nuova unità settembre 2016

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comma 20/B art. 2 Legge 662/96 filiale di Firenze

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Proletari di tutti i paesi unitevi!

nuova unità fondata nel 1964

La libertà è una grande parola, ma sotto la bandiera della libertà dell’industria si sono fatte le guerre più brigantesche

Periodico comunista di politica e cultura n. 5/2016 - anno XXV

Lenin

Ma dov’è la modernizzazione?

È sempre più impellente unirsi e organizzarsi per affermare un sistema di liberi e uguali dimostrandone la superiorità rispetto al fallimento del capitalismo e dell’imperialismo, capaci solo di generare miseria, sfruttamento, oppressione e guerre

Qualche mese fa il presidente del consiglio Renzi ha lanciato il referendum sulla “riforma” costituzionale, chiamando i cittadini a votare sì, minacciando che se i Sì non vincessero se ne sarebbe tornato a casa e avrebbe lasciato la politica. Per mesi il mondo politico, della disinformazione e dei talk show hanno cavalcato la personalizzazione di questo referendum. Sono passati solo pochi mesi e il 9 agosto arriva il retro marcia pubblico di Renzi (non è il primo) che ammette di aver sbagliato a personalizzare la campagna referendaria. “Questa riforma ha un nome e un cognome - dice - Giorgio Napolitano, ma soprattutto è la riforma degli italiani”. Ma non è tutto. Renzi precisa che in caso di vittoria dei NO non si dimette e annuncia le elezioni per 2018, posticipandole di un anno rispetto ad altri suoi annunci. Evidentemente Renzi si basa sulla memoria corta degli italiani e per avere più tempo a disposizione per la sua propaganda demagogica rinvia la data del referendum preannunciata per ottobre. Sul NO alla “riforma” - che stravolgerebbe la Costituzione legittimando un regime presidenzialista, repressivo e guerrafondaio e di attacco ulteriore ai diritti e alle condizioni dei lavoratori a favore del padronato - si sono pronunciati tutti i partiti della destra pur coscienti che in caso di loro vittoria elettorale se ne avvantaggerebbero, ma si conoscono bene l’ipocrisia e la demagogia di cui sono intrisi. Schierato per il No è pure D’Alema che a suo tempo progettava una controriforma ancora peggiore. Ma si sono costituiti anche tanti comitati di varie associazioni tra le quali l’Anpi. Non entriamo qui nel merito del Si o del No (lo abbiamo trattato sul nr. 4), ci ritorneremo nei prossimi numeri. Ci interessano i voltafaccia dei governanti e di come riescano a strumentalizzare il consenso anche attraverso l’illusione della partecipazione votando i referendum. L’esempio più eclatante è il referendum del 2011 sull’acqua pubblica che, peraltro, ha visto una notevole partecipazione di massa. L’ultimo a raggiungere il quorum, appoggiato senza troppa convinzione, dal Pd e sul quale Renzi (allora sindaco di Firenze) scrisse in un post “vado a votare sì all’acqua pubblica...”. Ebbene, non solo il risultato di questo referendum è stato dimenticato anche a causa della mobilitazione che si è fermata crogiolandosi sulla “vittoria” -, ma è stato cancellato dalla ministra Madia e sostituito con un ddl che, tra l’altro, apre la gestione dell’acqua pubblica al mercato. Il leit motive della ragione del referendum costituzionale è la modernizzazione del Paese, eppure tutto l’operato del governo ci porta indietro nel tempo, di anni e anni. Dalla condizione sui luoghi di lavoro alla perdita del potere d’acquisto, dai tagli ai servizi - uno per tutti, la sanità - ai trasporti. Per non parlare della scuola e della cultura.

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E nell’arretramento della cultura si inserisce il “Fertility day”, stabilito per il 22 settembre, che doveva sfociare in una manifestazione di piazza annullata in seguito all’intervento del comune di Bologna. Altro inglesismo in un’Italia di regressione verso i livelli assai bassi di alfabetizzazione nella quale la popolazione si allontana sempre più dalla lettura e dalla comprensione di cifre, tabelle, percentuali e dove la cognizione dei discorsi politici o del funzionamento della politica è inferiore al 30%. Viene da dire che l’uso di termini inglesi jobs act, austerity, family day, fiscal compact ecc. siano strumentali e funzionali al potere. Ebbene del “Fertility day” - voluto dalla ministra della salute Lorenzin - il governo ne ha fatto una campagna di comunicazione costata ben 113 mila euro per sensibilizzare le donne sulla base che il tasso di fertilità (cioè il numero medio di figli

