la casa paterna, per sottrarlo alla condotta materna, prepotente ed alienante, secondo il consulente “l’ostilità manifestata dal bambino nei confronti del padre è il risultato della condotta della madre, improntata ad una plateale insofferenza nei confronti dell’altro e tesa a logorare la sua figura”, mi chiedo i sentimenti di questo minore, quale possa essere il suo futuro. Il 9 febbraio 2016, il Tribunale di Roma ha affidato la figlia (9 anni) in via esclusiva alla madre a causa della condotta tenuta dal padre, per la quale pende un procedimento penale per maltrattamenti in famiglia; lui ha un divieto di avvicinamento al luogo di abitazione della ex compagna, oltre al divieto di comunicazione con qualunque mezzo. Mi chiedo quali possano essere i pensieri di quella bimba, le sue riflessioni giornaliere e i suoi traumi. Non si nasce con la capacità di saper amare, non si nasce con la capacità di essere e di fare i genitori, eppure la famiglia è il primo nucleo della nostra società, quello da cui nascono i figli che costituiranno la società futura, il loro benessere è un interesse che appartiene a tutti, eppure sembra che l’indifferenza della collettività aleggi in maniera preponderante rispetto al benessere delle famiglie, alla loro giusta e corretta formazione, alla crescita e allo sviluppo di coloro che un domani saranno le leve della società che verrà. Sarebbe bello se si ritenessero prioritari: il sostegno alle famiglie e la predisposizione di un programma serio ed efficace per fornire formazione e dare competenze a chi deve svolgere uno dei compiti più difficili, quello di essere genitore, compito che incide sulla tenuta di tutta la nostra collettività. Un appello per una presa di coscienza.


Aprile-Maggio 2016

SPIGOLANDO tra terra, tavola e tradizioni di Paola Ortensi

L’UOVO Alimento completo, poco costoso, da consumare in tanti modi o da amalgamare per infinite ricette dolci e salate. Sodo, fritto, in camicia, alla coque, strapazzato, sbattuto a zabaglione o a frittata, tanto per fare qualche esempio. Parlarne significa - nell’immaginario e nella crescente e

dilagante cultura urbana - collegarlo alla gallina che poi tanti bambini non hanno mai vista viva. Ma non meno interessanti - per ricordare “altre” uova note nei libri di cucina - ecco quelle d’anatra, di oca (speciali per la pasta fatta in casa), quaglia, struzzo…, e ancora altre. Poi, solo per memoria di chi legge, di chi non ci ha mai pensato e degli amanti della buona tavola, ricordiamoci che il prezioso caviale altro non è che uova di diversi tipi di storione (come il succedaneo di caviale, assai meno costoso, proviene da uova di salmone per esempio). C’è anche la più mediterranea bottarga, di cui identifichiamo la Sardegna come punto d’eccellenza nell’uso e promozione culinaria, che si compone con uova di tonno o muggine . Tornando, per esigenze di sintesi e brevità, all’uovo più noto, ovvero quello di gallina, va detto che è identificato come un simbolo importante della cellula da cui

QUESTO CONOSCIUTO

nasce la vita: tuorlo, albume e guscio sono quel tutt’uno che quando si rompe nella sua evoluzione naturale regala un pulcino che esce delizioso e pronto alla vita. Se questo avvenimento, oggi, per tante persone è solo un’immagine o un’informazione, avere avuto la fortuna di vederla dal vivo in campagna - magari in una azienda agricola che organizza scuola in fattoria - è un’esperienza emozionante. Molti bambini una gallina con le uova da covare forse l’hanno vista a Pasqua: l’una di cioccolata e le altre col guscio di zucchero, con albume di cioccolata e tuorlo sostituito da una sorpresa. E a proposito del verbo covare, a rifletterci ci accorgiamo che la parola, estremamente evocativa, è usata nel linguaggio abituale per significare che si è alla vigilia di un avvenimento, un’idea, o persino una malattia. Frequente l’interrogativo rivolto a qualcuno di cui non capiamo le intenzioni: “ma cosa sta covando?” In termini, poi, di parole e modi di dire, l’uovo ne ha ispirati parecchi. Alcuni sono di immediata comprensione, altri risultano più impegnativi da decifrare. Camminare sulle uova, cercare il pelo nell’uovo, rompere le uova nel paniere, meglio un uovo oggi che una gallina domani, la gallina dalle uova d’oro, testa d’uovo, l’uovo di Colombo e tanti altri tra cui quel “È nato prima l’uovo o la gallina?”, forse il più “filosofico” e citato interrogativo quasi… esistenziale. Dai modi di dire a ricordare quella sacralità dell’uovo come simbolo di vita

che troviamo protagonista anche in opere d’arte importanti come, per citarne una famosissima la “Madonna dell’uovo” di Piero della Francesca. Le riflessioni, le storie, le interpretazioni potrebbero continuare per tante pagine. Non avendo spazio speriamo nella vostra curiosità di saperne di più.

RICETTE Uovo al tegamino È un’arte preparare l’uovo al tegamino, sembra facile ma c’è bisogno del tegamino giusto, della pazienza di scaldare l’olio o il burro abbastanza da far si che l’uovo non s’attacchi e, a seconda dei gusti, la giusta cottura di tuorlo e albume.

