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Fine vita

La morte cerebrale

Gerardo Cazzato

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Per definire una persona morta tutte le parti del cervello, compreso il tronco encefalico, devono essere prive di attività.

Benedetto XVI in Spe Salvi afferma testualmente: «Non siamo padroni né della vita, né della morte, […] da una parte non vogliamo morire; soprattutto chi ci ama non vuole che moriamo. Dall’altra, tuttavia, non desideriamo neppure continuare a esistere illimitatamente e anche la terra non è stata creata con questa prospettiva. Allora, che cosa vogliamo veramente? Questo paradosso del nostro stesso atteggiamento suscita una domanda più profonda: che cosa è, in realtà, la vita? E che cosa significa veramente eternità?». Questa breve frase, credo, racchiuda in maniera estremamente sintetica la reale contraddizione della nostra stessa esistenza: sappiamo che la morte è ineluttabile, naturale, necessaria; ma nello stesso tempo non vogliamo morire, la morte ci fa paura, ci annichilisce, ci distrugge.

Più che parlare di “morte cerebrale” sarebbe più corretto parlare di “criteri neurologici” utilizzati per l’accertamento e la determinazione di morte.

Da giovane medico, prima ancora che da uomo, è innegabile sperimentare il rifiuto per la sofferenza, la fine, la morte, il rifiuto di tutto ciò che non siamo in grado di controllare, dirigere, orientare, risolvere; di fronte alla morte ci può essere il rischio di desiderare l’onnipotenza: fare e disfare l’uomo a proprio uso e consumo. Ma è proprio la morte, quella che san Francesco definiva “sorella”, il muro, il limite che ci deve sempre ricordare che siamo finiti, non siamo onnipotenti, e che il sogno che la tecnica possa tutto è destinato a essere ciò che è: un’utopia. Dovendo concentrarmi sulla questione della “morte cerebrale” non posso non far riferimento, seppur brevemente, al concetto nelle sue reali implicazioni. Più che parlare di “morte cerebrale” sarebbe più corretto parlare di “criteri neurologici” utilizzati per accertamento e determinazione di morte. Nel 1968, all’alba dello sviluppo dei trapianti d’organo, varie commissioni si riunirono ad Harvard per elaborare dei criteri che potessero essere quanto più possibilmente “oggettivi” nel definire il “punto di non ritorno”, quel punto da dove il soggetto non sarebbe più potuto “ritornare”. Molti sono stati i malintesi e le critiche mosse relativamente al possibile “conflitto di interessi” tra determinazione di morte e necessità di reperire organi per trapianti. Non è assolutamente in dubbio, però, che i criteri per definire una persona come “morta” debbano godere di una irrinunciabile quanto mandatoria indipendenza dall’eventuale possibilità di trapianto d’organi. In Italia l’ultima revisione concernente le Norme per accertamento e certificazione di morte risale al Dms dell’11 aprile 2008, nel quale si esplicitano nuove modalità per aumentare la sensibilità e la specificità e l’ accuratezza dell’accertamento di morte: tra questi ricordiamo tecniche neuro-radiologiche, ultrasonografiche, neuro-fisiopatologiche e altre che corroborano l’utilizzo del tracciato elettroencefalografico (Eeg) per 20 minuti. Per definire, dunque, un paziente “morto” è necessario dimostrare che tutte le parti del cervello, compreso il tronco encefalico, siano prive di attività, pertanto non devono essere presenti attività respiratoria, né movimenti autonomi, e non si devono riscontrare riflessi legati all’attività dei nervi cranici (per esempio riflesso papillare) per almeno 24 ore. Inoltre deve essere esclusa ogni possibile causa “reversibile” per questa condizione (ipotermia, effetti di farmaci, intossicazione da altre sostanze). Queste precisazioni sono di assoluta importanza perché solo una attenta e analitica conoscenza delle basi teoriche possono consentire di misurarci con i più recenti fatti di cronaca degli ultimi mesi o anni. Se la morte cerebrale, come abbiamo più volte ribadito, si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo, questo ci consente di differenziarla da situazioni similari, ma differenti: stato vegetativo (o quello di minima coscienza), morte corticale, morte del tronco encefalico e altre condizioni. Tutto questo ci consente di definire come eutanasici tutti quegli atti avvenuti negli ultimi tempi e che hanno destato tanto scalpore. Il piccolo Alfie, Charlie e altri piccoli pazienti hanno continuato a respirare in autonomia per parecchio tempo, cosa che contrasta in maniera stringente con la definizione di morte cerebrale e che getta più di un’ombra sulla corretta attuazione dei criteri neurologici discussi in precedenza. Sarebbero molte, forse infinite, le riflessioni che discendono da queste poche righe, ma, su ispirazione di uno dei tanti articoli consultati prima di stendere questo mio primo piccolo contributo a Notizie Pro Vita & Famiglia voglio citare un brevissimo intervento di papa Giovanni Paolo II proprio in merito alla diagnosi e accertamento di morte. Il 29 agosto del 2000 il Santo Padre affermava: «Si può concordare che il recente criterio di accertamento della morte sopramenzionato, cioè la cessazione totale e irreversibile di ogni attività encefalica, se applicato scrupolosamente non appare in contrasto con gli elementi essenziali di una corretta concezione antropologica». «Se applicato scrupolosamente»: il problema sta tutto qua. 

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