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Diritto naturale e diritto positivo (Parte II/3
La storia di Giancarlo Rastelli, oltre a essere quella di uno scienziato riconosciuto in tutto il mondo per i risultati delle sue ricerche cardiovascolari, colpisce più di tutto per l’esaltazione della normalità.
Il grido di ferite profonde che oggi, a 50 anni dalla morte di “Gian”, continuano copiosamente a sanguinare (perché perenne, e spesso così cronicamente insoddisfatto, è il bisogno umano di considerazione). Quante volte le già gelide mura degli Ospedali impietriscono dinanzi alle continue sollecitazioni di rimbombi altisonanti d’intensa e inappagata sete di attenzione. Quanti i tentativi di parola stroncati sul nascere da modi di fare paternalistici, non certamente paterni. Quante volte orecchie desiderose di risposte intercettano il vuoto, perché le sbrigative elencazioni in “medichese”, che di comunicativo difettano pure in parvenza, si riducono a freddi monologhi che si dissolvono, inesorabilmente, nell’aria.
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Un’aria sempre più gelida, un paziente sempre più solo.
Eppure è proprio lì, nella relazione di cura, che si gioca la partita più importante per la vittoria finale; perché solo nell’incontro improntato ad
una vera alleanza che la terapia trova terreno fertile e la guarigione diviene il traguardo
agognato, perché l’esito di un prendersi cura effettivamente compiuto e totalizzante. Un prendersi cura che non si arresta neppure dinanzi alla sofferenza più estrema di un esito infausto, che sa guardare ben oltre l’apparenza di un malato che sta lì a scontare pena per una sentenza ormai passata in giudicato. Sentenza irrevocabile - linfoma di Hodgkin - che ha portato Rastelli a percepire ancor più nitidamente le pulsazioni di un cuore malato, perché il suo ha iniziato a battere all’unisono; in quel mirabile “comune destino” che rende il medico, ad un tratto, veramente paziente. Un tracciato perfettamente sovrapponibile, una conformazione interna minuziosamente esaminata ed appresa che hanno trovato, in un puntuale dosaggio di scienza e carità, la medicina curativa, pur in presenza di un male “incurabile”. Perché “to care” è la parola d’ordine, il punto di partenza, la metodica vincente, quella macchina cuore-polmone che consente d’intervenire con efficacia risolutiva. Una carità, infatti, da veicolare prontamente, mediante l’abile incisione del cardiochirurgo che ripristina il tunnel dell’autentica relazione medico-paziente, in circolazione sistemica, in modo da ossigenare e nutrire l’intera persona; cicatrizzando ogni ferita.
Luciano Leone
Continuiamo la riflessione cominciata nello scorso numero sulla legge, sulla sua potenza e sui suoi limiti. In questa seconda parte, con le parole di Autori, anche pre-cristiani, si dimostra che la retta ragione, indipendentemente dalla fede, conduce a riconoscere l’esistenza del diritto naturale: una legge superiore, eterna e immodificabile, cui lo Stato dovrebbe uniformarsi per perseguire fini di giustizia e di equità.
Giuseppe Diotti, Antigone condannata a morte da Creonte, 1845 (non esposto).