Fincantieri: coordinare l’opposizione operaia è il primo passaggio Contro lo strapotere di Fincantieri - reso possibile dal collaborazionismo dei vertici di Fim, Fiom e Uilm nostro compito è agevolare questo processo unitario pagina 2

L’Italia che affonda Terremoti, calamità naturali e incidenti, sono dovuti alla semplice “fatalità” o sono il prodotto dell’avidità della borghesia imperialista? pagina 3

Bikini o bourkini: due facce della stessa medaglia Con la scusa del terrorismo – creato, organizzato e armato dai governi europei, ubbidienti servi delle multinazionali e degli USA – hanno bisogno di creare un “nemico” interno per portare tutta la società verso la guerra senza rischiare opposizioni e proteste pagina 4

partoriti) in Italia è il più basso in Europa, cioè l’1,37% con un manifesto ispirato alla Madonna del parto di Piero della Francesca (un tocco di cultura?) e sollecitarle a fare figli presto. La giornata avrà cadenza annuale per scoprire il “Prestigio della maternità” e saranno coinvolti scuole, teatri, territorio sulle parole d’ordine “difendi la tua fertiità, prepara una culla nel tuo futuro”. Una presa in giro? Un abissale distacco della politica dalle donne? Una smisurata ignoranza sulla condizione delle donne? Un servizio al Vaticano? Una gara con lo Stato francese che si occupa dei costumi da mare (leggi a pag. 4)? Un po’ di tutto ciò più l’aspetto atroce della visione del mondo fascista che ci riporta al richiamo alle donne di Mussolini a sfornare figli da mandare a combattere le guerre di regime mentre le escludeva dalla società, le riduceva in uno stato di schiavitù e relegava unicamente all’ambito domestico. Di carne da macello da mandare nelle guerre c’è sicuramente bisogno vista la politica guerrafondaia anche di questo governo, ma questa iniziativa è un vero e proprio insulto non solo alla libertà di scelta della maternità, ma a tutte le lavoratrici obbligate a rinunciare ai figli, pena la perdita del posto di lavoro o perché disoccupate o precarie senza prospettive, e comunque tutte (tranne le borghesi, ovviamente) senza servizi sociali di supporto. Un inno alla fertilità quando si distruggono le famiglie per il traferimento, ad esempio, delle insegnanti in zone lontane dalla loro residenza o si fanno lavorare commesse e cassiere nei giorni festivi impedendo loro di gioire della famiglia quando marito e figli sono a casa. Tutti questi borghesucoli il cui scopo principale è garantire il capitalismo e difendere le libertà individuali si intromettono nelle vite private per poterne prendere il possesso completo e portare a termine il loro disegno reazionario. Dov’è la modernità del Paese di cui ciarla la Boschi? La loro modernità e velocità si riscontrano nel caso dell’ennesimo terremoto. Il “subito” delle martellanti dichiarazioni del governo diventano 7 mesi solo per sistemare la popolazione in moduli abitativi e per ricostruire? Finirà come per L’Aquila. Non basterà la vittoria dei no a mandare a casa Renzi senza una forte e coordinata mobilitazione di massa. Farebbe piacere colpire la sua immensa arroganza, ma come si dice, morto un papa se ne fa un altro. Lo dimostrano i vari governi della nostra storia che sono sempre stati e sono solo il comitato d’affari della borghesia e non certo a favore degli interessi della classe lavoratrice. Borghesia che non è in grado di dare una prospettiva per i lavoratori e le masse popolari, ma solo illusioni. Per questo è sempre più impellente unirsi e organizzarsi per affermare un sistema di liberi e uguali dimostrandone la superiorità rispetto al fallimento del capitalismo e dell’imperialismo, capaci solo di generare miseria, sfruttamento, oppressione e guerre.

