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Fare scuola, ovvero l’arte di arrangiarsi

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La storia di Rosa

La storia di Rosa

Francesca Romana Poleggi

L’esperienza, le riflessioni - e lo sfogo - di un’insegnante in tempo di Covid

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Sono 33 anni che faccio il mestiere più bello del mondo: insegno nella scuola secondaria di secondo grado, nei dintorni di Roma. Non è una professione gratificante nell’immediato (forse è un po’ per masochisti), ma è una

professione che consente di contemplare la preziosità

infinita dell’essere umano, specie nell’età evolutiva, e consiste nell’intessere rapporti umani spesso difficili, ma sempre e comunque arricchenti. Sono, però, 33 anni che imparo l’arte di arrangiarmi. Cambiano i presidi (pardon: i dirigenti scolastici o, meglio, ancora i Ds), cambiano i ministri, ma alla fine l’insegnante è lì, da solo, a dover intessere un “dialogo educativo” con studenti sempre più distratti, a doversi rapportare con famiglie sempre più inconsistenti, che quando intervengono

La Dad penalizza i più poveri (quelli con strumenti tecnici e connessione internet insufficienti) e i più deboli, per quanto diligenti e volenterosi.

di solito lo fanno per difendere a spada tratta anche gli atteggiamenti più indifendibili dei ragazzi, con colleghi e colleghe sempre più stanchi, incompetenti e demotivati e a doversi destreggiare in mezzo alle scartoffie di una burocrazia borbonica che si modernizza creando acronimi (Ptof, Pei, Pia, Pai…), creando commissioni e sottocommissioni che si parlano addosso e fanno compilare chilate di documenti, schede e relazioni: bisogna accumulare chilate di carta (o di file). Non importa quello che c’è scritto, tanto non le leggerà mai nessuno. I docenti fortunati sono quelli che trovano all’interno del Consiglio di classe due o tre colleghi che credono davvero nell’importanza sostanziale del loro ruolo, che credono davvero che la scuola sia una cosa seria, una palestra di

vita dove i giovani imparano innanzitutto ad affrontare le

difficoltà con impegno e - diciamo una parola divenuta tabù - sacrificio. Perché studiare è una ginnastica per la mente: a prescindere dai contenuti, offre gli strumenti per capire quello che si legge e che si dice intorno a noi e quindi per sviluppare il senso critico, valutare, scegliere, e - in sostanza - conquistare la libertà. La scuola deve “insegnare a studiare”.

Tutto il resto è secondario.

Si sa - da che mondo è mondo - che i ragazzi tendono a essere un po’ scansafatiche: è fisiologico e per certi versi anche sano. Quindi il lavoro, la fatica vera dell’insegnante è quella di trovare un canale di comunicazione, di creare un briciolo di curiosità, di interesse, di far capire che, se apparentemente le equazioni o le “poesie scritte da gente morta” non “servono a niente”, in realtà sono utilissime per crearsi un bagaglio culturale, cioè per costruirsi una personalità, per vivere da persone libere e non da burattini di chi tiene i fili dell’informazione e gestisce le armi di distrazione di massa.

La scuola perciò ha un potere immenso sulle giovani menti,

tanto più grande quanto più la famiglia risulta disgregata o addirittura “liquefatta”. Attraverso la scuola, i libri scolastici e la formazione dei docenti lo Stato può davvero istruire, educare o indottrinare con estrema efficacia. Oppure può consentire che le nuove generazioni crescano prive di quel bagaglio culturale e di quelle capacità critiche di cui sopra:

cittadini ignoranti si trasformano facilmente in sudditi docili e obbedienti.

Gli insegnanti che combattono contro questa deriva sono tanti, ma sempre più soli: è sempre più difficile trovare

Cambiano i ministri, cambiano i dirigenti scolastici, ma alla fine l’insegnante è lì, da solo, a dover intessere un “dialogo educativo” con studenti sempre più distratti, a doversi rapportare con famiglie sempre più inconsistenti.

colleghi e dirigenti che sostengono fino alla fine il brutto voto o la nota disciplinare, quindi devono arrangiarsi a trovare strategie comunicative con i ragazzi, trovare l’interruttore affinché si accenda la loro attenzione. Non è facile, e col passare del tempo il gap generazionale è sempre più ampio.

Ho imparato a parlare di calcio e di “musica”

rap, eppure vedo che funziona sempre meno. Non posso - gentilmente - “costringere” a studiare e convincerli è un’impresa sempre più disperata. Non si boccia più, non si sospende più perché i votacci e i provvedimenti disciplinari sono considerati “punizioni” ingiuste per ragazzi che si comportano male “non per colpa loro”, ma per colpa della società. Quindi vengono a mancare gli unici strumenti che hanno gli insegnanti, non per “punire”, ma per trasmettere la legge delle logiche conseguenze ed educare alla responsabilità. Fino a qualche anno fa chi preferiva farsi una passeggiata piuttosto che studiare sapeva di “trasgredire” e sapeva che poi arrivava il “quattro” e le prediche di contorno a casa e a scuola. Oggi, innanzitutto è la mamma che tiene a casa il figlio che non ha studiato per il compito in classe; e poi, se arriva il “quattro” la colpa è del docente. Tanto poi, in qualche modo, il “debito” si recupera, e anche se non si recupera ci sono buone probabilità di sfangarla ugualmente per “voto di consiglio”. Oppure, gli insuccessi scolastici sono presentati come tragedie esistenziali. Cosa stupida, sbagliata e pericolosa. Nella vita bisogna imparare a fare le cose e a superare gli ostacoli: non sempre ci si riesce. Bisogna imparare a fallire, cadere e rialzarsi. La palestra migliore per questo allenamento è la scuola, dove il votaccio o persino la bocciatura, alla fine, non fanno poi male davvero e si superano: quando poi la vita darà - inevitabilmente - le sue batoste, sarà più facile rialzarsi. È utilissimo persino imparare a “mandar giù” le piccole-grandi ingiustizie commesse dal docente e a rapportarsi con l’insegnante e i compagni antipatici. Morale della favola: il docente deve instaurare il dialogo educativo, deve trasmettere (o “tirar fuori”, e-ducere!) conoscenze e competenze senza strumenti idonei a farsi ascoltare. Si arrangerà (i nomi dei calciatori, in fondo, li imparo facilmente, ma quelli dei rapper proprio non mi entrano in testa). Certamente le generalizzazioni lasciano sempre il tempo che trovano. Certamente esistono “scuole serie” dove ci sono solo insegnanti seri e famiglie presenti e responsabili. Ma altrettanto certamente l’esperienza di chi scrive non è un caso limite.

