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Storia di un bambino scartato
Manuela Antonacci
Il piccolo Luigi lo scorso 19 luglio venne lasciato nella “culla per la vita”, la culla termica, installata presso la parrocchia San Giovanni Battista, a Bari. Abbiamo intervistato il parroco, don Antonio Ruccia.
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È uscito in libreria, in occasione della scorsa Giornata per la vita, È vita! Storia di un bambino scartato, abbandonato… affidato, pubblicato da Il pozzo di Giacobbe: un volume che intende ripercorrere e approfondire la vicenda del piccolo Luigi, che lo scorso 19 luglio venne lasciato nella culla termica installata presso la parrocchia San Giovanni Battista, a Bari: la prima in Puglia. Una vicenda straordinaria, che meritava davvero di essere custodita, testimoniata e divulgata. Questo il senso del libro, curato da don Antonio Ruccia, il parroco che, per primo, ha accolto tra le sue braccia il piccolo Luigi, e che è anche docente di teologia pastorale presso la Facoltà teologica pugliese. Con lui abbiamo voluto ripercorrere le tappe essenziali dell’intera vicenda, per comprendere meglio il contenuto del libro.
Don Antonio, vogliamo riepilogare la vicenda riportata nel libro per i nostri lettori che ancora
La “ruota degli esposti” dell’Ospedale di Santo Spirito in Sassia, a Roma, forse il primo ospedale d’Europa, voluto da papa Innocenzo III, nel XII secolo.
non la conoscono. Innanzitutto, com’è nata l’idea
della culla termica?
«Cominciamo con il dire che noi siamo nel quartiere Poggiofranco di Bari che non è molto distante dal Policlinico e questo è un primo dato di fatto. Nel quartiere, poi, vivono tantissimi medici e professionisti che nella maggior parte dei casi hanno comprato i loro appartamenti tra gli anni tra Settanta e Ottanta, adesso la popolazione è invecchiata. Per questa ragione, l’idea che è scattata, subito dopo il mio arrivo, nell’ottobre 2013, era quello di dare un segno di vita al quartiere. Per questo motivo, partendo dall’idea della figura di san Giovanni Battista, che è colui che indica a tutti il segno della vita che è Cristo, abbiamo pensato a questa culla termica, perché in Puglia, fino al 2014, non esisteva alcuna culla termica; nel giugno 2015 abbiamo realizzato,
in sintonia col reparto di Neonatologia del
Policlinico di Bari, questa piccola struttura che potesse accogliere un bimbo. Questa è l’idea che ci ha accompagnato in tutti questi anni».
Che è successo quella mattina del 19 luglio? Sembrava una domenica come le altre e Lei si apprestava a celebrare Messa, ma poi che è
accaduto?
«In effetti lo era davvero una domenica come tutte le altre! Eravamo tutti pronti per la celebrazione della Messa, alle 8.15, quando, ad un tratto, è squillato il mio cellulare ed è
apparsa sul display la scritta “Culla”, come se fosse un nome qualunque in rubrica. Io, inizialmente, stentavo a credere che davvero qualcuno avesse lasciato il bambino, perché mi aspettavo che ciò potesse accadere di notte o alle prime luci dell’alba e non certo in pieno giorno. Sono andato a verificare, con un passo un po’ più veloce del normale, ma nulla di più. Tuttavia, quando ho aperto la culla, ho trovato il bambino. A quel punto ho fatto mente locale e ho chiamato prima il 118, spiegando la situazione e chiedendo l’assistenza di un medico perché potesse visitare il bambino e poi ho fatto il numero del professor Laforgia, che è primario di Neonatologia, al Policlinico di Bari, per dirgli che avevano portato il bambino. Lui, pur essendo fuori Bari, ha allertato il reparto, esortando tutti ad accogliere il bambino, immediatamente».
Per la legge italiana, si può scegliere di partorire in anonimato. La legge consente a una madre che partorisce in ospedale di non riconoscere il bambino e di lasciarlo in ospedale dove è nato (DPR 396/2000, art. 30, comma 2) affinché sia assicurata l’assistenza e anche la sua tutela giuridica. Il nome della madre rimane per sempre segreto. In questo caso la mamma di Luigi ha deciso di affidarlo alla culla termica della vostra parrocchia. Iniziative come la vostra, quanto contribuiscono a rendere le donne davvero libere di scegliere tra l’aborto e la possibilità di far nascere il loro bambino? Quanto la donna si sente spesso sola e spaesata tra queste due possibilità? Possiamo definirlo il senso della vostra iniziativa,
quello di dare una reale possibilità di scelta, alle donne?
