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L’8 marzo ai tempi del gender

Enrica Perucchietti

Che senso ha la Festa della donna in un mondo che permette le battaglie femministe solo e nei limiti degli interessi degli uomini, dei ricchi e dei transessuali?

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Come ogni anno è inevitabile tracciare un bilancio in occasione della Festa della donna. Nella società liquida del politicamente corretto si ritiene che

si siano fatti enormi passi avanti nel

campo dei diritti delle donne: i traguardi che vengono sbandierati con orgoglio, negli ultimi anni, si riassumono, però, nella battaglia del #Metoo, nella declinazione al femminile dei nomi (architetta, presidenta, assessora, ecc.), nell’emancipazione sessuale, nelle campagne per l’aborto, e nelle battaglie contro la violenza di genere. Noi donne possiamo dirci realmente soddisfatte di tali rivendicazioni? Dove finisce la patina buonista della propaganda e dove inizia la concretezza delle rivendicazioni femministe? Nell’ultimo anno, per esempio, abbiamo assistito a una campagna denigratoria e violenta - ma emblematica - contro

la scrittrice femminista J.K. Rowling.

La “mamma” di Harry Potter e di Cormoran Strike è finita a più riprese al centro di bufere sui social network per aver fatto delle affermazioni ritenute discriminatorie e transfobiche. Il 6 giugno scorso Rowling aveva contestato il

titolo di un articolo sulla parità sanitaria, che recitava Creare un mondo post-Covid-19 più equo per le persone che hanno le mestruazioni, ironizzando in un tweet: «“Le persone che hanno le mestruazioni”... sono sicura che ci fosse una parola per quelle persone. Qualcuno mi aiuti. Wumben? Wimpund? Woomud?», riferendosi con sarcasmo al termine women, “donne”. Il tweet aveva scatenato una serie di attacchi feroci, arrivando agli insulti («Strega», «Cagna», «Feminazi», «Terf», sigla usata in modo dispregiativo che sta per “Femminista Radicale che Esclude i Trans”), da parte di chi aveva voluto leggere nelle parole della scrittrice la volontà di definire “donna” solo chi ha le mestruazioni (escludendo pertanto i trans). I leoni da tastiera sono gli stessi che quotidianamente promuovono tematiche “politicamente corrette”: la violenza di costoro si riversa, però, contro chiunque osi discostarsi dal pensiero unico, mostrando la ferocia e l’ipocrisia del “buonismo”. A dicembre 2019 la Rowling era già stata accusata, sempre su Twitter, di essere transfobica, dopo essersi schierata in difesa di Maya Forstater, una ricercatrice che aveva perso il posto di lavoro in un think tank per aver sostenuto che il sesso biologico è un dato oggettivo e che le “donne” transessuali non sono vere donne. Apriti cielo! Anche in quella occasione la scrittrice era finita alla gogna per aver osato contestare indirettamente le teorie di genere. Una polemica simile ha infuocato gli animi anche nel nostro Paese in una cornice ancora più surreale. Alcuni attivisti Lgbt hanno chiesto a Francesca Chiavacci, presidente di Arci, l’allontanamento di Arcilesbica dalla Federazione, con l’accusa di transfobia. Il casus belli si è consumato domenica 31 maggio 2020 in un webinar di Arcilesbica volto a lanciare in Italia la Declaration on women’s sex-based rights, un manifesto ispirato alle idee della scrittrice Sheila Jeffreys. In questo documento si parla apertamente della discriminazione

che le donne subiscono quando il concetto di identità di genere prevale sul dimorfismo

sessuale: ammettere sotto il cappello nozionistico di “donna” chiunque si senta tale, ma non lo sia (quindi i trans), rischia di sminuire le conquiste ottenute dalle donne. Evidentemente questo è diventato un tema tabù, talmente scomodo da non poter nemmeno essere nominato. La frattura in seno al movimento Lgbt, però, è ben più profonda, in quanto Arcigay non ha mai

digerito la contrarietà di Arcilesbica e delle

Arcigay non ha mai digerito la contrarietà di Arcilesbica e delle femministe alla pratica dell’utero in affitto

