nuova unità luglio 2016

Page 1

comma 20/B art. 2 Legge 662/96 filiale di Firenze

Spedizione in abb. postale 45%

Proletari di tutti i paesi unitevi!

nuova unità fondata nel 1964

Periodico comunista di politica e cultura n. 4/2016 - anno XXV

Chiunque non voglia rinunciare a mezzi di produzione e rapporti sociali capitalistici non riuscirà a disfarsi del fascismo, ed anzi finirà per averne bisogno Bertolt Brecht

L’Alleanza atlantica potenzia le sue forze Da Varsavia pericolosi piani di guerra e un nuovo piano strategico di partership tra Nato e UE

A chi giova? È una domanda che ci poniamo spesso e ce la siamo posta anche in occasione degli ultimi due avvenimenti: la strage di Nizza e il rapido golpe in Turchia. Due eventi alquanto sospetti in due Paesi che hanno bisogno di una cosa comune: aumentare la repressione. Nonostante tutto il bombardamento dei soloni della “politica” contro i terroristi di matrice islamica nutriamo seri dubbi che l’autista del camion che ha causato il macello sulla promenade des Anglais (degli inglesi e non degli angeli come traducono i giornalisti Rai) sia legato all’Is. Anzi la dinamica risponde più ad un mezzo rimasto senza controllo dopo che l’autista - un balordo che maltrattava pure la famiglia - è stato ucciso al volante, ma i poliziotti francesi non lo ammetteranno mai e non lo sapremo da giornalisti interessati a scoprire la verità solerti solo a trasmettere le veline del potere. Fatto sta che in Francia doveva essere sospeso lo stato di emergenza e invece viene prolungato per altri sei mesi, ma soprattutto è usato per colpire le lotte del movimento operaio. I mass media tacciono, ma le proteste continuano. Il 5 luglio, per la dodicesima volta, decine di migliaia di manifestanti hanno sfilato chiedendo il ritiro della Loi travail nonostante le provocazioni, la violenza verbale di politicanti e padronato, gli attacchi repressivi e gli arresti. Un attacco su larga scala in particolare contro tutta la CGT che, insieme alla continua mobilitazione, si appella per la libertà di espressione. Ma questo non fa notizia. Altri dubbi sul tentativo di colpo di Stato in Turchia, fallito o finto? Il pseudo colpo di Stato in Turchia - che non voleva certamente rappresentare gli interessi della popolazione - ha scatenato un nuovo giro di vite repressivo, già visto nel 2013. Erdogan, rappresentante del capitale e ambizioso partner dell’imperialismo statunitense e israeliano, prezioso alleato della Nato, ha trasformato la Turchia in una base per il terrorismo, compreso l’IS. Corteggiato dall’UE - tanto che gli ha concesso 3 miliardi per tenere i rifugiati in campi di concentramento e trasformarli in forza lavoro a basso costo nonostante li consideri potenziali terroristi - non gli basta la costrizione dei comunisti, il bombardamento dei kurdi, la censura dell’informazione di opposizione, con questa occasione servita sul piatto d’argento impone il fermo di polizia e minaccia l’applicazione della pena di morte. Vero che non sempre c’è bisogno di militari per sostenere una dittatura, ma si possono usare per rafforzarla e aprire la strada verso il presidenzialismo, superare gli scogli che impediscono il cambiamento della Costituzione, alzare il tiro della sua presenza

nella Nato che in Turchia ha importanti basi sotto comando Usa dotate di apparati di intelligence (il che ci rende difficile pensare che non fossero a conoscenza del “golpe”) e allargare il suo dominio in Siria dove al confine, proprio da pochi giorni fa sono schierati i militari dell’esercito italiano, notizia poco pubblicizzata! Intanto la Nato potenzia le sue forze. Il nostro giornale da tempo insiste sulla denuncia del ruolo della Nato come braccio armato dell’imperialismo, perché il suo allargamento è un vero e proprio pericolo e perché ci costa. L’Italia paga 70 milioni al giorno per appartenere a questa alleanza militare, aumenta le spese in armamenti e invia soldati nelle zone calde del mondo. Nel 2015 la spesa militare, escluse le missioni internazionali, ha raggiunto la cifra di circa 18 miliardi di euro e per il 2016 sono previsti circa 20 miliardi. Tutti soldi sottratti alle spese sociali. Nei primi giorni di luglio la Nato ha tenuto il suo vertice a Varsavia dove il Partito comunista è oggetto di persecuzioni anticomuniste e le sue attività sono messe al bando dal governo polacco. Che cosa è emerso da questo vertice che ha visto anche la presenza del presidente ucraino che ha incontrato i leader di Germania, Francia, Inghilterra, Usa e, ovviamente Italia? Sempre e solo pericolosi piani di guerra. Tra i 139 punti è stato concordato il dispiegamento di 4 battaglioni in Lituania, Estonia, Lettonia e Polonia (1000 soldati in funzione antirussa), una presenza multinazionale nella regione del mar Nero, il lancio del sistema europeo di difesa missilistica. È stato firmato l’accordo con l’UE per la sicurezza marittima e l’immigrazione e per lo sviluppo dell’industria europea della difesa. Un nuovo piano strategico di partership tra Nato e UE che moltiplica lo scambio di informazioni - anche informatiche - tra i propri servizi di intelligence. Al fine di rafforzare l’alleanza sono stati, inoltre, avviati colloqui con i governi di Finlandia e Svezia che non fanno parte della Nato. Il presidente della delegazione italiana Nato il PD Andrea Manciulli ha lodato Stoltenberg per la sua posizione su una precisa strategia di guerra al terrorismo e definito importante l’accordo su tutto ciò che riguarda la modernizzazione e l’evoluzione della minaccia terroristica, dai problemi della sicurezza cibernetica alla guerra al jihadismo. La sua idiozia va avanti e appoggia la decisione di Stoltenberg di mantenere 8400 soldati in Afghanistan anche nel 2017, assicurando che l’Italia non ridurrà il suo contingente perché - sostiene - sguar-

nire quel fronte e lasciarlo in mano ai taliban sarebbe un gravissimo errore, un problema per tutti”. Il vero problema per tutti è l’imperialismo, le sue guerre di aggressione e saccheggio per le quali si serve di gruppi di mercenari e li sostiene. La giustificazione che la Nato - che, ricordiamo, è sotto il comando statunitense combatta il terrorismo è falso. Il dispiegamento di truppe Nato a Est - l’Italia invierà 150 uomini è una mossa per fare pressione sulla Russia per la soluzione della situazione Ucraina, sia sull’Europa ritenuta più debole dopo brexit, anche se la Gran Bretagna ha assicurato il rafforzamento dell’alleanza. A Varsavia si è mobilitato il Consiglio mondiale della pace per dare una risposta diretta (e ancora una volta si registra il silenzio stampa) e immediata contro i piani criminali e i progetti imperialisti della Nato in tutto il mondo nei confronti delle popolazioni allargando le guerre, distruggendo paesi, rapinando risorse e generando continui flussi di profughi. Rifugiati funzionali però alla creazione di un “esercito industriale di riserva” che cancelli i diritti conquistati dal movimento operaio in tutti i paesi europei. Se il proletariato e le masse popolari turchi non si organizzeranno per sconfiggere l’AKP la repressione e i massacri aumenteranno e lo stesso vale per tutti. È fondamentale capire che, mentre i monopoli e il grande capitale accrescono i profitti, l’aumento della presenza militare Nato è la preparazione alle guerre e alle aggressioni che colpiranno soprattutto il movimento operaio e le masse popolari. Una condizione che accomuna e richiederebbe una lotta unitaria internazionale, ma come comunisti siamo coscienti che il migliore apporto alla lotta internazionale contro l’imperialismo e i suoi strumenti di morte sia quello di lottare nel proprio paese contro il proprio imperialismo e le sue alleanze. Il nemico è in casa nostra. Non sono gli immigrati, sono i governi della guerra, della disoccupazione, della copertura di fascisti, faccendieri, speculatori, corrotti, sfruttatori. Il nemico è il sistema che va distrutto dalle fondamenta per la libertà, per affermare una giustizia sociale, per la fine di ogni guerra imperialista. Ciò comporta l’avanzamento del movimento comunista. Il compito di chi si batte per la costruzione del partito comunista è quello di radicarsi nel proletariato e nella classe operaia per dare un contributo al superamento dell’attuale situazione di frammentazione nel quale versa il movimento comunista in Italia e nel mondo.

nuova unità 4/2016 1


incidente ferroviario di Andria

Ennesima strage del profitto

La vita di ferrovieri, pendolari, viaggiatori è totalmente subordinata agli interessi dei padroni che speculano sulla sicurezza e sulla salute di molti, a vantaggio di pochi Michele Michelino (*) Due treni di pendolari, lavoratori e studenti si sono scontrati frontalmente sulla linea a binario unico fra Andria e Corato. Le prime due vetture nell’impatto si sono sgretolate seminando morte e terrore. Il bilancio è di 23 morti accertate e di circa 52 feriti, diversi gravissimi. Mentre i soccorritori lavoravano alacremente contro il tempo per cercare di salvare quante più vite possibile e la solidarietà popolare dei pugliesi non si è fatta attendere con lunghe code di cittadini negli ospedali per donare sangue, la proprietà della rete ferroviaria e il governo come sempre hanno

subito sposato la tesi dell’errore umano per scaricare le proprie responsabilità. Le parole di cordoglio alle famiglie delle vittime da parte delle istituzioni e l’annuncio di commissioni d’inchiesta per accertare i fatti e le responsabilità, come le lacrime di coccodrillo di padroni e sindacati, fanno parte di un rito ed è offensivo. In Italia la maggior parte della rete ferroviaria italiana viaggia ancora a binario unico. Abbiamo il trasporto ferroviario a binario unico per migliaia di chilometri, e spesso gli investimenti rotabili risalgono al dopoguerra. Oltre novemila chilometri sui 16 mila in mano a Rfi,

il gestore dell’infrastruttura ferroviaria nazionale e le reti concesse, cioè non controllate direttamente dallo Stato seimila su circa 6.500 chilometri totali. Il sistema di supporto alla condotta che blocca il treno se il macchinista ignora il rosso è obbligatorio soltanto sulle tratte gestite direttamente dallo Stato, non in quelle concesse. Dopo l’incidente Ferrotramviaria (Ferrovie Bari Nord) proprietaria del tratto ha aperto un’inchiesta amministrativa e come sempre il ministro dei Trasporti di turno (questa volta Graziano Delrio) ha promesso una commissione d’indagine ministeriale per capire le cause dell’incidente e la ma-

gistratura sta indagando: come sempre ci sarà un processo, ma con i tempi lunghi della giustizia, la prescrizione rischia di concedere l’impunità ai responsabili della strage e questo per i familiari delle vittime al danno aggiungerebbe la beffa, come rischiano i familiari della strage di Viareggio. Alla luce della strage la responsabilità dell’azienda che gestisce la tratta ferroviaria è ancora più grave, perché dal 2013 erano già stati stanziati i soldi (fondi europei) per costruire il doppio binario. Sorge quindi anche il dubbio che qualcuno abbia volutamente ritardato i lavori per lucrare sugli interessi dei soldi stanziati.

