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La Dichiarazione di Nairobi e il martirio

La cultura della morte dilaga nell’ambito delle organizzazioni internazionali. Che fare?

Tommaso Scandroglio

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L’Unfpa ha approvato la Dichiarazione del vertice di Nairobi, che chiede «accesso all'aborto nella misura massima consentita dalla legge» perché serve alla «salute sessuale e riproduttiva», nella quale vanno comprese anche l’omosessualità e la transessualità.

Il Consiglio direttivo del Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione (Unfpa) ha approvato una modifica al piano strategico del Fondo stesso che permetterà di diffondere ancor di più nel mondo le pratiche abortive, presentandole come “diritti umanitari”. Infatti il 5 giugno scorso l’Unfpa ha approvato un documento intitolato: Dichiarazione del vertice di Nairobi, vertice tenuto mesi prima. Questa dichiarazione apre all’«accesso all’aborto nella misura massima consentita dalla legge» perché facente parte del «diritto ai servizi di salute sessuale e riproduttiva [aborto e contraccezione] in contesti umanitari e fragili». Inoltre ha ricompreso nell’espressione «salute sessuale e riproduttiva» anche l’omosessualità e la transessualità, così come richiesto dal Guttmacher Institute (pro aborto) e dalla rivista medicoscientifica Lancet.

L’Unfpa, negli anni Ottanta, ha fornito assistenza concreta e know-how alla Cina per implementare la sua brutale politica del figlio unico.

C’è da sottolineare che la Dichiarazione di Nairobi ha avuto una genesi che dal punto di vista formale è apparsa ai più non proprio limpidissima. Infatti, organizzazioni pro life

e pro family non hanno potuto partecipare

ai lavori e, come conseguenza, molti Paesi si sono rifiutati di sottoscrivere il documento finale proprio perché poco rispettoso del tanto celebrato pluralismo. Infine l’Assemblea generale dell’Onu non ha adottato la Dichiarazione, anche perché il tema aborto, in linea molto teorica, non potrebbe essere trattato dalle agenzie Onu, bensì demandato alle legislazioni nazionali. Nel novembre del 2019 l’amministrazione

Trump si era opposta alla Dichiarazione

di Nairobi, insieme ad altri Paesi, ma senza successo. A inizio giugno sempre l’amministrazione Trump era tornata alla carica tentando di inserire nella Dichiarazione un riferimento a una decisione del 2017 del Consiglio esecutivo del Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione in cui si stabiliva che il piano strategico dell’Unfpa può essere redatto solo «in conformità con i diritti umani riconosciuti a livello internazionale». La notizia ha una sua rilevanza perché inserire

l’aborto, inteso come “diritto umanitario”, nel piano strategico dell’Unfpa vorrebbe dire istituzionalizzare ancora di più l’aborto, e quindi diffonderlo nel mondo con sempre maggior facilità. Di fronte a questo ennesimo attacco alla vita nascente sorge sempre, almeno nella coscienza degli uomini di buona volontà, un quesito assai semplice: cosa fare? Come impedire che l’aborto dilaghi sempre più, anche a causa delle decisioni di questi organismi sovranazionali? Le risposte sarebbero delle più diverse: la formazione e l’informazione, le proteste di piazza, le petizioni pubbliche, l’impegno di sensibilizzazione dei politici, il confronto con i propri parenti, amici, etc., l’impegno nelle associazioni pro life e soprattutto l’offerta a Dio di preghiere e sacrifici. Qui però vogliamo mettere l’accento su uno strumento che sempre più appare decisivo: la testimonianza personale. Tale strumento ha oggi una caratteristica che è imprescindibile: l’eroicità o il martirio. Cerchiamo di spiegarci meglio, al fine di non essere fraintesi. Non stiamo affermando che chi si schiera a favore dei bambini non nati sarà chiesto sicuramente di dare la vita per questo ideale. È accaduto e potrà accadere in futuro, ma è realisticamente eventualità marginale. Ciò che invece vogliamo sottolineare sta nel fatto che oggi la difesa

della vita non può mai avvenire a costo zero.

Ciò dipende dal fatto che non si può essere neutrali in questa battaglia, ma è inevitabile schierarsi: o in difesa della vita o all’attacco della stessa. Una volta schierati a favore dei bambini il nemico tenterà di toglierti di mezzo e riuscirà prima o poi ad infliggerti qualche ferita. Potrà essere l’incomprensione del coniuge, del fidanzato, dei parenti, dei colleghi, degli amici. Potrà essere un licenziamento o l’impossibilità di accedere ad alcuni ruoli professionali. Potrà essere una denuncia o una querela, le quali daranno vita a una vertenza giudiziaria che, con buona probabilità, il pro life perderà. Potrà essere trovarsi vittima di una critica feroce da parte dei media o la presa in giro a mezzo stampa, senza ovviamente il diritto di replica. Potrà essere la perdita della buona fama perché infangare il buon nome di una persona con la menzogna è strategia spesso vincente. Da qui una seconda domanda: siamo disposti a

pagare questo prezzo?

Detto tutto ciò, però, la testimonianza

personale - declinata oggi come inevitabile martirio - è una delle armi più efficaci

per illuminare le coscienze. Perché il testimone parla con i fatti e i fatti hanno un potenziale di persuasione enorme. E solo quando la coscienza collettiva avrà mutato orientamento, anche grazie al sacrificio di molti, le agenzie governative come l’Unfpa non potranno più fare orecchie da mercante sulle tematiche eticamente sensibili, sebbene tali organismi siano composti da tecnocrati oligarchi che, costituzionalmente, sono portati a passare sopra alle istanze della base come uno schiacciasassi. 

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