«È proprio questo il senso della nostra iniziativa:
la culla termica è l’ultima ratio per evitare
l’aborto e per garantire una sorta di anonimato. Per questo io mi sono impegnato per spiegare a tantissimi che sperano che la mamma si faccia viva, che si tratta di una sua scelta che non va giudicata. La buona notizia, anzi, è che ha deciso di affidare, con responsabilità, il bambino alla parrocchia, perché se fosse stata una donna irresponsabile, avrebbe lasciato il bambino in parrocchia durante la notte. Invece lo ha affidato di giorno. Aveva dunque piena consapevolezza nel fare questo gesto e ha voluto consegnarlo, di proposito, alla parrocchia di cui certamente aveva già sentito parlare. Il bambino non è stato abbandonato, non è stato lasciato per strada, è stato affidato. Lo sottolineo: questo è un affido perché, concretamente, chi è entrato nella culla termica ha varcato la soglia della parrocchia, è entrato nel suo territorio».
Veniamo al libro È vita! Storia di un bambino scartato, abbandonato… affidato, pubblicato da Il pozzo di Giacobbe. È uscito in libreria proprio in occasione della Giornata per la vita, ripercorre la storia del ritrovamento del piccolo Luigi ma non in forma squisitamente narrativa… come?
«Il libro raccoglie tutto il materiale che è stato pubblicato, sia in forma cartacea che sul web o in trasmissioni televisive, proprio riguardo l’episodio appena citato, tutto questo inframmezzato da commenti di persone che
hanno dato un senso anche alla vicenda e che hanno voluto non narrare esclusivamente la storia, ma far riflettere sul significato reale e concreto dell’avvenimento. Quindi se qualcuno si aspetta una storia un po’ fiabesca riguardo tutto questo, sbaglia, ma deve rileggere tutto e porsi tanti perché, per trovare delle risposte che aiutano a scoprire ancora di più il gesto che è stato fatto, che non è, a mio parere, negativo, ma d’amore, con altri criteri che non sono i nostri, ma sono comunque criteri d’amore».
Don Antonio non poteva credere che qualcuno lasciasse un bambino in pieno giorno: e invece è stato un gesto d’amore della madre!
La culla per la vita della parrocchia di San Giovanni Battista di Bari è stata realizzata nel giugno 2015, in sintonia col reparto di Neonatologia del Policlinico di Bari.
«Gesù ancora oggi prende per mano i piccoli, i bimbi e li rende giudici della nostra fragile civiltà. I bambini sbloccano il lockdown dei nostri fallimenti perché portano in sé il “vangelo del bambino”», scrive nel suo contributo al volume il vescovo di Trapani Pietro Maria Fragnelli, presidente della Commissione episcopale Famiglie, giovani e vita. È l’invito a ritornare a quella dimensione interiore dell’infanzia che vuol dire innocenza, purezza e fede infinita in Dio? L’accoglimento della vita nascente può contribuire a rendere concreta e visibile questa esperienza?
«Tutto può contribuire a rendere concreta l’esperienza dell’amore, perché ciò che dobbiamo cogliere è che questo gesto ha offerto a ciascuno l’opportunità di capire, ancor di più, come la nostra storia è fatta di persone che nascono per dare un senso anche alla vita degli altri, che non finisce nemmeno quando si esala l’ultimo respiro, perché anche lì c’è una vita che nasce. La storia del seme che, una volta marcito, produce tanto frutto, lo troviamo negli episodi stupendi di coloro che hanno “schiodato” Gesù. Da lì è iniziata una storia di nascita che ci fa comprendere, ancora di più, che nessuno è un errore ma che tutti siamo persone che danno un senso alla vita del mondo. Ha spiegato molto bene Monsignor Fragnelli quanto questo amore diventa coinvolgente per una comunità che si deve occupare soprattutto di bambini. Il bambino è il segno concreto di ciò che è nato in questo periodo di morte. Credo che la città di Bari debba molto a questo gesto e spero che non dimentichi che, durante la pandemia e i funerali che continuano a essere celebrati, questo bimbo, invece, ci dice che è possibile rinascere e realizzare un futuro».