Il diritto positivo è definito come il diritto posto da chi ha il potere in un determinato ambito spaziotemporale, ed è soggetto quindi a variazioni in rapporto con le necessità della società, variabili nel corso del tempo. Esso corrisponde all’ordinamento giuridico vigente. Come già ricordato (Parte I), qui il termine “positivo” significa soltanto “posto” e non ha alcuna correlazione col giudizio di valore (positivonegativo, buono-cattivo). Il problema che si pone è se lo Stato, e quindi il legislatore, abbia completa libertà nello stabilire le leggi positive (teoria del positivismo giuridico), oppure se ciascun uomo detenga per sua natura diritti inalienabili e intangibili da altri, cosicché il legislatore stesso dovrà tenere presenti e rispettare
«L’errore del positivismo giuridico è alla base dell’assolutismo di Stato, che equivale a una deificazione dello Stato medesimo» (Pio XII)
tali diritti nel redigere le leggi, facendo riferimento a un diritto non scritto, ma innato e comprensibile alla retta coscienza, che viene definito “diritto naturale”. In altri termini: i “buoni selvaggi cannibali” di Rousseau, i quali decidono in base alle loro leggi positive di cucinarvi nel pentolone, violano dei vostri inalienabili diritti? Coloro che applicano eugenetica, sterilizzazione forzata, eutanasia in base alle leggi positive vigenti, violano i diritti inalienabili delle persone, che vengono mutilate o assassinate? Sofocle (circa 497-406 a.C.) nella tragedia Antigone mostra Creonte, che detiene il potere in Tebe, vietare sotto pena di morte di dare sepoltura a Polinice, caduto mentre combatteva contro la sua stessa città e bollato quindi come traditore. Antigone, sorella di Polinice, violando il divieto di Creonte, offre sepoltura al fratello in nome della pietas verso gli dèi. Ella viene catturata e condotta al cospetto di Creonte, il quale, pur essendo zio di Antigone e di Polinice, le rinfaccia la violazione della legge (incidentalmente: ai tempi della rivoluzione francese una delle martiri di Orange venne condannata a morte dallo zio rivoluzionario). Nel confronto con Creonte, Antigone afferma: «Non Zeus né Dike (la dea della Giustizia) hanno promulgato il divieto. Non per odiare, ma per amare io nacqui». Creonte condanna a morte Antigone per inedia, facendola murare viva in una grotta. Aristotele (384-322 a.C.) nell’Etica Nicomachea (V, 1135a) con molta concretezza scrive: «Le norme di giustizia stabilite per convenzione e per fini utili sono simili alle misure: infatti, le misure per il vino e per il grano non sono uguali dappertutto, ma dove si compra all’ingrosso sono più grandi, dove si rivende sono più piccole. Parimenti, anche le norme di giustizia che non derivano dalla natura ma dall’uomo non sono uguali dappertutto, perché non sono uguali le costituzioni, ma una soltanto è dappertutto la legge
Raffaello Sanzio, La virtù e la legge, 1511, Stanza della Segantura, Musei Vaticani, Roma.
migliore per natura». E nella Retorica (I, 13,2) precisa che il carattere innato della legge naturale ne stabilisce l’immutabilità. Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.) nel De Legibus (I, 6,18) scrive: «La legge è la ragione suprema insita nella natura, la quale comanda ciò che si deve fare e proibisce il contrario. Questa stessa ragione, poiché è radicata e perfetta nella mente dell’uomo, è appunto legge». E nel De Republica (III, 22,33): «Certamente esiste una vera legge: è la retta ragione; essa è conforme alla natura, la si riscontra in tutti gli uomini; è immutabile ed eterna; i suoi precetti richiamano al dovere, i suoi divieti trattengono dall’errore. A questa legge non è lecito apportare modifiche, né togliere alcunché, né annullarla in blocco, e non possiamo esserne esonerati né dal Senato né dal popolo, né si deve far ricorso ai commenti o alle interpretazioni di (un grande giureconsulto quale) Sesto Elio; essa non sarà diversa da Roma ad Atene o dall’oggi al domani, ma come unica, eterna, immutabile legge governerà tutti i popoli e in ogni tempo, e un solo Dio sarà comune guida e capo di tutti: quegli cioè che elaborò e sanzionò questa legge;
Bibliografia: 1. Vitaliano Mattioli,
I fondamenti del diritto naturale, www. culturacattolica.it 2. Pio XII, Discorso alla Rota
Romana 13.11.1949, in
AAS 41 (1949), pp. 604- 608, consultabile on-line in bibliotecacanonica.net 3. Vittorio Mathieu, Perché punire? Il collasso della giustizia penale, Liberilibri,
Macerata 2008
