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Statuto dell’embrione e tutela della maternità
Clemente Sparaco
Restituire il rispetto all’embrione e l’attenzione alla madre è il compito che ci attende per il futuro.
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Fin dai primordi la fecondità è avvolta da un alone di sacralità e timore reverenziale. Il primitivo, infatti, sa che la vita è oltre le sue possibilità, giacché egli può toglierla, ma non restituirla, e intuisce, nella sua biologia arcaica, che è il ventre materno il luogo di questo prodigio. Pertanto, il primo passo verso il nascituro non è tanto un moto di appropriazione e di gestione, anche se da sempre è esistito l’aborto e il potere del pater familias di rifiutare il figlio esponendolo alla morte, quanto un movimento che ritira le mani, prevalendo il silenzio sulla parola e l’attesa sulla fruizione. Stupefacentemente quel grumo di umanità è già centro autonomo, un mondo altro, irriducibile, non funzionalizzabile né contraibile. Fin dal momento della fecondazione, infatti, il suo sviluppo è continuo, autonomo, finalisticamente orientato con una regolazione intrinseca, e le sue attività cellulari e molecolari sono sotto il controllo di un genoma del tutto nuovo. Il suo ciclo vitale procede, quindi, senza interruzioni, anche se con gradualità, evidenziandone l’individualità, l’identità, l’unicità, talché egli rimane sempre lo stesso individuo dal momento della fusione dei gameti. Eppure, non c’è nulla di più precario della vita allo stato embrionale, sempre in limine per la possibilità che si spenga improvvidamente, come improvvisamente è comparsa. Cosicché essa può
sopravvivere solo se custodita, curata, protetta, difesa.
Lei lo avverte prima di tutti, sentendo il bambino dentro di sé, mentre diventa madre poco per volta. Allora la sua determinazione si fa eccentrica e accetta i limiti della propria libertà o, piuttosto, la vive non in prospettiva di concorrenza, ma di reciproco sostegno con la vita dell’altro che si sta formando nelle proprie viscere. Pertanto, il punto dirimente dello statuto
dell’embrione sta nella sua totale dipendenza
dalla madre. Egli è in modo radicale mediante la madre: si annida in lei, si aggrappa al suo utero, si ciba da lei e cresce in lei. Il suo essere le è così strettamente intessuto che
solo nell’unità corporea con lei può vivere
e svilupparsi. E quella relazione è totale e viscerale anche se asimmetrica: da una parte c’è il concepito, totalmente inerme e radicalmente dipendente, e dall’altra la madre, il cui ventre accoglie la vita come un fragile cesto che galleggia a pelo sulle acque annientanti (come nel racconto biblico di Mosè). Ma in quel crocevia imprescindibile di umanità che è il legame madre-figlio è rintracciabile la figura antropologica fondamentale, che è matrice di civiltà, là dove insieme si tengono la comprensione dell’uomo e della vita. Pertanto, né si salva l’embrione senza la madre né la madre senza l’embrione. L’uno è per l’altra, ma anche l’altra è tale perché è totalmente rivolta e protesa verso il frutto delle sue viscere. Perciò, tutelare l’embrione significa a maggior ragione, perché non se ne può prescindere, tutelare la maternità:
tutelarla dall’indifferenza, dalla solitudine, dall’emarginazione in cui è indotta quando è privata di quel sostegno affettivo, morale e materiale, di cui ella avrebbe piuttosto
bisogno. Perché i nemici della maternità sono i nemici dell’incontro, ovverossia, come scrisse Romano Guardini: «L’abitudine, l’indifferenza, la presunzione boriosa e piena di sé». E la nostra società opulenta, che proclama l’autodeterminazione ma dimentica la responsabilità e la relazione, più di altre segrega, ghettizza, emargina la maternità in ragione delle esigenze e dei ritmi lavorativi, nonché dei suoi automatismi di sviluppo. Cosicché molte donne arrivano a pensare di liberarsi della maternità, come se fosse qualcosa di negativo o di costrittivo, un vincolo e una limitazione delle proprie potenzialità.
Restituire il rispetto all’embrione e l’attenzione
alla madre è, quindi, il compito che ci attende per il futuro.