In realtà le cause dell’incidente non sono difficili da scoprire, quando si viaggia ancora su linea a binario unico e senza alcun sistema in grado di impedire gli incidenti, con un sistema obsoleto dove il via libera ai treni è dato da una comunicazione via telefono tra gli operatori delle varie stazioni, sistema ancora in vigore. Purtroppo la verità è che questa è un’altra strage annunciata, un crimine contro l’umanità, come nel 2005 a Crevalcore, come nel 2009 a Viareggio e potrebbe ancora succedere sulle migliaia di chilometri di binario unico regionale esistenti in Italia. La privatizzazione delle ferrovie dello Stato, le esternalizzazioni, gli scorpori, delle aziende hanno come unico scopo la realizzazione del massimo profitto risparmiando anche i pochi centesimi sulla sicurezza a scapito dei ferrovieri e dei passeggeri. In nome dell’aumento della produttività e del profitto i padroni costringono i ferrovieri, e in generale i lavoratori, a lavorare in condizioni sempre più disagiate e pericolose e l’aumento dello sfruttamento è la causa principale degli infortuni e dei disastri. Il governo avvantaggiando l’Alta velocità - linee costose, inutili e dannose per la salute - ha risparmiato sugli investimenti del tra-

sporto regionale per la sicurezza di pendolari e cittadini, facendo una scelta di classe, favorendo i cittadini di serie A a scapito dei cittadini di serie B e C! La brutalità e l’inumanità del sistema capitalista si vedono anche da come sono trattati i cittadini delle diverse classi sociali. Nel momento del dolore oltre ad esprimere la nostra solidarietà a tutte le vittime e ai loro familiari, non dimentichiamo le responsabilità di chi doveva tutelare la sicurezza e la salute dei ferrovieri e dei passeggeri, comprese quelle organizzazioni sindacali confederali che, in cambio di alcuni privilegi, non hanno fatto nulla per impedire l’imbarbarimento delle condizioni di sicurezza. Per non continuare a recriminare i morti è necessario mobilitarsi e organizzarsi. E sostenere le lotte e gli scioperi dei ferrovieri in difesa del peggioramento delle loro condizioni di lavoro e per la sicurezza di tutti.

(*) Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio Sesto San Giovanni 14/07/ 2016 cip.mi@tiscali.it comitatodifesasalutessg.jimdo.com

comunicato 12 luglio

Viaggiare in sicurezza

Un grave crimine di “pace” contro l’umanità Il parere di un medico del lavoro Sull’evitabilità della strage di Andria è stato già detto quasi tutto. L’adozione del sistema SCMT avrebbe evitato la strage. Ho sentito parlare la prima volta di questo sistema nei primi anni duemila quando i macchinisti delle ferrovie - peraltro bersagliati tragicamente dalle esposizioni ad amianto - ne parlavano come alternativa al sistema tristemente noto come “uomo morto”, Questo consisteva nell’obbligo, per il macchinista, di azionare in continuazione un pedale onde rassicurare il “sistema” circa la sua condizione di veglia e di attenzione. L’idea dell’azionamento coatto del pedale nasceva dalla scelta economicistica delle ferrovie di passare al macchinista unico, cioè un solo addetto alla guida del mezzo, per “risparmiare”. Il sistema “uomo morto” cadde fortunatamente in disgrazia in quanto ritenuto dai lavoratori anzitutto, poi anche da medici e psicologi del lavoro, da ergonomi ed esperti, un sistema fonte di stress e nocivo per la salute psicofisica del macchinista, idoneo anzi a distrarlo dal suo compito principale: condurre il mezzo concentrandosi sulla strada (anche per la necessaria attenzione agli “imprevisti” fisici e umani). Fu in quel contesto che si iniziò a parlare di SCMT, un sistema di vigilanza alternativo all’uomo morto, efficace anche nella malaugurata circostanza del colpo di sonno o del malore o, peggio, dell’infarto del macchinista (è successo anche questo, trattandosi di lavoro molto usurante - ancorché oggi disconosciuto dalle istituzioni e da un iniquo sistema pensionistico). Per chi, come me, ha seguito il dibattito giuridico negli ultimi decenni, era acquisito e fortemente condiviso, quanto Guariniello ed altri giudici italiani hanno sostenuto, coerentemente con il principio costituzionale del diritto alla salute: l’unico limite alle misure da adottare per la sicurezza è la fattibilità tecnologica; se esiste una tecnologia (allarme, sistema bloccante, circuito chiuso ecc.) questa deve essere adottata. L’entità degli oneri economici, spesso invocati per temporeggiare, non devono essere considerati un ostacolo alla sua concreta e immediata adozione, Anche un’organizzazione del lavoro non ergonomica deve essere rifiutata in quanto terreno di coltura favorevole all’accadimento di infortuni. Pensiamo alla strage dell’autobus in Spagna che ha ucciso le studentesse; bisogna smetterla di considerare accettabile che un lavoratore (autista) lavori guidando un’intera notte, per poi attribuire il cosiddetto “incidente” al “malore” dell’autista; peraltro, anche per quella strage in Spagna, cominciano a evidenziarsi proposte risarcitorie offensive per le vittime e per chiunque abbia sofferto ad apprendere la tragica notizia. Allora cosa non ha funzionato ad Andria? È venuta meno la coerenza rispetto alle norme della convivenza civi-

le grazie anche alla voluta proliferazione di “enti di controllo” che non hanno controllato nulla e che anzi hanno poi fatto ricorso a mediazioni, compromessi e deroghe: per qualcuno evidentemente la vita dei cittadini pendolari su linee locali vale meno di quella di alti; viceversa il quadro procedurale a tutela della prevenzione e della sicurezza è chiaro: la Usl dal 1978 ha tra i suoi doveri quello di disegnare la mappa dei rischi presenti nei luoghi di lavoro e di vita (art.20 legge 833/1978). Questa mappa è stata disegnata per l’area che è stata teatro della strage di Andria? Oggi, correttamente, le Usl si occupano di prevenzione e riduzione del rischio autostradale; perché questo disinteressamento, a vote generalizzato, per le ferrovie? Ovviamente la domanda è retorica. Su questo abbiamo già avuto modo di tentare il dialogo con le istituzioni politiche nazionali, senza ottenere nessuna risposta. Se fosse stata disegnata la mappa del rischio, evitando sovrapposizioni, il rischio sarebbe stato individuato e la Usl avrebbe potuto anzi dovuto intervenire con prescrizioni da adottare immediatamente. Nessuno può ritenere legittimo che i due macchinisti morti, in quanto lavoratori, avessero meno diritti di altri che operano in comparti in cui la Usl ha pieni poteri di intervento e questi poteri li usa correntemente. Il rispetto dei diritti dei lavoratori si sarebbe riverberato sul diritto degli utenti/passeggeri: la strage non si sarebbe verificata, infatti i lavoratori, lottando contro “l’uomo morto” hanno indotto l’applicazione di misure tecnologiche davvero efficienti ma purtroppo, come abbiamo visto, non estese a tutto il territorio nazionale e certamente meno rispettate dove più i lavoratori sono stati “deboli”. Ora seguiremo le indagini e i processi, avanzando istanza di costituzione di parte civile; lo faremo anche per la affermazione di questi principi, ma pure con alcune certezze; la prima è che questo lutto è troppo devastante per essere elaborato senza postumi; la seconda è la amarezza di avere valide ragioni e argomentazioni ma di essere arrivati ad affrontare il problema, ancora una volta, purtroppo, solo “il giorno dopo”. Né vogliamo produrre solo “parole” o solo “proteste”: ogni iniziativa autogestita a livello locale di solidarietà morale, materiale ed economica con le vittime ci trova disposti a metterci in sinergia con essa. Vito Totire, medico del lavoro “macchinista onorario” A nome di: Centro “F.Lorusso”, circolo “Chico” Mendes, AEA-associazione esposti amianto e rischi per la salute

Arrivano in queste ore notizie terribili sui due treni carichi di pendolari, lavoratori e studenti che si sono scontrati frontalmente sulla linea a binario unico fra Andria e Corato. Si parla di 23 morti accertati e di circa 50 feriti, diversi gravissimi. Le prime due vetture si sono sgretolate nell’impatto. Enormi difficoltà per le operazioni di soccorso. Il nostro pensiero va alle famiglie delle vittime e dei feriti, e ai colleghi in servizio sui due treni (sicuramente un macchinista è morto e un altro è gravissimo). Mentre il quadro del disastro si mostra in tutta la sua spaventosa portata, il Presidente del Consiglio Renzi ripete: “non ci fermeremo finché non sarà fatta chiarezza su ciò che è accaduto”. Ma per noi che da anni ci battiamo per la sicurezza del trasporto ferroviario è purtroppo già chiara la verità: è un’altra strage annunciata, come nel 2005 a Crevalcore, come nel 2009 a Viareggio, come... Invece del cordoglio di rito il Premier Renzi dovrebbe dare risposte ai cittadini sulla sicurezza dell’esercizio ferroviario che in questa realtà del trasporto regionale sono infinitamente arretrate rispetto all’Alta velocità, si viaggia ancora su linea a binario unico e senza alcun sistema in grado di impedire una strage. Non ci accontenteremo della verità giudiziaria, con le immancabili responsabilità che ci aspettiamo saranno attribuite all’“errore umano”; le reali risposte sulla sicurezza non possono che essere sistemiche e qui le responsabilità sono in capo a chi presiede e decide gli indirizzi. Al contrario sono anni che le risorse vanno in un’unica direzione. Anni in cui le parole d’ordine del risparmio, della compressione dei costi, della liberalizzazione hanno condizionato ogni assetto consegnandolo alla deregolamentazione del privato. Per impedire che disastri e incidenti avvengano, occorre intervenire prima, non fare annunci, che annunci rimangono, dopo! Occorre invertire completamente la rotta della privatizzazione, delle esternalizzazioni e degli scorpori. In primis il presidente del Consiglio avrebbe dovuto disporre gli investimenti per la sicurezza di pendolari e cittadini, per il futuro del trasporto regionale e del trasporto merci al pari di quello dell’Alta Velocità, non proporre le solite frasi di circostanza. La rete nazionale deve essere tutta a gestione unica e pubblica. Non ci possono essere cittadini di serie A e cittadini di serie B o addirittura di serie C! NO A LIVELLI DI INVESTIMENTI OPPOSTI PER TRENI AD ALTA VELOCITÀ E TRENI E LINEE PENDOLARI E SECONDARIE. Il GOVERNO DEVE GARANTIRE A TUTTI I CITTADINI ITALIANI LE STESSE OPPORTUNITÀ PER VIAGGIARE IN SICUREZZA. Cub Trasporti - Cat - SGB - Usb

