Nd marzo 2016

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marzo 2016

ALLO SPECCHIO

Interviste a Dacia Maraini, Giusi Nicolini, Nadia Urbinati

prezzo sostenitore 3,00 euro Anno 71 - n.3 ISSN 0029-0920

14/02/16 18.55


I T A N O ABB O P M E T IL O S S E D ÈA

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DELFINA

di Cristina Gentile

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www.noidonne.org

SOMMARIO

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18/22 FOCUS / OTTO MARZO ALLO SPECCHIO

01 / DELFINA di Cristina Gentile 03 / EDITORIALE

18 Le diversità che ci allontanano Intervista a Nadia Urbinati di Tiziana Bartolini

4/7 ATTUALITà 04 QUALE 8 MARZO NEL 2016? di Giancarla Codrignani

20 Non c’è femminismo senza utopia Intervista a Dacia Maraini di Tiziana Bartolini

06 PACIFISTE, MA NON SEMPRE di Stefania Friggeri

21 Sindaca di frontiera al servizi dell’umanità Intervista a Giusi Nicolini di Tiziana Bartolini

8/9 BIOETICA MATERNITà E LAVORO UNA BATTAGLIA VINTA. NEL NOME DEL DIRITTO

10/17 INTRECCI 10 Buon compleanno Lucha y Siesta di Silvia Vaccaro 12 Lunid/Imparare ad essere felici di Gioia Di Cristofaro Longo 13 Auser/ Il voto e altri diritti Intervista a Vilma Nicolini 14 DonnaeSalute/ Programma 2016 15 UDI / ANTEPRIMA XVI CONGRESSO “Noi, sguardi di donne sul presente”

32/44 APPRODI

33 Il giudice delle donne/Maria Rosa Cutrufelli di Tiziana Bartolini 34 Ferrara/Biennale arte donna

26 BIELORUSSIA/ Premio Nobel a Svetlana Aleksevich di Cristina Carpinelli 29 EGITTO/“Not a shame” Educazione sessuale di Zenab Ataalla

Anno 71 - numero 3 Marzo 2016

Presidente Maria Costanza Fanelli Editore Cooperativa Libera Stampa a.r.l. Via della Lungara, 19 - 00165 Roma Stampa ADG PRINT s.r.l. Via Delle Viti, 1 00041 Pavona di Albano Laziale tel. 06 45557641 PROGETTO GRAFICO Elisa Serra - terragaia.elisa@gmail.com Abbonamenti Rinaldo - mob. 338 9452935 redazione@noidonne.org

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31 KURDISTAN TURCO/ Sakine Cansiz Il libro dell’eroina del Pkk di Emanuela Irace

23 Donne in Campo/Agricoltura Femminile plurale di Tiziana Bartolini

26 /31 MONDI

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30 MONDO/L’altra via Il progetto di Confronti di Stefania Sarallo

23/25 JOB&JOB

Direttora Tiziana Bartolini

La testata fruisce dei contributi di cui alla legge n.250 del 7/8/90

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32 L’invenzione della madre/ Marco Peano di Silvia Vaccaro Non dirmi che hai paura/Giuseppe Catozzella di Silvia Vaccaro Salute Bene Comune/Fulvia Signani

Mensile di politica, cultura e attualità fondato nel 1944

Autorizzazione Tribunale di Roma n°360 del Registro della Stampa 18/03/1949 Poste Italiane S.p.A. Spedizione abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. In L.27/02/2004 n°46) art.1 comma 1 DCB Roma prezzo sostenitore €3.00 euro Filiale di Roma

MARZO 2016 RUBRICHE

36 Pistoia/Il museo visto con gli occhi delle donne Antico Palazzo dei Vescovi di Cristina Tuci 37 Udi Forlì / Arte: Resilienti 38 Vienna/Urbanistica e femminismo di Giulia Custodi

amiche e amici del progetto noidonne

Clara Sereni Michele Serra Nicola Tranfaglia

Laura Balbo Luisella Battaglia Francesca Brezzi Rita Capponi Giancarla Codrignani Maria Rosa Cutrufelli Anna Finocchiaro Carlo Flamigni Umberto Galimberti Lilli Gruber Ela Mascia Elena Marinucci Luisa Morgantini Elena Paciotti Marina Piazza Marisa Rodano Gianna Schelotto

Ringraziamo chi ha già aderito al nuovo progetto, continuiamo ad accogliere adesioni e lavoriamo per delineare una sua più formale definizione L’editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e la possibilità di richiederne gratuitamente la rettifica o cancellazione contattando la redazione di noidonne (redazione@noidonne.org). Le informazioni custodite nell’archivio non saranno né comunicate né diffuse e verranno utilizzate al solo scopo di inviare agli abbonati il giornale ed eventuali vantaggiose proposte commerciali correlate. (L.196/03)

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05 Versione Santippe di Camilla Ghedini 09 Il filo verde di Barbara Bruni 14 Salute BeneComune di Michele Grandolfo 25 Strategie private di Cristina Melchiorri 45 Spigolando di Paola Ortensi 46 Leggere l’albero di Bruna Baldassarre 46 Famiglia, sentiamo l’avvocata di Simona Napolitani 47 Life Coaching di Catia Iori 48 Poesia Francesca Perlini Gli alberi della poesia di Luca Benassi

40 SOS Filosofia/ Alla ricerca del senso perduto di Francesca Brezzi 42 Suffragette/Sarah Gavron Ettore Scola/Paola e Silvia Scola di Elisabetta Colla 44 Lisetta Luchini/cantastorie Marta Marini/mandolinista di Tiziana Bartolini ringraziamo le amiche e gli amici che generosamente questo mese hanno collaborato

Zenab Ataalla Bruna Baldassarre Tiziana Bartolini Luca Benassi Francesca Brezzi Barbara Bruni Cristina Carpinelli Giancarla Codrignani Elisabetta Colla Giulia Custodi

Stefania Friggeri Cristina Gentile Camilla Ghedini Michele Grandolfo Catia Iori Emanuela Irace Gioia Di Cristofaro Longo Cristina Melchiorri Simona Napolitani Vilma Nicolini Paola Ortensi Stefania Sarallo Cristina Tuci Silvia Vaccaro

‘noidonne’ è disponibile nelle librerie Feltrinelli ANCONA - Corso Garibaldi, 35 • BARI - Via Melo da Bari 117-119 • BOLOGNA - Piazza Galvani, 1/h • BOLOGNA - Piazza Porta Ravegnana, 1• FIRENZE - Via dei Cerretani, 30-32/r MILANO - Via Manzoni, 12 • MILANO - Corso Buenos Aires, 33 • MILANO - Via Ugo Foscolo, 1-3 • NAPOLI - Via Santa Caterina a Chiaia, 23 • PARMA - Via della Repubblica, 2 PERUGIA - Corso Vannucci, 78 - 82 • ROMA - Centro Com.le - Galleria Colonna 31-35 • ROMA - Via Vittorio E. Orlando, 78-81 • TORINO - Piazza Castello, 19


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C’ERA UNA VOLTA

L’OTTO MARZO C’

era un volta una giornata di festa, la nostra giornata. Come donne eravamo al centro dell’attenzione, il fuoco intorno al quale tutto ruotava. C’erano le manifestazioni. Partecipate e vive, con slogan e striscioni che ci univano. Eravamo consapevoli delle nostre diversità ma disponibili a superarle in virtù di profonde assonanze. L’obiettivo era cambiare la società e quello che secondo noi non funzionava. Che tempi, ragazze… avevamo di che ballare nelle piazze sfottendo il potere e sfidando il patriarcato. Alleate, amiche e sorelle, facevamo i girotondi: spontaneamente ci prendevamo per mano e camminavamo fianco a fianco. Si litigava, eccome, ma a prevalere era il noi. Un noi universale che abbracciava le donne di tutto il mondo, allargava gli orizzonti e ci rendeva più forti. Oggi l’aggettivo internazionale evoca sanguinosi teatri di guerre e inimmaginabili violenze, spettrali terremoti finanziari e balbettanti politiche incapaci di dialogare con il futuro che è già qui. Nessuno sembra possedere un codice capace di leggere il presente e di scrivere il prossimo capitolo. Anche le parole che ci hanno illuminato risultano inadeguate. Il Novecento è finito e continuare ad incolpare il patriarcato e il capitalismo non è più sufficiente anche perché, oltre l’analisi, oggi servono risposte, modelli, ipotesi. Una responsabilità che ricade soprattutto su chi gestisce i vari poteri e confidiamo nella capacità delle donne che siedono ai vertici di mettersi in ascolto del loro essere femminile cercando soluzioni elaborate a partire da altre premesse. Un otto marzo ‘allo specchio’, quindi, perché è arrivato il tempo del coraggio, della verità, delle nuove alleanze. Con immenso dolore dedichiamo questo otto marzo a Valeria Solesin (uccisa a Parigi nell’assalto dei

terroristi jihadisti al Bataclan nel novembre 2015) e a Giulio Regeni (torturato e ucciso al Cairo nel febbraio 2016 dalla barbarie che accompagna le faide nell’altra sponda del Mediterraneo), due giovani cittadini e amici del mondo. Stringiamo con affetto le

loro madri - inchinandoci al cospetto della suprema compostezza del dolore delle famiglie - e tutte le donne che piangono gli annegati nelle traversate della speranza. O che sono annegate con quella speranza. Valeria e Giulio, paradosso del 50 e 50, sono il monumento al nuovo otto marzo che dobbiamo inventare se intendiamo restituire alle nostre lotte l’originario senso rivoluzionario, che voleva rigenerare le relazioni umane e coltivare il sogno del rispetto. A partire dalla politica ma senza dimenticare la finanza, che determina le sorti di milioni di persone: uomini e donne ugualmente relegati alla passività dello spettatore che poco capisce e nulla può. Valeria e Giulio speriamo che, nel vostro ricordo e nel nome di tanti altri giovani combattenti, le donne di buona volontà riannodino il filo di un dialogo autentico per delineare il noi universale che è stato smarrito. Tiziana Bartolini

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QUALE OTTO MARZO NEL 2016? TERRORISMO INTERNAZIONALE INARRESTABILE, FINANZA IMPAZZITA, UNIONE EUROPEA IN CRISI, EMIGRAZIONI DI MASSA. E LE DONNE, COME SEMPRE, SONO DOPPIAMENTE VITTIME

di Giancarla Codrignani

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orse è bene informare le lettrici che scriviamo i nostri pezzi circa un mese e mezzo prima che il numero arrivi alla loro casa: anche se siamo brave con le previsioni, non è detto che - quest’anno - ci azzecchiamo. Infatti Il 2016 è un anno in cui ogni giorno può succedere di tutto. Proprio per questo è importante tenere d’occhio le connessioni fra i fatti a partire da oggi, 20 gennaio: sono tutte questioni che continueranno ad avere conseguenze. Quali? Il bello (?) è che ancora non lo sa nessuno. Infatti ieri Junker, il presidente della Commissione europea - senti chi parla, visto che il suo Lussemburgo ospita gli evasori - si è azzuffato con Renzi, ma oggi definisce i toni alti cose da maschi virili (notate il duplicato di testosterone). Vedremo se non è che ce l’aveva indirettamente con Draghi; nel qual caso ne vedremo di peggio, dato che la finanza internazionale balla ogni giorno di più. Veniamo dunque all’economia. Dall’inizio dell’anno i saliscendi nelle Borse del mondo sembrano disastrosi: duecento miliardi bruciati solo ieri…. La Cina mantiene i suoi segreti, ma ha sicuramente esaurito il ciclo ascendente e deve tener d’occhio malcontento e scioperi. Il petrolio costa sempre meno e l’instabilità dei produttori non è simpatica, visto che si tratta di paesi arabi la cui seconda ricchezza sono beni ammassati in quantità esorbitante e pericolosi: le armi. In Italia abbiamo 5 miliardi di “derivati” inesigibili e dovremo fare qualcosa per tornare a finanzia-

re imprese che diano lavoro. L’Europa ci rinfaccia i 2.212 miliardi di debito. Forse ha ragione, ma gli antieuropeisti ci ‘marciano’ e gli italiani non capiscono che senza l’Europa quel debito diventa un macigno che schiaccerà noi per primi. Ogni giorno la stampa riporta notizie di attentati dell’Isis e affiliati. I media si sono fatti sempre più ansiogeni e producono paure; eppure, se è vero che il contesto internazionale non migliora, varrebbe la pena di notare che gli attentati non avvengono solo in Europa: sono già sono accaduti, accadono (e accadranno) in Turchia, Nigeria, Somalia, Egitto, Tunisia, Malì, Indonesia, Pakistan, Libia…. Intanto una nobile gara è stabilire chi nel mondo è più corrotto: l’Italia è in pole position. Il film di Checco Zalone (Quo vado?, ndr) diverte, ma dimostra che, dal basso verso l’alto, il circuito è inesorabile. Forse davvero, come i cittadini chiedono l’espulsione dei politici corrotti, bisognerà educare gli italiani licenziando, come non si è fatto nemmeno a Sanremo, i furbetti assenteisti. Per lo meno qualcuno imparerà che occorre provare le accuse prima di lanciare le pietre. E le donne? Anche questo contesto che aggrava le condizioni di tutti, come sempre, le colpisce doppiamente. Non è una novità: ancora una volta il sistema regge perché lo teniamo in piedi noi, senza però poterlo cambiare. Non dovremmo lasciar perdere il seguito del San Silvestro di Colonia, altrimenti finirà che è stata colpa nostra se ci


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vanno di mezzo gli immigrati e la Merkel perde consenso. La destra neonazionalista ha avuto buon gioco, ma di fatto la cultura dello sballo si è fatta degrado anche in Germania. Figuriamoci se le “molestie sessuali” non ne facevano parte e i mascalzoni arabi ne hanno approfittato, ma c’erano anche i tedeschi. L’argomento non dovrebbe cadere perché le leggi non educano i costumi e la polizia “non vede mai”: l’abitudine di esser padroni del corpo delle donne induce i maschi a non avere rispetto del genere altrui perché il loro pensiero non considera il corpo fondamento della dignità umana. Poi chiediamo alle straniere che vivono in Italia (ma anche a noi stesse) se i maschi hanno smesso di strusciarsi loro addosso in autobus. Non sappiamo come andrà a finire con i benpensanti e i cattolici, ma sono all’ordine del giorno norme sulle convivenze, comprese le adozioni dei bimbi delle coppie omosessuali. Temi delicati che in Italia si lasciano degenerare perché l’ipocrisia che, ancora una volta, non a torto si definisce cattolica, ci mette a rischio di inadempienza su diritti umani che l’Europa ci chiama a regolarizzare. La questione dell’utero in affitto fa scalpore e divide le femministe, anche se fino ad oggi è stato praticato dalle coppie non fertili. Ed è assolutamente vero che i corpi non si vendono perché non sono merce, ma bisognerà risolvere poi la contraddizione dell’indifferenza per la prostituzione: non è un mestiere come un altro ammettere a pagamento nell’intimità del proprio corpo l’organo di un uomo che paga per esercitare un potere (che in famiglia usa chiamare amore). Sono tutti problemi - anche questi ultimi definiti etici (che si votano “secondo coscienza”) o privati (ma quando mai?) - su cui bisognerà fare politica; politica di cervello e non di pancia o di tweet. Ci sentiamo al prossimo numero per vedere a che punto siamo. ❂

di Camilla Ghedini

C

on molta soddisfazione comunico che il mio precedente pezzo su Le mogli di..., ha fatto stizzire alcune, guarda caso consorti, che mi hanno tolto il saluto. Come si usa dire, colpite e affondate, almeno si apre un distinguo tra chi predica e chi razzola sull’indipendenza e l’emancipazione femminile. Quella autentica. D’altra parte, a me piacere a tutti non è mai interessato, anzi. Ho sempre dichiarato che preferisco passare per stronza e spigolosa, ma mai per una che sa muoversi bene in tutti gli ambienti. Se così fosse, mi spaventerei da sola, perché significherebbe che non ho identità, che non trasmetto nulla tranne ‘gentilezza’ ed ‘educazione’, che per me si traducono esclusivamente in mancanza di maleducazione. E in un tentativo - spesso maldestro, ad onor del vero - , di evitare di

Anche molti miei colleghi si fanno vanto di piacere a tutti, che nel caso di questa professione, secondo me, è indicativo della volontà di non pestare mai i piedi a nessuno, ma di sapere fare i compitini, eseguire resoconti - invece che approfondimenti senza infamia e senza lode. Non colpiscono, non danneggiano, non creano dibattito, non servono. Io credo - pur senza voler generalizzare - che siamo di fronte alla caduta dei concetti di autorevolezza, rispetto, che prescindono dal ‘likare’ o ‘lovvare’. E in effetti sono soprattutto le persone scomode a diventare invise, a rischiare l’isolamento. Un ‘rischio’ che molti non vogliono correre, pena l’essere fuori dai giochi - ma di cosa parliamo? - e la perdita della inutile lusinga del momento. E questo è un fronte su cui noi donne siamo ancora fragili. Mi trovavo

MEGLIO AUTOREVOLI CHE PIACIONE contrarre il volto in smorfie che possano palesare il fastidio che provo. O ancora, significherebbe che sono una stratega perfetta, che mi adeguo alle esigenze di ogni interlocutore, per essere nelle sue grazie. Ovvio che pago sulla mia pelle questo ‘snobismo’ al contrario. In effetti io mi ritengo snob nel senso etimologico del termine di ‘sine nobilitate’, non in quello da ‘vulgata’ che vorrebbe lo snob superiore ad altri per motivi di rango e censo. E invece, troppo spesso, vedi i politici, vogliono essere amati a tutti i costi. Certo, si può obiettare che per loro è una questione di consensi, che diventano voti. Succede però che alla ‘resa dei conti’ non si siano all’altezza della parola data, perché se ne sono ‘date’ troppe e in conflitto tra loro. La prigione dell’apprezzamento è terribile.

a riflettere nei giorni scorsi, mentre scrivevo alcuni pensieri sulla rubrica Chi dice donne dice danno, sul blog Libroguerriero della scrittrice Marilù Oliva, che uno dei complimenti più graditi dal gentil sesso è ‘Tu sì che hai le palle’. Un’immagine pessima, anche al maschile, in cui si vede un riconoscimento di ‘valore’. Ma, generi a parte, ne siamo sicuri? Vogliamo mettere l’orgoglio di non piacere a tutti - come a noi del resto non tutti piacciono - ed essere tuttavia ritenuti interlocutori credibili anche da chi non ci condivide sempre? Perché almeno c’è una reciprocità. Quella che non ho, è palese, con le mogli di...che non sono state così scaltre da ‘incassare’ senza fare una piega. Perché la ferita inferta è superiore. Me ne farò una ragione. C’est la vie.

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paciFiste. ma non sempre

Le donne hanno saputo, e sanno scegLiere, Le ragioni per cui vaLe La pena di imbracciare Le armi. Lo abbiamo visto durante La resistenza e Lo vediamo oggi con Le curde in Lotta contro L’isis

di Stefania Friggeri

L

o spirito che anima l’art. 11 della costituzione è lo spirito di pace generato nella popolazione dall’orrore per le atrocità della guerra e dalla consapevolezza che la guerra non solo non risolve i problemi, ma li complica e ne genera altri (vedi ad esempio i casi Libia e Iraq). L’articolo 11 tuttavia non si ispira ad una forma di pacifismo integrale, alla Gandhi, ed infatti venne ricostituito un esercito di popolo obbligatorio e riservato ai maschi. ma le donne non sono imbelli e hanno sempre imbracciato le armi se motivate da una causa giusta ai loro occhi. Vedi oggi le donne di Rojava, la regione del Kurdistan occidentale dove è in atto il tentativo di dare vita ad una autentica democrazia dal basso: tutto viene deciso secondo la normativa “una testa un voto” e le donne godono della parità di genere in tutte le sfere della vita pubblica e privata. Conquiste irrealizzabili se

vincesse l’Isis e pertanto le donne curde hanno preso le armi: il merito di aver cacciato gli jihadisti da Kobane viene riconosciuto ad Afrin, una comandante donna. Ma il modello di Rojava non potrà allargarsi se alle miliziane curde verrà riservato il destino che di norma si riserva alle donne combattenti quando arriva la pace, e cioè il silenzio della memoria. È stata una donna, svetlana aleksievic (leggi articolo di Carpinelli in questo numero, pag 26, ndr), ad intervistare le donne che hanno combattuto le armate nazifasciste dopo l’invasione della russia: a migliaia, anche giovinette, hanno coperto i vuoti lasciati dagli operai e dai militari impegnandosi nei ruoli più diversi, come radiotelegrafiste, geniere sminatore, tiratrici scelte e così via. La loro guerra è diversa da quella narrata dagli uomini, più umana e senza eroismi: parlano di fame, freddo, sporcizia e non nascondono di aver

avuto paura. “La guerra ‘al femminile’ - commenta Svetlana - ha i propri colori, odori, una sua interpretazione dei fatti ed estensione dei sentimenti ed anche parole sue”. Parole che molte donne dicono per la prima volta nella loro vita perché, come dice il titolo del libro, La guerra non ha un volto di donna. anche angelo del boca così si esprime scrivendo intorno alla resistenza italiana: “Le donne nella resistenza sono ovunque. Ricoprono tutti i ruoli. Sono staffette, portaordini, infermiere, medichesse, vivandiere, sarte. Diffondono la stampa clandestina. Trasportano cartucce ed esplosivi nella borsa della spesa. Sono le animatrici degli scioperi nelle fabbriche. … Un certo numero di donne imbraccia le armi … Tuttavia le donne non hanno ottenuto il riconoscimento che meritavano”. Più sintetico ma efficace Arrigo Boldrini (nome di battaglia Bulow): “Senza le donne non ci sarebbe


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stata la Resistenza”. Dopo l’8 settembre le donne rivestirono con abiti civili le migliaia di soldati lasciati senza ordini dal re e da Badoglio in fuga. “Non fosse per le citazioni sparse nei film … questa gigantesca operazione di travestimento, forse la più grande di tutti i tempi, sarebbe rimasta quasi del tutto ignorata … Le donne che svestono e rivestono i soldati disfano quello che l’esercito ha fatto … Resta intatto il rilievo simbolico, e resta quello politico”. (Bravo, Bruzzone). Il silenzio delle istituzioni e della storiografia si spiega con l’incapacità di sfuggire ai preconcetti della cultura italiana, come dimostra il senso di colpa che spesso parenti e carcerieri insinuavano nelle donne che, avendo scelto la militanza, trascuravano la famiglia. Ed infatti dopo la Liberazione molte partigiane si sono mostrate riluttanti a sfilare nei cortei e solo la storiografia più recente, soprattutto grazie alla documentazione orale, ha saputo trasmettere quanto di nuovo e diverso emerge dal vissuto delle donne, dalla sensibilità e dai criteri del loro sesso. Dal 2004 il servizio nell’esercito, allargato ora anche alle donne, ha assunto un carattere professionale, su base volontaria: alla guerra di popolo difensiva, ultima ratio se falliscono le trattative diplomatiche, subentra una guerra combattuta da volontari mossi dalle motivazioni più varie. Anche la guerra dunque ubbidisce al mantra mediatico del neoliberismo: il privato è bello. E mentre vengono ridotti gli investimenti per il lavoro, la scuola e la sanità, la crisi non impedisce di spendere milioni di euro per comprare gli F/35 e altre armi d’attacco. Eppure le più alte cariche dello Stato sono rappresentate da cattolici praticanti, figli di una cultura cristiana che si è sempre interrogata sulla guerra. È vero che i papi hanno bandito le crociate e guerreggiato, ma la secolare storia della Chiesa conosce

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tolica correggendo i giudizi negativi sull’umanità corrotta dal peccato di Adamo (riconosciuta l’irrazionalità e la follia della guerra, “bellum alienum a ratione”), gli uomini, credenti e non credenti, possono costruire la pace con la fiducia reciproca e la buona volontà. Papa Bergoglio, in linea con la “Populorum progressio” (“Sviluppo è il nuovo nome della pace”, papa Paolo VI, 1967), non esita a denunciare il motore della guerra nello sfruttamento e nella volontà di potenza. Svelando il conformismo perbenista delle classi dirigenti, che applaudono ma poi tutto continua come prima. v

COSTITUZIONE

Articolo 11 molte discordanze. Ad esempio i primi cristiani rifiutavano di combattere ma successivamente, dovendo difendere dai barbari l’impero divenuto cristiano, dopo la battaglia dovevano digiunare e non potevano entrare in chiesa per un certo tempo; la cluniacense tregua di Dio (anno Mille) vietava di combattere dal mercoledì sera al lunedì mattina durante la Quaresima, l’Avvento e la vigilia delle feste religiose; nel 1395 i Lollardi inglesi rifiutarono le armi appellandosi ai passi del Vangelo; nel ‘600 i gesuiti del Paraguay evangelizzarono gli indios con la parola, non con la violenza, e così via fino a don Milani, processato per aver sostenuto l’obiezione di coscienza. Ma nel mondo di oggi (guerra atomica, chimica. batteriologica) anche l’alto magistero si è interrogato sulla liceità della “guerra giusta”. Dopo la “Pacem in terris” (Giovanni XXIII, 1963), che ha segnato una svolta nella storia della Chiesa cat-

L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.