La “didattica a distanza” (Dad) sperimentata in

tempo di pandemia è stata la cartina tornasole di quanto detto in questa lunga premessa. Da subito sono mancate direttive chiare e univoche su come affrontare l’emergenza. Chi ha fatto in streaming lezioni “regolari” dalle 8 alle 14, come niente fosse, spiegando, interrogando e mettendo voti; chi ha ricevuto l’ordine di non stressare i ragazzi e quindi di non cominciare le lezioni troppo presto e non farle durare troppo a lungo; chi è stato ammonito: guai a mettere voti che in un contesto tale non hanno alcun valore legale; guai a chiedere a minorenni di registrarsi online: c’è la privacy. Allora, usare piattaforme che non prevedono la registrazione, che siano semplici da usare (non solo per i docenti “antichi” che hanno ancora poca pratica del pc, ma anche per tanti discenti che sono bravissimi a messaggiare col telefonino sui social, ma che - più spesso di quanto si creda - hanno - o dicono di avere - difficoltà a inviare o ricevere e-mail, a fare login e a usare piattaforme dedicate).

Nella mia esperienza, dopo aver fatto diversi tentativi e aver constatato pregi e difetti delle piattaforme online, ho scelto la più gradita ai ragazzi, tra quelle consigliate dalla scuola. Ma mi sono arrangiata soprattutto con lo strumento di comunicazione da loro prediletto e perciò di gran lunga più efficace: WhatsApp, videochiamate comprese (in due o tre massimo), quando è servito: ciò ha comportato di fatto una disponibilità h24 per 7 giorni su 7 nei confronti degli alunni. Certamente, avevo posto un orario e delle regole, ma di fatto, quando arrivava il messaggino di sera o di domenica, mi è sembrato doveroso rispondere ugualmente: era necessario per non chiudere quel canale di comunicazione che è tanto difficile trovare in classe, quando ci si parla guardandosi negli occhi, e che è del tutto inconsistente quando di mezzo c’è un dispositivo elettronico. Alcuni ragazzi, infatti, sono letteralmente spariti. Molti si connettevano, spegnevano la telecamera (non funzionava mai! Poverini, sono stati mesi senza farsi selfie?) e si facevano i fatti loro. Tra quelli che si sono prestati davvero, i più bravi, intelligenti e capaci hanno seguito le lezioni online, e hanno interagito: qualcuno ha anche lavorato seriamente e con profitto. Ma quelli più fragili, per quanto diligenti, hanno perso totalmente la bussola. La Dad penalizza i più poveri (quelli con strumenti tecnici e

Nella vita bisogna imparare a fare le cose e a superare gli ostacoli: non sempre ci si riesce. Bisogna imparare a fallire, cadere e rialzarsi. La palestra migliore per questo allenamento è la scuola.

connessione internet insufficienti) e i più deboli. Poi, sempre dopo tante voci di corridoio che giravano già alla fine di marzo e che certamente non hanno invogliato i ragazzi a impegnarsi nella Dad, si viene a sapere che si faranno gli

scrutini e si metteranno dei voti, ma saranno

tutti promossi. Quelli che proprio se lo meritano avranno un “debito” che recupereranno durante il corso dell’anno prossimo. Come? Professori, arrangiatevi. Organizzatevi in classe con una didattica doppia, un po’ per chi sa e ha raggiunto determinati obiettivi, un po’ per chi non sa assolutamente niente e non ha le basi per capire e imparare cose nuove. Per di più, mentre questa Rivista va in stampa, ancora dalle alte sfere non è stato detto

come comincerà in concreto il prossimo anno scolastico.

Ci sarà ancora pericolo di contagio (l’hanno decretato per Dpcm...), bisognerà ricominciare in sicurezza, secondo le regole del “distanziamento sociale”. Bene. Una persona normale dirà: si dimezzano le classi numerose e si assumono più insegnanti. Si sarà messa mano all’edilizia scolastica per creare gli spazi laddove necessario, ristrutturare, organizzare le strutture... Macché.

Al Ministero fanno una commissione che dopo tanti proclami delegherà alle Regioni, che delegano ai Comuni, che delegano ai (poveri) presidi, i quali, senza mezzi idonei diranno: «Professori, arrangiatevi».

Se poi, come si sente dire - perché sono mesi che andiamo avanti per sentito dire - alle superiori si farà un po’ in classe e un po’ a distanza, vorrò vedere quante scuole saranno attrezzate con una connessione internet efficiente e i dispositivi idonei in tutte le classi. Forse al Ministero hanno presenti le scuole dei quartieri bene delle città, ma l’Italia è fatta anche di periferie, di borgate, di zone rurali, di zone di montagna. E allora? Non c’è problema, in fin dei conti: qualsiasi cosa decideranno (o non decideranno, così non si prendono la responsabilità), possono star tranquilli: ci arrangeremo. 

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