Uova sode tritate a pezzetti piccoli, con caviale. Spaghetti alla bottarga La bottarga va grattata in abbondanza sugli spaghetti come fosse parmigiano. Bistecca alla Bismarck Uovo all’occhio di bue con il tartufo per firmare l’eterno fascino del matrimonio tra semplicità e nobiltà.

47


48

Aprile-Maggio 2016

Rita Proto

POESIA TRA CIELO E TERRA Una scrittura essenziale, ripulita da ogni asperità e stucchevole sentimentalismo di Luca Benassi

“T

ra ali e radici” (Arduino Sacco Editore, Roma 2016), di Rita Proto, è un libro che raccoglie testi composti in oltre un quarantennio. Lo si intuisce dall’anno di composizione posto in calce alle singole poesie, laddove invece la raccolta mostra una compattezza di stile e un’unità tematica sorprendenti per testi scritti in un arco di tempo così lungo. Il filo rosso che conduce le composizioni è quello del rapporto madre-figlia, che viene indagato nel difficile passaggio del divenire, del trasformarsi in

donna adulta assommando al ruolo di figlia quello di madre. Il volano della nascita e della trasformazione viene declinato in un’abbondanza di metafore che traggono linfa dalla vita domestica, dalla quiete delle stanze e delle abitudini, che si intrecciano con quella della natura: le piante, le seminagioni, i campi, gli orti, i vasi diventano i luoghi e i soggetti dell’esistenza che nasce e cresce, a dispetto delle mancanze, delle difficoltà, delle delusioni. La mancanza sembra un sentimento che scorre in tutto il libro, accompagnando le vicende familiari delle origine, del rapporto con genitori la cui assenza pesa come un fardello, fino al distacco della figlia, alla separazione. È questo un libro delle incongruenze risolte e degli ossimori, a partire dal titolo, dove alla maestà libera del volo si oppone la fissità ctonia delle radici. Scrive in proposito Marilde Trinchero nella prefazione: «il filo conduttore che attraversa le poesie di questo libro è il tema degli opposti e della loro talvolta complessa conciliazione. […] A volte sembrano nascondersi, poi emergono potenti, temuti, ma necessari. Luce e buio, dolore e gioia, stupore e rassegnazione: compagni di viaggio che chiedono di essere appresi e attraversati.» Si vedano in particolare le due sezioni “Io figlia” e “Io madre”, dove questa contrapposizione biologica marca un conflitto di sentimenti, di rabbie inespresse finalmente curate nell’amore, nella dedizione, nella dolcezza della figlia che è diventata a sua volta madre. Rita Proto coltiva una scrittura essenziale, ripulita da ogni asperità e stucchevole sentimentalismo, non di rado accostandosi a forme della cultura orientale, afgana o giapponese, come i landays (poesie composte da due versi con cui le donne pasthun denunciano le violenze e i soprusi a cui sono sottoposte) o gli haiku. È questa purezza cristallina del dettato a rendere “Tra ali e radici” un libro prezioso, da leggere con attenzione.

Sto cercando la figlia che ho incontrato, in una Favola, amorevole, forte e curiosa. Ci rivedremo, prima o poi, nel giardino segreto. Parleremo di questi anni che ci hanno diviso, tra l’Ibisco e le viole. Ero albero fiorito e albero ritornerò, quando ci saremo dette tutto l’amore e la bellezza del bosco. (2015)

— Seduta a questa tavola imbandita, mi nutro della vostra estraneità. Mi chiedo se avete partorito Voi la mia solitudine. Il mio silenzio è una richiesta di tempi più vitali, il presagio di una nascita diversa. (1977 ai miei genitori)

— Voglio essere seme, che la terra sia fertile e il Giardiniere se ne prenda cura. Avrò fiori e foglie e rami e al vento canterò parole di donna. (2012 epitaffio)


I T A N O ABB O P M E IL T O S S E D ÈA adesso è h c o n r g e t s o pe s o u t l o de n g o s i b a h E N NOIDON adesso è h c r pe ra e b i l e n o i z a m or va difesa l’inf e t n adesso e t s i è s E h R e l c per to vuole essere un giorna s e u q i a m e h c più

Le possibilità di abbonamento a noidonne sono le seguenti:

ordinario 25 euro straordinario 60 euro (hai diritto a 3 indirizzi o 3 copie)

sostenitore 100 euro (hai diritto a 6 indirizzi o 6 copie)

Per informazioni redazione@noidonne.org 338 9452935 (Rinaldo)

ND_CV_Aprile-MAggio_2016.indd 4-5

1+1= 40 euro Due abbonamenti almeno una nuova abbonata con un unico bollettino di soli 40 euro (anzichè 50 euro)

Il versamento può essere effettuato con un bollettino di c/c postale sul conto nr. 000060673001 oppure con Bonifico su BancoPosta intestato a: Società Coop. Libera Stampa a rl c/o Studio Berto Fabio IBAN: IT57 D076 0103 2000 0006 0673 001

03/04/16 20.35


APRILE / MAGGIO 2016

EUROPA (IN)DIFESA

LE BARRIERE POLITICHE E CULTURALI prezzo sostenitore 3,00 euro Anno 71 - n.4-5 ISSN 0029-0920

ND_CV_Aprile-MAggio_2016.indd 2-3

il punto di vista di Emma Bonino e delle immigrate, l’appello della rete femminista 03/04/16 20.35


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.