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Istituto Italiano di Bioetica www.istitutobioetica.org

MATERNITÀ E LAVORO

Una battaglia vinta. Nel nome del diritto La testimonianza presentata nel corso del Convegno organizzato dalla Commissione Pari Opportunità dell’Ordine dei Medici veterinari della Provincia di Salerno sul tema Maternità e paternità alla luce delle nuove prospettive legislative (Salerno 3 ottobre 2015)

“M

i chiamo Maria e la mia è la storia di una donna, un medico veterinario libero professionista, che si è di colpo trovata ad affrontare la difficile posizione di lavoratrice in “attesa”. Perdonatemi se preferisco mantenere l’anonimato, ma la dura battaglia che mi ha visto protagonista ha lasciato segni indelebili, che ancora fatico a cancellare. Tutto ha inizio quando, con incarico di Specialista ambulatoriale a tempo determinato, vengo a conoscenza del lieto evento che di lì a nove mesi mi avrebbe reso madre. In seguito a regolare controllo ginecologico, dal quale si evinceva il mio ottimo stato di salute, informai il mio datore di lavoro allegando copia del referto, nel quale si faceva esplicita richiesta, considerato lo stato gravidico, al cambio di mansione.

Tutto mi sembrava estremamente semplice e naturale, io non ero “malata”, dovevo semplicemente evitare che con il mio lavoro potessi mettere a rischio la vita della creatura che portavo in grembo. Altrettanto semplicemente mi aspettavo che, in risposta alla mia richiesta, ci si sedesse per discutere su cosa, dove e quando avrei potuto e dovuto fare per continuare a lavorare serenamente. D’altro canto ero completamente a digiuno in materia di diritti associati alla maternità. Di una cosa però ero certa: dovevo tutelare la mia salute, la nostra salute, perché le mie competenze fino ad allora, avevano previsto ingressi in stalla, visite e prelievi di sangue per la profilassi di malattie infettive quali tubercolosi, leucosi, brucellosi e così via. Fino a quel momento, infatti, non mi ero mai sottratta al lavoro che mi competeva. Ad un mese dalla mia richiesta scritta, mi venne comunicato che nulla poteva essere accolto, in quanto le norme relative al mio tipo di contratto non prevedevano il cambio di mansione per lo ‘specialista’. In particolare, si sarebbe dovuto applicare l’art. 37, comma 6, dell’Accordo Collettivo Nazionale vigente, il quale recita “...per gli specialisti ambulatoriali e i professionisti, incaricati a tempo determinato, nei casi di certificata malattia, nei casi di astensione

obbligatoria per gravidanza e puerperio, l’Azienda conserva l’incarico per un massimo di sei mesi senza diritto ad alcun compenso”. Questa vicenda diventava per me ogni giorno più complicata, ma soprattutto emotivamente difficile da gestire. Ero arrivata al quinto mese di gestazione, ma alla gioia di sapere che tutto procedeva per il verso giusto, si aggiungeva l’amarezza dei conflitti e delle discriminazioni sul posto di lavoro. La voce si era diffusa e cominciava a venir fuori anche una immotivata ostilità dei colleghi, i quali mi accusavano di non aver voglia di lavorare, piuttosto che comprendere che si trattava dell’esatto opposto. La mia voglia di lavorare era tale e tanta che non volevo fingere una gravidanza a rischio: io non ero malata, ero in attesa, e tutto procedeva per il meglio. Avevo solo bisogno di fare un lavoro meno rischioso, dal punto di vista fisico e del contagio microbiologico. Sono stati mesi durissimi, più e più volte sono stata tentata di rinunciare a combattere, di tornarmene a casa, perdente. Ma paradossalmente, più il clima lavorativo si faceva freddo ed ostile, più mi sentivo aggredita, umiliata e screditata, più la mia voglia di riscatto cresceva, nella più totale consapevolezza che ciò che stavo facendo era “giusto”. Non sapevo, all’epoca, che la mia battaglia, prima ed unica nel suo


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Il filo verde genere nella nostra professione, sarebbe potuta essere da esempio per chi, come me, si fosse trovata nella mia stessa condizione. In più, a chiunque di professionalmente adeguato al settore mi rivolgessi, la risposta era sempre la stessa: “sono spiacente, ma non c’è caso similare al quale rifarsi legislativamente parlando”. Lo sconforto era devastante, fino a che, tra mille dubbi, paure ed incertezze, iniziai a documentarmi in merito, venendo ben presto a conoscenza del Decreto legislativo del 26 marzo 2001 n.151 “Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela a sostegno della maternità e della paternità”. Ecco, la prova tangibile del fatto che esistono lavori pericolosi, vietati in maternità, indipendentemente dallo stato di salute della madre, indipendenti dalla solita “gravidanza a rischio”. Più leggevo, più mi documentavo, più si fortificava in me la convinzione che il diritto alla salute mia e del mio bambino andava onorata, era sacrosanta… ancor di più perché proprio in quei giorni venni a sapere che si trattava di una femminuccia! Testarda, caparbia e convinta di voler esercitare solo i propri diritti, continuai a frequentare quegli uffici, facendo enormi sacrifici nel tentativo di farmi scivolare addosso tutte quelle ingiurie. Al sesto mese di gravidanza, come un fulmine a ciel sereno, mi venne recapitato un documento in cui venivo letteralmente esonerata dall’incarico, senza giuste motivazioni. A quel punto, l’indignazione rispetto ai soprusi sopportati lasciò il posto alla rabbia. Pensai che l’unica cosa sensata da fare fosse rivolgermi all’Ispettorato del Lavoro, al quale scrissi che, poiché non mi era stato precedentemente accordato il cambio di mansione, chiedevo espressamente l’interdizione dal lavoro, così come recitava l’art.17, comma 2, punto B e C, decreto legislativo 151/01. Intanto, sull’altro fronte, stavano maturando i tempi per l’astensione ob-

bligatoria per gravidanza, così mi preparai per avere tutte le carte in regola: certificato medico con data presunta del parto e comunicazione ufficiale. Trascorsero due mesi e l’incognita di ciò che ne sarebbe stato del mio lavoro pesava come un macigno. Ricordo quei momenti, rivivo gli stati d’animo, le notti insonni, l’ansia per l’ignoto, mille paure… io, sola contro tutti! Margherita nacque, e a quindici giorni dal lieto evento, mi vidi recapitare a casa la relazione dell’Ispettorato del Lavoro, la quale citava: “In riferimento all’interdizione dal lavoro, dagli accertamenti effettuati da questo ufficio, si evince che la lavoratrice sarà adibita a mansione diversa che non sia in alcun modo di pregiudizio alla salute della lavoratrice in periodo ante e post partum. Non ci sono elementi per giustificare l’interdizione dal lavoro”. Mi venne così accordato il cambio di mansione prima del parto e per 7 mesi di vita del bambino, con riduzione oraria per allattamento. Ce l’avevo fatta, avevo vinto. Avevo vinto contro il pregiudizio, avevo vinto contro le ostilità, contro chi mi intimidiva dicendomi di starmene a casa e lasciare il posto a chi non aveva di questi “problemi”... così si chiama un figlio sul posto di lavoro? Problema? Sono fiera di essere madre, sono fiera di svolgere il mio lavoro al meglio delle mie capacità, sono fiera di averci creduto fino in fondo. Prima di essere un medico veterinario sono una donna. La diversità biologica che ci caratterizza non deve e mai dovrà essere motivo di discriminazione né sul posto di lavoro, né in nessun altro luogo. Oggi ho due figlie, e sono orgogliosa di essere una madre lavoratrice”.

di Barbara Bruni

L’INDONESIA INQUINA PIÙ DELLA CINA

Gli incendi che dal luglio scorso stanno devastando l’Indonesia hanno catapultato il Paese asiatico al vertice della classifica dei più grandi inquinatori mondiali, davanti a Cina e Usa. A bruciare è la torba (resti vegetali nel terreno) che contiene 60 miliardi di tonnellate di carbonio. Negli ultimi di mesi le emissioni giornaliere indonesiane di CO2 sono state superiori a quelle cinesi per almeno 14 giorni e per 47 giorni rispetto a quelle Usa. Il ministro indonesiano per gli Affari sociali, Khofifah Indar Parawansa, ha reso noto che le persone con problemi respiratori sono salite a mezzo milione.

EMERGENZA PARCHI

La metà dei Parchi nazionali d’Italia è allo sbando, a denunciarlo sono nove associazioni ambientaliste, tra cui Club alpino italiano, Legambiente, Lega italiana protezione uccelli, Touring Club Italiano e Wwf. In dodici parchi su 24: “tre sono commissariati, tre senza un presidente, in sei mancano i consigli direttivi e in cinque non c’è un direttore”. Le associazioni ambientaliste chiedono al ministro dell’Ambiente Galletti un’azione immediata per risolvere questo problema di nomine, e chiedono anche degli “obiettivi omogenei di tutela della biodiversità” che siano validi per i parchi nazionali di tutto il territorio italiano.

L’ALBERO MILLENARIO CAMBIA SESSO

Un albero millenario, forse il più vecchio della Gran Bretagna, dopo almeno 3.000 anni di vita da “maschio” ha iniziato a sviluppare caratteristiche definite dagli scienziati e dai botanici come femminili. L’albero in questione - secondo quanto riportato dal Daily Telegraph - è un tasso che trova in Scozia e che sino ad ora spargeva polline (caratteristica tipicamente maschile). L’improvvisa comparsa nel mese di gennaio di bacche rosse su alcuni rami tipiche degli esemplari “femminili” – indicano come questo esemplare stia mutando il suo genere. Se vero che talora questi alberi “cambiano sesso”, questo normalmente accade a partire dal tronco (non dai rami!) e comunque mai in età tanto avanzata.

IL 2015, L’ANNO PIÙ CALDO DI SEMPRE

Il 2015 è stato l’anno più caldo mai registrato dal 1880, ossia il primo anno in cui si sono iniziate a registrare le temperature. La notizia è oggi certificata dalla Nasa e dall’Agenzia federale Usa per la meteorologia (Noaa). La temperatura media globale è stata di 1 grado sopra la media del periodo 1880-1899, e comunque la più alta mai registrata negli ultimi 136 anni, superando il record del 2014 di +0,16 gradi. Nel corso del 2015, sono stati 10 i mesi che hanno segnato un primato delle temperature, con le sole eccezioni di gennaio e aprile.

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Buon compleanno Lucha y Siesta La casa delle donne nel quartiere appio-tuscolano di Roma compie otto anni. Nuovi progetti e nuove sfide per un gruppo di attiviste inarrestabili di Silvia Vaccaro

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uesta casa l’hanno plasmata le donne che l’hanno attraversata. Ed è un luogo che cambia continuamente, perché cambiano loro”. È a partire da questo sentire, quello espresso dalle attiviste del collettivo, che iniziamo a parlare della Casa delle Donne Lucha y Siesta giunta al suo ottavo compleanno. Questo spazio femminista - che ha sede nel popolosissimo Municipio VII in un edificio degli anni Venti - esiste dall’8 marzo 2008 grazie alla visione e all›impegno di alcune attiviste romane. Un luogo destinato a diventare un parcheggio e che, invece, ha accolto più di ottanta donne e ne ha ascoltate oltre seicento offrendo un primo rifugio a chi scappa da una situazione di violenza machista o alle più esposte e vulnerabili, magari perché povere o migranti. Queste donne a Lucha trovano, oltre a un tetto sopra la testa, occasioni

di riflessione e relazione, stimoli culturali, assistenza legale, psicologica e nella gestione di figli e figlie. Una modalità di accoglienza che è frutto dell’incontro tra attiviste e donne accolte, attrici di un processo in divenire. “Quando siamo entrate in questo stabile, eravamo all’inizio del nostro percorso femminista, ma tante cose sembravano coincidere. C’era stata da poco la grande manifestazione contro la violenza sulle donne nel 2007 e le istituzioni avevano risposto all’emergere della gravità della violenza contro le donne con nuovi ‘pacchetti sicurezza’. Noi, che facevamo già sportelli autogestiti, ci siamo rese conto che venivano tante donne in difficoltà. Ed è stato l’incontro con due donne migranti, forti e determinate ma che subivano violenza e non potevano andare via di casa perché povere, che ci ha fatto scattare la molla”. Un luogo che pur non essendo un centro antiviolenza, né una casa famiglia, prova a fornire soluzioni e dà accoglienza, crescendo ogni giorno grazie al tempo e alle energie delle attiviste e delle donne che la abitano. Uno spazio creato a partire dalla volontà di rispondere a un bisogno concreto, ma che si è connotato sin da subito come un laboratorio politico femminista e autogestito, in cui l’accoglienza è solo un pezzo di questo grande progetto. “Lucha ci ha dato la possibilità di avere un occhio sul mondo. Da qui sono passate donne di tanti paesi diversi, alcune cristiane, altre musulmane. È bello vedere come hanno provato a mantenere la propria cultura e al tempo stesso a prendere le cose migliori che trovavano qua”.

Lucha raddoppia: partita l’esperienza della casa di semi-autonomia “Ci siamo sempre poste la questione di che cosa avrebbero fatto le donne dopo aver vissuto a Lucha per un periodo ed è da tanto tempo che pensavamo di costruire un posto che servisse loro come un trampolino di lancio per una nuova vita autonoma”. Quel sogno è finalmente diventato realtà. L’associazione casa delle donne Lucha y Siesta, nata nel 2009, ha elaborato un progetto che è stato finanziato dall’8X1000 della Chiesa Valdese. Un grande appartamento a Cinecittà dove le donne avranno il loro spazio e vivranno una vita quasi ‘normale’. Un luogo che sarà in rete con i servizi sociali del territorio, e verrà inserito nell’elenco delle strutture regionali che offrono questo tipo di possibilità alle donne. Servizi e luoghi quanto mai necessari come testimonia il numero, sempre alto, di donne che si rivolgono alle attiviste di Lucha durante i colloqui settimanali. “Per noi sarà una grossa sfida provare a costruire un’esperienza che


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metta insieme i vincoli dell’Istituzione con l’autogestione. Del resto, il nodo del riconoscimento del nostro lavoro da parte delle istituzioni non è mai stato sciolto, è una riflessione che facciamo da otto anni senza arrivare a una sintesi. Evidentemente ci metterebbe al riparo dalla precarietà ma è anche vero che qui godiamo di una libertà che abbiamo sempre rivendicato. Anche perché in questi anni il riconoscimento c’è stato nei fatti, perché da noi arrivano ormai donne da tutta la città, inviate sia da strutture pubbliche che private. Chi sta in prima linea, come facciamo noi, ha sempre riconosciuto il nostro lavoro. Adesso con questo nuovo progetto della casa di semi-autonomia ci cimenteremo nel passaggio successivo e capiremo se è possibile, e in che modo, conciliare i vincoli istituzionali con l’autogestione”.

Una traccia di carta dei risultati di questi anni: il libro Oltre ai servizi di accoglienza, le attiviste di Lucha si spendono molto sul fronte culturale, con un’offerta ricca e varia di incontri, dibattiti, presentazioni. Per citare solo una delle tante iniziative, a fine febbraio è ripartita la rassegna “Ritratti di donne” che, come suggerisce il titolo, si compone di serate monografiche su artiste (ma non solo) che hanno lasciato una traccia e che sono state ignorate o dimenticate. “Il senso è quello di ricostruire una genealogia valorizzando le intelligenze femminili e proponendo testi e immagini originali, ovvero creati e presentati solo per quell’appuntamento. La novità di quest’anno è che nel gruppo culturale che produce la rassegna ci sono anche degli uomini, compagni del movimento queer che hanno deciso di unirsi a noi”. E per non perdere traccia del loro lavoro, per questo ottavo compleanno le attiviste hanno pensato di mettere nero su bianco risultati e speranze. Grazie a una campagna di crowdfunding cui han-

no partecipato in tanti e tante, è stato appena pubblicato un libro che contiene molti contributi di chi ha sostenuto il progetto. “In questi anni qui a Lucha abbiamo raggiunto obiettivi importanti, ma se consideriamo la condizione femminile nella sua complessità, c’è ancora molto da fare. Pensiamo alle difficoltà dei consultori, ai tanti obiettori di coscienza nelle strutture pubbliche, alla disparità salariale, al linguaggio sessista, al razzismo. Per continuare a progettare partendo da ciò che abbiamo conquistato, abbiamo pensato fosse necessario mettere la memoria nero su bianco e abbiamo chiesto a donne e uomini con cui abbiamo costruito relazioni in questi anni di farlo con noi”. L’introduzione del libro è stata curata da Sandro Medici che, quando le attiviste hanno liberato lo stabile era Presidente del Municipio VII (allora X, ndr), si è battuto con loro affinché rimanesse un bene pubblico. Nel volume sono contenute anche le riflessioni della giornalista e scrittrice Barbara Bonomi Romagnoli, della sociologa Anna Simone, della filosofa Federica Giardini, della Presidente di Be Free from Violence Oria Gargano, della scrittrice Patrizia Fiocchetti e molte altre. Il volume sarà presentato l’8 marzo durante un incontro cui parteciperà anche la giornalista e ricercatrice curda Dilar Dirik che tanto ha scritto in questi mesi della situazione curda e delle atrocità commesse dal governo turco, argomento a cui le attiviste di Lucha hanno dedicato incontri e attenzione. Prima di lasciarci chiediamo cosa si augurano per la città di Roma chiamata a eleggere un nuovo sindaco tra pochi mesi. “In questo paese c’è un’emergenza democratica abbastanza seria. Nessuno si chiede più perché esistono governi che nessuno ha votato. L’augurio dunque è che torni a esserci la politica, perché con una politica diversa da te puoi confrontarti, mentre con un prefetto no perché non ha bisogno del consenso. Speriamo anche si torni a parlare di decentramento, perché in questi anni c’è stato un accentramento del potere, esatto contrario della democrazia”. b