nuova unità 4/2016 2


lavoro/internazionalesalute

Loi travail e Jobs act

La lotta in Francia è importante perché la loro lotta è anche la nostra e di tutti i lavoratori, fuori da ogni confine. Insegnano costruire obiettivi unitari che favoriscano l’unità dei lavoratori, che il conflitto va generalizzato e chiamano in causa non una singola vertenza ma l’intero sistema di sfruttamento capitalista Luciano Orio Al momento di scrivere è in corso lo sciopero generale e la manifestazione nazionale del 14 giugno si è conclusa da poco. Parigi e le principali città francesi sono state invase da fiumi di manifestanti (un milione nella sola capitale). Sono in corso dice la tv nostrana - scontri molto violenti e il dito è puntato, ovviamente, sui giovani “casseurs”. Le immagini restituiscono invece cariche di sbirri alla “robocop”. È troppo presto per tirare un bilancio della lotta in corso e individuarne possibili prospettive, possiamo però andare a ritroso e ripercorrere quanto accaduto. Non che il clima fosse idilliaco in Francia: la vittoria elettorale del Front National ed il clima d’emergenza seguito agli attentati di gennaio e novembre 2015 avevano bloccato l’iniziativa politica. Nonostante ciò, una grande mobilitazione sociale andava crescendo, dura e determinata, come la manifestazione dei lavoratori Air France contro la soppressione dei posti di lavoro (ricordiamo le immagini della precipitosa fuga dei dirigenti a torso nudo) o come la ripresa di scioperi ed interruzioni del lavoro nelle piccole e medie imprese a seguito delle obbligatorie trattative annuali. Tutto questo era la dimostrazione che l’inerzia e la debolezza della sinistra e delle direzioni sindacali non erano per niente condivise dai lavoratori e dai molti giovani colpiti da disoccupazione e politiche di austerità. La situazione rimarcava la crescente distanza del movimento dei lavoratori dai partiti istituzionali, già colpiti dall’astensionismo e dal voto al Front National da parte dei settori popolari nelle ultime elezioni. Medef (la Confindustria francese) premeva sul governo affinchè il tema del “costo del lavoro” fosse posto con urgenza, per ridare competitività all’industria francese e portare la Francia al livello di “austerità” degli altri Paesi europei. L’opera di erosione dei diritti sul lavoro iniziata da alcuni anni veniva così drasticamente velocizzata: il governo VallsHollande si faceva promotore della legge sul lavoro (loi travail), nuova e più potente mazzata ai lavoratori e misura utilissima per la ripresa dei profitti attraverso lo smantellamento della giornata lavorativa legale, tagli ai salari, destrutturazione dei contratti collettivi, maggior libertà di licenziamento. Una legge ispirata, secondo lo stesso Valls, dal nostrano Jobs act. Ma la loi travail è esplosa nelle mani di chi la stava fabbricando. Almeno fino ad ora, e non è poco. Dopo la diffusione di un’approfondita analisi della legge, alcuni sindacati, sicuramente i meno “concertativi”, e le reti sociali con ripetuti appelli chiedevano il ritiro della legge. Da notare che le direzioni sindacali, fino ad allora, si erano limitate a mettere in discussione solo alcune misure, lamentando più che altro la mancanza di dialogo col governo, senza alcuna chiamata alla mobilitazione, nel più perfetto stile “italico”. Il fatto poi che l’invito alla prima mobilitazione sia partito dalle reti sociali, rivela che le direzioni dei sindacati confederali erano orientate alla resa, cosa del resto evidente di fronte alla totale mancanza di preparazione alla mobilitazione, costruita con il necessario lavoro di informazione e di sensibilizzazione dei lavoratori. In Francia le grandi mobilitazioni non sono episodi occasionali. Già vi erano stati duri scontri contro la riforma delle pensioni, a più riprese, fino al 2010, e nel 2006 il movimento degli studenti aveva ottenuto una significativa vittoria contro il “contratto di primo impiego” del governo Villepin. A questo proposito si segnala che già in quell’occasione il governo era ricorso

al famigerato art. 49-3 della Costituzione, la stessa procedura richiesta ora, che permette al governo di varare una legge senza dibattito, nè voto in Parlamento. Nel 2005 una violenta rivolta urbana nei quartieri popolari si protrasse per quattro settimane. Protagonisti furono i giovani arabi e neri, bersaglio delle campagne sulla sicurezza e vittime privilegiate di disoccupazione e precarietà. È questo un settore giovanile che vive una profonda frattura sociale, derivata dalla suddivisione razzistica operata nei quartieri popolari e visibile nell’attuale movimento. Da qui originano le difficoltà nel ricomporre il fronte di lotta, dovute alla mancanza della consapevolezza di appartenere alla stessa classe. Simili sono le difficoltà originate dalla pesante ristrutturazione di industria e servizi. Anche qui la balcanizzazione del mercato del lavoro (precarietà, subappalti, dequalificazioni...) ha generato un disorientamento politico ed organizzativo non risolto dal movimento sindacale. La mobilitazione generale contro la loi travail, i cortei, gli scioperi, le occupazioni delle piazze con l’obiettivo di “bloccare il paese” contro l’autoritarismo del governo, da un lato è tesa a smascherare le menzogne sui presunti benefici generali derivanti dall’introduzione della legge, puntando alla debolezza politica del governo Valls-Hollande, che riafferma la propria autorità ricorrendo alla repressione: con l’uso massiccio dei soliti media asserviti, apre alla criminalizzazione del movimento, mentre prolunga lo stato di emergenza. Oggi (15.6) Hollande, agitando le violenze del giorno prima, dichiara di voler imporre il veto totale al diritto di

manifestare. Dall’altro questa grande mobilitazione sembra non volersi riconoscere nell’occasionale convergenza delle lotte o nell’altrettanto occasionale assembramento di cittadini insoddisfatti, quanto invece interrogarsi sulle forme di organizzazione e di rappresentanza politica dei proletari (politica, non elettorale) e sul progetto di società, attraverso una pratica di massa realmente capace di trasformare la pro-

Attenzione è cambiato il numero del cc postale Il nuovo numero è:

nuova unità, Firenze,

1031575507

nuova unità 4/2016

pria condizione sociale, col superamento del sistema di sfruttamento capitalista. Chiaro che il successo di simili intenzioni non è dietro l’angolo, tuttavia il movimento francese è riuscito per ora a rompere il clima di isolamento e paura seguito agli attentati di novembre, rilanciando le forme di lotta più dure e ricostruendo la consapevolezza della centralità e della forza concreta dei lavoratori. Al centro della scena dell’alleanza di 8 sin-

Se hai perso un numero precedente puoi sfogliarlo su www.issuu.com profilo nuova unità

dacati sembra essere al momento la CGT, che punta determinata a farsi riconoscere quale principale interlocutore dal governo. Sia chiaro: la CGT non è la CGIL, e questa è la differenza più evidente tra la situazione francese e quella italiana. La linea collaborazionista della CGIL con i governi ed i padroni non porterà mai alla difesa intransigente e determinata delle rivendicazioni dei lavoratori: la loro “cogestione” ha portato alla rinuncia alla lotta. Tutt’altro è il presupposto della scelta di classe di alcuni sindacati (in primis la CGT) in Francia, considerando che lo sviluppo del movimento di classe e lo schieramento dell’azione sindacale rappresentano oggi i due poli che determineranno lo sviluppo della lotta. Questa grande mobilitazione sembra voler rilanciare la discussione sull’iniziativa politica di classe e la lotta anche in Italia. Se ne è avuta l’impressione anche nel clima politico durante il recente sciopero dei metalmeccanici per il rinnovo contrattuale. Le parole di Landini, segretario FIOM, dal palco di Vicenza suggerivano l’idea che la pressione esercitata su Confindustria abbia il solo scopo di poter tornare al tavolo delle trattative a rilanciare la parola d’ordine della concertazione. A questo fine ha usato anche un certo tono “autocritico”, buono per gli applausi di rito, riferito agli accordi sulla riforma pensionistica. Manco una parola invece su tutte le altre battaglie perse perchè non combattute (e visto come sono andate le cose in Francia, il Jobs act sembra a questo punto la madre di tutte le battaglie perse). In casa nostra il problema centrale sembra proprio questo. Lottare da noi è difficile. La sfiducia, la rassegnazione che pesano sulla classe operaia italiana sono dovute con ogni evidenza e in gran parte ai confederali. La loro strategia sembra volta a smantellare ogni residuo di identità che la classe lavoratrice ancora detiene. Più che un’arrendevolezza “riformista” socialdemocratica, sembra trattarsi di una svendita vera e propria, la “co-gestione” in perfetto stile neoliberista americano. Per questo le lotte in Francia sono così importanti: la loro lotta è anche la nostra e di tutti i lavoratori, fuori da ogni confine. Insegnano a costruire obiettivi unitari che favoriscano l’unità dei lavoratori, che il conflitto va generalizzato e chiamano in causa non una singola vertenza ma l’intero sistema di sfruttamento capitalista. Invitano a liberarci dei sindacati inutili e dei loro funzionari corrotti e codardi, per ricostruire le nostre organizzazioni di lotta.

3


elezioni

Amministrative flop

Molti non sono più disposti a credere alle promesse mai mantenute e quindi a parteggiare e sostenere un potere politico che li sfrutta e opprime. Anche se questo non corrisponde ancora alla capacità di organizzarsi e lottare contro questo sistema Emiliano La tendenza, ormai presente e crescente da anni, all’astensione alle elezioni politiche e amministrative è stata confermata alle recenti elezioni sia al primo turno e ancora di più al secondo, quello dei ballottaggi. Anzi è proprio il dato significativo che ha determinato nuovi equilibri e maggioranze nella competizione, appiattita in questi ultimi anni dal sistema maggioritario, che vorrebbe fare del “sistema Milano” il campione di riferimento, due manager fotocopia con programmi simili che possono essere scelti senza determinare reali cambiamenti. Nello stesso tempo una coscienza diffusa del non-ruolo dei Sindaci, complici di leggi, come quella della stabilità, che fa gestire l’esistente nella cantilena del “non possiamo fare niente per mancanza di soldi” - salvo aumentare tasse locali - vere e proprie stampelle di questo Stato. Pronti a svendere pezzi importanti di patrimonio pubblico al grande capitale, a privatizzare trasporto pubblico e servizi, a favorire le grandi proprietà immobiliari a scapito di chi si trova senza casa o sfrattato, anche per mancanza di lavoro e deve ricorrere all’occupazione delle case sfitte. Di fronte ad una crisi incalzante che ha portato disoccupazione, togliendo ogni prospettiva di vita ai giovani, ed un aumento della povertà, decidere che Sindaco avere per togliere le buche nelle strade non convince, giustamente, la grande maggioranza del corpo elettorale. La stragrande maggioranza sa cosa non vuole anche senza avere chiarezza su cosa sia possibile e necessario fare per cambiare lo stato di cose presenti. La cosa certa è che molti non sono più disposti a credere

alle promesse mai mantenute e quindi a parteggiare e sostenere un potere politico che li sfrutta e opprime. Non è poco anche se questo ancora non corrisponde alla capacità di organizzarsi e lottare contro questo sistema. La mancanza del controllo sociale spaventa la borghesia, questo è all’origine dello scontro tra le sue varie componenti, per mantenere intatta la sua egemonia politica, per poter rimanere alla testa, senza permettere la messa in discussione della contraddizione principale di questa società, quella tra lavoro e capitale, della concorrenza, delle leggi di mercato e della ricerca del massimo profitto. Le sue varie componenti organizzate in partiti e coalizioni, tentano di coinvolgere nella loro visione di società settori di proletariato, operando sulla grande massa di piccola borghesia sviluppatasi nel nostro paese come massa di manovra per alimentare pressioni sociali e divisioni politiche. Non hanno avuto grande successo le campagne reazionarie e fasciste che hanno giocato la carta della lotta tra poveri e del “prima di tutto gli italiani”, anche grazie alle continue mobilitazioni antifasciste contro Lega Nord e camerati vari che non gli hanno dato tregua. I fascisti avrebbero potuto avere maggiori consensi, come successo in Francia ed in altri paesi europei, se i loro voti non fossero stati intercettati dal M5S, come continua a sostenere lo stesso Grillo. La campagna elettorale del PD a perdere Roma si è conclusa con la vittoria del M5S, rappresentata dalla Raggi, prima donna ad essere sindaco della capitale, unica forza politica non coilvolta in “mafia capitale” che aveva visto i fascisti di Alemanno Sindaco, in collaborazione con

PD e faccendieri vari uniti nel saccheggio, lasciare un buco di oltre 14 miliardi da risanare e pronti a far esplodere le inevitabili contraddizioni che si determineranno per screditare e ridimensionare un concorrente alle prossime elezioni politiche che disturba l’assetto bipolare previsto sia dalla riforma istituzionale che dalla nuova legge elettorale. Lo stesso vale per il sindaco di Torino dove lo spostamento dell’elettorato della destra ha fatto saltare Fassino e il suo modello di gestione PD. La vittoria di questo o quel sindaco sembra non spaventare il potere nel suo complesso per il ruolo secondario che i sindaci possono avere nella gestione della crisi nell’ambito di questo sistema di potere, e di questo dovrebbero preoccuparsi anche i sostenitori di De Magistris a Napoli, città record per l’astensione che supera il 65%. Insomma una grande confusione sotto il cielo, dove sia le maggioranze che le opposizioni si sono scontrate su visioni ristrette e anche parziali in nome spesso di una onestà amministrativa contrapposta al ladrocinio quotidiano, di buche nelle strade lasciando fuori dalla porta i grandi problemi come la disoccupazione, la privatizzazione dei servizi e della sanità, la speculazione edilizia e dei grandi patrimoni, le grandi opere inutili e dannose e fonte di grandi corruzioni, ma tutto nell’ambito della compatibilità con il sistema capitalista e del realismo amministrativo per risanare bilanci, per stare nella compatibilità delle prossime leggi finanziarie e di stabilità dello Stato, per razionalizzare le spese di un sistema economico che per reggere deve dragare denaro a salari, stipendi e pensioni per gli interessi del grande capitale.