La natura non può piegarsi ai capricci o agli interessi economici, come invece si possono piegare le parole, declinandole al femminile, per assecondare le rivendicazioni di noi donne

femministe alla pratica dell’utero in affitto,

che sfrutta e mercifica il corpo femminile. È chiaro che i tanto sbandierati diritti delle

donne finiscono in secondo piano dinanzi agli interessi miliardari che ruotano intorno

alla maternità surrogata e all’egoismo di alcuni soggetti che intendono giustificare una pratica ignobile. Non va meglio oltreconfine, come testimonia Marie-Josèphe Bonnet, autrice di Adieu les rebelles!, che proprio per le sue posizioni contro l’utero in affitto, «una forma di schiavismo moderno», nel dicembre 2014 ha visto annullata la sua presenza a una conferenza organizzata dall’associazione Les Oublié-es de la mémoire dal titolo Résistance - Sexualité - Nationalité à Ravensbrück. La sua presenza disturbava profondamente il movimento Lgbt francese, evidentemente allergico al libero pensiero: la presenza della Bonnet non era gradita in quanto si era macchiata di «dichiarazioni virulente e vicine alle posizioni della Manif pour tous». La coordinazione delle lesbiche francesi ha successivamente a sua volta abbandonato il centro Lgbt. Difendere i diritti delle donne può implicare, se questi rischiano di opporsi a certi evidenti interessi, la gogna mediatica e la damnatio memoriae. Le battaglie femministe, al tempo

del gender, vengono permesse solo e nei limiti degli interessi degli uomini e dei transessuali.

Il paradosso di tutto ciò è che in una società in cui la scienza è diventata un dogma, la stessa

scienza viene piegata con disinvoltura alla mercé dei capricci dei sostenitori del gender

(che non ha nulla di scientifico). Costoro hanno di fatto istituito l’ennesimo “psicoreato”: semplicemente non si può dire la verità, ossia che esiste una differenza biologica tra maschi e femmine e che i trans che si sentono donne non sono in realtà tali. Non si possono nemmeno criticare pratiche come l’utero in affitto, peraltro vietato nel nostro Paese, senza essere tacciati con i peggiori epiteti. Per chi non l’avesse ancora capito, ci troviamo

di fronte a una rivoluzione antropologica

che i poteri forti stanno promuovendo e imponendo in tutto il mondo, con cui si vuole riprogrammare l’opinione pubblica e la morale collettiva. Essa, come spiegavo con Gianluca Marletta in Unisex e come ho approfondito nel mio Utero in affitto, trae linfa e forza dai princìpi buonisti e falsamente umanitari su cui sembra basarsi. L’intenzione evidente è di

sradicare l’identità sessuale per rendere fluida

la sessualità e amorfo l’individuo. Dalla rivendicazione del “corpo è mio e me lo gestisco io”, pertanto, siamo finiti per giustificare, legittimare - e in molti Paesi persino permettere - quella mercificazione del corpo umano che è l’utero in affitto. Ha ragione la filosofa e femminista Luisa Muraro a rivendicare nel suo libello L’anima del corpo. Contro l’utero in affitto, «l’impegno femminista per la libertà» coerente con la critica alla maternità surrogata. Muraro nota, infatti, come la possibilità di diventare madre sia «una prerogativa che in antiche culture ha ispirato un rispetto sacro per il corpo femminile. Soltanto lo stato di necessità può giustificare […] che una si privi delle sue prerogative senza con ciò sminuirsi». Eppure, queste esternazioni, seppure provengano da femministe e siano a difesa delle donne contro lo sfruttamento del corpo femminile e la compravendita di neonati, vengono viste come fumo negli occhi dalla nostra società, sempre più orientata in una direzione di liquefazione e strumentalizzazione dei diritti. Il piacere, l’ego e il capriccio dei

maschi e dei ricchi prevale, di fatto, ancora oggi, nel 2021, sui diritti basilari delle donne.

Tra cui il diritto a non essere sfruttate e schiavizzate come incubatrici per fabbricare neonati da vendere a compratori ricchi. Il femminismo e gli studi di genere hanno infatti condotto le femministe in un cul de sac, arrivando a giustificare e promuovere non solo l’utero in affitto, ma anche pratiche transumaniste come l’ectogenesi. Sebbene queste rivendicazioni vengano promosse ipocritamente come fossero a sostegno delle donne, è chiaro che il ruolo della donna finisce per sparire all’orizzonte, schiacciato sotto il peso di ben altre figure e ben altri interessi. Il sogno transumanista di una società in cui le prossime generazioni possano nascere in uteri artificiali, piace ai tecnocrati (come Jacques Attali) e persino ad alcune femministe (come Anna Smajdor ed Evie Kendall) che vedono nell’utero artificiale la liberazione della donna e uno strumento di uguaglianza. Il passo verso una popolazione di automi o individui geneticamente modificati è già in atto: è tempo di decidere consapevolmente che cosa vogliamo per il nostro futuro. In questo scenario la donna deve comprendere che la battaglia lecita e doverosa per i suoi

diritti non deve passare attraverso la rinuncia delle sue caratteristiche essenziali e naturali.

La natura non può piegarsi ai capricci o agli interessi economici, come invece si possono piegare le parole, declinandole al femminile, per assecondare le rivendicazioni di noi donne. 

È evidente l’intenzione di sradicare l’identità sessuale per rendere fluida la sessualità e amorfo l’individuo. Quindi bisogna cancellare anche le donne

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