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IMPARARE AD ESSERE FELICI

La nuova iniziativa della Lunid: fondare la Scienza della cultura della felicità

di Gioia Di Cristofaro Longo

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isogna sfatare l’idea della felicità come “attimo fuggente” legato alla casualità e alla fortuna, mentre il perseguimento di una cultura della felicità richiede azioni tali da modellare il comportamento fissando, attraverso l’esercizio, le capacità per rendere concreto l’obiettivo proposto. Il perseguimento della felicità è dunque un impegno e un lavoro serio che richiede: addestramento (nel senso di educazione, informazione sui valori costitutivi della felicità); allenamento (fondamentale è l’esercizio, con cui ogni “atleta” che sceglie la disciplina della cultura della felicità deve impegnarsi per raggiungere i risultati che si è proposto); l’abitare nel senso di luogo di vita individuale e sociale (spazio costruito ed organizzato secondo le proprie priorità in cui si costruiscono e ricostruiscono le condizioni del proprio benessere). Si profilano in tal modo i fondamenti epistemologici e sperimentali di una nuova scienza: Scienza della cultura della felicità, intesa come sistema di conoscenze ottenute tramite attività di ricerca, specifiche procedure di individuazione e idonee metodologie. Un itinerario che fa parlare i fatti e le esperienze, e dai fatti e dalle esperienze ricava indicazioni teoriche e prospettive operative. È il progetto della LUNID (Libera Università dei Diritti Umani), una grande sfida che si tradurrà in specifiche attività didattiche finalizzate ad operare per un recupero e una riappropriazione semantica di alcuni concetti fondamentali quali l’etica, l’utopia, la felicità. Un ampio gruppo di professionisti e studiosi di varie competenze scientifiche ed esperienziali hanno entusiasticamente condiviso il progetto, che si tradurrà in un impegnativo programma didattico di Master class in Scienza della cultura della felicità: Itinerari di cultura dei diritti umani e della pace. Pratiche e sperimentazioni. Negli ultimi quattro anni la LUNID ha dato voce e visibilità, in

una sorta di Università diffusa, a numerose iniziative a livello di congressi con particolare riferimento al campo della medicina attraverso tematiche di rilevante spessore umano quali il rapporto medico-paziente-familiare, il consenso informato, l’accanimento terapeutico nonché a testimonianze di successo, conferendo premiazioni in qualità di Testimoni di Diritti Umani a singoli, gruppi e associazioni in vari campi (scuola, homeless, cinema, carcere, dialogo interculturale oltre alle varie forme di solidarietà e accoglienza operate nei confronti dei migranti sbarcati a Lampedusa). Questa ricchezza di esperienze ci ha fatto comprendere l’urgenza di una risposta in grado di alzare il tiro rispetto alle realtà grigie e nere nelle quali è oggi imprigionato il nostro immaginario culturale. Una ricerca da me condotta sull’ipotesi dell’esistenza o meno della rappresentazione del buon cittadino nella programmazione dei mass media ha portato a dare una risposta affermativa nei termini, però, solo negativi: buon cittadino è chi non ruba, non ammazza, non rapina una banca. Emerge chiaramente l’assurdità di questa realtà, poiché il buon cittadino e la buona cittadina sono coloro che si impegnano in qualche progetto, in qualche percorso e non coloro che non trasgrediscono le norme della convivenza civile. In questa prospettiva, la felicità si presenta come un sistema culturale, una realtà olistica, una cultura intesa come valori, idee, orientamenti e connessi comportamenti che presiedono all’organizzazione della vita dei singoli, colta nella sia dimensione individuale che sociale. È opportuno ricordare la Costituzione Americana del 1776, che annovera tra i diritti fondamentali, oltre al diritto alla vita e alla libertà, quello della ricerca della felicità. Presupposto fondamentale della ricerca della felicità è quello di porsi seriamente domande sui fini e sul senso di ogni azione e di ogni progetto. Si supera in tal modo il rischio di un vuoto esistenziale che oggi tende ad essere colmato con surrogati che non danno risposte soddisfacenti alle domande fondamentali della vita: chi sono? da dove vengo? dove vado? b


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IL VOTO E ALTRI DIRITTI SOSTENENDO LE LOTTE DELLE NOSTRE SORELLE NEL MONDO Incontro nazionale delle donne dell’AUSER a Bologna il 14 aprile per fare il punto sui diritti acquisiti e quelli negati. Intervista a Vilma Nicolini, Responsabile Osservatorio Pari Opportunità

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e non ci fossero state le donne, con le loro tenaci battaglie di emancipazione e liberazione, attraverso un profondo intreccio con le associazioni, i movimenti, i sindacati, i partiti, le istituzioni, l’Italia oggi sarebbe un Paese arretrato”. Vilma Nicolini, Responsabile Osservatorio Pari Opportunità Auser, coglie l’occasione di una significativa ricorrenza per fare il punto sul diritto di cittadinanza delle donne. “Nel 70° anniversario del decreto 74 del 10 marzo 1946, che riconosceva il diritto di voto attivo e passivo alle donne, esercitato per la prima volta in occasione del referendum del 2 giugno 1946, data in cui nacque la nostra Repubblica, l’Osservatorio Pari Opportunità Auser, organizza un convegno che ripercorre le tappe ed i contenuti delle conquiste legislative che hanno cambiato la vita delle donne e di conseguenza l’assetto culturale ed economico del nostro Paese. Il convegno si svolgerà il 14 aprile nel salone Di Vittorio della Camera del Lavoro di Bologna, Via Marconi 67/2, (dalle 14 alle 18) e vedrà la partecipazione, tra le altre, del Presidente Nazionale di Auser Enzo Costa e della Segretaria Generale della CGIL Susanna Camusso; sarà moderato da Tiziana Bartolini, direttora della rivista NOIDONNE”. È importante mettere a fuoco il senso di un’iniziativa così di rilievo... “Penso sia doveroso ricordare il tanto lavoro fatto dalle donne venute prima di noi, che ci permette di godere di libertà e diritti che fino a un secolo fa non esistevano,

che molte volte ignoriamo e non difendiamo. Tante le leggi da ripercorrere che hanno cambiato la vita delle donne italiane, introducendo anche forme di tutele specifiche”. Quali, per citarne alcune…. “Oltre il diritto al voto penso alla legge di tutela delle mamme lavoratrici (1950), a quella sulla parità retributiva tra uomo e donna (1956), al divieto di licenziamento per matrimonio (1963) e poi la legge sul divorzio (1970), la riforma del Diritto di Famiglia e i Consultori (1975), la legalizzazione dell’aborto (1978) e l’abolizione del delitto d’onore (1981); nel 1996, tardivamente, la violenza sessuale diventa reato contro la persona e non più contro la morale, infine la recente legge contro lo stalking (2009) e la legge contro il femminicidio (2013)”. Abbiamo fatto tanta strada, sembrerebbe tutto o quasi conquistato. E invece…. “Il bilancio resta ancora scarso. Da alcuni anni assistiamo ad un arretramento nel rispetto dei diritti acquisiti e ad una mancanza di conquista di nuovi diritti. La crisi ha penalizzato soprattutto le donne, che pagano sia con l’estromissione dal mercato del lavoro, sia con la riduzione del welfare sociale ed il conseguente aumento del carico del lavoro di cura familiare. Oggi possiamo votare, ci sono riconosciuti diritti umani al pari degli uomini, abbiamo convenzioni anche internazionali importanti che ci tutelano e godiamo di maggiori libertà. Dobbiamo però calare quanto raggiunto sulla carta nella vita reale, nei linguaggi, nei pensieri, nelle azioni, per una reale uguaglianza tra i generi. Inoltre non possiamo dimenticare quanto ancora resta da fare nel mondo sul fronte dei diritti delle nostre sorelle afghane, indiane, nepalesi, curde, turche, siriane e libanesi, egiziane, libiche, tunisine, palestinesi, israeliane... Fuori dai nostri confini migliaia di donne e bambine fuggono da uomini che, in nome di una religione, le vorrebbero annullate, sottomesse, ridotte a corpi per il soddisfacimento dei loro piaceri e bisogni o per la procreazione. Dobbiamo lottare anche per loro, restando in allerta per evitare che qualche rigurgito conservatore, e questo Paese ne è pieno, mini le fondamenta dei diritti delle donne, in nome di una presunta tutela o difesa di noi stesse dall’immigrato ‘cattivo’”.

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NASCERE IN ITALIA

Programma 2016 LUCCA

Donna, salute e benessere Istituto Sandro Pertini 18 febbraio - 7 maggio —

SALSOMAGGIORE

Salute del perineo, benessere della donna

Hotel Valentini Terme, 4 e 5 marzo —

GENOVA

La salute e la medicina di genere 8 marzo —

CAMPOBASSO

Umanizzazione delle cure le buone pratiche 19 marzo —

SAN GIULIANO TERME (PI)

Promuovere la salute in ottica di genere aprile —

FIRENZE

Salute e Medicina di Genere quale formazione? maggio —

PISTOIA

Benessere lavorativo e Genere nelle Organizzazioni Sanitarie Palazzo dei Vescovi, settembre

www.donnaesalute.org mail: info@donnaesalute.org cell. 3395364627 - 3470940720 - 335454928

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i nasce perché donna lo vuole e ne è competente. Competente in tutto il percorso della nascita. Competenza potenziale, oggi, in seguito a un processo sviluppatosi nella seconda metà del secolo scorso di invasione delle tecnologie mediche, utili anche come salvavita solo in rari casi (vedi, per esempio, il taglio cesareo; le ecografie, la posizione litotomica, l’induzione del travaglio, la criminale manovra di kristeller, l’episiotomia, il clampaggio del cordone prima che smetta di pulsare; l’allontanamento della persona che nasce impedendo il contatto prolungato pelle-pelle e l’attacco precoce al seno, la sistematica e subdola azione di promozione del latte artificiale; lo svezzamento precoce per di più con prodotti che nessuna persona con raziocinio mangerebbe). L’imposizione del luogo del parto nel posto più pericoloso, l’ospedale, dove ci si dovrebbe andare solo nei casi in cui l’emergenza ostetrica lo richiederebbe. Non adatto per una nascita rispettata, come dovrebbe essere secondo il buon senso, se si conosce il processo della nascita, e le raccomandazioni internazionali (NICE, OMS). Per di più in Italia, grazie all’esperienza geniale del movimento delle donne, sono stati istituiti servizi di base per la promozione della salute innovativi nello scenario internazionale, i consultori familiari, che dovrebbero essere nel percorso nascita i capisaldi dell’assistenza, viste le competenze professionali che ne dovrebbero costituire l’organico con la figura pivotale dell’ostetrica. Solo una politica cialtrona, indirizzata da cosiddette società scientifiche cialtrone, ha potuto operare in termini disvalorizzazione di tali servizi, nonostante le leggi, il POMI. L’assistenza al percorso nascita ha ragione di esistere se è in grado di far emergere, valorizzare, promuovere, sostenere e proteggere le competenze delle mamme e delle persone che nascono, da una parte, dall’altra deve essere in grado di riconoscere il rischio di emergenza ostetrica per richiedere l’affiancamento degli esperti di patologia con i modi e nei luoghi raccomandati dalle evidenze scientifiche disponibili. Affiancamento e non sostituzione perché in caso di patologia è più facile la tendenza a delegare, mentre è ancora più importantevalorizzare le competenze delle donne e delle persone che nascono. La figura professionale competente per tutto il percorso nascita è l’ostetrica, potendo contare sull’integrazione in rete con le altre professionalità e servizi quando necessario. La propria casa, le case di maternità, gestite in autonomia da ostetriche, prossime o indipendenti dai centri nascita ospedalieri e questi ultimi sono i luoghi del parto, con la dominanza dei primi tre e gli ultimi, più rari,con numerosità di norma superiore a mille nascite. L’ostetrica e il consultorio familiare per l’assistenza in tutto il percorso. A quando le linee guida sull’intrapartum e il puerperio? I gruppi organizzati di mamme, in rete, e i collegi delle ostetriche pretendano che il Piano Nazionale Linee Guida provveda urgentemente.


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VERSO IL XVI CONGRESSO A Roma con l’Anteprima l’udi ha organizzato una giornata per riflettere sul presente, le donne, il femminismo. E le sfide epocali in atto

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iopolitica, neoliberismo, globalizzazione, precarizzazione, povertà, consumismo, crisi della politica, terrorismo, guerre, migrazioni di massa. Sono le parole che hanno attraversato l’Anteprima del XVI congresso, previsto a maggio. Una giornata nazionale aperta ai contributi e alle riflessioni che tante donne – anche esterne all’Udi – sono state invitate a portare. “Noi, sguardi di donne sul presente” era il titolo dell’incontro, tenuto a Roma il 30 gennaio 2016 nella sede nazionale, che era anche la sollecitazione a proporre delle riflessioni, a partire dalla propria pratica ed esperienza, sul “contesto in cui donne e uomini si trovano oggi a vivere”. “Il tempo della globalizzazione è il tempo di violenza che non si limita a uccidere ma che penetra e uccide corpo e anime (A.Appadurai)” ha osservato Vittoria Tola introducendo i lavori e ponendo la domanda se il femminismo possiede gli strumenti concettuali necessari a comprendere cosa sta avvenendo storicamente.

Il contributo di Elettra Deiana si è concentrato sul contesto generale e ha analizzato le ragioni di una crisi che non è emergenziale, ma strutturale come le guerre e le migrazioni, “conseguenza del venir meno della geopolitica di Yalta” e della caduta “di quell’ordine giuridico/sociale/economico/costituzionale che ha creato caos anche a causa delle politiche neoliberiste degli anni ’80 che la sinistra non ha arginato” e che oggi fa franare l’Europa e la democrazia. Tuttavia, ricorda Francesca Koch, le migrazioni sono uno dei terreni di sfida più importanti per l’affermazione effettiva dei diritti umani nel mondo, nel tema dell’immigrazione si rivela di centrale importanza la qualità della democrazia. L’immigrazione andrebbe recepita e trasformata in ulteriore fattore propulsivo della democrazia e non già in elemento di crisi della stessa. Si aprirebbe così la strada ad un concetto di cittadinanza europea, sganciata dai fondamenti nazionali, che aprirebbe la strada ad un

nuovo tipo di società civile, in cui sarebbero tutti/e straniere privilegiate, con un nuovo concetto di politica non più legato allo stato-nazione. Un’aspirazione che trova nella testimonianza di una donna eritrea, Ribka, una conferma drammatica perché racconta cosa l’ha spina a scappare insieme a tante del suo popolo e cosa le permette di sopravvivere in Italia nonostante il controllo continuo della dittatura del suo paese e la paura di ritorsioni per i familiari. Si possono fare scelte radicali per uscire da un presente asfittico e che condiziona tutto se si riparte dal dono e non dal consumismo capitalista, sostiene Valentina Sonzini. Il concetto del dono non come gesto consumista o solidarietà da parrocchia, ma come filosofia di vita trattenendo solo il necessario e ciò che è più caro, e lasciando andare il resto. È Judith Butler a suggerire che se non si guarda all’altro, se non si costruisce un senso di comunità, si diventa il sistema nel quale fatichiamo a trovare un senso e che rifiutiamo convintamente perché oggi capitalismo e patriarcato coincidono e sono contro le donne che più di altri hanno bisogno di risposte di senso e di democrazia.

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Approfondisce il discorso Rosangela Pesenti, ricordando che la crisi, i suoi caratteri e la soggettività politica delle donne vanno affrontate con parole chiare superando specialismi e autoreferenzialità. La crisi della democrazia ci rimanda alla nascita dello stato sessista dall’origine, una matrice mentale che parte da Hobbes e arriva alla nostra Costituzione che, nonostante i passi avanti, riassegna alle donne l’essenziale funzione familiare. Dimentichiamo che il patriarcato ha superato differenti modi di produzione dall’età antica alla età feudale, dal capitalismo oggi alla globalizzazione. Se in ogni epoca delle donne vengono cooptate dal potere al suo servizio, oggi l’emancipazione di alcune è pagata sulla pelle di altre. Siamo ancora dentro questa storia, nonostante le donne siano state l’imprevisto della storia soprattutto nell’ultimo secolo.

Rosanna Marcodoppido riparte dalla libertà femminile nell’intreccio con i legami d’amore. Il concetto di libertà ridefinito nella consapevolezza della centralità che assumono le relazioni nella nostra vita: una libertà all’interno dei legami e delle responsabilità e che ha in sé, chiarissimo, il concetto di limite. Oggi la ricerca scientifica e tecnologica ha aperto nuovi scenari che portano miglioramenti della vita, ma anche nuove onnipotenze e preoccupanti dipendenze che pongono nuove domande. Dobbiamo tornare ad occuparci di ciò che sta accadendo nel nostro scenario interiore perché è lì che in buona parte si costruisce il senso dello stare al mondo e l’idea stessa di politica e di pace. Il desiderio di libertà e quello d’amore ne sono componenti fondamentali. Stefania Cantatore sottolinea come stiamo scontando la grande illusione di aver pensato che le conquiste degli ultimi quaranta anni fossero per sempre e non passaggi che potevano essere messi in discussione sottovalutando la sempre rinnovata capacità di riposizionamento del dominio maschile. Se negli anni ‘70 abbiamo saputo convincere e raccogliere il desiderio femminile, oggi siamo deboli anche per una scarsa interlocuzione con tante altre donne? come le donne migranti di Lampedusa che in un

film sono le protagoniste di una storia di immigrazione che non ascoltiamo.

Lia Migale ribadisce l’importanza di pensare in termini globali da femministe per capire come muoversi e come affrontare il “contemporaneo” che oggi sono i/le migranti affrontando la velocità delle notizie e dello spostamento di masse umane e i legami con territori dati per morti e in realtà sottratti alla sopravvivenza di molti. Nel caos si chiede, pensando a Roma, se non è arrivato il momento di pensare a una propria rappresentanza. Laura Greco lavora alla cooperativa A Sud, che si oc-

cupa di questioni ambientali e sociali in cui spesso è debole l’approccio di genere. Questo nonostante sulle donne in particolare siano più gravi gli impatti ambientali e siano loro le protagoniste della sussistenza e della resistenza alle devastazioni nel sud del mondo ma anche nei sud del nord


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del mondo. A cominciare da Taranto, dove uno sviluppo cieco crea patologie importanti alla salute riproduttiva, all’allattamento e ai bambini in particolare. La battaglia di Taranto, per riuscire come donne ad avere servizi per indagini precoci sulle metroraggie e la salute riproduttiva, dimostra l’impossibilità di ascolto delle istituzioni per soluzioni legislative adeguate su cui bisogna costruire alleanze per raggiungere l’obiettivo.

Federica Dolente ha raccontato i mutamenti degli ul-

timi anni su tratta e prostituzione povera in seguito al mutamento dei flussi migratori. Dalila Novelli, ha ricordato il valore della autodeterminazione in un mondo che trascura salute riproduttiva e va verso un’esplosione demografica. Margherita Cattera ha sottolineato come il pensiero femminile non sia pensiero dell’UN0 e, pur dichiarandosi d’accordo con la legge sulle unioni civili, esprime le sue contrarietà alla stepchild e alla maternità surrogata.

Vanna Palumbo

per esperienza racconta come la paura sia cattiva consigliera sugli immigrati e la relazione e la fiducia creino situazioni positive e invita, a proposito dei grandi inganni mediatici, a ricordare il lavoro positivo di tante giornaliste nonostante la loro posizione debole nelle redazioni e la nascita di una nuova associazione consapevole di questo: GIOCO giornaliste per la Costituzione. Tiziana Bartolini fa riferimento alle molte donne ai vertici dell’economia e della finanza a livello europeo e mondiale e propone di pensare a come interloquire con loro, ossia con chi il potere lo ha, ma non lo esercita con approccio di genere e si è dimenticata delle altre.

Giovanna Scassellati riassume la tragica situazione della legge 194 a causa dell’obiezione di coscienza che si estende alla pillola del giorno dopo. Luciana Romoli, staffetta partigiana, ha ricordato le tante conquiste e sottolineato il senso di pericolo e la paura che serpeggia ovunque per gli immigrati, mentre vediamo in televisione città sventrate e bombardate. Si chiede come far rivivere gli ideali di pace e contro l’atomica delle donne italiane. Forte e preoccupato l’intervento di Laura Piretti che, di fronte a tante suggestioni del dibattito e allo scenario complessivo globale, si chiede quali strumenti possiamo usare subito per affrontare le questioni su cui abbiamo tanto lavorato e che ci stanno a cuore come la legge 194, la maternità surrogata, la frana dei nidi, un welfare diventato liquido. Quale parola delle donne e quale protagonismo l’Udi mette in campo sulle partite che ci stanno più a cuore come la

piattaforma di genere sul rapporto corpo lavoro a cui si sta lavorando. A Modena si pensa anche a una ri-proposizione aggiornata dei Treni della felicità del dopoguerra ma questa volta non per i bambini del sud ma per i migranti. Con vero sprezzo del pericolo! “Una giornata molto ricca con interventi sapienti e la sofferenza sentita ci riguarda - ha detto Alba Dini - che richiede radicalità di risposte e alleanze conseguenti perché non bisogna fidarsi di quello che c’è sotto le strutture del potere diventato oscuro.

Delia La Rocca, riesaminando le troppe questioni irrisolte, si è chiesta da dove ripartire per superare afasia e autoreferenzialità e dire parole di senso sulla polis e ha sostenuto che oggi siamo oltre il neoliberismo, siamo alla guerra dichiarata! Quali sono le parole di donne sulla guerra? Domande gravi perché oggi la crisi è connotata dall’ignoranza di dove sta il potere per interloquire, resistere o contrattaccare. b L’Udi ha curato la trascrizione degli interventi e ha realizzato la sintesi pubblicata in queste pagine. La versione integrale del resoconto è su http://www.noidonne.org/blog.php?ID=06965

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LE DIVERSITà

CHE CI ALLONTANANO A cura di Tiziana Bartolini

La questione del genere è all’attenzione del mondo, ma le donne non si riconoscono nelle stesse battaglie. Il punto di vista, originale, di Nadia Urbinati

Nadia Urbinati è titolare della cattedra di Scienze

Politiche alla Columbia University di New York e si occupa del pensiero democratico e liberale contemporaneo oltre che delle teorie della sovranità e della rappresentanza politica. Ha pubblicato molti libri e firma articoli su La Repubblica e su altri quotidiani e periodici nazionali. L’abbiamo intervistata, nell’ambito del nostro focus dedicato alla Giornata internazionale delle donne, per raccogliere il punto di vista di una studiosa che osserva e analizza il mondo odierno e le sue dinamiche politiche ma che non si colloca nel solco del pensiero femminista.

Dagli Stati Uniti, dove lavora, ha modo di osservare il mondo nella sua complessità, come vive questa fase della storia così dura e anche così difficilmente comprensibile?

La battaglia per la parità salariale è che quella che sta più al centro del dibattito oggi negli Stati Uniti. E non tanto perché Hillary Clinton vi ha costruito intorno la sua campagna elettorale. Le rimostranze per le diseguaglianze di stipendio a parità di mansione e merito sono da qualche anno molto forti, soprattutto nelle Università, un bastione di contro-reazione maschile contro l’espansione della presenza femminile. Sembra che, dopo aver capitolato (per ora) sull’ammissione delle donne nei luoghi di formazione e nelle professioni, si stia affilando una nuova strategia di discriminazione: quella sul riconoscimento economico. Dove, come negli States, gli stipendi sono tutti individuali e non c’è alcun contratto o politica nazionale, la lotta contro la discriminazione salariale è una battaglia permanente.