e chi non le obbedirà, fuggirà sé stesso e, per aver rinnegato la stessa natura umana, sconterà le più gravi pene». Cicerone ha così magistralmente definito l’origine e le prerogative del diritto naturale e la sua indipendenza dal potere politico e dalle sue leggi, sia che queste derivino dal governo (Senato), sia che siano conformi al consenso popolare. Risulta evidente che già molto tempo prima dell’era cristiana con il solo aiuto della ragione persone dotate di intelligenza e di moralità erano in grado di dedurre dalla realtà dell’essere l’esistenza di un diritto naturale, innato nella comune natura umana e nella sua razionalità. Il diritto naturale si presenta
così come norma oggettiva dell’agire, norma che ogni uomo porta dentro
di sé, e diventa vincolante per la retta condotta, indipendentemente da ciò che lo Stato possa stabilire col suo diritto positivo. Lattanzio (fine II-III sec. d.C.), retore pagano convertito al Cristianesimo, riteneva piano comune di accordo tra pagani e Cristiani il riferimento al diritto naturale, e così Gaio, giureconsulto pagano (II sec. d.C.), nelle Institutiones riprende più volte concetti analoghi: «Ciò che invero la ragione naturale stabilisce per tutti gli uomini, proprio questo presso tutti i popoli viene ugualmente osservato e viene denominato “diritto delle genti”, poiché di questo diritto si servono tutte le genti» (I, 158); «La legge civile può alterare i diritti civili, ma non i diritti naturali» e, soprattutto: «La legge civile non può abrogare i diritti naturali» (III, 1,1). San Tommaso d’Aquino (1225-1274), con la sua consueta chiarezza, specifica: «La legge naturale altro non è che la luce dell’intelligenza infusa in noi da Dio. Grazie a essa conosciamo ciò che si deve compiere e ciò che si deve evitare. Questa luce o questa legge Dio l’ha donata alla creazione» (Summa Theologiae, I-II, 91,2);
e: «Nella creatura razionale si realizza una partecipazione alla ragione eterna in forza della quale essa ha un’inclinazione naturale al debito atto e fine. La legge naturale non è altro che tale partecipazione della legge eterna nella creatura razionale» (Collationes in decem praeceptis, 1). Dio infatti è Logos, non solo per i Cristiani ma per ogni persona ragionevole: Platone (428- 348 a.C.) nelle Leggi (IV, 716c) afferma: «Dio, in grado supremo, è misura universale di tutte le cose». La buona teologia insegna: «Intelligo ut credam, credo ut intelligam» («Comprendo per credere, credo per comprendere»). Papa Pio XII, indimenticabile per aver coraggiosamente contrastato tutti i totalitarismi del XX secolo e per la sua profonda dottrina, parlando ai giudici della Sacra Rota il 13.11.1949, si esprime in questi termini: «Il semplice fatto di essere dichiarato dal potere legislativo norma obbligatoria dello Stato non basta a creare un vero diritto.
L’errore del positivismo giuridico è alla base dell’assolutismo di Stato, che equivale a una
deificazione dello Stato medesimo. Questo “diritto legale” toglie all’uomo ogni dignità personale; gli nega il diritto fondamentale alla vita e all’integrità delle sue membra, rimettendo l’una e l’altra all’arbitrio del partito e dello Stato; contesta ai genitori il diritto sui loro figli e il dovere della loro educazione; soprattutto considera il riconoscimento di Dio, supremo Signore, e la dipendenza dell’uomo da Lui, come senza interesse per lo Stato e per la comunità umana. Questo “diritto legale” ha
«È un errore gravissimo del positivismo giuridico restringere il diritto a una emanazione dello Stato: se così fosse, quel che debba considerarsi come “diritto” sarebbe del tutto arbitrario, cioè l’opposto esatto del vero diritto. Lo Stato esiste in funzione del diritto e a esso deve chiedere che cosa debba essere» (Vittorio Mathieu)
sconvolto l’ordine stabilito dal Creatore; ha chiamato il disordine ordine, la tirannia autorità, la schiavitù libertà, il delitto virtù patriottica. Secondo i principî del positivismo giuridico, i processi (per i crimini dei nazionalsocialisti in particolare, ndA) avrebbero dovuto concludersi con altrettante assoluzioni, anche in caso di delitti, che ripugnano al senso umano e riempiono il mondo di orrore. Gli imputati si trovavano, per così dire, coperti dal “diritto vigente”». Gli Autori qui brevemente citati dimostrano che la retta ragione (la recta ratio di Cicerone), indipendentemente dalla fede, conduce a riconoscere l’esistenza del diritto naturale, il quale genera per ogni uomo il diritto alla vita, all’integrità psico-fisica, alla libertà, alla proprietà.