Unica cosa certa e che il 50% degli aventi diritto al voto decide di non cadere nella trappola delle promesse elettorali e può essere un buon inizio per chi fa della lotta di classe contro il potere borghese l’asse della propria proposta politica, quella della necessità della rivoluzione proletaria per fare l’unico vero cambiamento in favore della classe operaia e di tutti i lavoratori e sfruttati. Certamente non votare non basta, come non basta scioperare, ma sono passi necessari e utili che progressivamente fanno crescere la coscienza della necessità di organizzarsi e di lottare per i propri interessi di classe contro il sistema capitalista e per il suo abbattimento. Diversamente da quelle organizzazioni politiche che pensano di annullare la propria incosistenza politica ed organizzativa

- utile solo alla sopravvivenza e alla cura del proprio orticello appoggiando in maniera aperta o soffusa chi si propone come il capo popolo di turno della protesta oppure salendo sul carro del “vincitore” come il M5S o l’ex-magistrato De Magistris per proporre forse una riedizione di democrazia progressista di togliattiana memoria, che oggi assume la fisionomia della farsa, e che ha portato tanti danni al proletariato del nostro paese. Una sponda politica che consente rapporti con il mondo delle istituzioni per ottenere appoggi sul piano politico e sindacale tali da poter ottenere spazi in cui fare politica e appoggi per battaglie legali e spesso legalitarie da contrapporre alla lotta di classe che è difficile organizzare per le difficoltà in cui si trova il movimento operaio. Oppure partecipando

con proprie liste con risultati che non superano lo zero virgola presentando sigle di vari PC con il pretesto di farsi conoscere, fare propaganda e proselitismo al proprio partito. In sostanza ottengono il risultato di screditare il movimento comunista e di infondere ulteriore pessimismo tra le file del proletariato. Unire e organizzare prima di tutto gli operai comunisti, unire e organizzare gli operai di avanguardia delle organizzazioni sindacali conflittuali, unire e coordinare le lotte sono le priorità che pensiamo debbano avere, in questa fase difficile della lotta di classe nel nostro paese, e non disperdere forze in tatticismi inutili e inconsistenti e perdite di energie di comunisti in competizioni elettorali che fanno fare due passi indietro prima ancora di averne fatto uno avanti.

A 80 anni dalla guerra civile

Nel 1936, dal 16 luglio inizia la guerra contro la Repubblica. Gli organizzatori si appoggiano sulle unità militari del Protettorato del Marocco. Gli imperialisti occidentali concordavano con le potenze fasciste sulla necessità di liquidare il Fronte Popolare in Spagna Aldo Calcidese Nelle elezioni del 16 febbraio 1936 in Spagna, il Fronte Popolare ottenne una netta vittoria. I partiti che lo integravano ottennero complessivamente 269 deputati, mentre i partiti di destra ottennero complessivamente 157 deputati. Sul piano internazionale, la vittoria del Fronte Popolare ebbe notevoli ripercussioni. Tre mesi più tardi in Francia il Fronte Popolare vinceva le elezioni parlamentari. Questa doppia vittoria provocò una profonda inquietudine fra i gruppi monopolisti di tutto il mondo che temevano che l’esempio di Francia e Spagna fosse contagioso in quanto dimostrava la possibilità di spezzare le trame fasciste attraverso il blocco di tutte le forze democratiche sulla base di un programma di lotta per lo sviluppo di conquiste democratiche e per la difesa della pace. In Spagna si prospettiva una profonda rinnovazione democratica. Questa prospettiva spaventava le potenze imperialiste che preferivano una Spagna debole, alla mercè delle pressioni e delle influenze straniere. L’instaurazione di governi di Fronte Popolare in Francia e in Spagna modificava la situazione europea e internazionale. Se questi due paesi avessero difeso in Occidente la politica sostenuta dall’URSS si sarebbe creato un potente fronte della pace in Europa. La politica degli imperialisti inglesi, francesi e nordamericani, diretta a fomentare l’aggressività fascista e a indirizzarla contro l’URSS avrebbe sofferto un duro colpo. Gli imperialisti occidentali coincidevano con le potenze fasciste sulla necessità di liquidare il Fronte Popolare in Spagna. Gli organizzatori della guerra civile iniziarono la guerra contro la Repubblica a partire dal 16 luglio 1936 appoggiandosi sulle unità militari del Protettorato del Marocco.

Le fila di queste unità erano composte da marocchini reclutati fra le tribù più arretrate, da avventurieri di diversi paesi sfuggiti alla giustizia e da individui declassati che si trasformavano in mercenari capaci di qualsiasi crimine. Queste forze eterogenee erano dirette dagli ufficiali più reazionari dell’esercito spagnolo. Mentre la rivolta si sviluppava in Marocco, Franco aspettava nelle Canarie l’aereo che lo avrebbe portato in Africa. Si trattava del “Dragon Rapid”, con a bordo il comandante Hugh H.Pollard, agente dei servizi segreti inglesi. Era evidente la complicità delle autorità inglesi con i rivoltosi.

Fallimento del progetto dei militari

I piani dei rivoltosi non si realizzarono secondo le previsioni. A Barcellona i lavoratori di tutte le tendenze, insieme alle guardie d’assalto e altri militari fedeli alla Repubblica, passarono al contrattacco nei confronti delle truppe fasciste. La vittoria del popolo a Barcellona determinò la sorte della ribellione nel resto della Catalogna. Se a Barcellona i fascisti erano riusciti a passare all’attacco, a Madrid fu il popolo che prese l’iniziativa, impedendo l’uscita dell’esercito dalle caserme. La mattina del 19 luglio gruppi di operai armati, inquadrati dal P.C., dal PSOE, dalla Gioventù Socialista Unificata, dalle centrali Sindacali, avevano praticamente circondato tutte le caserme della città. Il 22 luglio si poteva già fare un bilancio della lotta fra i golpisti e le masse popolari. Le previsioni strategiche del piano elaborato dai militari erano fallite nei loro punti cardine. La sollevazione militare si era trasformata in guerra civile, una guerra che per i militari era già perduta, se si fosse mantenuta nell’ambito di uno

scontro fra spagnoli. Le città più popolose - Madrid, Barcellona, Valencia, Bilbao - le principali zone industriali di Euzkadi, Catalogna, Asturie, erano rimaste fedeli alla Repubblica. Nella penisola la situazione dei ribelli era disperata. I generali fascisti pensavano alla capitolazione, la fuga o il suicidio. Ma Franco, vincolato ai servizi dello spionaggio tedesco, aveva motivi per consigliare che si continuasse a combattere. Stava preparando il suo secondo tradimento nei confronti della Spagna: l’intervento della Germania nazista e dell’Italia fascista. Franco inviò una richiesta di aiuto alla Germania. La questione decisiva era anzitutto trasportare le sue truppe nella penisola. Hitler ordinò che partissero immediatamente per il Marocco 20 aerei da trasporto “ju 52”’. L’aviazione tedesca non si limitò a organizzare il ponte aereo per il trasporto delle truppe di Franco. Insieme con l’aviazione italiana, iniziò un sistematico bombardamento delle navi da guerra fedeli alla Repubblica. Gli aerei tedeschi e italiani, dal momento della loro apparizione nei cieli spagnoli, iniziarono una serie di criminali bombardamenti di città, villaggi e zone dove non esisteva nessun obiettivo militare. Particolare importanza per Franco ebbe l’aiuto che gli prestarono le autorità inglesi e francesi. Gli inglesi rifiutarono di rifornire di combustibile a Gibilterra le navi da guerra della Repubblica, in violazione di tutti gli usi e le convenzioni internazionali. Nello stesso tempo, fornivano munizioni ai fascisti di Gibilterra. Violando il diritto internazionale, le autorità francesi obbligarono la flotta repubblicana ad abbandonare il porto di Tangeri. Anche il governo statunitense appoggiò i militari fascisti. Per ordine del segretario di Stato Corder Hull la compagnia petrolifera Vacuum Oil rifiu-

nuova unità 4/2016 4


riforma costituzionale

Verso il referendum Più che revisione costituzionale è revisione antisociale

Michele Michelino In autunno saremo chiamati a votare sulla legge di “riforma” o controriforma costituzionale (Disegno di Legge Boschi) approvato dal Parlamento nell’aprile del 2016, voluta dal governo del Presidente del Consiglio Matteo Renzi. Il quesito referendario, qualora fosse approvato (per questo referendum non esiste quorum), modifica la Costituzione del 1947, cancellando e stravolgendo alcuni dei principi democratico-borghesi della Carta Costituzionale. La Repubblica Italiana, nata dalla Resistenza al nazi-fascismo, è frutto della lotta degli antifascisti e in particolare dei rapporti di forza fra borghesia e proletariato, oggi rimessi in discussione dai borghesi. Il governo Renzi, rappresentante degli interessi dell’imperialismo, è stato costretto a indire il referendum perché questa “riforma” è stata approvata dal Parlamento con un numero di voti inferiore ai 2/3 dei suoi componenti, e per diventare operativa deve essere sottoposta a referendum popolare come prevede l’art. 138 della Costituzione. Con il referendum, il governo e il Presidente del Consiglio (che ha affermato ripetutamente che se non passa la riforma andrà a casa, facendone un plebiscito sulla sua persona) si pongono l’obiettivo del superamento del “bicameralismo perfetto” e della “doppia fiducia”, obiettivo perseguito dal capitale imperialista già nell’immediato dopoguerra perché l’imperialismo ha sempre ritenuto la Costituzione, anche se quasi mai applicata nei principi generali, troppo favorevole ai proletari. Per raggiungere l’obiettivo, sostengono che la loro “riforma” ridurrebbe i costi della

politica, modernizzerebbe il paese e altre fandonie simili. In realtà la Costituzione “antifascista” prevedeva le due Camere per tutelarsi contro i colpi di mano parlamentari e di Stato autoritari e fascisti. Ora, se nel referendum passasse la controriforma approvata dal governo Renzi, il Parlamento “antifascista” voluto dai “padri costituenti” cambierebbe natura. Sarebbe sempre composto di Camera e Senato, ma solo la Camera dei deputati potrebbe legiferare e avrebbe il potere di concedere o revocare la fiducia al governo di turno. Abolendo il Senato elettivo e riempendolo di portaborse fedeli ai capi bastone dei partiti, si scardina uno dei principi democratico-borghesi, impedendo ai cittadini di eleggere direttamente i senatori, aumentando il potere nelle mani del governo e del Presidente del Consiglio dei ministri. I tentativi di cambiare parti della Costituzione, a destra come a “sinistra”, hanno lo scopo di tutelare e difendere meglio gli interessi delle varie frazioni della borghesia anche nelle formulazioni di principio. Cambiamento combinato con la nuova legge elettorale denominata “Italicum” che concederà un ampio premio di maggioranza a chi vince le elezioni anche se rappresenta una “larga minoranza” del nostro paese dove la tendenza all’astensione supera ormai il 50% degli elettori. Concentrare e aumentare il potere politico al servizio di quello economico, dell’imperialismo e della grande finanza e delle banche, è un obiettivo che i capitalisti perseguono dalla fine della 2° Guerra mondiale. La democrazia borghese necessaria e compatibile con la ricerca del massimo profitto nel capitalismo industriale delle manifat-

ture è diventata sempre più un intralcio nell’epoca dell’imperialismo, lacci e lacciuoli da rimuovere per adeguare la sovrastruttura e la politica alle nuove esigenze della competizione imperialista. Riformare la Costituzione, cambiare le regole democratiche che oggi impediscono o allungano i tempi d’intervento e decisionali con altre più autoritarie è oggi la necessità impellente del grande capitale. Anche se leggi come la Fornero o il jobs act sono passate nonostante la Costituzione attuale, con il ricorso al voto di fiducia, questo evidentemente non basta a garantire il potere politico per poter attuare le prossime svolte autoritarie e antipopolari che si verranno a creare nell’avanzare della crisi interna e internazionale caratterizzata dai venti di guerra. Non è un caso che, insieme alla riforma del Par-

lamento, il governo preveda anche l’innalzamento del numero delle firme necessarie per presentare leggi d’iniziativa popolare (da 50.000 a 150.000 firme) e per i referendum abrogativi (da 500 mila a 800 mila firme).