L’8 marzo è una data simbolica per le donne a livello internazionale, ma la loro azione non è incisiva, le connessioni al femminile sono deboli e non riescono ad avere unanime voce pubblica. Perché, secondo lei, non c’è un’agenda, anche di massima, intorno alla quale le donne possono riconoscersi e per cui possono battersi tutte insieme e con più forza? Forse perché non c’è una “sostanza” di genere da rappresentare e da difendere e il “genere” è a tutti gli effetti una rappresentazione, una costruzione, che riposa quindi sul diretto coinvolgimento delle interessate, e sulla capacità loro di andare oltre le differenze e individua-


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re quelle equivalenze che possono fare in modo che si profilino comuni piattaforme di lotta. Non so trovare un’altra spiegazione. E poi, occorre tener presente che le condizioni sociali o di classe sono anche tra le donne barriere forti; le donne che vivono in povertà non stanno spesso dalla stessa parte delle donne benestanti o che hanno una carriera di successo. Le questioni di genere sono in alcuni casi unificanti, ma non in tutti i casi.

Per contro di donne sulla ribalta pubblica ce ne sono molte, e non sono poche quelle che hanno anche ruoli di potere politico, economico e finanziario. Ma come non osservare che le loro voci e azioni vanno in direzioni opposte. Per fare degli esempi estremi, troviamo le combattenti peshmerga nella lotta armata per la democrazia e poi ci sono donne alla testa di movimenti xenofobi e ultra conservatori, vedi Marine Le Pen in Francia. Sono obiettivi inconciliabili e appaiono molto lontani gli anni in cui il femminismo o prima ancora l’emancipazionismo riempiva le piazze con slogan e intenti largamente condivisi. Ma cosa è successo alle donne? Le donne come gli uomini hanno ideologie politiche diverse, appartengono a classi sociali diverse, a nazioni diverse. Non credendo che ci sia una “sostanza” chiamata “genere” non mi resta che prendere atto che la diversità è altrettanto presente e forte tra le donne come tra gli uomini. È vero però che, anche qualora ci siano donne che si posizionano su ideologie molto diverse, e anche opposte (le hai fatto l’esempio di Marine Le Pen tra l’altro), esse sentono comunque il bisogno di coniugare la loro ideologia, anche la più reazionaria e nazionalista, in modo che sia in grado di parlare anche alle donne. Certo, la strategia elettorale lo impone, poiché le donne votano e il loro voto va corteggiato. Ma non è solo una ragione strategica. Anche diversi anni fa le donne votavano, eppure l’attenzione al “genere” non era proprio così forte. Questo significa che a di là delle divisioni ideologiche e politiche, la questione del “genere” è avvertita in maniera universale.

Quindi ha ancora senso guardare le donne come un universo unico, seppur articolato? Pensiamo alle tante e grandi differenze che le trovano separate nella dimensione culturale, religiosa o economica. I divari del reddito scavano solchi sempre più profondi, poi ci sono diverse opinioni anche sui diritti civili o sull’osservanza delle rispettive religioni... Di nuovo, una giornata internazionale delle donne, che senso

assume, oggi, in un mondo in cui anche le donne sono così vicine e così lontane? Mi sembra di aver già risposto alla sua domanda. Di unico vi è il fatto che ancora oggi, e anche nei paesi a stabile democrazia costituzionale, le donne devono essere guardinghe e non fidarsi solo della legge, che proclama eguaglianza dei diritti e tuttavia non è così fortemente inculcata nella mente degli uomini e delle stesse donne da essere operante da sola, o per inerzia. Questo vale del resto per tutti i diritti, che non sono conquiste una volte per tutte ma promesse che possono essere disattese, strumenti giuridici che possono essere interpretati in maniera moto restrittiva. Pensiamo al caso italiano, alla fatica che ancora si fa in questo paese ad accettare l’idea del diritto eguale, del fatto che non solo gli eterosessuali possano vantare il privilegio di potersi unire (e se un diritto non è egualmente goduto è un privilegio, non un diritto; ovvero gli eterosessuali quando si oppongono agli omosessuali su questo terreno accampano un privilegio e quindi mostrano di voler dominare il modo di intendere e vivere il diritto sugli altri che sono minoranza). Ancora difficilissimo è per i non eterosessuali aver riconosciuta la possibilità di adottare un figlio. Perché? Perché la maggioranza decreta il significato di matrimonio e di famiglia, magari nel nome della natura, come se la natura conoscesse la regola di maggioranza o avesse rappresentanti in Parlamento! Insomma, l’eguale diritto si ferma davanti alla porta della cultura della maggioranza, sia essa di tipo religioso, una credenza consolidata, una tradizione, ecc. La stessa logica vale per tante altre conquiste che hanno avuto le donne come protagoniste. Prima della lotta degli omosessuali, le donne, pensiamo all’Italia, hanno dovuto rivendicare di avere gli stessi diritti (per esempio di accedere alle professioni o di chiedere, anche loro, la possibilità di ottenere una separazione, o di interrompere una gravidanza non voluta). Insomma, la battaglia per l’eguaglianza di possibilità di godere dei diritti eguali è sempre in corso e mai proprio vinta, anche quando i codici dichiarano che abbiamo diritti.

Lei vede, riconosce uno ‘specifico femminile’ (un approccio particolare delle donne, una sensibilità originale…) che potrebbe dare un contributo alla soluzione di qualcuno dei grandi problemi odierni? Cerco quando è possibile contribuire a giornali e pubblicazioni - come a NOIDONNE, un grande e importante giornale, sulle donne ma partigiano, un connubio tra genere e idee politiche che mi ha sempre convinto. Sono onorata di collaborarvi. ◆

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NON C’È FEMMINISMO

SENZA UTOPIA A cura di Tiziana Bartolini

Le grandi organizzazioni femministe sono morte insieme alle ideologie, ma le discriminazioni da combattere sono ancora tante e le donne devono chiedere di più. Parola di Dacia Maraini

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a dedicato molti suoi libri a figure femminili - Marianna Ucrìa, Santa Chiara di Assisi, Maria Stuarda, la cortigiana Veronica Franco, la giornalista Michela Canova - sempre sfidando i pregiudizi e nel suo ultimo “La mia vita. Le mie battaglie”, Dacia Maraini, sollecitata dalle domande di Joseph Farrell, ripercorre le tappe salienti della sua esistenza. L’abbiamo interpellata per questo nostro focus sull’8 marzo, sulla sua visione del mondo. E delle donne.

Da scrittrice e donna di cultura che ha modo di viaggiare e di osservare il mondo nella sua complessità, come vive questa fase della storia così dura e anche così difficilmente comprensibile? Penso che stiamo entrando in una crisi mondiale molto grave, che annuncia guerre. Mi sorprende l’incoscienza dei nostri politici che stanno a bisticciare, insultandosi infantilmente, rinunciando ad alzare la testa e guardare il mondo. Sembra che tutto si risolva nel cerchio del proprio ombelico geografico, nelle piccole beghe interne. La cosa che mi avvilisce è quando scopro che alcuni politici gongolano di felicità quando le cose vanno male per il paese, perché così possono dire peste e corna dei loro avversari. Lo trovo grottesco e immorale.

sul piano legale, che storico che sociale. Ma sono piccoli gruppi di iniziativa privata. Mancano i grandi ideali che smuovono le masse.

Perché manca una parola pubblica incisiva delle donne, perché non si riesce a delineare un’agenda, anche di massima, intorno alla quale le donne possono battersi tutte insieme?

Eppure ci sono tante donne sulla ribalta pubblica, anche con ruoli di potere. Ma come non osservare che il loro protagonismo è finalizzato, talvolta, verso obiettivi inconciliabili: dalle combattenti peshmerga fino a una Marine Le Pen, alla testa di movimenti xenofobi e ultra conservatori, per fare esempi estremi. Sono lontani gli anni in cui i movimenti riempivano le piazze con intenti largamente condivisi. Ma cosa è successo alle donne?

Perché le grandi organizzazioni femministe sono morte assieme con l’ideologia. Anzi sono morte tutte le ideologie e tutte le utopie che hanno spinto le masse negli anni ‘70. La prassi continua: molte donne si rimboccano le maniche e lavorano per migliorare la condizione delle donne sia

Le donne non sono tutte uguali. Per fortuna! Proprio come succede agli uomini, poiché le donne appartengono al genere umano prima che al genere femminile, sono capaci di fare il male e fare il bene. Il libero arbitrio è una grande libertà che nessuna religione e nessuna politica 4 segue a pagina 22


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SINDACA DI FRONTIERA AL SERVIZIO DELL’UMANITà A cura di Tiziana Bartolini

La questione non è tra uomini e donne, ma nel senso che diamo alla gestione del potere. Da Lampedusa Giusi Nicolini spiega la differenza tra un’idea di prevaricazione sull’altro e l’esercizio della responsabilità verso tutti e tutte

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mpegnata da sempre nelle battaglie ambientaliste, Giusi Nicolini è stata eletta sindaca di Lampedusa e Linosa nel maggio 2012. Tante le sfide per una donna che da attivista di Legambiente ha combattuto l’abusivismo edilizio e tutelato la spiaggia dei Conigli e che nel ruolo di prima cittadina, oltre alla gestione amministrativa di territori splendidi ma difficili, affronta quotidianamente i naufraghi che arrivano con i loro drammi fuggendo da guerre e fame. A distanza di quattro anni mantiene intatta l’idea di una politica autentica, al servizio della collettività e rispettosa della dignità delle persone. E una lucidità nel valutare il senso profondo delle conquiste delle donne.

Attraverso le testimonianze di migliaia di uomini e donne che continuano ad approdare a Lampedusa lei ha modo di entrare in contatto con una umanità dolente che si mette in cammino anche accettando la sfida ‘dell’ignoto’ . Ci sono differenze nella scelta che spinge le donne, rispetto agli uomini, a lasciare i loro paesi d’origine? ...un diverso sguardo verso il futuro, sentire diversamente le responsabilità nei confronti dei figli... oppure? Non parlerei di scelte, ma di costrizioni. In un modo o nell’altro, donne e uomini hanno in comune qualcosa da cui fuggire. La guerra, la fame, la violenza, la dittatura. Alcune vogliono raggiungere il marito o fratelli che le avevano precedute. Poi ci sono le giovani donne allontanate con la forza dagli orrori della propria terra, per finire nel commercio della prostituzione. Ma ogni donna ha la sua storia personale, le sue individuali motivazioni. Sono, però, tutte vittime della tratta di esseri umani e il denominatore comune è la paura. Questo è il motore che spinge uomini e donne ad intraprendere un viaggio costellato di incognite, con altissima probabilità di naufragio. Per tutte le donne sole, quei viaggi lungo il deserto, la prigionia e gli stupri, diventano spesso incubi peggiori

di quelli da cui sono fuggite. Salire sul barcone, rischiando la morte, è solo l’ultimo gesto disperato.

In questi anni ha visto cambiare le ragioni per cui donne e uomini si imbarcano verso l’Europa per arrivare a Lampedusa? No. Semplicemente sono progressivamente peggiorate le loro condizioni di vita, sono aumentati instabilità e conflitti nei loro Paesi. In prospettiva, gli effetti dei cambiamenti climatici incideranno sulle migrazioni, dato che esaspereranno le povertà e favoriranno nuove guerre. D’altra parte, la Ue ha intrapreso solo politiche di contenimento dei flussi migratori, senza provvedere alla necessità di riconvertire politiche economiche e di attuare effettive politiche di aiuto e solidarietà verso i Paesi africani. Ed è giusto ricordare che l’Isis non è l’unica realtà che semina terrore e costringe interi villaggi alla fuga. Tutta la comunità internazionale dovrebbe sapere che la pace si costruisce anche impedendo ulteriore sfruttamento di risorse in quei paesi e contrastando il commercio e i traffici di armi.

Anche prima di essere eletta sindaca, lei è stata impegnata in politica e nel sociale in un territorio di frontiera. Alla luce, appunto, di questa sperimentata militanza e dal suo punto di osservazione, che opinione ha in generale dell’attuale, difficile, fase politica internazionale che viviamo? Vivo ai margini di un’Europa che sembra frantumarsi nel 4 segue a pagina 22

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può proibire, salvo farsi dittatura e oppressione. Quindi è normale e comprensibile che ci siano donne generose, moderne, avanzate culturalmente e donne antiquate, razziste,bigotte. Chi pensa alle donne come a un fronte unico, fa del razzismo. Non esistono una razza femminile e una maschile. Esiste l’essere umano con i suoi diritti e i suoi doveri. Detto questo bisogna riconoscere che esiste una questione femminile, ma dovuta alla storia non alla biologia. Non perché le donne sono fatte in modo diverso, ma perché hanno vissuto una storia diversa, non voluta da loro ma imposta dal patriarcato che le ha demonizzate, colpevolizzate, chiuse dentro un destino e un ruolo stereotipato spesso limitativo e umiliante. Anche se oggi le cose sono molto cambiate, restano ancora tante forme di discriminazione contro cui combattere. Il femminicidio, per esempio è un delitto di genere, ma non dovuto alla “aggressività innata degli uomini”, come pensano alcuni, ma ad una antica cultura del possesso che torna a galla come un rigurgito in tempi di emancipazione. Se andate a leggere le motivazioni dei delitti in famiglia c’è sempre un momento in cui lei dice “me ne vado” e lui entra in crisi. Perché ha identificato la sua virilità col possesso di quella donna, di quella famiglia. La crisi è culturale non biologica. Certi uomini, soprattutto i più deboli, hanno paura dell’autonomia femminile; una paura talmente devastante da trasformarli in assassini. Quasi un delitto ogni due giorni: non è una cosa normale. Segno che l’emancipazione femminile crea terremoti culturali di non facile gestione. Di fronte a queste forme di violenza, le donne hanno il diritto di chiedere più autonomia, più libertà professionale, più rispetto. Tutte cose, che in momenti di crisi come questo, vengono tranquillamente gettate da una parte.◆

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nazionalismo, proprio nel momento in cui invece bisogna sfidare la globalizzazione e dotarsi di politiche comuni. Eppure, l’umanità in fuga che attraversa Lampedusa, guarda a questa Europa con speranza e fiducia. Credo che loro abbiano ragione ad avere fiducia.

La Giornata internazionale delle donne rimane una data simbolica, ma è inevitabile osservare che la parola politica delle donne non riesce a farsi sentire e ad incidere. Perché, secondo lei, non c’è un’agenda, anche di massima, intorno alla quale le donne possono riconoscersi e per cui possono battersi tutte insieme e con più forza, come è accaduto in passato? Come dimostrano le grandi battaglie e conquiste del passato, le lotte delle donne sono servite ad allargare l’orizzonte dei diritti di tutti, a produrre profondi cambiamenti nella società e nelle relazioni interpersonali. Così la lotta contro la violenza di genere servirà ad affermare che nessun essere umano può essere posseduto, usato e annientato come un qualunque oggetto. Oggi più che mai le donne devono continuare a fare né più né meno di questo: difendere se stesse per difendere tutti, conquistare libertà e diritti per tutti, pretendere che al centro della politica ci sia la persona, la sua dignità, la sua essenzialità e il suo futuro. Devono fare, insomma, quello che oggi serve più di ogni altra cosa.

Comunque donne ai vertici, anche internazionali, ci sono ed esercitano il potere ‘vero’. Secondo lei, anche pensando a specifiche figure e ruoli, è rilevabile un approccio femminile nell’esercizio di questi poteri? E c’è, o potrebbe esserci, un minimo comun denominatore al femminile che potrebbe essere la base per (ri)costruire relazioni ed eventuali strategie comuni e al femminile? È proprio la concezione del potere a fare la differenza, non tanto tra uomini e donne, ma tra chi ritiene di esercitarlo come dominio sull›altro (qualunque sia il suo sesso) e chi ha coscienza del governo come responsabilità, servizio per la comunità, strumento ed occasione per migliorare la vita di tutti. Mi piace pensare a tante giovani donne e giovani uomini che in giro per il mondo stanno restituendo dignità, umanità e bellezza alla politica. E, nonostante sia stata e sia una delle più ferree espressioni della Troika, mi piace pensare alla Merkel che decide di accogliere i profughi siriani perché è una statista prima che una donna. Ma non avremo mai la prova del contrario.◆


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AGRICOLTURA, FEMMINILE PLURALE di Tiziana Bartolini

Aumenta il numero delle giovani che vedono il loro futuro nel settore agricolo. Fattorie didattiche, agriasili e nuove colture con un occhio vigile all’equilibrio tra reddito e rispetto dell’ambiente. Un po’ di numeri e le testimonianze di Donne in Campo-Cia

di. Si tratta di servizi all’avanguardia che contribuiscono a portare al 35 per cento il contributo delle donne al valore aggiunto complessivo dell’agricoltura, che si aggira intorno ai 26 miliardi di euro. Di questi, quindi, ben 9,1 miliardi sono “rosa”: una cifra importante, che rivela il coraggio e la tenuta delle imprese femminili, capaci di percorrere strade e mercati nuovi pur di non soccombere alla crisi. Per dare un metro di paragone, solo negli agriturismi metà del giro d’affari ‘dipende’ dalle donne: su circa 20mila strutture in tutta Italia, quasi il 40 per cento è gestito da imprenditrici, che muovono ogni anno un fatturato di circa 500 milioni di euro su un totale di 1,1 miliardi dell’intero settore”. È la conferma di quella che l’Inea (Istituto nazionale di economia agraria, 2014) definisce “femminilizzazione” di un settore popolato da un universo di donne che ruota a vario titolo intorno alle aziende agricole. È un esercito armato di un’incrollabile passione e di una robusta capacità imprenditoriale, un capitale umano e professionale di qualità che si rivela una preziosa fonte rigeneratrice per un settore in cui l’invecchiamento è tra i più alti registrati in Europa. In Italia, infatti, solo il 10 per cento della popolazione agricola ha meno di 40 anni di età. La diversificazione delle attività e la multifunzionalità sono le strategie vincenti con cui le signore della terra hanno ridato impulso alle loro aziende, riuscendo a

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na azienda agricola italiana su tre è guidata da una donna. Un protagonismo femminile in costante ascesa da 20 anni con un dato percentuale, secondo i censimenti agricoltura Istat (2000 e 2010), che dal 30 passa al 33 per cento. Si tratta di circa 371mila imprese che occupano 180mila persone, di cui 40mila dipendenti. Particolarmente interessante il dato rilevato nell’ultimo studio Unioncamere nel settore agricolo - riferito al terzo trimestre del 2015 - da cui emerge che l’apporto più significativo arriva dalle imprese degli under 35 (+909 unità) seguite da quelle delle donne (+363 unità). Aumenta, infatti, il numero delle giovani che guardano all’agricoltura per costruire il loro futuro. E il fatto che sia sempre più una scelta ponderata e non un ripiego conferisce a questo trend uno speciale significato sociale e culturale. “Le donne aprono le porte delle loro aziende ai turisti, alle scolaresche, ai disabili, agli anziani - spiega Cinzia Pagni, vicepresidente CIA (Confederazione italiana agricoltori) -, lo fanno creando agriturismi, fattorie didattiche e fattorie sociali, agriasili e agrini-

coniugare la redditività con il rispetto per l’ambiente, il territorio e la salute. Un’idea di agricoltura che risponde alla volontà di affermare una cultura fedele a valori fondanti e irrinunciabili quali la cura del paesaggio, delle risorse naturali e della biodiversità.

