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Notizie Pro Vita & Famiglia
La storia di Giancarlo Rastelli, oltre a essere quella di uno scienziato riconosciuto in tutto il mondo per i risultati delle sue ricerche cardiovascolari, colpisce più di tutto per l’esaltazione della normalità. Il grido di ferite profonde che oggi, a 50 anni dalla morte di “Gian”, continuano copiosamente a sanguinare (perché perenne, e spesso così cronicamente insoddisfatto, è il bisogno umano di considerazione). Quante volte le già gelide mura degli Ospedali impietriscono dinanzi alle continue sollecitazioni di rimbombi altisonanti d’intensa e inappagata sete di attenzione. Quanti i tentativi di parola stroncati sul nascere da modi di fare paternalistici, non certamente paterni. Quante volte orecchie desiderose di risposte intercettano il vuoto, perché le sbrigative elencazioni in “medichese”, che di comunicativo difettano pure in parvenza, si riducono a freddi monologhi che si dissolvono, inesorabilmente, nell’aria. Un’aria sempre più gelida, un paziente sempre più solo. Eppure è proprio lì, nella relazione di cura, che si gioca la partita più importante per la vittoria finale; perché solo nell’incontro improntato ad una vera alleanza che la terapia trova terreno fertile e la guarigione diviene il traguardo agognato, perché l’esito di un prendersi cura effettivamente compiuto e totalizzante. Un prendersi cura che non si arresta neppure dinanzi alla sofferenza più estrema di un esito
infausto, che sa guardare ben oltre l’apparenza di un malato che sta lì a scontare pena per una sentenza ormai passata in giudicato. Sentenza irrevocabile - linfoma di Hodgkin che ha portato Rastelli a percepire ancor più nitidamente le pulsazioni di un cuore malato, perché il suo ha iniziato a battere all’unisono; in quel mirabile “comune destino” che rende il medico, ad un tratto, veramente paziente. Un tracciato perfettamente sovrapponibile, una conformazione interna minuziosamente esaminata ed appresa che hanno trovato, in un puntuale dosaggio di scienza e carità, la medicina curativa, pur in presenza di un male “incurabile”. Perché “to care” è la parola d’ordine, il punto di partenza, la metodica vincente, quella macchina cuore-polmone che consente d’intervenire con efficacia risolutiva. Una carità, infatti, da veicolare prontamente, mediante l’abile incisione del cardiochirurgo che ripristina il tunnel dell’autentica relazione medico-paziente, in circolazione sistemica, in modo da ossigenare e nutrire l’intera persona; cicatrizzando ogni ferita.