Difesa della Costituzione? Nel sistema capitalista imperialista, i padroni - che detengono il potere economico, politico e militare - impongono le loro leggi e gli interessi della classe dominante alle classi sottomesse. La borghesia imperialista sta lavorando da qualche tempo per adeguare la Costituzione ai mutati rapporti fra le classi e le frazioni dell’imperialismo. La Costituzione è già stata in passato “riformata”. In particolare il Titolo V che riguarda quella parte della Costituzione italiana sulle autonomie locali: comuni,

tò di fornire combustibile alla flotta repubblicana. (Foreign Relations of the United States, Diplomatic Papers, 1936, vol.2, p. 445)

La farsa del non intervento

Per sostenere la farsa del “non intervento”, Francia e Inghilterra crearono addirittura un Comitato ad hoc dove - per creare le condizioni più favorevoli a Germania e Italia - il presidente inglese impose la norma che nessuna denuncia di mancato compimento degli accordi sarebbe stata presa in considerazione se non fatta da uno dei governi rappresentati. Questo significava chiudere le porte alle denunce della Repubblica spagnola che non era rappresentata nel Comitato. Ma la presenza dei rappresentanti dell’URSS fece fallire i piani di lord Plimouth. I delegati sovietici presentarono le prove irrefutabili dell’intervento di Hitler e Mussolini. I governi inglese e francese non fecero altro che ignorare queste denunce. “La decisione ultima sulla sorte della guerra fu presa a Londra, Parigi e Washington”, scrisse lo storico americano Colodny. (Colodny, The Struggle for Madridi, central epic for the Spanish conlict, New York, 1958, p. 145) L’ambasciatore statunitense in Spagna Bowers scriveva al suo governo nel dicembre 1936 che questo comitato era “il gruppo più cinico e disonesto che abbia mai conosciuto la storia”. (Foreign relations of the United States, diplomatic papers, 1936, vol.2, p.604). Se queste erano le posizioni dei governi dei paesi capitalisti, la sollevazione fascista aveva creato un’ondata di sdegno e di solidarietà col popolo spagnolo in tutto il mondo. Soltanto negli Stati Uniti 300.000 persone si presentarono all’ambasciata spagnola e ai consolati chiedendo di combattere al fianco degli antifascisti spagnoli. Il governo spagnolo accettò l’offerta di aiuto proveniente dagli antifascisti di tutto il mondo. Nell’agosto 1937 erano già stati formati 30 battaglioni di combattenti internazionalisti, di cui 6 di volontari francesi. In tutto il periodo della guerra civile le Brigate Internazionali furono impiegate come truppe d’assalto in 45 importanti battaglie. Alla metà del 1938 il governo repubblicano fece la scelta di rinunciare all’aiuto delle Brigate Internazionali nell’illusoria speranza che anche i franchisti rinunciassero alle truppe italiane e tedesche. Fu un errore che

costò caro alla Repubblica. D’altra parte, il Fronte Popolare aveva anche problemi al suo interno che le forze reazionarie seppero sfruttare per abbattere la Repubblica. I principali problemi alla compattezza del Fronte Popolare furono creati dalla destra socialista e dagli anarchici. Gli anarchici si opponevano alla creazione di un esercito popolare. In un meeting celebrato a Barcellona invitarono apertamente le reclute a disobbedire agli ordini. “La rivoluzione è in marcia - disse Federica Montseny - sono finite le caserme e la disciplina. Tornate alle vostre case a combattere per la rivoluzione”. (M.D.Benavides, Guerra y revoluciòn en Cataluna, Messico, 1946, p.193) Il periodico Frente Libertario scriveva: “Non vogliamo un esercito nazionale. Come prima della guerra, noi gridiamo ora: - Abbasso le catene. L’esercito è la schiavitù, simbolo della tirannia”. Malgrado la condotta esemplare di migliaia di lavoratori della CNT, l’anarchismo rappresentò un grave ostacolo per organizzare in maniera efficiente la lotta armata contro i fascisti e per portare avanti le trasformazioni democratiche che erano necessarie. Per quanto riguarda la destra socialista, il suo odio verso il comunismo la portò a tradire la Repubblica e a preferire la vittoria dei fascisti.

Il complotto dell’intelligence service e la caduta di Madrid Intanto il governo inglese era deciso a schiacciare la Repubblica. Inghilterra e Francia riconobbero il governo golpista di Franco. Il governo socialdemocratico di Leòn Blum pugnalò alle spalle la Repub-

nuova unità 4/2016

province e regioni cominciata negli anni Settanta e terminata con la riforma del 2001 (approvata con una maggioranza di centrosinistra e poi confermata da un referendum) per dare allo Stato italiano una parvenza più “federalista”, nei quali i centri di spesa e di decisione si sarebbero spostati dai livelli più alti, lo Stato centrale, a quelli più locali, “avvicinandosi” così ai cittadini. Ma anche questa riforma non ha certamente favorito la vita dei lavoratori e più in generale delle masse popolari che si sono trovate con maggiori tasse locali da pagare mentre i servizi pubblici dai trasporti alla sanità sono stati attaccati con le privatizzazioni, le politiche di projet financing ecc., veri e propri centri di corruzione diventando molte volte i “salvatori della faccia” del Governo centrale. Nella confusione totale che caratterizza questa fase della politica italiana, le forze dichiarate di destra come Forza Italia, la Lega Nord, Fratelli d’Italia, hanno dichiarato di votare NO al referendum per ragioni di opportunità politiche, in particolare per mandare a casa Renzi e potersi sedere al suo posto. Proprio loro che con il governo Berlusconi nel 2006 avevano provato, vanamente, a cambiare ben 57 articoli della Costituzione. Proprio loro fautori del presidenzialismo in applicazione coerente del progetto eversivo del Piano di rinascita democratica della Loggia massonica P2 e delle richieste della banca statunitense J.P. Morgan. In un suo report del maggio 2013 si legge che le cause della crisi economica in Europa sono da ricercare nei sistemi politici dei paesi europei del Sud e soprattutto nelle loro Costituzioni che risentono troppo delle idee socialiste e antifasciste del dopoguerra.

Queste forze ritengono questa riforma troppo moderata e si nascondono dietro frasi demagogiche e devianti sulla democrazia, alzano un polverone per nascondere le loro trame eversive, mentre ne condividono le motivazioni di fondo poiché i cambiamenti che uscirebbero dal referendum - in particolare l’introduzione del primato del governo sul Parlamento con un “premier”, che ci riporta al regime fascista del 1925 - farebbero comodo anche alla destra qualora dovesse vincere.

In conclusione Forse alla popolazione, alle prese con i mille problemi giornalieri, questo referendum interessa poco. La vittoria del NO manderebbe a casa Renzi (forse) ma sappiamo bene per la nostra storia che Renzi o un altro Presidente del Consiglio per i proletari e le masse popolari non cambia la situazione se non cresce una mobilitazione di massa e la coscenza di classe della necessità di abbattere questo sistema economico-sociale. Se vince il referendum viene stabilizzato e rafforzato il potere esecutivo e la battaglia del proletariato sarà ancora più difficile, se vince il No viene, almeno temporaneamente, indebolito. Non c’è altra soluzione per chi ritiene di dover partecipare al voto che votare NO alla riforma costituzionale voluta dal governo e alla svolta autoritaria, senza attenuare la battaglia antifascista, senza cadere nel cretinismo parlamentare ed elettorale, senza dimenticare che la “Costituzione nata dalla Resistenza” stabilisce una serie di principi, di diritti e di doveri dei cittadini di uno Stato democratico borghese capitalista, principi democratici dello Stato di diritto borghese.

blica bloccando nel porto di Marsiglia un’ingente fornitura di armi proveniente dall’Unione Sovietica, fra cui 250 aerei e 500 cannoni. Gli inglesi affrettarono i loro piani perché il primo ministro Negrìn aveva deciso di trasferire il comando delle unità combattenti a ufficiali che davano la garanzia di voler continuare la resistenza. Ciò significava passare il comando ai comunisti e alla sinistra socialista rivoluzionaria. Ciò costrinse le forze golpiste coordinate dal servizio segreto inglese ad attuare rapidamente nella capitale. “La forza militare per l’esecuzione del colpo di Stato fu fornita essenzialmente dagli anarchici. La 70 brigata comandata dall’anarchico Bernabè Lopez occupò i punti strategici della capitale. Obbedendo agli ordini di Casado, confluì a Madrid la 14° divisione, comandata dal generale anarchico Cipriano Mera e composta quasi interamente da anarchici per neutralizzare i seguaci di Negrin e Alvarez del Vayo presenti nella capitale. Non meno di 2000 comunisti e socialisti furono presi prigionieri dalle truppe del generale Casado e dagli anarchici. Quando i franchisti entrarono a Madrid li trovarono già rinchiusi nelle carceri”. (Filippo Gaja, Il secolo corto, ed. Maquis, p.204) Occorre precisare che furono gli anarchici della FAI a partecipare alla cospirazione ordita dall’Intelligence Service, mentre gli anarcosindacalisti della CNT rimasero fedeli alla Repubblica. Dopo la vittoria fascista, Francisco Franco ricevette, con i messaggi di felicitazione di Hitler e Mussolini, il seguente messaggio da papa Pio XII: “È con gioia immensa che ci dirigiamo a voi, diletti figli della Spagna cattolica, per esprimervi le nostre paterne felicitazioni per il dono della pace e della vittoria con cui DIO ha voluto coronare l’eroismo cristiano della vostra fede”. Neanche una parola per deplorare gli assassinii dei religiosi, gli stupri delle suore e lo sterminio dei cattolici baschi perpetrati dai legionari e dai marocchini agli ordini di Franco. La guerra civile spagnola dimostrò la concordanza di interessi fra le cosiddette democrazie occidentali e i regimi fascio-nazisti. Filippo Gaja scrive: “Gli inglesi preferirono iniziare la nuova guerra mondiale con un potenziale nemico fascista in più piuttosto che con un alleato “rosso” all’interno del proprio schieramento. Fra nazismo e democrazia si realizzò una perfetta identità di intenti nel soffocare il socialismo spagnolo”. (Filippo Gaja, op.cit., pp.175-177)