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DONNE IN CAMPO, tutto quello che c’è da sapere È la principale associazione italiana di imprenditrici e donne dell’agricoltura che crea ‘reti’ di donne sul territorio rurale, tesse relazioni tra le aziende e costruisce comunità e gruppi locali; — Vuole ripristinare un sano ed equilibrato rapporto con l’ambiente e una piena e libera espressione delle capacità imprenditoriali delle agricoltrici e degli agricoltori italiani/e; — È impegnata nella valorizzazione di tutti i metodi di produzione agricola ecocompatibili con particolare attenzione alla salvaguardia della stabilità e alla fertilità dei suoli; — Vuole introdurre con la ricerca innovazioni culturali, di processo, di prodotto e di diversificazione delle attività aziendali a integrazione del reddito; — Tramanda le culture locali e le tradizioni alle nuove generazioni, perché non muoiano le mille culture che hanno animato il nostro paese; — Ama la terra e ama l’Italia in quanto luogo che ha generato un’agricoltura - la nostra - che è visione del mondo, paesaggi inimitabili, bellezza, salute ed etica dei processi; — Vuole un’agricoltura perno principale di un modo d’essere e di una sapienza individuale e collettiva apprezzato nel mondo e che mette insieme una straordinaria biodiversità, un forte senso del bello e una cultura alimentare incomparabile e diversificata in modo sorprendente.

rantiscono performance di fatturato più elevate”. Rossana Zambelli, direttrice CIA, aggiunge ulteriori elementi. “Il valore aggiunto sta lì. La donna è tendenzialmente innovatrice, riesce a mettere a frutto la sua particolare sensibilità sulle questioni che si trova ad affrontare. Fondamentalmente reagisce in modo più costruttivo e veemente alle crisi e alle difficoltà, insomma si deprime difficilmente”. Ecco spiegato il fiorire di una vasta gamma servizi legati all’agricoltura sociale e di iniziative multiformi: attività di trasformazione e conservazione di ortaggi e frutti, recupero di antiche cultivar, mercati e vendite a filiera corta. Mara Longhin, presidente nazionale di Donne in Campo/Cia parla di “sfida” per aziende che si misurano costantemente “sul filo del binomio formato da etica e business” e che hanno l’ambizione di dimostrare che “tenendo insieme le due categorie si può produrre reddito e incentivare il territorio avendo cura della salute, dell’ambiente, della biodiversità, della cultura rurale”. Una sfida che le imprenditrici stanno vincendo, nonostante le persistenti discriminazioni in un settore a forte connotazione maschile. “Di strada ne abbiamo fatta - spiega Longhin - e possiamo dire di essere riuscite a far pesare la visione di genere, che oggi è diventata irrinunciabile, proprio

Testo tratto dal sito www.donneincampo.it mail: Donneincampo@cia.it

Le donne hanno compreso il valore delle loro competenze e dei gesti con cui per millenni hanno custodito il mondo rurale e hanno fatto della tutela delle tradizioni locali e degli antichi saperi i punti di forza di un’agricoltura capace di creare nuovi flussi di reddito. Con determinazione e fantasia ristrutturano le aziende di famiglia, riorganizzano le produzioni, sperimentano percorsi innovativi. Per ammissione delle stesse associazioni di categoria, molte realtà si sono salvate grazie alla capacità delle donne di guardare i loro campi da altri punti di vista. “Un recente studio del Censis, realizzato con la nostra collaborazione, ha evidenziato che due aziende di identiche caratteristiche realizzano fatturati diversi in base al sesso e l’età del titolare che la conduce: giovani e donne ga-

perché è portatrice di diversità. È l’affermazione che la diversità è un valore non solo nel mondo biologico ma anche in quello economico e sociale. Noi lo abbiamo fatto cercando di essere ai tavoli dove si discute e si decide. La base di partenza, però, è stata la nostra consapevolezza delle difficoltà. Questo ci ha rese più forti”. Le donne percorrono una strada impegnativa, ma sono ri-


AgriCatering: alta qualità

a filiera corta. Anzi cortissima “Scoprire e rilanciare le antiche ricette dei territori rurali con prodotti di stagione appena raccolti e subito cucinati, valorizzare il protagonismo delle donne dell’agricoltura depositarie dei saperi contadini, creare un rapporto diretto fra produttore e consumatore anche a tavola, offrire nuove occasioni di reddito alle aziende agricole ‘rosa’ e contribuire alla difesa dell’ambiente accorciando la filiera ‘sfruttando’ tutte quelle produzioni locali che necessitano di minori quantità di combustibili fossili per essere coltivate e trasportate”. Toscana e Basilicata hanno fatto da apripista, ma per Donne in Campo l’obiettivo di AgriCatering è creare una vera e propria rete nazionale. Un business che vale 150 milioni di euro l’anno e che è ‘sano’ perché nasce dall’intreccio tra le tradizioni culinarie dei territori e gli antichi saperi contadini femminili. Sono attività che possono nascere e svilupparsi a metà strada tra il servizio di catering e l’impiego delle produzioni agricole: una filiera corta - anzi cortissima - di nuova generazione che elimina le intermediazioni a tutto vantaggio della qualità e dei costi. Un progetto che unisce un alto valore culturale e sociale ad un notevole impatto economico su scala nazionale, che apre una nuova frontiera dell’agricoltura al femminile cogliendo la vocazione del settore alla multifunzionalità. A garanzia della qualità c’è un regolamento, un marchio e un rigido disciplinare che punta alla provenienza dei prodotti e all’identità degli spazi rurali.

uscite ugualmente a contaminare l’agricoltura, tanto che i temi dell’Expo di Milano sono stati la nutrizione e la sicurezza alimentare e per la prima volta una struttura organizzata al femminile come Women for Expo ha avuto un ruolo centrale e ha lanciato un sodalizio che continuerà il suo cammino lungo il solco tracciato dalla Carta di Milano, condivisa da oltre un milione di persone che l’hanno sottoscritta. ❂

STRATEGIE

PRIVATE

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di Cristina Melchiorri

IL FUTURO È DELLE DONNE TECNOLOGICHE Sono Anna, mamma un po’ in apprensione di Alba, mia figlia, che vuole iscriversi all’università, scegliendo informatica. Non vorrei essere antiquata, e so che le è sempre piaciuto “smanettare”sui pc, ma temo che faticherà ad affermarsi in un ambito così “maschile”. Che ne pensa? Anna Arcieri (Sesto San Giovanni/Milano)

Cara Anna, effettivamente ci sono solo due donne nella classifica stilata di recente da Business Insider sui 20 big della tecnologia più influenti nel 2015. Un dato che parla da solo sul rapporto ancora conflittuale tra donne e tecnologia. Sia la cultura dominante, che le università, che il mondo del lavoro non sono accoglienti con le donne che amano scienza e tecnologie. Anche se negli ultimi tempi sembra esserci un’inversione di tendenza: ci sono diverse donne che guidano grandi aziende tecnologiche: Marissa Mayer, Ceo di Yahoo; Susan Wojcicki, Ceo di YouTube, Sheryl Sandberg, Chief operating Officer di Facebook. E la stessa Hillary Clinton ha scelto Stephanie Hannon come Chief Technology Officer per la campagna presidenziale, la prima donna ad avere la responsabilità della campagna digitale a questo livello. Anche in Italia sempre più aziende hanno deciso di puntare sulle donne in ambito tecnologico e scientifico. Come dimostra il percorso di carriera di Stella Brandolese, geologa, che da più di un anno vive e lavora al Cairo presso la sede Eni in Egitto, con il ruolo di Exploration Project Manager. Secondo lei ci sono ancora troppi stereotipi che bloccano l’ascesa femminile nel settore: “La forte concorrenza che si incontra lungo la strada della carriera richiede un’aggressività ritenuta più tipicamente maschile e anche la razionalità dell’attività scientifica potrebbe sembrare incompatibile con l’immagine della donna orientata più verso gli aspetti emotivi che privilegiano la soggettività”. A essere nemico delle donne è poi il tempo, considerato che “l’età critica per investire nella carriera coincide con quella adatta a costruire una famiglia”. Tutto vero. Ma, cara Anna, se tua figlia ama questo ambito e si trova a suo agio supportala nella sua scelta. Sarà dura ma riuscirà nel suo percorso, anche se in salita. Anche per noi, della generazione precedente, non è forse stato così? E quando, per raggiungere la vetta di qualunque montagna, non si fatica?

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IL PREMIO NOBEL

A UNA VOCE FUORI DAL CORO A Svetlana Aleksevich assegnato l’importante premio per la Letteratura. Riconoscimento anche per i valori della democrazia e della cultura di un piccolo paese

bielorussia

di Cristina Carpinelli

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l premio Nobel per la Letteratura è andato nel 2015 alla essere un’agente della Cia. Lei è principalmente una cronigiornalista e scrittrice bielorussa Svetlana Aleksevich. sta e i suoi libri sono dei reportage. Un approccio a cui la La filologa svedese Sara Danius, neo segretaria permanengiornalista bielorussa si mantiene fedele da più di trent’ante dell’Accademia reale di Svezia, ha letto in diretta mondiale ni, quasi a negare recisamente il concetto stesso di finzione. le motivazioni ufficiali: “per la sua scrittura polifonica, e per L’autrice, infatti, non inventa, non rielabora, e non narra, si liun lavoro che è un monumento alla sofferenza e al coragmita a trascegliere e assemblare in una sorta di montaggio i gio del nostro tempo” (…). Svetlana Aleksevich è la 14esima monologhi o soliloqui delle persone da lei incontrate. Eppure donna a vincere il Nobel per la Letteratura da quando è stato assegnato per la prima volta nel 1901. “Meraviglioso. Mi sono subito senSvetlana tita circondata da grandi ombre, come Bunin Aleksevich o Pasternak, è un sentimento da un lato fantasi è posta sempre stico e dall’altro inquietante” ha detto la scritin termini critici nei confronti trice commentando il premio, e in una breve del regime telefonata con il network Stv ha ringraziato la di Lukashenko Svezia perché “ha compreso il dolore russo”. e per questo Dopo l’assegnazione dei premi Nobel a grandi i suoi libri pilastri della letteratura russa (Bunin, Pastersono stati banditi nak, Sholokov, Solzhenitsyn, Brodskij), l’Acdal paese cademia svedese ha pensato a una donna, Svetlana Aleksevich, anche lei come le altre, una figura russa che, suo malgrado e sulla sua pelle, ha finito per fare storia, non solo della letteratura. Ecco il suo stile fonde un approccio documentario alla materia resa perché questo è anche un Nobel “politico”. con una fluidità e densità emotiva proprie del romanzo classiLa Aleksevich ha dedicato il premio alla sua terra nativa, la co russo. Per Sara Danius “La sua (…) non è una storia fatta di Bielorussia, “schiacciata dalla storia”. “Non è un premio per eventi, ma una storia di emozioni. Ciò che ci offre nei suoi libri me - ha affermato - ma per la nostra cultura, per il nostro picè un mondo emotivo, in modo che gli eventi storici che tratta colo paese, che è stato messo nel tritacarne della storia”. La nei suoi libri, come ad esempio il disastro di Chernobyl’ o la vittoria dell’autrice di La guerra non ha un volto di donna (traguerra sovietica in Afghanistan, siano pretesti per esplorare dotto da Bompiani, 2015) è un riconoscimento ai valori della l’individualità del singolo”. I romanzi della Aleksevich hanno democrazia, della libertà e del libero pensiero. Com’è noto come contenuto le migliaia d’interviste condotte soprattutto su Svetlana Aleksevich si è posta sempre in termini critici nei donne e bambini, trasfigurate in un magmatico racconto che confronti del regime di Lukashenko, e per questo i suoi libri le fonde. Ecco cosa dice la stessa scrittrice, a proposito del sono stati banditi dal paese. “Fanno finta che io non ci sia, suo romanzo Preghiera per Chernobyl “Questo libro non parla non pubblicano i miei libri, non posso fare discorsi da nesdi Chernobyl’ in quanto tale, ma del suo mondo. Proprio di suna parte, non ricordo se la tv bielorussa mi abbia mai fatto ciò che conosciamo meno. O quasi per niente. A interessarmi una chiamata, neppure il presidente bielorusso” ha dichiarato non era l’avvenimento in sé, vale a dire cosa era successo e amareggiata la scrittrice. Lukashenko l’ha persino accusata di per colpa di chi, bensì le impressioni, i sentimenti delle per-


sone che hanno toccato con mano l’ignoto. Il mistero. Cherquali terminata la guerra dovettero dolorosamente scontrarsi nobyl’ è un mistero che dobbiamo ancora risolvere. Questa con le aspettative della società patriarcale. Dopo aver sfrutè la ricostruzione non degli avvenimenti, ma dei sentimenti”. tato il sacrificio di queste eroine, si pretendeva che queste La scrittrice ha più volte ricordato che a ispirarla nel suo tornassero a svolgere i soliti ruoli tradizionalmente “femminiparticolare “stile” letterario - definito “romanzo collettili”. “Non ci sapevamo vestire, truccare, né muovere, la nostra vo” o “romanzo testimonianza” - è stato lo scrittore bielogiovinezza era trascorsa al fronte, e le altre ci davano delle russo Ales’ Adamovich con il suo libro La guerra sotto i tetti prostitute, perché avevamo combattuto fianco a fianco con (1960). Altra ispiratrice di Svetlana, in quanto a genere letteragli uomini”. rio, è stata Sof’ja Fedorchenko, un’infermiera di Kiev che nel 1917, di ritorno dal fronte galiIl suo ziano, pubblicò Il popolo in guerra. Un romanè un racconto zo, la cui forma letteraria è definita dalla stesepico e al tempo sa Aleksevich “delle voci umane”, in quanto stesso intimo veicolo in forma scritta della c.d. vox populi. della disillusione È, infatti, un testo che raccoglie racconti e ridi un popolo che flessioni di soldati russi sulla guerra e la pace. dopo In singolare filiazione con la Fedorchenko, il crollo Svetlana Aleksevich scrive il romanzo U vojny dell’Urss ne zhenskoe litso (La guerra non ha un volto di si è dovuto donna), dove la Grande Guerra Patriottica è, confrontare con la ricostruzione però, raccontata dalle donne: perlopiù volondella propria tarie (infermiere, radiotelegrafiste, cuciniere e identità lavandaie, ma anche soldatesse di fanteria, addette alla contraerea e carriste, sminatrici, aviatrici, tiratrici scelte) accorse al fronte per difendere la patria e gli ideali della loro giovinezza contro uno Valentina Parisi, in “Aleksievic. La fatica di uccidere con le spietato aggressore. La guerra “al femminile - dice la scrittrimani di ragazza”, chiarisce molto bene il contesto: “(…)all’ince - ha i propri colori, odori, una sua interpretazione dei fatti domani della Vittoria, […] dopo essersi abituate a marciare ed estensione dei sentimenti e anche parole sue”. Attraverso con scarponi più grandi di qualche numero del loro piede, le centinaia di conversazioni e interviste, Svetlana ha raccolto le ex combattenti dovettero tornare alle scarpette col tacco […]. parole di queste testimoni, facendo rivivere fatti e sentimenti Sensi di colpa, il rimpianto di aver perso la propria spenserbati troppo a lungo in silenzio. Ha così svelato il segreto di sieratezza giovanile in battaglia, terrificanti incubi perseuna guerra che le aveva per sempre segnate; non solo per le guiteranno per anni le reduci, insieme all’incomprensione atrocità direttamente vissute sul campo, ma anche per le umidella società patriarcale che rimproverava loro la promiscuiliazioni subite al termine del conflitto. Sbarazzandosi di formutà sperimentata con gli uomini in trincea. Angosciante è, tra le le retoriche e di propaganda, questo libro è, infatti, una disaltre, la testimonianza di una ragazza tornata al suo villaggio sacrazione dell’eroica figura delle combattenti sovietiche, le da Berlino, carica di ordini e medaglie e scacciata dalla madre timorosa di non riuscire a trovare marito alle figlie minori, se l’avesse riaccolta in casa. […] Dal rispetto discende la cura estrema profusa dall’autrice nel rendere le voci di queste donne spesso mai rientrate davvero dal fronte, sole o costrette a vivere tra di loro in appartamenti in coabitazione, comunque amareggiate dalla sensazione di essere state defraudate della vittoria. Un coro su cui, forse, spicca a mo’ di epitaffio, la scritta, [...], lasciata da una di loro sulle pareti del Reichstag: “Io, Sof’ja Kuncevic, sono venuta qui per uccidere la guerra”. “La nostra - afferma la Aleksevich - è una cultura del racconto”. E i suoi racconti corali (in lingua russa) attraversano varie generazioni sovietiche e post-sovietiche. In essi, l’autrice restituisce fedelmente la testimonianza dei protagonisti, dando loro voce direttamente tramite centinaia d’interviste e di con-

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versazioni che annota e riporta, riducendo al minimo la propria presenza nel testo, per lasciare spazio ai monologhi o ai soliloqui delle persone da lei intervistate. E lo fa con un linguaggio giornalistico asciutto ed evocativo. Partendo dalla realtà storica degli intervistati, costruisce il suo racconto - dalla trama sonora e rarefatta. Un racconto epico e al tempo stesso intimo della disillusione di un popolo che dopo il crollo dell’Urss si è dovuto confrontare con la ricostruzione della propria identità. E non senza la consumazione di tragedie documentate dalle storie di personaggi “umiliati” e “offesi” travolti dalla caduta della civiltà sovietica che, nel bene e nel male, era stata la loro casa. Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo (Vremja. Second hand in lingua russa - tradotto da Bompiani, 2014) è un imponente affresco della quotidianità dopo la dissoluzione dell’Urss, una vera e propria summa di trent’anni di lavoro, con decine di protagonisti chiamati a parlare: contadini, operai, studenti, intellettuali. Il volume chiude il monumentale ciclo di cinque libri dedicati all’ultimo secolo di storia russa: dall’affresco del ruolo delle donne nell’Armata Rossa al disastro di Chernobyl’, dai reduci dell’Afghanistan ai giorni nostri, dalla caduta del comunismo alla perestrojka, fino all’avvento di Putin. Qui la Aleksevich riprende il leitmotiv di Incantati dalla morte, per poi superarlo, parlando della nascita di una “nuova Russia”, dopo una popolare e corale “buonanotte al Signor Lenin”. Ne emerge una Russia post-sovietica e postliberista, in cui rispuntano idee di vecchio stampo: quella del grande impero, del pugno di ferro, della peculiare via russa. “Che cos’è Putin - afferma la scrittrice - se non la riedizione dell’homo sovieticus rimodellato attraverso la distruzione dei valori del postcomunismo? Sono passati cent’anni - annota la Aleksevich - e di nuovo il futuro non è al suo posto. Siamo entrati in un tempo di seconda mano”. b

Scheda bibliografica dell’autrice Svetlana è nata nel 1948 nella città ucraina di Stanislav (ora Ivano-Frankivsk) in una famiglia di militari (il padre era bielorusso e la madre ucraina). Dopo la smobilitazione del padre dall’esercito, la famiglia ritorna nella nativa Bielorussia, stabilendosi in un villaggio, dove entrambi i genitori lavorano come insegnanti. Laureatasi in giornalismo presso l’università di Minsk, inizia a lavorare nella redazione di Sel’skaja gazeta (Giornale agrario di Minsk) fino a diventare corrispondente letterario della rivista Nëman (organo dell’Associazione degli scrittori bielorussi) con l’incarico di responsabile della sezione critica e saggistica. A metà anni Ottanta, esce il suo primo libro Ja uechal iz derevni (Ho lasciato il villaggio), una raccolta di monologhi dedicata al tema dell’inurbamento, che le

vale una reprimenda da parte del partito comunista bielorusso. Oggi la sua produzione letteraria conta diversi libri, alcuni tradotti in 20 lingue, che le hanno dato fama internazionale e procurato importanti riconoscimenti. Tra questi ricordiamo: La guerra non ha un volto di donna (sulle donne sovietiche al fronte nella Seconda guerra mondiale - 1985), Ragazzi di zinco (sui reduci sovietici della guerra in Afghanistan e sulle madri dei caduti - 1989), Incantati dalla morte. Romanzo documentario (sui suicidi in seguito al crollo dell’Urss - 1993), Preghiera per Chernobyl’. Cronaca del futuro (sulle vittime della tragedia nucleare 1997), Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo (epopea dell’homo sovieticus - 2013). Ha vissuto a Parigi. Di recente è tornata a vivere a Minsk. Ogni tanto partecipa ai festival più importanti, tra cui quello della Letteratura di Mantova che l’ha, tra l’altro, vista ospite proprio nell’ultima edizione del 2015.


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LA RIVOLUZIONE PASSA (ANCHE) ATTRAVERSO L’EducazIONE SESSuaLE di Zenab Ataalla

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l Cairo. Con lo slogan “L’educazione sessuale è un bisogno, non è un lusso” ha preso avvio qualche mese fa la campagna “Not a shame” nelle scuole superiori della capitale con la speranza di vedere coinvolti tutti gli istituti secondari del paese. Realizzata in occasione del 25 novembre, giornata mondiale per l’eliminazione di ogni forma di violenza contro le donne, l’iniziativa, a differenza delle altre, si sviluppa su un elemento innovativo. Questa volta si parte dal tema dell’educazione sessuale e da tutto quello che riguarda i cambiamenti che coinvolgono i corpi maschili e femminili nell’età della pubertà. Rivolgendosi agli studenti ed alle studentesse, la campagna viene lanciata per affrontare la violenza contro le donne alla luce delle idee sbagliate che permangono nella società che considera l’educazione sessuale solo in relazione ai rapporti sessuali, tralasciando invece tutto il resto. Per Amal Fahmi, direttrice dell’associazione Tadwein e promotrice della campagna, si tratta invece di un passo in avanti perché “affrontare questo tema può aiutare a risolvere molti problemi, come quelli legati alla salute riproduttiva, al matrimonio precoce ed al crescente aumento dei casi di HIV oltre che a prevenire i comportamenti violenti contro le donne attraverso

una serie di eventi, video e opuscoli che forniamo agli incontri”. Tuttavia, un conto è parlare di sessualità tra l’intimità delle mura domestiche o tra amici e altro è parlarne apertamente tra la gente, per strada e tra i banchi di scuola. In Egitto, come nel resto dei paesi arabi, la sessualità è un tabù ed è impossibile parlarne pubblicamente. La tolleranza è limitata alla possibilità di parlarne davanti ad un medico, quando è connesso alla relazione tra marito e moglie. In tutti gli altri casi, chi lo fa rischia invece l’accusa di istigazione ad avere rapporti sessuali prima del matrimonio e la conseguente detenzione per atteggiamenti contro le regole e le consuetudini sociali. In questo clima è inevitabile lo scontro tra chi vede l’educazione sessuale uno dei punti di svolta per combattere la violenza di genere e chi invece avverte questo tema come un elemento dissuasore dai comportamenti ritenuti ben accetti dalla morale in contrasto con le religioni, quella musulmana e cristiana, e la cultura dominante. In questo contesto l’associazione Tadwein sceglie di cogliere la sfida. “Parlare di educazione sessuale non può fare altro che aiutare gli studenti e le studentesse a capire ed affrontare normalmente il cambiamento fisiologico che il loro corpo subisce. Ma soprattutto può aiutare i giovani e le giovani a relazionarsi con le persone dell’altro sesso senza che questo possa creare problemi” dice Amal Fahmi. Ad oggi solo cinque scuole hanno aderito alla campagna, sfidando nei fatti le reticenze dei genitori. Ma le speranze riposte nella campagna sono molte. Tadwein insieme alle altre organizzazioni femminili mirano a diffondere una cultura di rispetto tra i generi contro la violenza. E lo vogliono fare, iniziando dall’educazione sessuale, un concetto diventato sempre più ambiguo in Egitto a causa della mancata diffusione del significato reale che ha, se si vuole traghettare il Paese nel futuro. b

eGiTTo

tAnte orgAnizzAzioni Femminili lAvorAno sul contrAsto AllA violenzA di genere, che riguArdA un Altissimo numero di donne. “NOt a ShaME” È unA cAmpAgnA di sensiBilizzAzione rivoltA Alle scuole superiori