Nella prefazione del libro, curata dalla comunità parrocchiale si legge: «Quel telefono della parrocchia che ha squillato ininterrottamente per una settimana, o il telefono personale di don Antonio, più rovente della temperatura esterna di luglio, indicano che quel bambino è riuscito a dirci che è possibile credere che la vita è sempre un dono... Ma il vero miracolo è anche un altro. A distanza di qualche mese quel bambino continua a coinvolgerci. Sempre e in tanti... continuano a parlare di lui». Vorrei che si soffermasse su quest’ultima frase, partendo da una considerazione: l’agenda dei media spesso mette in evidenza quasi unicamente notizie negative, che trasmettono poca speranza. La constatazione che, invece, della vicenda del piccolo Luigi si continui a parlare a distanza di mesi significa forse che il cuore della gente ha bisogno di questi segni di speranza, che c’è ancora una grande apertura verso il bene e che forse bisognerebbe alimentare questo desiderio, anche a livello mediatico?
«Certo, sono perfettamente d’accordo! Ancora oggi, il fatto che ne stiamo parlando dopo mesi è un’espressione concreta, reale, di quanto sia importante, ancora una volta, impegnarsi a favore della vita. Questo non è un tempo in cui siamo chiamati semplicemente a sopravvivere ma a mettere in vita. Questo vale per i ragazzi, per i giovani, coloro che sono alla ricerca di un futuro, vale per le nuove famiglie, bisogna rimettere in vita tutto. Il fatto che si stia parlando ancora del bambino è perché noi tutti crediamo che la vita non debba essere sprecata o annullata ma dobbiamo pensare che dietro ogni germe c’è un’esperienza concreta d’amore. Mi piace dirla con una frase di don Mazzolari: “Nel pieno dell’inverno bisogna saper vedere i germi della primavera”. Questo è il significato profondo: Luigi è un germe di vita che, ancora una volta, ci sta facendo interrogare. Noi auspichiamo che i media comincino a farci parlare perché io ritengo che, anche di fronte al grande dibattito sull’aborto,
come Chiesa dobbiamo lanciare messaggi d’amore e di vita. È questo che fa deviare dall’idea della soppressione di un bimbo, perché anche di fronte a una violenza la vita ha un senso più grande di quello che possiamo pensare».
Questa esperienza ha inciso in qualche modo sul senso della tua paternità sacerdotale?
«Questa è un’ennesima prova della mia paternità sacerdotale: io sono sacerdote da 34 anni. Sono diventato sacerdote giovanissimo, a 24 anni e ho acquisito un senso di paternità verso i ragazzi che per primi hanno colto questa mia esigenza di coinvolgerli nella vita di chiesa. Ci sono giovani che hanno fatto con me il primo tratto di strada e ancora frequentano la vita parrocchiale. Mi sono sentito padre quando sono stato parroco in periferia, dove ho dovuto lottare per la non costruzione di un inceneritore tra le case, in questa nostra città. Anche qui ho espresso un’attenzione alla vita che diventa salute. E poi l’esperienza forte e globale vissuta in un paese, come anche la dolcezza dell’esperienza quinquennale con i senza fissa dimora. Adesso, questo segno di vita in un quartiere di anziani rende concretamente anche la mia paternità ancora più lunga. Io ho un solo desiderio in questo momento: quello di poter solamente riabbracciare il bambino che non so dove sia, né chiederò dov’è, toccherà a lui passare da noi perché questo libro è stato scritto anche per il suo futuro. Quando non ci saremo più, quel bambino deve conoscere l’amore che è stato riversato su di lui e che gli ha dato tutto il mondo. Dico “tutto il mondo” perché anche una televisione svedese ha fatto un servizio, non sul libro, ma sull’avvenimento, e questo, di per sé, è un fatto eccezionale. Ora mi auguro che la città di Bari risponda con gesti concreti: che si possa creare un’osmosi tra i quartieri, per promuovere un’attenzione, per esempio, verso quei ragazzi che hanno bisogno di essere seguiti nello studio e che potrebbero essere aiutati anche da altre famiglie. Perché tutto questo? Perché paternità significa che non si finisce mai di instaurare un rapporto con l’altro, ma che questo si rinnova e si sviluppa sempre, nel tempo, trasformandosi in un’apertura e traducendosi in gesti di disponibilità verso tutte le cose che, un domani, saremo chiamati a realizzare».