5


attualità

Kiev: repressione e torture nelle prigioni

Lo hanno riconosciuto anche i commissari ONU per i diritti umani in Ucraina Fabrizio Poggi L’ultimo in ordine di tempo, quantomeno tra i casi conosciuti di abusi, violenze di ogni tipo, omicidi, è quello della segretaria del comitato regionale di Kharkov del PC ucraino, Alla Aleksandrovskaja. E a lei è andata anche bene: l’hanno “soltanto” arrestata, lo scorso 28 giugno, con l’accusa di separatismo. Il fatto che si siano immediatamente messi in moto organizzazioni internazionali, avvocati, deputati della Rada, ha fatto sì che il suo caso non rimanesse sconosciuto e, dunque, si sono evitate conseguenze peggiori. Ma quanti sono i comunisti, gli antifascisti, i semplici oppositori, i giornalisti scomodi alla junta golpista, fatti sparire dalle squadracce neonaziste, torturati nelle celle della polizia segreta ucraina, uccisi in strada, con i loro assassini assolti dai tribunali e portati in trionfo dai propri camerati! Ormai lo hanno riconosciuto anche i commissari delle Nazioni Unite per il rispetto dei diritti dell’uomo in Ucraina: nelle prigioni di Kiev si torturano i detenuti. All’inizio del giugno scorso,l’assistente del segretario generale ONU, Ivan Šimonović, ha dichiarato ufficialmente che il SBU, il Servizio di sicurezza ucraino, esegue arresti di massa di oppositori e ricorre sistematicamente alla tortura nei confronti dei fermati, specialmente in alcuni centri segreti. Šimonović ha detto che individui incappucciati rapiscono le persone, le sottopongono quindi a elettroshock con apparecchi Taser, le colpiscono con martellate affinché ammettano la partecipazione alla resistenza, dopo di che i rapiti vengono condotti alla sede ufficiale del Servizio di sicurezza e arrestati. In altri casi, ai fermati, legati ai termosifoni, viene applicata una maschera antigas come per soffocarli; oppure viene spinto loro in bocca un panno molle, simulando l’annegamento, colpendoli nel frattempo ai genitali. Un testimone ha raccontato a Šimonović di come i sequestratori gli avessero detto “Nessuno sa dove tu sia. Ammetti tutto, oppure di portiamo nel bosco e ti sotterriamo”. I Commissari ONU hanno però dovuto interrompere anzitempo il proprio lavoro, dato che il SBU ha proibito l’accesso in alcune strutture di detenzione segrete, nelle aree di Mariupol e Kramatorsk. Il capo del Servizio di sicurezza ucraino, Vasilij Gritsak, ha dichiarato di aver consentito alla missione ONU l’accesso a prigioni in cui sono detenuti oltre 600 prigionieri, ma di averlo negato per quei “centri rionali nella zona dell’Operazione AntiTerrorismo, dato che là non ci sono prigionieri, bensì armi e apparecchiature segrete”. In tal modo, ha scritto il sito dei Giovani comunisti ucraini, lksmu.com, il regime di Kiev ha di fatto ammesso la detenzione illegale in prigioni segrete e le torture ai danni dei prigionieri. Malcolm Evans, capo del Sottocomitato ONU contro la tortura, ha dichiarato che “il rifiuto all’accesso” ai centri segreti “costituisce una violazione degli obblighi dell’Ucraina quale stato membro del Protocollo facoltativo della Convenzione contro la tortura. Noi non abbiamo in tal modo potuto accedere ad alcuni luoghi, a proposito dei quali aveva-

mo ascoltato numerose e scrupolose accuse di detenzione e possibili ricorsi alla tortura o trattamento crudele”. Ciò conferma, continua lksmu.com, le accuse lanciate dal Comitato di salvezza nazionale (diretto dall’ex primo ministro Nikolaj Azarov) e da altre organizzazioni, circa la detenzione, nelle prigioni segrete ucraine, di decine di detenuti politici, il cui arresto è taciuto ai parenti e a cui non sono ammessi gli avvocati; di ciò ha scritto ad Angela Merkel la presidente dell’Unione dei detenuti ed emigrati politici, Larisa Shesler. La sparizione delle persone, di intere famiglie o gruppi e il ritrovamento dei cadaveri, con le mani legate dietro la schiena in fosse comuni in alcune zone del Donbass inizialmente controllate dai battaglioni neonazisti e successivamente liberate dalle milizie, è stata denunciata dalle forze popolari sin quasi dall’inizio dell’aggressione ucraina, due anni fa. Ma anche nella parte del paese in mano ai golpisti, gli assassinii di comunisti, attivisti di antimajdan, deputati dell’opposizione, arresti in massa di semplici cittadini o bastonature da parte degli squadristi “civili”, di quelli cioè che non sono al fronte, sono all’ordine del giorno. Il sito web Tsenzor.net (che a sua volta fa riferimento a InterfaxUcraina) lo scorso 23 maggio aveva scritto che il Consiglio presidenziale russo per i diritti umani si era rivolto a Malcolm Evans, proponendo di unire gli sforzi nelle indagini sulla questione dei detenuti politici in Ucraina. Secondo le Izvestija, l’elenco allegato alla proposta russa, riporta i nomi di 58 detenuti politici, tra cui due cittadini russi, rinchiusi in prigioni e centri di isolamento della regione di Odessa e circa altrettanti nelle carceri di Kharkov, specificando che si tratta di casi cui dovrebbe esser data priorità assoluta nel soccorso, date le loro condizioni fisiche, in molti casi dovute al trattamento subito in prigione. Il sito comitet.su, afferma che, una volta finiti nel mirino del SBU, è molto difficile uscirne, a meno di non consentire alla “collaborazione” - in qualità di spia – o emigrare. In caso contrario, se va bene, ti aspetta la prigione; altrimenti, uno dei centri segreti che, per il SBU, sono anche più sbrigativi e redditizi: il prigioniero, rapito, non passa per le “lungaggini” processuali e poi (di nuovo: se gli va bene) può esser ri-

consegnato ai familiari dietro pagamento di una forte somma; oppure scambiato con un soldato ucraino fatto prigioniero dalle milizie. Si può procedere anche in senso inverso: ti arrestano per una quisquilia; il giudice ti assolve; ma, all’uscita del tribunale, ti agguantano e nessuno sa più nulla di te. Il consigliere regionale di Nikolaev, N. Mashin, a febbraio 2015 fu catturato e rinchiuso per sei mesi in uno di tali centri segreti, a Kharkov, per un’intervista concessa a un canale tv russo. Nei centri ti tormentano con la fame, il freddo e le bastonate; e non tutti, privi di controlli dei medici o dei volontari per i diritti umani, ce la fanno a sopravvivere. Mashin racconta che, allorché era attesa la visita della commissione Osce, ai prigionieri vennero infilati cappucci sulla testa e portati in altro luogo; lui stesso è tornato in libertà, scambiato con un soldato ucraino detenuto nella Repubblica popolare di Donetsk. Scambio, tra l’altro, in contrasto con gli accordi di Minsk: la Novorossija libera soldati, ma Kiev libera non miliziani, come stabilito, bensì giornalisti, attivisti civili, a volte detenuti comuni. E’ accaduto che gli ucraini gettassero fuori dagli autobus in corsa i detenuti da scambiare con le milizie; altre volte, miliziani restituiti alla DNR o LNR, sono morti dopo pochi giorni, a causa delle disastrose condizioni in cui, per le bastonature, erano ridotti gli organi interni. Un caso che ha fatto scalpore di recente è quello di Aleksandr Černov, il medico rianimatologo di Enakievo, nella provincia di Donetsk che, fuggito in Ucraina, ha raccontato al canale UKRLIFE.tv di come, durante la sua permanenza al fronte, con l’impiego di miscele di medicinali, abbia fatto morire decine di miliziani feriti in battaglia e ricoverati in rianimazione. In generale, secondo la sezione moscovita per i diritti umani, a ottobre 2015 erano oltre 3.000 i detenuti politici ucraini in Ucraina e, assieme a loro, 1.200 cittadini della Novorossija, di cui 570 detenuti politici, 170 cittadini comuni e oltre 450 miliziani; di altri 400 mancavano notizie. Secondo RIA Novosti, che riporta anche la testimonianza del presidente della sezione ucraina dell’Unione di Helsinki per i diritti umani, Nikolaj Kozyrev, torture e morte sono all’ordine del giorno nelle carceri ucraine: bastonature fino alla rottura delle ossa, scosse elettriche,

privazione del sonno per alcuni giorni di seguito, false impiccagioni o fucilazioni. Si distinguono tra tutti gli squadristi del neonazista Pravyj Sektor, che dispongono di un proprio centro di detenzione nell’ex colonia infantile di Velikomikhajlovka, vicino a Dnepropetrovsk: da qui i prigionieri vengono spesso consegnati ai familiari dietro grosse somme di denaro. Non molto diversamente agiscono i loro camerati dei battaglioni Azov e Krivbass, o del cosiddetto “battaglione volontario Tornado” del Ministero degli interni. Lo stesso procuratore militare ucraino, Anatolij Matios, ha raccontato ai microfoni del canale ucraino “112” le imprese di quest’ultimo reparto, testimoniate da vittime di rapimenti nelle zone del Donbass occupate dai battaglioni: detenzione su pavimenti di cemento, completamente nudi e bagnati, bastonature con manganelli di plastica, scariche elettriche. L’ex Jeanne d’Arc dei media occidentali, la neonazista del battaglione Ajdar, Nadezhda Savčenko, si distingueva per particolare efferatezza nei confronti dei prigionieri del Donbass, anche civili: ci sono le testimonianze rese durante il processo a suo carico, nel marzo scorso. L’ex sindaco di Užgorod, Sergej Ratušnjak, aveva raccontato all’ucraina Nashnews. org delle testimonianze di un insegnante e di un prete di Novoajdar (nei pressi di Lugansk), “miracolosamente sopravvissuti al fanatismo e alle torture della nuova eroina di

majdan”. I due avevano detto che Savčenko “non si limitava semplicemente a picchiare, ma mutilava e uccideva. Picchiava con un tubo i genitali dei prigionieri legati mani e piedi e spegneva loro le sigarette negli occhi”, oppure proponeva di “fucilare i prigionieri, quando i suoi camerati non erano d’accordo con lei per venderne gli organi e far soldi”. Nel Donbass, vittime dei sadici neonazisti, sono stati per lo più i civili: rapiti, torturanti o uccisi, anche perché, come è costume degli spavaldi fascisti, negli scontri con le milizie hanno quasi sempre avuto la peggio e dunque loro preda diventavano i cittadini comuni, spesso “colpevoli” di aver partecipato a un meeting contro majdan o in appoggio alle Repubbliche popolari. Nei cosiddetti “lager di filtraggio”, gestiti dai battaglioni, le persone rapite e imprigionate venivano accatastate anche 17 o 18 tutte assieme in stanze di 20 mq, o addirittura in buche scavate nel terreno, anche sotto la pioggia. Lilija Radionova, a capo del Comitato di Donetsk per i profughi e i prigionieri di guerra, ha raccontato al sito Ukraina.ru che “praticamente tutti i prigionieri restituiti da Kiev negli scambi, tornavano con costole, mani o gambe rotte oppure senza denti: nemmeno uno che non avesse subito bastonature. Li curano un po’, poco prima dello scambio”. L’attivista antimajdan Aleksandr Petrunko, fu rapito nel gennaio 2015 e condotto in uno