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ALTRO CHE VITTIME. ECCO LE VOCI DI DONNE CHE RESISTONO

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Investimenti sulle competenze femminili e sulle loro capacità propositive. È il valore e il segreto del successo dei progetti della rivista Confronti sostenuti dalla Chiesa valdese con i fondi dell’8xmille

di Stefania Sarallo

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uando nel 2011 ideammo il progetto L’altra via. Dal conflitto alla ricostruzione: strategie al femminile, nella nostra mente si delinearono progressivamente gli scenari verso cui era necessario, dal nostro punto di vista, volgere lo sguardo. Pensavamo a quei Paesi lacerati dai conflitti, dove opposti nazionalismi avevano tracciato solchi così profondi da rendere difficile ogni forma di convivenza. Pensavamo, poi, che le destinatarie delle “azioni” previste dal progetto, per il quale la rivista Confronti ottenne il sostegno economico della Chiesa valdese, sarebbero dovute appartenere a categorie ben precise: vittime di guerra, vedove prive di pensioni, profughe e sfollate. Volevamo, inoltre, che il progetto contribuisse realmente alla costituzione e allo sviluppo di iniziative imprenditoriali femminili nate in quei contesti postbellici dove, a nostro giudizio, proprio le donne avrebbero potuto rappresentare una risorsa cruciale. Pensavamo, pensavamo… Da allora, non senza difficoltà, abbiamo fatto del nostro meglio per garantire sostegno alle realtà individuate. Abbiamo incontrato donne forti e dal temperamento carismatico che, scevre da ogni atteggiamento vittimistico, ci hanno fatto percepire l’inappropriatezza di quelle “categorie” precedentemente individuate. Con Rada Zarkovic, direttrice della Cooperativa Insieme di Bosnia Erzegovina, abbiamo visitato Parchi e allestito banchetti, allo scopo di promuovere le confetture e i succhi che la cooperativa bosniaca produce e vende in Italia. Dalla Bosnia, abbiamo guardato all’Afghanistan, dove l’azione politica di donne coraggiose come Selay Ghaffar, portavoce ufficiale del Partito di Solidarietà dell’Afghanistan, si interseca con la concreta esigenza, espressa dall’associazione Humanitarian Assistance for the Women and Children od Afghanistan (HAWCA), di garantire sostegno e formazione professionale alle donne vittime di violenza. Siamo passati per Israele e i Territori

palestinesi, dove realtà come il Bethlehem Fair Trade Artisans (Bfta) e Syndianna of Galilee, sorte al di qua e al di là del muro, collaborano allo scopo di valorizzare le risorse umane (femminili e non solo) e territoriali (legno di Betlemme e olive della Galilea) locali, ma anche per favorire il dialogo e la conoscenza reciproca. Abbiamo cercato di dare vita a sistemi di reti, funzionali non solo dal punto di vista commerciale ma anche programmatico, curando dossier e promuovendo convegni nel corso dei quali le diverse “Voci di donne che resistono” si sono modulate senza sovrapposizioni e stonature. Tutto ciò ha dato i suoi buoni frutti. Ci siamo resi conto, tuttavia, di quanto il nostro approccio fosse stato troppo esclusivista e di quanto fosse necessario avviare una riflessione più ampia su un’”altra via”: quella tracciate dalle donne all’interno della nostra società, lì dove il conflitto e il maschilismo assumono forme meno visibili ma altrettanto dannose. Abbiamo guardato, quindi, a tutte coloro che lottano e resistono quotidianamente, imbattendoci in situazione di emarginazione sociale e lavorativa, ma anche in storie di donne che inventano quotidianamente un modo per andare avanti, come quelle della Casa delle donne Lucha y Siesta e della Cooperativa sociale Altri orizzonti – MADE in Castel Volturno, che ambiscono a creare opportunità lavorative per donne socialmente svantaggiate attraverso l’attività sartoriale, offrendo un ritrovo, ma anche formazione ed esperienza professionale. Tutto ciò non rappresenta solo un progetto, ma un fluire ininterrotto di proposte e cambiamenti, frutto di condivisione e passione, che con il tempo ha assunto delle forme inaspettate proprio perché a muovere il tutto è stata la necessità di rimodulare le azioni in funzione delle esigenze delle persone cui ci si rivolge, piuttosto che del rispetto del target e dei numeri predefiniti. Perché la creatività è donna, nella progettazione quanto nell’azione. b


SAKINE

CHE HA LOTTATO TUTTA LA VITA. PER LA LIBERTÀ Esce in edizione italiana il secondo volume dell’autobiografia di Sakine Cansiz. Fondatrice del Pkk, imprigionata e torturata per dieci anni, muore in un attentato

di Emanuela Irace

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imbolo della resistenza e della battaglia per l’emancipazione femminile, Sakine Cansiz è l’icona dell’anima collettiva e rivoluzionaria del movimento di liberazione curdo. Nome in codice Sara. Combattente e guerrigliera fin dagli anni Settanta, è una delle due donne co-fondatrici del Pkk, il partito dei lavoratori del Kurdistan, formazione tutt’oggi nella lista nera dei movimenti terroristi, secondo i desiderata di Turchia, Usa e Ue. Nonostante le richieste provenienti da più parti di considerare il Pkk legittima forza di resistenza ed emblema di lotta contro le persecuzioni a base etnica. E nonostante la guerra condotta con successo contro le milizie jihadiste del Daesh in Siria e Iraq, o forse proprio per questo. Sakine nasce nel 1958 a Tunceli, nella Turchia centroorientale da una famiglia tradizionale di religione sciita che non condivide le sue scelte politiche, al punto che, giovanissima, fugge ad Ankara dove incontra il leader curdo Abdullah Öcalan. È l’inizio della svolta. Consapevole che nessun movimento rivoluzionario può prescindere dalle donne, Sakine Cansiz partecipa attivamente alla battaglia per la liberazione dei territori curdi violentemente assimilati dalla Turchia. Nel 1979 vie-

ne arrestata e per dieci anni resiste alle torture nelle carceri turche. Tutta la sua vita coincide con la storia del movimento di liberazione curdo. Dal periodo in cui questo si andava formando fino al momento cruciale in cui la sua esistenza si spezza sotto il fuoco di una scarica di proiettili assassini: omicidio politico. Sakine Cansuz muore a Parigi il 9 gennaio 2013 insieme alle compagne Fidan Dogan e Leyla Saylmez. L’esecuzione avviene nel decimo arrondissement, negli uffici del Centro di informazione del Kurdistan dove le tre donne vivevano e lavoravano. Un atto ignobile, a pochi giorni dall’annuncio dell’apertura di negoziati tra Ankara e Abdullah Öcalan. Una esecuzione che sembra portare la firma del Mit, il potente servizio segreto turco. Non è un mistero che su Sakine si concentrasse l’attenzione del Governo. La notizia del triplice assassinio fa il giro del mondo e nel cordoglio generale il ritratto che ne fa la parlamentare Sebahat Tuncel (intervistata da NOIDONNE proprio nel 2013) ben si adatta alla forza del carattere di un personaggio dai tratti decisamente epici: “Sakine è stata un esempio formidabile per tutte noi, siamo cresciute sentendo parlare di lei e di come riusciva a sopportare la tortura del carcere reagendo contro i propri aguzzini e sputando loro in faccia, senza mai piegarsi nè arrendersi alle violenze. La sua battaglia è sempre stata duplice: contro il feudalesimo del dominio maschile e a favore dei diritti negati al popolo curdo”. Femminista e guerrigliera, leader politica e scrittrice con un proprio punto di vista e una elaborazione di genere anche sulla guerra, Sakine lascia il proprio testamento politico nella corposa autobiografia iniziata nel 1996. “È probabilmente il primo libro che descrive il movimento di liberazione visto da una donna”, si legge nella prefazione al secondo volume di “Tutta la mia vita è stata una lotta” uscito a gennaio in traduzione italiana, per l’edizione Mezopotamien Verlag a cura di UIKI Onlus – Ufficio di Informazione del Kurdistan. Un testo da cui emerge l’analisi lucida della persecuzione subita dal suo popolo accanto al racconto quotidiano, ai limiti dell’umana sopportazione, del sistema carcerario turco. All’introspezione psicologica e alla descrizione dei caratteri, Sakine unisce la ricerca di metodo. Un libro che squarcia il velo del silenzio e del compromesso di chi per convenienza politica preferisce non vedere, dimenticando i principi minimi di legalità riconosciuti a livello internazionale. b

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KURDISTAN TURCO

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LIBRI a cura di Tiziana Bartolini

IL DISTACCO CHE TI FA GRANDE Mattia, il protagonista de “L’invenzione della madre”, romanzo d’esordio di Marco Peano, non vuole crescere. A ventisei anni porta avanti un lavoro di cui non è affatto convinto e temporeggia sulla strada da intraprendere. Incurante della sua indecisione, il destino ineluttabile sta distruggendo per sempre la sua ingenuità attraverso la malattia terminale della madre. Il cancro, tornato in dieci anni sotto diverse forme, sta divorando la bellezza e la vitalità della donna con tenacia, la stessa che il ragazzo impiega per conservare ogni singolo insignificante oggetto a lei appartenuto, consapevole che saranno questi ricordi, piccolissimi e personali, a evocarne la presenza quando non ci sarà più. Un romanzo che è stato scelto come Libro dell’Anno 2015 dagli ascoltatori di Fahrenheit di Radio RAI Tre e che inchioda i lettori alle pagine certamente per la bella scrittura, ma anche per l’universalità dei temi che tocca, il rapporto di un figlio con la propria madre e la relazione con il dolore. Un romanzo ad altissimo tasso emotivo, in particolare nelle descrizioni dei quotidiani atti di cura compiuti con dedizione e speranza. Un libro per attraversare il dolore della malattia e della perdita senza lasciarsi annientare. Silvia Vaccaro Marco Peano L’invenzione della madre Ed. Minimum Fax, pagg 252, euro 14,00

LA PICCOLA GUERRIERA SOMALA SENZA PAURA Sebbene la lettura, a ogni età, non debba essere un obbligo bensì un piacere per il cuore e per la mente, il romanzo “Non dirmi che hai paura” di Giuseppe Catozzella, vincitore di quattordici premi tra cui lo Strega giovani del 2014, andrebbe caldamente consigliato a chiunque. Samia, piccola grande atleta somala realmente esistita, è il simbolo di tutte le migrazioni disperate a cui assistiamo ormai da anni, quasi del tutto assuefatti alla morte e alle sofferenze di altri esseri umani colpevoli solo di essere nati

dalla parte sbagliata del mondo. Una storia esemplare da raccontare a grandi e bambini, in cui trova spazio l’importanza di credere nei propri sogni nonostante la durezza della vita e il triste epilogo. Un romanzo che ha il merito di risvegliare quel sentimento potente che è la pietas come la intendevano i romani, ovvero la capacità di amare, comprendere e rispettare gli altri chiunque siano. Azioni quanto mai necessarie per contrastare la propaganda xenofoba che accompagna, con toni sempre più aspri, le immancabili difficoltà simboliche e materiali che le migrazioni, e le società multiculturali che ne discendono, portano con sé. Silvia Vaccaro Giuseppe Catozzella Non dirmi che hai paura Ed. Feltrinelli, pagg 236, euro 15,00

SI FA PRESTO A DIRE SALUTE, MA LA GESTIONE… Undici capitoli che si snodano a partire dalla domanda che dà il titolo al libro, “Perché Salute Bene Comune”? e dall’articolo 32 della Costituzione (La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività…). L’ultimo lavoro di Fulvia Signani - psicologa, sociologa della salute e dirigente della Asl di Ferrara - pone domande e propone risposte intorno a una serie di tematiche che l’idea di benessere chiama in causa. Cosa è la salute e quali politiche impattano (e in che modo) sui bisogni delle persone, quali fattori concorrono (in positivo e in negativo) nel determinare una condizione di benessere, la promozione della salute: sono alcuni degli aspetti esaminati. Sullo sfondo vi è un elemento decisivo: il concetto di equità, che per dare senso all’idea di “proporzionalità delle parti” richiede “un’azione di giustizia sul caso concreto, quindi giustizia sostanziale”. L’obiettivo non è tanto e solo la (ri)affermazione di principi teorici, quanto l’individuazione di modelli organizzativi in grado di leggere i bisogni e organizzare adeguate risposte, ad esempio, combinando servizi clinici (distali) con quelli domiciliari (prossimali). Un libro rivolto a tutti i soggetti che gestiscono l’organizzazione e le risorse economiche dei servizi socio-sanitari, ma utile anche ad informare gli utenti. Fulvia Signani Salute bene comune. Domande e risposte Ed. Volta la carta, pagg 211, euro 19,00


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LE MAESTRE CHE SFIDARono LA LEGGE Un’Italia che non ti aspetti e scopri ricca di fermenti vitali nel nuovo libro di Maria Rosa Cutrufelli

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di Tiziana Bartolini

na storia scoperta per caso e che ha richiesto quattro anni di studi e ricerche per diventare un bel romanzo. “Sulla piazza di Senigallia ho visto una targa che commemorava le dieci maestre, prime elettrici italiane. Non ne avevo mai sentito parlare e ho iniziato a documentarmi, anche mettendo a fuoco il contesto storico: una regione, le Marche, tra le più povere d’Italia e spopolate dall’emigrazione, eppure ricca di fermenti”. Ecco delineato, quindi, il paesaggio, anche umano, in cui si svolgono le vicende che Maria Rosa Cutrufelli racconta nel suo ultimo romanzo “Il giudice delle donne” (editore Frassinelli), in distribuzione dal 1° marzo. Siamo nel 1906 e Alessandra è la giovane protagonista che, emozionata per il suo primo incarico da maestra, arriva a Montemarciano, piccolo centro della provincia di Ancona. Da subito entra in sintonia con Teresa - la bambina che ha perso l’uso della parola dopo un grande dolore che la narrazione ci porterà pian piano a scoprire - e con Luigia, maestra e donna coraggiosa, oltre che moglie del sindaco. Il centro della storia è la richiesta di iscrizione nelle liste elettorali che dieci maestre presentano al comune e che, a sorpresa, la Commissione ammette. Il presidente della Corte di Appello di Ancona Lodovico Mortara, illuminato costituzionalista che sarà epurato dal fascismo, conferma la decisione e le dieci ‘maestrine’ diventano così le prime elettrici d’Italia, “anzi d’Europa”. Il caso è di rilevanza nazionale per la stampa e, soprattutto, è un varco simbolico che conferma la validità delle tesi del suffragismo, che era molto diffuso anche in Italia con sostenitrici sia tra le operaie che tra le borghesi. “Il tempo dei miracoli” finirà presto con l’annullamento della Corte di Cassazione, e l’appuntamento con il voto alle donne è rinviato di ‘soli’ quaranta anni. Una storia che appassiona. Accanto alla povertà c’è il sogno del riscatto con l’emigrazione, le donne non hanno ancora le parole ma sentono di volere altri destini

per sé. Insomma l’Italia degli inizi del Novecento era un mondo in movimento … In effetti l’Italia era ricca di fermenti rivoluzionari, attraversata da una voglia di progresso e modernità. Lo stesso fenomeno dell’emigrazione, se lo si guarda in tutti i suoi aspetti non è solo una condanna: la possibilità di andare altrove rappresenta anche una speranza, un investimento nel futuro. Teresa parte per l’Argentina, Alessandra e Adelmo vanno a Roma. La partenza è anche un nuovo progetto, segno di vitalità… Anche se non è una delle dieci maestre, perché non aveva l’età per firmare, Alessandra ha seguito e appoggiato la loro battaglia. Non vuole rinchiudersi nel destino che le hanno preconfezionato addosso quando è nata donna: a Roma sente di poter combattere per diventare cittadina a tutti gli effetti. Troverà Maria Montessori e i suoi esperimenti per un nuovo tipo di educazione dei bambini, i comitati pro-suffragio e tante donne che si riuniscono e sono vive anche sulla scena pubblica. Capisce che non può più assistere passivamente allo svolgersi della sua vita. Purtroppo le aspirazioni di quella generazione sono state sacrificate con le mattanze dei due conflitti mondiali e con il ventennio fascista. Ma le dieci maestre nella realtà sono quasi tutte sopravvissute alla seconda guerra mondiale e hanno visto realizzato il loro desiderio. È bello sapere che le parole dette nel 1906 non si sono spente. Il romanzo ci porge la maestra sotto una nuova luce. Quella della maestra è una figura da riabilitare e conoscere per l’importanza che ha avuto. Sono state donne coraggiose che hanno alfabetizzato una nazione, pioniere che hanno fatto l’Italia insegnando la lingua e che consideravano quella dell’educazione dei bambini una vera missione. Erano pagate poco, meno dei maestri, lasciavano le famiglie per raggiungere luoghi lontani e scuole spesso fatiscenti ed erano pure guardate male. Ma erano donne con una forte motivazione civile e culturale alle quali dobbiamo molto.

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Tutti i colori del silenzio Torna la Biennale Donna di Ferrara dedicata alla forza espressiva delle artiste latinoamericane

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un appuntamento atteso ed ecco che torna, ospitata dal 17 aprile al 12 giugno 2016 nel Padiglione d’Arte Contemporanea di Ferrara, la Biennale Donna, organizzata da UDI - Unione Donne in Italia di Ferrara e dalle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea della città. Questa edizione, la sedicesima, con il titolo SILENCIO VIVO. Artiste dall’America Latina, intende concentrarsi sulle questioni socioculturali, identitarie e geopolitiche che influenzano i contributi estetici dell’odierno panorama delle donne artiste e punta l’attenzione sulla multiforme creatività latinoamericana, con una collettiva che lascia la parola ad alcune delle voci che meglio rappresentano questa eccezionale pluralità espressiva: Anna Maria Maiolino (Italia-Brasile, 1942), Teresa Margolles (Messico, 1963), Ana Mendieta (Cuba 1948 - Stati Uniti 1985) e Amalia Pica (Argentina, 1978). Le curatrici, Lola G. Bonora e Silvia Cirelli, confermano l’intento di una tra le rassegne più attese del calendario artistico: proporsi come un percorso di ricerca ed esplorazione della creatività femminile internazionale. Da sempre attenta al rapporto fra arte e la società contemporanea, la Biennale Donna SILENCIO VIVO riscopre le contaminazioni nell’arte di temi di grande attualità, interrogandosi sulla realtà latinoamericana e individuandone le tematiche ricorrenti, come l’esperienza dell’emigrazione, le dinamiche conseguenti alle dittature militari, la censura, la criminalità, gli equilibri sociali fra individuo e collettività, il valore dell’identità o la fragilità delle relazioni umane. Un appuntamento che era mancato dopo la forzata interruzio-

Amalia Pica, The wireless way in low visibility, 2013. Courtesy KÖNIG GALERIE, Berlino

ne del 2014 a causa del terremoto che ha colpito Ferrara e i suoi spazi espositivi e che riprende il proprio cammino, accompagnato dalla sapiente organizzazione del comitato che vede la presenza di: Lola G. Bonora, Anna Maria Fioravanti Baraldi, Silvia Cirelli, Anna Quarzi, Ansalda Siroli, Dida Spano, Antonia Trasforini e Liviana Zagagnoni.

Ana Mendieta, una delle più incisive figure di questo vasto panorama artistico. Nonostante il suo breve percorso (muore prematuramente a 36 anni, cadendo dal 34simo piano del suo appartamento di New York), Ana Mendieta si riconferma ancora oggi, a 30 anni dalla sua scomparsa, come un’indiscussa fonte ispiratrice della scena internazionale. La Biennale Donna le rende omaggio con un nucleo di opere che ne esaltano l’inconfondibile impronta sperimentale, dalle note Siluetas alla documentazione fotografica delle potenti azioni performative risalenti


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grammatica stilistica minimalista, ma d’impatto quasi prepotente sul piano concettuale, i suoi lavori affrontano i tabù della morte e della violenza, indagati anche in relazione alle disuguaglianze sociali ed economiche presenti attualmente in Messico. Le grandi installazioni che l’artista propone per la rassegna ferrarese - fra cui un’opera inedita, realizzata appositamente per la Biennale Donna - svelano un evidente potere immersivo, che forza lo spettatore ad assorbire e partecipare al dolore di una situazione ormai fuori controllo, troppo spesso taciuta e negata dalle autorità locali.

Amalia Pica,

agli anni ’70 e ’80. Al centro, l’intreccio di temi a lei sempre cari, quali la costante ricerca del contatto e il dialogo con la natura, il rimando a pratiche rituali cubane, l’utilizzo del sangue - al contempo denuncia della violenza, ma anche allegoria del perenne binomio vita/morte - o l’utilizzo del corpo come contenitore dell’energia universale.

Anna Maria Maiolino è di origine italiana e si trasferisce in Brasile nel 1960, agli albori della dittatura. L’esperienza del regime dittatoriale e la conseguente situazione di tensione hanno influenzato profondamente la sua arte, spingendola a riflettere su concetti quali la percezione di pericolo, il senso di alienazione, l’identità di emigrante e l’immaginario quotidiano femminile. In mostra una selezione di lavori che ne confermano la grande versatilità, dalle sue celebri opere degli anni ’70 e ’80, documentazioni fotografiche che lei definisce “photopoemaction” - di chiara matrice performativa - alle sue recenti sculture e installazioni in ceramica, dove emerge la sempre fedele attinenza al vissuto quotidiano, in aggiunta, però, all’esplorazione dei processi di creazione e distruzione alle quali l’individuo è inevitabilmente legato.

