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La legge 194 e il padre
Roberto Marchesini
La legge 194, considerata dai più una legge “femminista”, disincentiva gli uomini dall’assumere un atteggiamento responsabile nei confronti della donna con cui hanno concepito un figlio: eterogenesi dei fini?
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Uno dei temi ricorrenti a proposito della legge 194/78 è il ruolo del padre. Come è stato più volte osservato, la legge ha due soggetti (la madre e il medico) e un oggetto, il bambino. Il padre non è neppure nominato, se non all’articolo 5, nel quale ricorre per due volte: il medico esamina e valuta «con la donna stessa e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta, nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna e della persona indicata come padre del concepito [...]». In altri termini, il padre (o meglio: «La persona indicata come padre del concepito») è interpellato solamente «ove la donna lo consenta». Tutto qui. Tanto per intenderci, la parola «donna» ricorre, nel testo della legge, per 48 volte (la parola «madre», una sola); la parola «medico», 24. Ecco, dunque, sorgere il tema del ruolo del padre nelle questioni inerenti l’aborto. Da una parte c’è la posizione femminista, per esporre la quale potremmo citare molte fonti. Tra le tante, leggiamo cosa scrive il filosofo Chiara Lalli su Wired (10 dicembre 2018): «È la donna a decidere, magari perché non vuole diventare madre o perché non vuole un altro figlio. Sono affari suoi e di nessun altro. Ogni donna per se stessa. Non si acquisisce uno speciale potere di genere sulle gravidanze altrui […] perché di mezzo c’è il mio corpo e quello che solo io posso farne; perché qualunque sia lo statuto morale dell’embrione, questa libertà non potrebbe essere limitata o cancellata». Dall’altra c’è il pensiero familista, cattolico e quella fetta del mondo intellettuale italiano che analizza il maschile e la sua influenza nella società attuale, che possiamo far risalire alla rivista Il Covile e al gruppo di lavoro psicoanalitico costituitosi intorno a Claudio Risè, Antonello Vanni, Paolo Ferliga. Di questo gruppo citiamo, come esempio, un brano tratto da Il documento per il padre:
«La prassi oggi vigente, priva il padre di ogni responsabilità nel processo riproduttivo. Una situazione paradossale, ingiusta dal punto di vista affettivo, infondata dal punto di vista biologico e antropologico, devastante sul piano simbolico. Per il bene dei figli, e
della società, è necessario che al padre sia consentito di assumere le responsabilità che gli toccano in quanto coautore del processo
riproduttivo. I casi di cronaca che presentano la disperazione dei padri, che vogliono, prendendosene ogni responsabilità, il figlio che la madre ha deciso di abortire, sono solo la punta dell’iceberg del lutto dell’uomopadre, espulso dal processo di riproduzione naturale di cui è promotore. È necessario avviare una riflessione collettiva che equipari
realmente la dignità della donna e dell’uomo
nella procreazione, a garanzia della vita, della famiglia e della società. L’interesse e la volontà della donna devono essere opportunamente tutelati, nel quadro della cura sociale di difesa della vita, e di promozione della famiglia, nucleo vitale della comunità». Le posizioni sono chiare; il lettore deciderà quale delle due è la più ragionevole ed eticamente accettabile. Ora, però, vorrei tentare di allargare il discorso.
Quali sono gli effetti di questo aspetto particolare della legge 194/78?
Dipende. Se un uomo ha l’intenzione di avere dei figli e allevarli in un nucleo familiare stabile, si tratta chiaramente di una ingiustizia nei suoi confronti. La legge, dunque,
disincentiva questo atteggiamento che
potremmo definire «responsabile», lo punisce. Se invece un uomo ha semplicemente voluto divertirsi usando il corpo della donna, lavandosi le mani delle eventuali conseguenze e comportandosi, come si diceva un tempo, “da mascalzone”, viene premiato. Prima della legge capitava anche che fosse la rete sociale della donna a costringere il “mascalzone” a prendersi le sue responsabilità; atteggiamento, questo, che è stato ridotto a macchietta in decine di film degli anni Sessanta e Settanta.
Ora, invece, può lavarsene le mani: sono affari della donna e del medico. La legge incentiva
questo atteggiamento irresponsabile e
immaturo. Riassumendo, la legge incentiva negli uomini un atteggiamento superficiale nei confronti del sesso e strumentale nei confronti della donna. Mettiamoci ora nei panni di quest’ultima. La legge, nei fatti, stabilisce che le eventuali conseguenze indesiderate di un atto sessuale ricadono esclusivamente sulla donna: “i cocci” sono solo suoi. Non solo è stata trattata come un oggetto sessuale; rimane da sola a rimettere tutto a posto dopo la festa. Non basta: accanto a lei c’è il medico. Costui è un aiuto, un sostegno? Non proprio. Il rapporto tra la donna e il medico non è paritario: è lei che ha bisogno di lui. Potrebbe essere una lettura a posteriori, elaborata in tempi nei quali le agenzie sanitarie hanno il potere di decidere il grado di libertà della vita dei cittadini; eppure il concetto foucaultiano di «biopotere» e di «biopolitica» era già noto in quegli anni. In sostanza, rileviamo due effetti dovuti
all’esclusione del padre nel processo che porta all’aborto: un incentivo a comportamenti sessualmente irresponsabili e una (doppia) reificazione della donna, ridotta a oggetto sessuale.
Eppure, nella lettura corrente, la 194/78 sarebbe una legge «femminista», che sottrae la donna e il suo corpo al potere maschile. Si
tratta dunque di una tragica «eterogenesi dei
fini» di delnociana memoria? Ossia: il risultato finale è opposto a quello desiderato? Forse no. Ricordiamo che la legge fu
presentata da un insieme di forze politiche, ma vide in prima fila il Psi; lo stesso partito che, in quegli anni, era attivamente impegnato nella diffusione in Italia della pornografia.
Anche la pornografia incentiva un utilizzo ludico della sessualità e una reificazione del corpo della donna. La «sessualità libera» e la «liberazione della sessualità femminile» sono solo vuoti slogan: ciò che in realtà significano è l’esatto opposto. La mentalità materialista, abortista ed eugenetica ci ha abituato a questi orrendi scherzi: l’aborto non è forse definito, in certi ambienti, “salute riproduttiva”?
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