Abbonati & Sostieni

nuova unità euro 26,00 conto corrente postale nuova unità Firenze n. 1031575507

dei centri segreti vicino a Kharkov; là gli vennero applicate le “torture umanitarie”, messe a punto dagli americani a Guantanamo: la testa in un secchio d’acqua e l’elettroshock, finta fucilazione sul bordo di una fossa. Altri metodi applicati dai battaglioni neonazisti sono il sotterramento, le bastonature, gli aghi sotto le unghie; alcuni prigionieri dei fascisti ucraini, non resistendo alle torture, si sono lasciati morire. Per molti detenuti politici, dunque, l’unica speranza era sinora lo scambio con prigionieri militari ucraini. Ma pare che Kiev preferisca non procedere a tali scambi, per evitare il rischio di testimonianze scomode per la junta. Ma la democraticità del regime golpista agisce anche senza particolari efferatezze. La giornalista ucraina Elena Glishchinskaja, rimessa in libertà a metà giugno insieme al collega Vitalij Didenko (sono stati scambiati con gli ucraini Jurij Soloshenko e Gennadij Afanasev, detenuti in Russia per terrorismo e spionaggio), ha raccontato di come sia stata tenuta in isolamento per un anno intero, dopo esser stata arrestata insieme a Didenko, nel 2015 a Odessa, con l’accusa di separatismo, per aver partecipato al congresso della “Rada popolare di Bessarabia”, in cui si era parlato di federalizzazione dell’Ucraina. Alla maniera fascista, le truppe ucraine hanno proceduto sistematicamente all’arresto dei sindaci anche dei più piccoli villaggi nelle zone in un primo momento controllate dalle milizie e poi occupate da Kiev: generalmente, gli amministratori locali vengono condannati in base all’art. 258 del codice penale ucraino, vale a dire creazione o partecipazione a gruppi o organizzazioni terroristiche. Non a caso, la guerra scatenata contro il Donbass, è definita da Kiev “Operazione AntiTerrorismo” Ma tutto ciò non ha sinora minimamente turbato la fede nella “democrazia” ucraina da parte delle forze “europeiste”, anche in Italia. Difficilmente il rapporto ONU riuscirà a mutare le convinzioni dei media: qualche torturato, oltretutto se comunista, nelle prigioni del “baluardo a difesa della democrazia occidentale”, non fa certo notizia e Kiev costituisce l’avamposto occidentale del “vallo europeo” contro il “dispotismo asiatico” moscovita.

nuova unità 4/2016 6


attualità

La Gran Bretagna se ne va

L’indebolimento dell’Unione Europea toglie anche forze all’imperialismo nordamericano, visto che è stata la sua alleata storica fondamentale. Ma è anche vero che Londra resta nella NATO, come si è affrettato a precisare il suo segretario generale Jens Stolterberg. In tempi tanto minacciosi come questo è ciò che in realtà importa alla borghesia imperialista Daniela Trollio(*) Dopo l’esito del Brexit, la maggior parte degli analisti a livello internazionale si sono chiesti quali saranno le conseguenze sui mercati, sulle monete, sulle economie. Ma a noi pare molto più importante capire cosa significa in termini politici la decisione dell’elettorato britannico. Un dato fondamentale del referendum è la sua polarizzazione “di classe”. Capita poche volte di poter definire così chiaramente un fatto: eppure in questo caso chi ha votato maggioritariamente per l’uscita da quel mostro in cui si è trasformata l’Unione Europea – che era nata, almeno a parole, come un progetto sociale e politico progressista - è stato il proletariato delle metropoli inglesi, quello delle zone più povere del paese, i lavoratori impoveriti dai tagli sociali, dalla scomparsa dei diritti del lavoro. Se nella Londra capitale, quella della “intellettualità” delle università, del mondo finanziario e industriale dove si gridava al disastro nel caso di un’uscita, ha vinto il SI, nelle zone operaie di East Midlands, nel North West, nel South West, nello Yorkshire, nell’Humber e in Galles ha vinto il NO. La località dove più ha trionfato il Brexit è stata il West Midlands, zona tradizionalmente laburista, dove l’UKIP (il partito nazionalista e razzista) non ha rappresentanza e dove non esiste un’immigrazione significativa. Con l’uscita della Gran Bretagna la UE perde la terza economia e il secondo paese per popolazione, il che indebolisce la struttura sovranazionale disegnata da Bruxelles, che è divenuta la longa manus degli Stati Uniti in Europa. Non a caso chi ha mostrato più preoccupazione è stata Angela Merkel, colei che più ha spinto il corso autodistruttivo dell’Unione negli ultimi anni, trasformando l’accordo pan-europeo in un’appendice della grande banca, soprattutto tedesca, ha rafforzato la burocrazia conservatrice della Commissione Europea ed ha fatto della BCE (Banca Centrale Europea) il cane da guardia dell’ortodossia finanziaria imposta a tutti gli stati membri. Curiosamente – ma non troppo quanto sopra è avvenuto mentre il neoliberismo batteva in ritirata dalla sua patria di adozione, l’America Latina, lasciandosi dietro enormi rovine. Il governo tedesco gli apriva invece l’Europa, mettendo insieme Fondo Monetario Internazionale, Commissione Europea e BCE, quella “troika” che in poco tempo sarebbe diventata il vero governo dell’Europa, buttando a mare qualsiasi contenuto “democratico” tanto sbandierato. La Grecia, patria della democrazia, è qui a ricordarci la furia distruttiva della troika, capace di fare a pezzi un paese sovrano perché il capitale possa continuare incontrastato a fare i suoi interessi. È ingenuo pensare che i cittadini britannici se ne siano ricordati al momento di votare? È quindi cresciuto il coro di voci che affermano che la globalizzazione non ha mantenuto le sue tanto sbandierate promesse, progresso e ricchezza per tutti, portando invece una terribile di-

suguaglianza sociale, con l’1% che lascia il restante (!!) 99% nella miseria più totale. Così gli inglesi che non arrivano alla fine del mese si sono resi conto che ad appoggiare la permanenza nell’Unione erano i 1.000 banchieri e i 1.500 dirigenti d’azienda che guadagnano un milione di sterline l’anno e ne hanno tratto le conseguenze. Questa Europa delle classi dominanti, del capitale finanziario e industriale, è quella che ha ricevuto un grosso colpo e non possiamo certo lamentarcene. È l’Europa che ha accompagnato Washington in tutte le sue guerre e in tutti i suoi crimini sullo scenario internazionale e che ora raccoglie i suoi amari frutti. Era ovvio che le distruzioni causate in Iraq, in Libia, in Siria avrebbero provocato una marea di rifugiati, che non avrebbero avuto altra via d’uscita che dirigersi in Europa. Washington poteva allegramente sbattersene, perché è protetta da due oceani che la rendono una meta irraggiungibile per coloro che fuggono dai bombardamenti, dai missili, dagli eserciti, ma l’Europa invece è qui, vicina ai territori distrutti dalla furia imperialistica. Qui c’è un altro punto su cui ragionare: in molti hanno sottolineato il razzismo, la paura dell’invasione dei profughi, come dato fondamentale del risultato del Brexit. Può essere, ma non sono state le destre tradizionalmente razziste e xenofobe a coltivarli in questi anni. Bisogna ricordare che negli anni del governo di Margaret Thatcher venne applicata una politica di favore dell’immigrazione, soprattutto dalle ex colonie, in particolare dall’India. Era necessario spezzare la forza dei lavoratori inglesi sindacalizzati e organizzati per portare a compimento le privatizzazioni (le miniere, i trasporti e i servizi pubblici ecc.) e serviva una grande massa di lavoratori non sindacalizzati per farlo. Anche la Germania, ben prima, aveva seguito la stessa strada, favorendo l’entrata di lavoratori soprattutto turchi e italiani. Sono stati i governi “democratici” a sdoganare la guerra, definendola “umanitaria” come quella della Jugoslavia, seguiti immediatamente, almeno in Italia, dalle organizzazioni come la CGIL di Cofferati che la chiamò, a nostra eterna vergogna, “contingente necessità”. Seguiti anche da certa “sinistra” extra parlamentare che ha per anni starnazzato sui “dittatori”, Saddam Hussein, Gheddafi e più recentemente Assad e che non mi risulta abbia avuto un grammo di coraggio per dire “ci siamo sbagliati” neppure quando i diretti responsabili, come Colin Powell, o il vice di Blair pochi giorni fa, sono stati costretti a dire che le balle rifilate nelle assise internazionali per giustificare le guerre di rapina erano – appunto – solenni balle. Così non possiamo dare la colpa alle destre, ma dobbiamo riconoscere che non siamo stati capaci, o non ne abbiamo avuto il coraggio, di denunciare che il capitale, che non è razzista e non guarda al colore della pelle di coloro che sfrutta, è il responsabile di tutto questo. Non abbiamo saputo – o voluto spiegare che le classi dominanti, in qualsiasi paese, non hanno bisogno di lottare contro nessuno

per sopravvivere, che si limitano ad attizzare le divisioni per uscirne sempre vincitrici. E che è la politica dei governi europei e britannico, in questo caso, che danno spazio, favoriscono e proteggono l’estrema destra. Se è possibile che il governo austriaco stenda un tappeto al FPO, che è stato sul punto di vincere le elezioni, quando agita il fantasma degli immigrati (90.000) in un paese di 8,5 milioni di abitanti, se nessuno alza una voce davanti alle cariche poliziesche sulle famiglie gasate ad Idomeni, sui morti del Mediterraneo, sul denaro e sulla carta bianca dati a stati (notoriamente “democratici”) come Turchia e Marocco per fermare i profughi, perché ci si dovrebbe scandalizzare davanti alle proposte della destra? La classe operaia – in quasi tutti i paesi europei - è ormai orfana non solo di una sua organizzazione di classe, del suo partito, ma anche di sindacati rappresentativi, che non difendono più nemmeno i loro tradizionali “rappresentati”, i lavoratori fissi dell’industria (quella rimasta) e della pubblica amministrazione. Il resto è un luogo di precarietà assoluta, dove si entra e si esce dal mercato del lavoro in modo selvaggio. La socialdemocrazia non è altro, ormai da decenni, che una cinghia di trasmissione del neoliberismo che serve gli interessi più marci del capitalismo nazionale ed internazionale e che serve a frenare qualsiasi lotta. Stupisce quindi che crescano i rigurgiti razzisti e xenofobi, in questo immenso vuoto della “sinistra”? Come ha detto il multimilionario Warren Buffet (verrebbe da dire molto più ‘marxista’ di tanti marxisti) “stiamo assistendo ad una lotta di classe e noi ricchi la stiamo vincendo”. Sarebbe ora che lo dicessimo noi, che ci definiamo “rivoluzionari” o marxisti. Torniamo alla Gran Bretagna con

qualche dato. Là oggi il 63% dei bambini poveri crescono in famiglie dove lavora solo un membro Più di 600.000 persone che risiedono nella seconda città del paese, secondo uno studio recente, “soffrono gli effetti della povertà estrema” e 1,6 milioni stanno scivolando nella miseria. Così il ricorso alle minacce non ha funzionato e il popolo britannico ha detto Brexit. Ridurre quindi il voto della maggioranza operaia e popolare alla paura e all’odio verso gli immi-

granti è chiudere gli occhi davanti alla realtà del brutale deterioramento delle condizioni di vita che decenni di politiche di austerità, di sfruttamento selvaggio e di distruzione delle conquiste operaie hanno portato. Per concludere, secondo noi, si può dire che questo, dopo quello greco pur abortito per il momento, è il secondo No all’Europa del capitale. L’indebolimento dell’Unione Europea toglie anche forze all’imperialismo nordamericano, visto che la

UE è stata la sua alleata storica fondamentale. È vero che Londra resta nella NATO, come si è affrettato a precisare Jens Stolterberg, il suo segretario generale, cosa che in tempi tanto minacciosi come questo è ciò che in realtà importa alla borghesia imperialista. Ma il mondo cambia molto rapidamente e le certezze solide di un tempo stanno cominciando a volatilizzarsi. (*) CIP “G.Tagarelli” via Magenta, 88 Sesto S.Giovanni

Amianto morti di “progresso” Segnaliamo l’uscita del libro Amianto morti di “progresso” che racconta le lotte del Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio e di altre associazioni in lotta contro l’amianto, i cancerogeni e le stragi causate dal profitto attraverso le testimonianze degli operai, i documenti processuali e lettere inedite fra Comitato e Inail. Il libro si compone dei seguenti capitali: Cap. 1 – Non solo nelle piazze: i processi penali Sconfitte e vittorie: i casi Eternit, Marlane, Enel, Franco Tosi, ThyssenKrupp, Fibronit, Cantieri navali, Montedison Cap. 2 – Morti per amianto alla Pirelli: la condanna dei manager Cap. 3 – Breda: omertà, lotta, solidarietà operaia, repressione Cap. 4 – La lotta contro l’amianto in Italia e nel mondo Cap. 5 – Solidarietà operaia inter-

nuova unità 4/2016

nazionale e nazionale Cap. 6 – La lotta contro il governo, l’INAIL e l’INPS Cap. 7 – Lavoro e/o salute? Cap. 8 – Conflitto sociale, solidarietà operaia e popolare, organizzazione. La lotta delle vittime organizzate in Comitati e Associazioni: le stragi dell’Aquila, di Viareggio e della Tricom di Tezze sul Brenta Il libro di 275 pagine e in vendita nelle librerie a 19,50 euro (costo stabilito dalla casa editrice) per gli associati e gli amici del Comitato, per copie limitate, già disponibili il prezzo è 15 euro richiedendolo per telefono ai n. 02 26224099 o 3357850799.