Teresa Margolles testimonia le complessità della società messicana, ormai sgretolata dalle allarmanti proporzioni di un crimine organizzato che sta lacerando l’intero paese e soprattutto Ciudad Juarez, considerata uno dei luoghi più pericolosi al mondo. Con una

grande protagonista dell’emergente scena argentina. Utilizzando un ampio spettro di media - il disegno, la scultura, la performance, la fotografia e il video - l’artista si sofferma sui limiti e le varie derivazioni del linguaggio, esaltando il valore della comunicazione, come fondamentale esperienza collettiva. Le sue opere si fanno metafora visiva di una società segnata dall’ipertrofia della comunicazione, un fenomeno diffuso che sempre più di frequente conduce all’equivoco e all’alienazione, invece che alla condivisione. Ispirandosi ad alcune tecnologie trasmissive del passato, mescolate a rimandi del periodo adolescenziale, Amalia Pica sorprende con interventi dal chiaro aspetto ludico, che invitano gli stessi visitatori a interagire fra loro, sperimentando varie e ironiche possibilità di dialogo. b

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gli anni nei quali molte donne si sono misurate con i temi della differenza sessuale e con scelte di emancipazione nella vita personale e nel lavoro. Ho abbracciato in modo appassionato i temi e i principi di quelle rivendicazioni convinta che il mondo non potesse riassumersi entro una visione “neutra”: dare forma e opportunità ai punti di vista “altri” è diventato un imperativo morale al quale ho cercato di rimanere fedele in tutte le mie scelte. E, probabilmente, non è stato un caso che le persone con le quali lavoro da oltre un decennio siano tutte donne, straordinarie professioniste: archeologhe e storiche dell’arte. Il nostro è un museo particolare e complesso, ospitato in un

L’ALTRO SGUARDO SULL’ARTE A PISTOIA CON IL CICLO “IL MUSEO VISTO CON GLI OCCHI DELLE DONNE” LA VISITA DELL’ANTICO PALAZZO DEI VESCOVI È UNA VERA SCOPERTA. DI ALTRI MONDI E DELL’UNIVERSO FEMMINILE TACIUTO O DIMENTICATO

di Cristina Tuci*

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hi entra nel Museo dell’Antico Palazzo dei Vescovi a Pistoia è accolto all’ingresso dalla splendida scultura di Marino Marini, Pomona (1945). Dea dei frutti spontanei è la rappresentazione del femminino archetipico, la Grande Madre mediterranea genitrice e germinatrice. Era già là quando, nel 1997, ho iniziato a lavorare in questo museo; e nel tempo si è rivelata presenza ispiratrice di molte delle scelte compiute nello svolgimento del mio lavoro. Ho 53 anni, un’età che colloca la mia giovinezza e la mia formazione in un periodo particolare del secolo scorso. Erano

edificio dell’XI secolo, scrigno affascinante e prezioso delle memorie della città, severo custode delle stratificazioni identitarie della sua comunità. Accoglie cinque sezioni diverse: il museo tattile La città da toccare, Il Percorso archeologico attrezzato, Il Museo della Cattedrale di San Zeno, le tempere murali del periodo macchiaiolo di Giovanni Boldini, la Collezione Bigongiari, preziosa quadreria del Seicento fiorentino. Un itinerario guidato permette di attraversare le varie fasi della storia della città, dalle origini, individuabili nel II secolo a.C, fino all’Ottocento, approfondendo punti di vista sempre diversi, ricreando di volta in volta i contesti culturali, economici, politici e sociali evocati dalle opere esposte. Ci siamo dunque interrogate su come proporre lo studio delle civiltà e delle culture del passato. Abbiamo tratto ispirazione dagli scritti di Martha C. Nussbaum, docente di Legge ed Etica presso l’Università di Chicago”. Le sue risposte ci hanno confermato l’importanza di proporre lo studio dell’antichità come momento di educazione al senso critico, che insegni


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FORLÌ A COME ARTISTE. R COME RESILIENTI L’appuntamento dell’Udi, arrivato alla decima edizione, apre i battenti dall’8 marzo

S a discernere con rigore gli stereotipi culturali dal dato storico, offrendo altresì un piccolo contributo alla formazione dei futuri cittadini del mondo. Le didattiche che proponiamo alle scuole hanno, infatti, come titolo: “Come si raccontano le Storie” e partono dal presupposto che la Storia non è una sola, ma cambia, anche molto, a seconda di chi la racconta e di chi l’ascolta. Per esempio, il periodo romano non assume lo stesso profilo se descritto dal punto di vista di un bambino, di una bambina, di uno schiavo, di un liberto, di una matrona o di un pater familiae. Seguono la stessa impostazione metodologica anche le varie iniziative proposte durante l’anno, pensate per un pubblico di adulti e progettate come eventi dedicati all’approfondimento di temi specifici; particolarmente apprezzato è stato il ciclo “Il Museo visto con gli occhi delle donne”, un excursus che dall’universo delle donne etrusche si è spinto fino alle protagoniste dei salotti ottocenteschi con incursioni nel mondo romano, longobardo, medievale, rinascimentale e seicentesco. Spesso non ci si sofferma abbastanza sul fatto che alcune di queste vite non siano mai state ufficialmente raccontate. È come se facessero parte di una sorta di “non storia”: esistenze mai fissate su un foglio che, per fortuna, hanno però lasciato tracce del loro passaggio nel mondo, consentendo a chi ha occhi per vederle di parlare anche di loro. Il vedere o il non vedere queste tracce non è un problema di percezione, è un problema di comprensione. Del resto che ci siano molti modi di vedere le cose, ce lo ricorda tutti i giorni il nostro museo tattile La città da toccare: un’opportunità per i non vedenti di conoscere alcuni dei più importanti monumenti cittadini, un ammonimento per i vedenti a non fermarsi al conformismo di uno sguardo superficiale. Lo sguardo profondo e severo di Pomona non ci permette, invece, arretramenti. La sua presenza pietrosa sarà per noi ancora ispiratrice di sfide nuove e impegnative, costantemente sollecitate dalla ricchezza inesauribile di questo luogo. b * Direttrice del Museo dell’Antico Palazzo dei Vescovi gestito dalla Cassa di Risparmio di Pistoia e della Lucchesia

ono due artiste di fama internazionale - Graziella Reggio e Mirella Saluzzo - le protagoniste della decima edizione della mostra ideata da UDI Forlì e Archivio UDI Forlì - Cesena e curata da Angelamaria Golfarelli. “Resilienti” è il titolo dell’esposizione che sarà visitabile dall’8 al 29 marzo 2016 nella straordinaria cornice dell’Oratorio San Sebastiano, presso il complesso museale del San Domenico. “La mostra vuole riflettere sul ruolo delle donne in quella che è considerata la capacità di far fronte in maniera positiva ad eventi traumatici, riorganizzando la propria esistenza dinnanzi alle difficoltà in modo tale che non si perda la propria identità

e la sensibilità che consente di cogliere positivamente ciò a cui la vita ci mette di fronte” spiegano le organizzatrici. E il richiamo è alle Resistenti, proprio a quelle donne che “lottarono per la Liberazione” e seppero trasformare “le sofferenze in energia dimostrando quanto il mondo femminile fosse in grado di adattarsi ai cambiamenti”. D’altra parte l’arte “da sempre ha rappresentato anche uno strumento di ribellione che ha dato voce alle donne e ha consentito quella estraniazione dalla realtà che troppo spesso impediva di urlare il loro genio e talento”. La mostra coglie il 70mo anniversario del voto alle donne per riaffermare l’idea che “la bellezza, le idee e i diritti possono sempre essere rispettati e non imbavagliati dalla paura e dalla sottomissione” e le opere delle due artiste intendono esserne conferma, con l’articolato lavoro pittorico di Graziella Reggio denso di richiami alla natura e alle sensazioni che essa produce nei suoi rimandi al femminile e alla terra. Le imponenti sculture in metallo di Mirella Saluzzo sono espressioni “della forza di un movimento perenne e concentrico che, simulando le traiettorie dell’aria e dell’acqua, danno vita ad installazioni la cui laica sacralità dialogherà con l’invisibile”. (Ingresso libero, informazioni 348 9508631).

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A VIENNA IL FEMMINISMO incontra l’urbanistica di Giulia Custodi

Un esempio di attenzione di genere nella riqualificazione degli spazi verdi e negli interventi urbani. È il programma attuato con “Women’s Office” nella capitale austriaca

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a città è un vestito, e le donne lo abitano proprio come gli uomini; l’unico problema è che resta, per abitudine, un vestito ... da uomo. Adattare questo abito urbano alle donne è necessario per affrontare in maniera operativa la coesistenza tra uomini e donne in città (e i fatti di Colonia dello scorso 31 dicembre non fanno che aumentare l’urgenza di questa esigenza). Non basta una cintura o una collana di perle. E, ben inteso, per femminilizzazione di una città non si intende di certo colorarla di rosa! Grazie al processo di emancipazione e da quel momento storico in cui le piazze e le strade hanno cominciato ad essere teatro delle battaglie femministe, è parso chiaro come la città stessa appartenesse anche alle donne. Esiste infatti uno stretto legame tra la società e il luogo in cui essa vive, che ne è il riflesso. Tale legame si esplicita nel fatto che le città subiscono dei mutamenti, nella forma e nella sostanza, in ragione delle trasformazioni sociali. Ad esempio i grandi boulevards hausmanniani che a metà ‘800 tagliarono il tessuto storico medioevale di Parigi per collegare in maniera più diretta e “razionale” alcuni brani della città, oppure via della Conciliazione a Roma, sono l’espressione di una volontà politica che risponde ad esigenze (a volte più o meno condivisibili) di una società che sta cambiando. Oggi, molti cambiamenti urbani sono legati alla digitalizzazione, al bisogno cioè di adattare infrastrutture, residenze e spazi pubblici all’era telematica. L’altro grande cambia-

mento è generato dalle istanze delle donne. Infatti diversi studi scientifici cominciano ad analizzare i cambiamenti urbani in una prospettiva “di genere”: la presenza sempre più massiccia delle donne in tutti i campi della vita, produce un effettivo cambiamento nella città? Mi sono trovata più volte di fronte alla questione di quali modifiche urbane possano essere attribuibili ad una maggior presenza femminile nelle varie professioni (nello specifico architette, urbaniste, paesaggiste e designers) o, viceversa, quali cambiamenti o risoluzioni legate alle politiche urbane siano state prese nell’ottica di rendere le città più vivibili per le donne (e se questa visione oltretutto non nuocesse alle donne stesse, rischiando di cadere nella stereotipizzazione di ruoli come mogli, madri e casalinghe ...!). Vienna è un esempio molto importante a riguardo, per gli interventi urbani “Gender Mainstreaming” condotti a partire dall’inizio degli anni ’90. La prima azione, di sensibilizzazione politica, è stata una mostra, nel 1991, intitolata “To whom does public space belong ? Women’s everyday life in the city” (A chi appartiene lo spazio pubblico? La vita quotidiana delle donne in città) e seguita nel 1992 da un concorso ad inviti (per sole donne!) per la realizzazione di un complesso residenziale di social housing, progettato con “attenzione per le


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attività e la vita quotidiana delle donne”. Il concorso fu vinto dall’architetta Franziska Ulmann e l’edificio, chiamato Frauen Werk Stadt I è un esempio intelligente di progettazione urbana attenta ai bisogni delle donne e non solo: è per estensione un progetto attento al vivere bene di tutti quei soggetti sociali che fino ad oggi non sono stati presi abbastanza in considerazione in architettura come in urbanistica. In questo edificio ogni spazio è studiato per garantire una vivibilità elevata: gli accessi sono sempre illuminati (molto importante soprattutto per sentirsi liberi di camminare di notte, ad esempio), la corte interna è accessibile sui due lati opposti, per creare un flusso continuo ed evitare percorsi pedonali senza via d’uscita, gli interni delle abitazio-

ni sono organizzati in modo da ottenere un’alternanza di spazi giorno e notte sui fronti esterni ed interni, affinché la “sorveglianza” naturale delle strade da parte degli abitanti sia costante. Per coordinare questi interventi, il comune istituì nel 1992 il cosiddetto “Women’s Office”, coordinato dall’urbanista e femminista Eva Kail, che si è dedicato anche alla progettazione e riqualificazione di spazi verdi e piazze. Nel 2002 ad esempio, attraverso un gruppo di lavoro cittadino, si è tenuto conto delle opinioni di giovani ragazze utenti di un parco, per conoscerne desideri e aspettative. il risultato fu che le ragazze si espressero per una maggiore differenziazione dei giochi, per avere degli spazi solo per loro, e degli spazi “filtro” destinati all’incontro tra ragazzi e ragazze. Mentre la divisione maschi-femmine evocata dalle ragazze fa sorridere (anche se fino ad un certo punto) le indicazioni sulla differenziazione dell’offerta di gioco furono molto importanti per la progettazione. L’idea per cui in uno spazio pubblico il campetto da calcio

è “normale” mentre non si pensa quasi mai ad un tavolo da pingpong, o a un campo da badminton, è esemplare di quanto radicato possa essere in architettura e in urbanistica un certo stereotipo. Vienna è solo un esempio, tra i molti in Europa, di come la presenza attiva delle donne nella società sia alla base di riflessioni che portano alla ricerca di soluzioni urbane migliori per la vivibilità della città: la spinta propulsiva della richiesta di uguaglianza di genere e al tempo stesso dell’attenzione alle differenze si traduce in una “politica del care”, in cui l’insegnamento delle attività di cura (che possono andare dalla cura dell’anziano all’attenzione per i pedoni) un tempo affidate alle sole donne, è finalmente, e tramite le donne stesse, al servizio della città. Il “Women’s Office” oggi è stato inserito nelle politiche urbane della città, il che non deve per forza essere visto come una sconfitta: infatti le politiche di genere sono davvero integrate nella mentalità di Vienna, e questo è forse la più grande conquista. b

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sentati nelle forme più commerciali, addirittura si parla di fame della filosofia, dopo aver argomentato e parlato della sua crisi. Queste affermazioni tuttavia non escludono la necessità di formulare alcuni quesiti: esiste nei nostri tempi lo spazio di una ricerca filosofica? Dopo le accuse di anacronismo che nascono dal grande progresso scientifico, sì che l’unica possibilità per la filosofia sembra quella di ridursi a epistemologia, ossia farsi portatrice di una razionalità minimalista, appiattita sulla tecnica e limitata nella debolezza dei modelli proposti, cioè i modelli dell’efficientismo, del pragmatismo esasperato, dell’utilitarismo immediato? Interrogativi che si possono rias-

ALLA RICERCA DEL SENSO PERDUTO Il pensiero filosofico in questo tempo delle grandi crisi e le pensatrici del Novecento. La ricchezza dei femminismi e la necessità di tracciare nuove mappe. Correndo i rischi di chi esplora nuovi territori

“La filosofia è quella cosa con la quale e senza la quale la vita rimane tale e quale”

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uante volte ho sentito questa frasetta, pronunciata più o meno ironicamente, ma fin dagli anni del liceo mi sono impegnata per smentirla, e oggi guardando indietro il mio cammino di docente, ahimè ormai più che trentennale, e di donna impegnata nella società civile, posso affermare con gioia che questa ipotesi è interamente falsificata; così come fortunatamente è da smentire un luogo comune molto frequente da circa un secolo, con periodiche fiammate o cadenze, ovvero lo slogan di una “morte della filosofia”: se in tanti corrono e sono corsi al capezzale di questa grande ammalata, la sentenza definitiva non è stata stilata neppure dai suoi più accaniti avversari. Anzi in anni recenti si è assistita ad una grande popolarità della filosofia (festival si susseguono in tante città italiane); si mostra anche una chiassosa banalizzazione di argomenti riservati una volta solo agli addetti ai lavori ed ora pre-

sumere: crisi, morte o rinascita della filosofia? La nostra rubrica tenterà di scavare all’interno di queste domande, volendo aprire un dibattito (necessario) e un confronto sul ruolo della filosofia nei nostri inquieti tempi, poiché la soluzione alle crisi contemporanee non può trovarsi nel rifugio in irrazionalismi o fondamentalismi teoretici, né in un supplemento di ragione, pedine tutte di una scacchiera disgregata e distruttiva. La filosofia, invece, può opporsi al nemico comune - la perdita di senso -, senza innalzare barriere difensive contro i paradossi ineliminabili e di fronte alle sfide della nostra epoca, o peggio ancora arrendersi a esse; la riflessione può attraversare “il ruscello di fuoco” di tali confronti, assumendosi il fardello di tradurre nel linguaggio filosofico i segni contraddittori della realtà, incamminandosi sulla strada di un pensiero altro, di un pensare altrimenti di cui parlano molti filosofi/e contemporanei/e, per comodità accomunabili sotto il segno di pensiero della differenza. Si tratta di un cammino precario, non più una costruzione sistematica, né una marcia trionfante, ma una parola balbettante, incerta, costituita di avanzamenti e di stasi, fragile e inquieta, lacerata e conflittuale, lontana da enfatizzazioni ed esaltazioni emotive, che corre il bel rischio di cui parlava già Platone, impegno che, anche, in solitudine tra luci e ombre, tenta di uscire dalla crisi di senso che oggi viviamo dopo la stagione del nihilismo gnoseologico e non solo, che abbiamo attraversato. Cammino errante, sotto il segno de quaerere più che


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simone weil

dell’affirmare. All’interno del pensiero della differenza poi vorremmo procedere aiutate dal pensiero della differenza sessuale - o pensiero femminista, o filosofia di genere, termini non sovrapponibili, ma per ora assunti come una costellazione di riflessioni - che si intreccia con i temi relativi alla caduta del soggetto monolitico, e all’irrompere dell’alterità o della pluralità nel cuore del sé. In particolare l’ipotesi di lavoro imprescindibile per affrontare le varie questioni risiede nella dualità di genere come fattore indispensabile di interpretazione del sé, del mondo e della storia quale rinveniamo nelle riflessioni di molte pensatrici femministe, quali Luce Irigaray, Judith Butler, Rosi Braidotti, la Comunità di Diotima, e molte altre. Il punto di partenza, infatti, di ogni riflessione, ma anche come vedremo dell’etica, della politica come degli studi letterari, artistici storici e teologici, è stato ripensare il sé da parte del soggetto, e del soggetto femminile, evitando almeno nelle riflessioni più ‘meditate’ sia l’egualitarismo astratto come una mistica della femminilità. A questo proposito mi piace ricordare Hannah Arendt, una delle grandi madri del ‘900 che così caratterizza il suo porsi

Simone de Beauvoir

nello studio “essere lì sempre con tutta me stessa”, cioè non tralasciare mai la concretezza esistenziale che ci segna. L’incontro con le filosofe - Simone de Beauvoir, Luce Irigaray, Simone Weil, Edith Stein, Maria Zambrano, etc. - ma anche con le storiche e le teologhe, ha aperto per me (e non unicamente per me) un mondo, è cambiato il mio modo di pensare ed essere, non solo per l’allargamento dei temi, ma per la metodologia della ricerca, per la scelta degli argomenti, per il privilegiamento di certe domande stesse perché i Gender

Studies o Women’s Studies (sulla cui definizione torneremo) rappresentano sia un progetto critico che mette in discussione le forme di discriminazione ed esclusione che i saperi perpetuano e sia un progetto creativo, che apre spazi alternativi all’autorappresentazione e autodeterminazione intellettuale delle donne e tale potenziale eversivo non deve andare perduto nella loro istituzionalizzazione. Stimolate e “risvegliate” da quelle pensatrici e da altre, possiamo affrontare il percorso e il compito di disegnare nuove mappe del mondo in cui ci troviamo a vivere, destrutturando e ristrutturando significati già codificati, risemantizzando campi linguistici, reagendo al vuoto di memoria, all’assenza nella storia, giacché si tratta di far emergere un continente da troppo tempo sommerso, continente frastagliato caratterizzato da tante regioni unite da affinità di-

maria zambrano

versamente relazionate, ma riconducibile a quello che con una studiosa americana (S.Moeller Oikin) chiamo “il prisma dell’appartenenza sessuale”. Espressione con la quale si allude all’itinerario percorso dai Women’s studies esplosi, con molta generalizzazione, negli anni Sessanta e da allora presenti in un cammino qualitativamente e quantitativamente di grande crescita. Il vasto sviluppo di ricerche in tale ambito e in contesti disciplinari molto diversificati, ha mostrato come sia necessario fare i conti con il pensiero femminista all’inizio del terzo millennio e non solo per la ricca produzione bibliografica, ma anche per l’arcipelago di posizioni, appunto un prisma di grande originalità e forza che può confrontarsi paritariamente con la tradizione filosofica (e spesso questa si mostra impreparata). Ne deriva una tela di argomenti diversi, ma intrecciati, incroci imprevisti, legami tra settori e tra sapienze differenti, che rispecchiano un mio modo di intendere e cioè “la filosofia è indisciplinata”. Nel dialogo che inizia oggi mi propongo di portare alla luce i nodi che la filosofia, forte di un’esperienza plurisecolare, con tutta la serietà - ed anche con la leggerezza - che le proviene dalla tradizione, ma altresì aperta al nuovo e alle contemporanee fonti del sapere, può chiarire, esplicitare, manifestare. Senza pretese di soluzioni definitive. b

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A tutto schermo

QUANDO IL DIRITTO AL VOTO COSTAVA LA VITA di Elisabetta Colla

Esce nelle sale “Suffragette”, il film con Meryl Streep sui primi movimenti di emancipazione femminile

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iusto in tempo per le celebrazioni dell’8 marzo - e dei 70 anni del voto alle donne in Italia - esce nelle sale italiane l’atteso film Suffragette (già uscito nel Regno Unito), diretto dalla regista Sarah Gavron e scritto dalla sceneggiatrice Abi Morgan, sugli anni caldi della lotta per l’emancipazione femminile che portò le donne alla conquista del voto nel Regno Unito ed aprì la strada al conseguimento di molte altre mete. Il movimento delle Suffragette (da ‘suffragio’, come diritto a votare), già iniziato nella seconda metà dell’Ottocento, trovò infatti compimento nei primi del Novecento, alla vigilia della Grande Guerra, con il Women’s Social and Political Union, fondato da Emmeline Pankhurst nell’epoca

dell’industrializzazione che aveva cambiato la vita delle donne. Il programma delle Suffragette prevedeva il raggiungimento della parità non solo politica ma anche giuridica, economica e relativa ai diritti civili, come ad esempio l’insegnamento nelle scuole superiori. Il movimento, con slogan quali ‘Votes for women’ e ‘Noi non siamo contro la legge! Noi vogliamo fare la legge!’, mise in campo numerose azioni dimostrative (comizi, cartelloni di protesta, scritte sui muri, attiviste incatenate alle ringhiere, incendi di cassette postali, danneggiamenti a finestre e bombe contro edifici) opponendosi anche fisicamente alla polizia. Molte suffragette, in lotta per la causa, finirono in carcere (dove alcune iniziarono scioperi della fame, prima fra tutte Marion Dunlop), furono vittime di violenza o persero tutto: lavoro, famiglia, figli ed anche la vita (come Emily Davison, morta nei disordini al Derby di Epsom del 1913 - sulle immagini del suo funerale si chiude il film - evento che meritò un’edizione speciale del quotidiano The Suffragette). Nel film, la figura di Emmeline Pankhurst è interpretata dalla grande attrice evergreen Meryl Streep, bravissime anche Carey Mulligan, (vincitrice del BAFTA) nel ruolo dell’ope-


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Ridendo e scherzando con Ettore Scola

La testimonianza delle figlie del regista, Paola e Silvia, in un documentario a lui dedicato

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uale miglior omaggio e ricordo si sarebbe potuto fare di Ettore Scola - amato regista, sceneggiatore, intellettuale e militante italiano scomparso il 19 gennaio scorso - se non quello delle due figlie, Paola e Silvia Scola, accomunate dall’amore per il cinema, per la scrittura e per il padre? La testimonianza semi-seria proposta nel documentario Ridendo e scherzando: ritratto di un regista all’italiana, scritto e diretto dalle due sorelle, è dedicata con il sorriso e l’ironia che distinguevano il padre, al tempo stesso all’uomo ed all’artista, del quale vengono messi in luce aspetti pubblici e privati, in forme diverse e coinvolgenti:

interviste da lui rilasciate, filmini in super otto, backstage dei suoi set, foto rubate dagli album di famiglia, vignette e materiali di repertorio. “Abbiamo voluto raccontare nostro padre - hanno affermato Paola e Silvia - unicamente attraverso le interviste che ha rilasciato nel corso della sua vita, i brani dei suoi film e quello che ci ha voluto dire ‘dal vivo’, senza mai ricorrere ad interviste dove altri parlassero di lui. Una sorta di auto-racconto, che lui mai avrebbe fatto per la sua timidezza, il pudore e il disagio a parlare di sé, ma che abbiamo potuto fare noi che lo conosciamo abbastanza da poterlo sia celebrare che prendere un po’ in giro.” Molti chiedevano a Scola (autore di film quali C’eravamo tanto amati, La terrazza, Una giornata particolare) di fare un biopic sulla sua vita, perciò lui stesso chiese alle figlie di fargli “il coccodrillo”, scherzandoci sopra, in quella chiave tipica del suo cinema capace di dire cose serissime senza quasi che gli altri se ne rendessero conto, anzi ridendoci sopra. Alter-ego delle due figlie/registe nel documentario, il giovane attore Pierfrancesco Diliberto, detto Pif, capace di trasformarsi, a seconda del bisogno, in intervistatore, narratore, lettore, agiografo, spalla e, all’occorrenza, badante di Ettore. Non a caso l’ultimo saluto dato al regista presso la Casa del Cinema di Roma, è sembrata una festa fra amici, che ha mescolato tristezza, affetto e legami come nelle immagini della vita del grande regista, tra film, ricordi e storie di famiglia. Elisabetta Colla

raia vittima di molestie Maud Watts ed Helena Bonham Carter in quello di Edith Garrud, che organizzò per le donne corsi di autodifesa, jiu-jitsu suffragettes, contro la polizia. La forza del film è nella descrizione vibrante delle donne comuni, delle operaie, che diventano militanti, e della loro rabbia e violenza per gridare al mondo: noi ci siamo e vogliamo la parità. Ancora oggi nel mondo tante donne dovrebbero far sentire questo grido. b

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MUSICA PASSIONE SENZA CONFINI Canzoni popolari e musica colta: la cantastorie Lisetta Luchini e la mandolinista Marta Marini sono un intreccio di sensibilità e professionalità. Autentiche fuoriclasse

di Tiziana Bartolini Io mi chiamo Rosa / di mestiere sposa / placida e tranquilla / senza una scintilla / ho allevato figli / come tre conigli / ed a loro ho dato / tutto il mio passato…. ‘Io sono disperata’ è una delle tante ballate dedicate alle donne che Lisetta Luchini, diplomata in chitarra e cantastorie per vocazione con un’esperienza nel teatro, porta nelle feste e nelle contrade toscane. “Un vero cantastorie và in piazza e fà il treppo”, spiega. E funziona così: si sistema in un angolo con tanto di autorizzazione comunale - e inizia le sue esibizioni. “Non basta saper suonare la chitarra, occorrono doti non da poco per reggere la piazza senza rete”, che poi vuol dire riuscire ad attrarre l’attenzione con la potenza della voce, con la presenza ‘scenica’ e con la forza della narrazione. “Il cantastorie scrive i suoi testi e la differenza con il cantautore è che può anche usare musiche già note perché il fine ultimo è diffondere la storia” magari anche distribuendo fogli volanti come un tempo, che servivano a ricordare e ricantare la storia a casa. Ogni regione ha le sue melodie, alcune tristi e alcune allegre. Quella dei cantastorie è un’arte che affonda le sue origini nel medioevo, quando con il canto si facevano circolare le informazio-

ni sui vari avvenimenti. Lisetta Luchini è iscritta all’AICA, associazione nazionale di cantastorie di Forli fondata da Lorenzo de Antiquis, ed è una delle poche donne che mantiene viva la tradizione che ha avuto in Giovanna Daffini, mitica interprete di Bella ciao, Sciur padrun da li beli braghi bianchi e Se otto ore vi sembran poche, un’autentica paladina. Ogni anno l’11 novembre Sant’Arcangelo di Romagna in occasione della Fiera di San Martino ospita una rassegna nazionale, appuntamento immancabile per i cantastorie di tutta Italia. Insieme a Luchini spesso si esibisce con il mandolino Marta Marini, 33 anni, diplomata in chitarra classica e direzione di coro. In Italia i mandolinisti sono pochissimi e le donne sono una vera rarità. Marta non ha saputo resistere all’attrazione per uno strumento così ‘italiano’ eppure poco richiesto, se non dai turisti o in occasione dei tanti matrimoni che gli stranieri celebrano in Toscana, e non solo, cerimonie dove Marta suona solo per arrotondare i suoi esili guadagni. “Faccio parte dell’Orchestra a plettro senese del maestro A. Bocci da quando avevo 8 anni. È stato lui, insieme al maestro M. Borgogni, a suggerirmi di studiare mandolino, perché avevo le dita piccole e

adatte a questo strumento”. Oggi Marta è primo mandolino in quella orchestra, autentica istituzione fondata nel 1921, e dal 2006 dirige il coro polifonico giovanile della Cappella universitaria di Siena. “Il coro è una cosa a cui tengo, mi piace l’idea di fare qualcosa gratuitamente”. Le chiediamo quale spazio ha una donna in questo mondo e quali sono le sue prospettive. “Certo, non è facile e per fortuna la mia famiglia mi ha sempre sostenuta nei miei lunghi studi, ma non ho la certezza che riuscirò a vivere con la musica. Accanto alle tante difficoltà, nel nostro ambiente c’è anche molto maschilismo. Ero partita per fare direzione d’orchestra, ma lì è ancora più difficile e vengono scelti prevalentemente gli uomini. Nella direzione dei cori, invece, per le donne c’è un po’ più di possibilità, chissà perché”. Insomma un percorso tutto in salita. “Il nostro paese non investe su di noi e poi c’è un’idea diffusa per cui l’artista deve fare tutto gratis. Gli anni di studio non sono considerati, la professionalità non è riconosciuta. Viviamo in un’epoca in cui con un click possiamo fare e avere tutto, i tempi lunghi dello studio che la musica richiede non sono un valore”. Ma tu, Marta, ti senti un’artista? “Se l’artista crea e comunica qualcosa, se riesco a comunicare con la musica… allora, forse, un po’ artista lo sono... ma lascio giudicare gli altri”.

Marta Marini e Lisetta Luchini alla festa dell’Associazione Archivio dell’Unione delle Donne Italiane della Provincia di Siena (Festival di Noi Donne, giugno 2015)

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SPIGOLANDO tra terra, tavola e tradizioni di Paola Ortensi

PASQUA Tutti sanno che la Pasqua cristiana ogni anno si celebra in data diversa e, in gergo, è definita bassa - come quest’anno - o alta. Cade sempre la prima domenica dopo Il plenilunio di primavera, circostanza che riguarda anche la Pasqua ortodossa. Le due ricorrenze non coincidono in

quanto il calcolo fa riferimento a due calendari diversi: quello Gregoriano e quello Giuliano. Le ragioni della luna conferiscono alla Pasqua una magia in più, aggiungendosi all’enorme simbolo della Resurrezione di Cristo richiamo di sicuro impatto anche per chi, laicamente, associa l’idea della “resurrezione” alla primavera e alla rinascita della natura, trionfo della vita. Ecco poi la Pasqua ebraica - Pèsach, cioè passaggio - da cui le altre hanno origine e che rimanda alla fuga dall’Egitto, verso la salvezza, degli ebrei guidati da Mosè. Pasqua ebraica, che prevede 8 giorni di festeggiamenti ed è chiamata anche ”festa degli azzimi”, con riferimento al tipico pane non lievitato, detto azzimo. Da qualunque parte la si veda, la Pasqua è “uscita” dal dolore, dalla sofferenza, dalla morte per glorificare il ritorno alla

E LE TANTE RESURREZIONI

vita. E di questo parlano i simboli che l’accompagnano. Persino il rito delle pulizie di Pasqua, lo sciogliersi delle campane, la tradizione dell’uovo - colorato, dipinto, mangiato - elevato ad opera d’arte che con diverse sottolineature è simbolo di vita e, secondo alcune interpretazioni, addirittura del sepolcro di Cristo. Il guscio, una volta infranto, è come la porta che introduce alla vita che s’impone. Il tuorlo giallo, dopo l’albume fosforescente, forse assimilabile alla sorpresa che i bambini cercano gioiosamente nelle uova di cioccolato. A fianco all’uovo c’è la colomba, che richiama quella che, tornando all’Arca con un rametto d’olivo, “raccontò” a Noè che il diluvio era terminato, che le acque si ritiravano e la terra riemergeva. Gioia, anche attraverso l’abbondanza del cibo, che viene dopo penitenza e dolore, la Quaresima e la crocefissione di Cristo, ma che travolti dalla sua resurrezione riportano speranza e gioia. Pasqua, dunque, con l’ambizione di contaminare al di là del credo tutti gli esseri umani che hanno diritto e necessità del bene. Una laicità intrecciata alla sacralità della festività, che trova l’apoteosi simbolica del festeggiamento a Pasqua, con abbondanza di cibo iniziando dalla ricca colazione, e anche a Pasquetta, chiamata anche lunedì dell’angelo. Fu un angelo, infatti, che alle tre donne - Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo e Giuseppe e Salomè - di fronte al sepolcro, trovato aperto, rivelò che Gesù era risorto. Nel tempo in Italia si è consolidata la tradizione popolare delle famose scampagnate di Pasquetta, che a tutt’oggi vivono con modifiche di “modernità” o forse solo di menù. Un prato, una tovaglia

o una trattoria di campagna si aprono a porzioni di pasta al forno, uova sode, salame, panini, broccoli e carciofi fritti, carciofi alla romana o alla giudia, frittate, abbacchio al forno con le patate, arrosti, ricotta e pecorino magari con le fave se la Pasqua sarà alta e poi pastiera, pizza Pasqualina, uova e coniglietti di cioccolata che la cultura anglosassone ha affiancato a pecorelle di zucchero, galline o campane sempre di cioccolata e tanto d’altro. I simboli e i riti della Pasqua crescono, si consolidano e l’augurio di una “resurrezione” dell’umanità tutta rimane l’aspirazione alle radici del ritrovarsi tra uomini e donne di ogni fede.

RICETTE Carciofi fritti. Carciofi a spicchi ripassati in farina, uovo battuto e fritti in olio bollente. Frittata rognosa. Cipolla o scalogno soffritto con pezzetti di pancetta, pomodoro fresco o pelati. Far ritirare al massimo l’acqua del pomodoro, battere le uova considerandone una e mezza per commensale. Preparare la frittata da far cuocere bene dentro.

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LEGGERE L’ALBERO DI BRUNA BALDASSARRE

IL TEMPO DELLA PAUSA E DELL’ASCOLTO

FAMIGLIA

Sentiamo l’Avvocata OGGI LA SEPARAZIONE È UN LUSSO QUINDI ATTENZIONE AI PATTI STIPULATI di Simona Napolitani mail: simonanapolitani@libero.it

C Cara Bruna, sono un’attiva quarantottenne! Di origine romena sono sposata con un italiano e integrata bene. Per caso ho contribuito ad avviare in Italia l’attività di un’azienda che vende prodotti naturali. Di questo sono orgogliosa perché le persone che ho aiutato mi sono molto grate per aver conosciuto e consumato i prodotti dell’azienda. Attualmente però sto attraversando un periodo veramente difficile per motivi di salute. Da una semplice influenza si è scatenato un grosso problema pleurico. Dal mio disegno dell’albero s’intravede una speranza? Le mie vecchie e sane energie riaffioreranno? Daniela Cara Daniela, da un punto di vista biografico sei in un momento di passaggio tra la fase della ‘nuova creatività’ e quella del ‘nuovo ascolto’. Si passa dalla contemplazione del paesaggio della propria vita afferrando con prontezza i fenomeni del mondo esterno - con le relative situazioni che esse richiedono, proprio come il successo da te accennato -, a un nuovo ritmo di vita e di lavoro. Occorre una pausa per riconsiderare la propria vita. B. Lievegoed definisce questi anni la “fase morale”. Non si possono mantenere i vecchi ritmi e i vecchi schemi, altrimenti si finisce per danneggiare gli organi del sistema ritmico, incluso l’apparato respiratorio. Il tuo albero è essenziale ma la chioma aperta sta a significare la ricchezza delle aspirazioni, la sensibilità e la voglia di conoscere il mondo come una vera esploratrice, per soddisfare i desideri di migliorare la tua posizione. Non risparmi mai la tua energia però ora hai bisogno di fermarti assolutamente. Il tronco è tratteggiato e se da un lato mostra la tua necessità di sostegno, dall’altra invece indica l’idea dei cambiamenti. Sottolinea un carattere sbrigativo, allegro ma impaziente. Pur non amando di essere richiamata alla calma sarebbe invece il caso di raccomandartela, soprattutto ancora per qualche tempo. Nel tronco si evidenziano delle situazioni traumatiche vissute a 2, 8, 11, 44 anni e mezzo. L’erba sotto il tuo albero manda un messaggio di stanchezza e un bisogno di riposo. Il doppio suolo, invece, staccato dall’albero mette in risalto la necessità di corresponsione, per attivare al meglio le proprie qualità. Solo l’erba però gli permette di essere ancorato alla terra, quindi il riposo è vitale per te! Cara Daniela, stai entrando nella fase in cui l’attenzione dovrà essere rivolta più al futuro dell’umanità che al destino personale. Questo periodo è caratterizzato dallo sviluppo dell’anima ispirativa, in cui è veramente importante imparare ad ascoltare l’ambiente in cui viviamo affinché l’ispirazione coincida con l’inspirazione, inspirando ciò che si deve ancora ascoltare. Cari auguri!

i siamo già occupati in precedenti articoli dell’assegno di mantenimento in sede di separazione ma, per la sua natura complessa e per i mille aspetti che lo caratterizzano, torniamo sull’argomento. Tante le tesi, le interpretazioni e le cause che determinano l’erogazione delle somme mensili. Fra queste, una merita specifica attenzione: ove durante la convivenza si fosse raggiunto l’accordo, espresso o tacito, che uno dei coniugi non prestasse attività lavorativa extradomestica, il coniuge nei cui confronti viene invocato l’assegno di mantenimento non può rinnegare tale accordo, tenuto conto della sua persistente efficacia anche in regime di separazione e della funzione dell’assegno di garantire il medesimo tenore di vita, antecedente alla separazione stessa. Quindi, se la moglie sta a casa e il marito provvede al mantenimento dell’intera famiglia, uguale sorte spetta a entrambi a seguito della separazione. Si tratta di un principio di tendenza, più teorico che pratico, perché oggi la separazione è un lusso e, in considerazione dei costi della nostra vita attuale, la decisione di separasi diventa un elemento di impoverimento. Basti la seguente considerazione: dal medesimo reddito di cui disponeva la famiglia durante la convivenza, devono - successivamente alla separazione - mantenersi due nuclei familiari per cui, la maggior parte delle volte, con la separazione si lavora tutti!


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Life coaching [ Undicesima puntata ]

di Catia Iori

SMASCHERARE CHI SI FINGE AMICA

T

utti noi abbiamo delle nemiche, anche se spesso non lo sappiamo o cerchiamo di non pensarci troppo. Persone a cui diamo fastidio per il nostro modo di essere o per i nostri successi o semplicemente per invidia. Spesso, almeno le donne, non si accorgono del loro rancore nell’immediato, perché nell’abito mentale femminile si vuole essere amate o apprezzate e perciò cerchiamo di non vedere i sintomi di malanimo nei nostri riguardi. E tuttavia questi segnali ci sono sempre, anche sotto pelle, perché nessuna di noi, anche la più brava commediante, può malcelare il proprio sentire “vero”. Un sintomo di aggressività più o meno manifesta è il fatto di non fare mai un complimento o un elogio particolare perché è come se tutto di te fosse scontato e immutabile. Quando una nostra amica riesce in un

lavoro o si fidanza felicemente io sono felice, le faccio festa, l’abbraccio. E se posso, lo faccio sapere perché sono contenta per lei e di lei. Se una che conosciamo, una nostra collega o una conoscenza che ci frequenta e che si dichiara nostra amica non lo fa mai, o solitamente mai, vuol dire che nutre nei nostri riguardi, a volte anche in maniera inconsapevole, un sotterraneo rancore. Quando i rapporti non sono chiari e felici, fateci caso, quando ci si incontra, l’altra spesso si lamenta o più spesso vi rimprovera per una vostra presunta manchevolezza. “Non hai fatto questo, non hai fatto quello”. Noi cerchiamo di giustificarci, le concediamo tutto ciò che chiede, prendiamo impegni futuri, cerchiamo di rabbonirla. Ma non serve quasi a nulla. La volta successiva avrà nuovi rimproveri e nuovi mugugni. Altri manifestano il loro malanimo dandoci cattive notizie o riferendoci, con dovizia di particolari, le peggiori maldicenze che hanno ascoltato su di noi o sul nostro entourage. Noi stiamo a sentire pensando che forse lo facciano per il nostro bene, mettendoci in guarda da eventuali pericoli. Non è vero. Lo fanno per il piacere di umiliarci, di vederci a disagio, arrabbiati o di cattivo umore. Tutte desideriamo essere accettate e apprezzate con i nostri limiti e questo infierire su aspetti vulnerabili del nostro carattere non è di certo un segno di amicale vicinanza. Quando a qualcuno siete indigeste, fateci caso, si creano continuamente degli ostacoli nel perseguimento di un obiettivo. Non badate alle spiegazioni. L’altra si giustificherà citando leggi, regolamenti, diritti, doveri, mancanza di tempo, priorità da rispettare. Sono tutte scuse. Chi ci vuole bene davvero troverà sempre il modo di aiutarci. Se invece si oppone, ritarda, ostacola, è perché è piena di rancore, di frustrazione personale, comunque di sentimenti negativi nei nostri confronti. Un ultimo sintomo del malcelato non affetto è la menzogna. Chi non vi rispetta e non vuole dimostrarlo, è costretto a fingersi di esservi amico. Farà dichiarazioni di simpatia, promesse, prenderà impegni solenni. Ma poi non li rispetterà. Quando glielo fate notare troverà mille scuse, fingerà di essere oberato, stordito, disteso, impegnato lì per lì, smemorato. Invece ricorda tutto benissimo e ha pianificato ogni cosa freddamente. Statele alla larga, uomo o donna che sia. Bene non ci farà.

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Francesca Perlini

Gli alberi della poesia Un percorso di scoperta del femminile e di coesione fra natura ed essere umano di Luca Benassi

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i sono libri di poesia che si aprono e si chiudono come un fiore nell’arco di una lettura, offrendo la dimensione di un racconto, di un pensiero, di una vita. Non sono ‘raccolte’, perché non raccolgono nulla, non mettono insieme testi solo perché siano sufficienti a farsi pubblicare; sono invece libri necessari, cresciuti come un organismo vitale, dove ogni parte, ogni silenzio, ogni parola appaiono essenziali. È questa una caratteristica delle opere di Francesca Perlini, la cui densità è frutto

di una ricerca umana e spirituale, ancor prima che poetica a letteraria. Perlini vive e lavora a San Costanzo (PU), ha esordito con “Prima di partire” (Sigismundus, Ascoli Piceno, 2013), per poi pubblicare, nel 2015, “Dire casa” (Arcipelago itaca Edizioni Osimo AN). Si tratta, dunque, di una poetessa, parca, attenta a distillare le esperienze, le maturazioni, gli accadimenti dell’esistenza per farne poesia. Il libro del 2015 è diviso in due sequenze, diverse dal punto di vista stilistico e della lunghezza dei testi, ma unite in un percorso sistematico che si apre con la scoperta del femminile e si chiude in una salda coesione fra natura ed essere umano. È un testo dalle venatura iniziatiche («se mi perderò -e mi perderò-/ chiamerò un nome e/ la terra su cui avrò posato l’ultimo piede/ sarà il primo passo nel posto giusto./ e quando i corpi s’incontreranno nel loro limitare/ i canti verranno all’unisono cantati per noi»), dove entrare nella casa del corpo diventa scoperta della propria natura generativa, capace di donare la vita e farsi terra madre. La prima sezione è intitolata “Gonne”, ed è composta da testi brevi, frammenti sapienziali dove si tessono, come la stoffa di una gonna, corpo e spirito in una dimensione corale, quasi si chiamassero a raccolta le donne, le madri e le figlie nel transitare dell’esistenza. La seconda sezione reca il titolo “l’amore non si immagina si abbandona” e riporta come sottotitolo “sposalizio tra l’umano e la natura più semplicemente fra me e il bosco”. Questa sequenza ha un andamento dialogico che ricorda il Cantico dei Cantici, nel quale la femminadonna si rivolge al maschio-albero e viceversa, in un tumulto dei sensi fino allo sposalizio finale, di fronte alla schiera del bosco, dove l’essere umano sembra congiungersi e trasformarsi in natura, in un rinnovato e profondo equilibrio primordiale, per accogliere il seme della vita pronto a farsi germoglio.

torno a casa prima di partire, pendono appesi come rami i rami -gonne al ventobrezze direzioni, chiusi nei cassetti i frutti che raccoglierò a destinazione.

il limite è colmo. cadrà la gonna dai fianchi delle montagne in un mare che ha perso la superficie. ciò che svela l’onda circolare.

Sposo Innesto te come mio frutto metto nelle tue mani il mio seme nella raccolta e nella perdita nel sano e nel mancante in gravità e in leggerezza in ogni stagione che scioglie il tempo in terra fertile. Sposa Appoggio la guancia nelle tue cavità stendo le gambe sulla tua chioma apro il ventre ai tuoi semi in inondazione e in aridità nella chiarità e nell’oscuro che trasmutano la lotta in nascite. Canto corale, Sposo e Sposa Hai la mia mano destra in te custodisco la sinistra unisci il mio corpo al tuo pensiero congiungi la mia fine al tuo inizio, Siamo Uno fatto due.


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