CENTRO DI INIZIATIVA PROLETARIA “G. TAGARELLI” in via Magenta, 88 Sesto San Giovanni (Mi)

7


La rubrica delle lettere è un punto fisso di quasi tutti i giornali. Noi chiediamo che in questa rubrica siano presenti le vostre lettere, anche quelle che spedite ai vari quotidiani e riviste che non vengono pubblicate. Il sommerso a volte è molto indicativo

Mamme in piazza per il dissenso Siamo le mamme delle ragazze e dei ragazzi di Torino sottoposti da diversi mesi a pesanti misure cautelari per aver partecipato a manifestazioni e iniziative antirazziste, antifasciste e in difesa del territorio.Ci siamo riunite in gruppo «Mamme in piazza per il dissenso» per sostenere i nostri figli e le nostre figlie e denunciare la situazione di evidente ingiustizia che stanno vivendo. Vi preghiamo di leggere, diffondere e firmare il nostro appello. Nella città di Torino, 28 ragazzi e ragazze sono, da molti mesi, sottoposti a misure cautelari preventive molto dure.Non hanno rubato soldi pubblici, non hanno corrotto e non sono stati corrotti, non hanno cercato di trarre illeciti profitti personali, non hanno avvelenato l’aria con la polvere di amianto. Hanno manifestato contro quel treno ad alta velocità Torino-Lione che saccheggia le risorse pubbliche per costruire un’opera utile solo ai suoi costruttori; hanno difeso le aule dell’università che frequentano dalla lugubre e incostituzionale presenza di fascisti torinesi, estranei – tra l’altro – a quelle aule; hanno tentato di sfilare in corteo per ricordare che una città medaglia d’oro alla Resistenza non può assistere in silenzio alla presenza arrogante di un partito xenofobo e razzista; hanno tentato di difendere il diritto all’abitare di famiglie travolte dalla crisi. Non erano soli, a farlo. Nelle strade della Val di Susa come in quelle torinesi, nei quartieri popolari come nelle aule universitarie si è espresso un movimento vasto, multiforme e articolato, partecipato da migliaia di cittadini, che ha utilizzato, nell’espressione del dissenso, gli strumenti propri dei movimenti sociali: cortei, presidi, comunicazione.Questi ragazzi e ragazze, parte di quel movimento, sono conosciuti per il loro impegno sociale che li porta a rivendicare diritti per tutti in una città, e in un Paese, dove sempre più sono garantiti privilegi per pochi e dove sempre meno è tollerato il dissenso.Ebbene, questi ragazzi e queste ragazze sono stati sottoposti a misure molto dure: c’è chi non può più vivere a Torino, sua città di residenza, e chi non può uscire da Torino, neanche per andare a trovare i genitori; c’è chi deve recarsi quotidianamente a firmare in caserma e chi deve restare chiuso in casa dal-

Il negazionismo per decreto Il recente decreto sul negazionismo (demagogico e giustizialista), tanto sbagliato quanto inefficace, dispone l’applicazione della pena “da due a sei anni se la propaganda, ovvero l’istigazione e l’incitamento commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione della Shoah, o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello Statuto della Corte penale internazionale”. Il decreto è sbagliato visto che il testo esplicitamente cita solo la Shoah, senza elencare altri avvenuti crimini contro lo stesso popolo ebraico e contro altri popoli. È inapplicabile non entrando nel merito di cosa sia il negazionismo e di cosa si può e cosa non si può, secondo la legge, citare, dire, diffondere. È inefficace visto che l’intrinseca indeterminatezza ed ambiguità del decreto non tutela dal pericolo del diffondersi di falsità e verità storiche “di Stato” e dal rischio di ricadute di tipo inquisitoriale. Se è vero che il negazionismo della Shoah

la sera all’alba; infine ci sono gli “incarcerati in casa”, in stretto isolamento, costretti quindi alla perdita del lavoro, allontanati dalla frequentazione dei corsi universitari e impediti nel vivere i loro affetti.Tutti privati, o fortemente limitati, nella loro libertà.A questi ragazzi e a queste ragazze viene negato il diritto a studiare, il diritto a lavorare, il diritto a vivere una vita dignitosa insieme alle persone che amano, il diritto alla libertà personale: e tutto questo senza essere ancora stati sottoposti a giudizio. Puniti duramente, a dispetto della presunzione di innocenza, per intimorire loro e tutti quelli che potrebbero pensarla come loro. Puniti duramente per aver praticato il diritto a dissentire. Come genitori, amici, cittadini ci chiediamo se non si sia creato, nella città di Torino, un corto circuito pericoloso volto, di fatto, a limitare libertà fondamentali dei cittadini, quali il diritto costituzionalmente garantito a manifestare. Un corto circuito che ha come presupposto la pesante militarizzazione di piazze e spazi, quali ad esempio quelli universitari, in occasione di manifestazioni pubblicamente convocate; che prosegue poi in indagini che appaiono pilotate per sfociare in imputazioni sempre molto più gravi del necessario, formulate proprio per rendere possibile – non obbligatoria comunque – la detenzione preventiva e indirizzare la strada verso potenziali condanne. Un corto circuito che si nutre della “apparente” decontestualizzazione degli eventi per ridurre le tensioni e le rivendicazioni sociali a fattispecie criminali da perseguire: “apparente” perché non può non sorgere il dubbio che la volontà di vessare e punire sia correlata proprio alle ragioni politiche e sociali che motivano l’agire di questi ragazzi e ragazze. Da cui la scelta di forzare le norme e attuare la massima possibile punizione preventiva: ci troviamo davanti al paradosso di detenzioni preventive che equivalgono o superano le abituali condanne, laddove ci fossero, normalmente comminate per quel tipo di reati. Come genitori, amici, cittadini riteniamo che il ritiro delle misure cautelari preventive per tutte e tutti sia il primo, indispensabile passo per interrompere questo corto circuito e ristabilire il diritto al dissenso. Mamme in piazza per la libertà di dissenso

esiste, è anche vero che si tratta di un fenomeno circoscritto e minoritario che richiede una risposta documentata ed articolata, ma non certo una legge specifica che non serve ad inibire qualche miserabile o qualche “illustre” accademico ma solo a far demagogia a proprio uso e consumo. I negazionismi sono mille compreso quello del Governo che, nonostante ripetuti interventi, appelli, interrogazioni parlamentari in difesa della conservazione del Memoriale Italiano ad Auschwitz, ne ha decretato la deportazione dal Blocco 21 del campo di sterminio. Con quello sciagurato atto si è voluto rimuovere da Auschwitz l’effige della falce e martello, il simbolo dei liberatori. È bene ricordare che la Shoah include vittime, carnefici e liberatori, fra cui i soldati dell’Armata Rossa che, combattendo contro i nazifascisti, hanno liberato il campo e l’Europa. Anche questo è negazionismo.

lettere

Il Montenegro tra psicopatia e ricatti Una operazione editoriale demenziale, frutto degli ingenti finanziamenti elargiti dalla cattiva politica: parliamo della stampa del primo dizionario della “lingua montenegrina” mai esistito. Mai esistito e che mai sarebbe dovuto esistere, perché codifica l’invenzione di una lingua inesistente, a solo uso e consumo degli interessi separatisti delle cricche anti-jugoslave che hanno preso d’ostaggio la repubblichetta. Tra queste cricche, una – quella revanscista pan-albanese – contesta l’operazione solo perché qualche voce del dizionario è irrispettosa nei suoi confronti; un’altra – quella della NATO – spinge il paese verso la annessione alla stessa Alleanza militare che appena 17 anni fa lo bombardò, per rovinare i rapporti con i popoli alleati storici e contro il volere della maggioranza degli abitanti; un’altra ancora – quella dei camorristi al potere – si gongola tra invenzioni identitarie e ricevimenti nei salotti di lusso dell’imperialismo euro-atlantico. “Niente di buono... finché Dzelaludin comanda”, scriveva l’attualissimo Ivo Andrić. Italo Slavo Roma

Luglio 1960: la mobilitazione antifascista di massa che determinò la caduta del governo Tambroni

Nel luglio 1960, il governo clerico-fascista di Tambroni (DC-MSI) ordinò alle forze di polizia di sparare sui lavoratori che protestavano per la formazione di un governo con i fascisti. A Reggio Emilia le “forze dell’ordine” spararono almeno 500 colpi su una folla inerme assassinando 5 lavoratori. A Genova, appena arrivata la notizia della provocazione dei fascisti, che pretendevano di svolgere il loro congresso nella città Medaglia d’Oro della Resistenza, scesero in piazza immediatamente i partigiani genovesi e migliaia di giovani con le magliette a strisce che la stampa borghese chiamerà poi teddy boys, dando spunto alla famosa canzone che dice: “E venne Michelini per fare il congressone ma c’era i genovesi armati di bastone e poi e poi e poi ci chiamarono teddy boys. E piazza De Ferrari in un attimo fu presa. Fascisti e celerini chiedevano la resa e poi e poi e poi ci chiamarono teddy boys. Il 30 giugno è un giorno che passerà alla storia perché la Resistenza coperta s’è di gloria e poi e poi e poi ci chiamarono teddy boys Ancora una volta, i dirigenti del PCI, dell’ANPI e della CGIL svolsero la loro funzione di pompieri al servizio del governo e dei padroni, cercando di frenare lo slancio combattivo delle masse. A Palermo, dove la polizia uccise tre lavoratori, il segretario del PCI Napoleone Colajanni girava su una camionetta della polizia invitando i manifestanti “a tornare a casa”. Malgrado il pompieraggio dei dirigenti revisionisti, la grande mobilitazione antifascista di massa che percorse tutto il paese determinò la caduta del governo Tambroni. Aldo Calcidese Milano

nuova unità Rivista comunista di politica e cultura (nuova serie) Anno XXV n. 4/2016 - Reg, Tribunale di Firenze nr. 4231 del 22/06/1992 Redazione: via R. Giuliani, 160r - 50141 Firenze - tel. 0554252129 e-mail nuovaunita.firenze@tin.it redazione@nuovaunita.info - www.nuovaunità.info Direttore Responsabile: Carla Francone Hanno collaborato a questo numero: Aldo Calcidese, Emiliano, Michele Michelino, Fabrizio Poggi, Daniela Trollio abbonamento annuo Italia euro 26,00 abbonamento annuo sostenitore euro 104,00 abbonamento Europa euro 42,00 abbonamento altri paesi euro 93,00 arretrato euro 5,20 I versamenti vanno effettuati sul c/c postale nr. 001031575507 intestato a: nuova unità - Firenze Stampato interamente su carta riciclata, nessun albero è stato abbattuto per farvi leggere queste pagine

Gherush92 Committee for Human Rights (sul sito il testo integrale)

Chiuso in redazione: 30/06/16

nuova unità 4/2016 8


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.