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lavoro

Fincantieri: coordinare l’opposizione operaia è il primo passaggio

Contro lo strapotere di Fincantieri - reso possibile dal collaborazionismo dei vertici di Fim, Fiom e Uilm - nostro compito è agevolare questo processo unitario Eraldo Mattarocci Nei venti mesi intercorsi tra la cessazione del vecchio accordo aziendale, firmato dalle sole Fim e Uilm, e la stipula del nuovo, siglato unitariamente da Fim, Fiom e Uilm il 24 giugno scorso, ogni lavoratore del gruppo Fincantieri in Italia ha perso mediamente quattromila (4.000!) euro poiché il vecchio accordo non prevedeva l’ultravigenza, cioè non prevedeva che continuasse ad essere applicato in attesa del nuovo. A fronte di questo danno subito grazie a Fim e Uilm che lo hanno firmato pur senza una clausola di salvaguardia, questo stesso lavoratore, con

il nuovo accordo, ha recuperato solo cinquecento cinquanta (550) euro lorde in busta paga e cinquecento euro in welfare aziendale, cioè in buoni spendibili per le necessità personali e/o famigliari come dentista, libri scolastici, benzina oppure (Udite! Udite!) per i fondi pensione. Non ha recuperato, quindi, neppure un quarto di quanto ha perso e neppure tutto in contanti. Se a questo dato aggiungiamo che, in questo periodo di vacanza contrattuale, i lavoratori sono stati chiamati più volte a scioperare su due piattaforme apparentemente diverse, presentate rispettivamente da Fim e Uilm insieme e dalla Fiom, per arrivare

a “conquistare” un accordo a perdere capiamo i motivi della forte opposizione espressa nel referendum. Molti lavoratori hanno evidentemente chiaro che il prezzo della ritrovata unità di Fiom, Fim e Uilm, che tra l’altro durerà solo fino a che la Fiom calerà le braghe, è alto e che, a pagarlo dovranno essere loro. Hanno chiaro anche che questo prezzo non è solamente economico ma soprattutto politico e sarà pagato, quotidianamente, negli anni a venire: in questo accordo, infatti, viene fissato il primato assoluto ai traguardi di produttività e di redditività fissati unilateralmente ed arbitrariamente dall’azienda, al raggiungimen-

to dei quali vengono subordinati condizioni di lavoro, sicurezza ed, ovviamente, salario. Questo accordo, tra l’altro, per l’importanza che riveste il gruppo Fincantieri apre la strada ad un Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro dei Metalmeccanici con gli stessi contenuti. L’opposizione all’accordo è stata vasta, trasversale rispetto alle scelte sindacali dei singoli lavoratori, e si è espressa soprattutto nei cantieri tradizionalmente più combattivi nonostante l’impegno delle burocrazie sindacali, espresse ai massimi livelli, per farlo passare. Per farlo passare è stato determinante il carico messo dalla Fiom, con la discesa in

campo dello stesso Landini a scongiurare la firma separata ed è, di conseguenza, l’organizzazione che ha subito e subirà i contraccolpi più pesanti perché la sua base, che ha pagato pesantemente il massimalismo parolaio dei dirigenti, sembra non abbia nessuna intenzione di farsi legare al carro del padrone. I numeri parlano chiaro: il No ha prevalso ampiamente a Monfalcone con il 61% e di poco, circa un punto percentuale, ad Ancona mentre ha sfiorato il 50% a Margherita, Palermo e Riva Trigoso. Il Sì ha raccolto invece il 61% al cantiere del Muggiano, il 68% a Castellamare di Stabia, l’84% a Sestri Ponente. È un motivo di riflessione il fatto che a Sestri Ponente, dove il massiccio consenso all’accordo è sicuramente dovuto alla forte presenza di Lotta Comunista che dirige, di fatto, la Fiom genovese, la percentuale andata al Sì sia addirittura superiore o pari a quella espressa nelle Direzioni di Trieste (settore civile) e Genova (settore militare). Come si diceva l’opposizione all’accordo è trasversale e segna il forte distacco che separa i vertici di Fiom, Fim e Uilm, soprat-

tutto della Fiom, dalla loro base ma anche le Rsu, laddove si sono burocratizzate, non hanno più il polso della situazione e sono, sempre più, i terminali delle organizzazioni provinciali negli stabilimenti. Non si spiega in altra maniera la difformità tra il voto espresso dai delegati Rsu (84,2% a favore, 64 su 76) e quello espresso dai lavoratori. Ma questa opposizione, per quanto grande e motivata, è destinata ad essere riassorbita o a frantumarsi in mille rivoli se non vi sarà un salto organizzativo. È indispensabile coordinare tutte le realtà, organizzazioni o singoli delegati e militanti sindacali, che si sono battute contro l’accordo senza che nessuno rinunci alle proprie specificità né alla propria storia. Il primo passaggio è iniziare a scambiarsi informazioni sulla reale situazione dei vari cantieri, mettendo in comune analisi ed esperienze di lotta per arrivare a costruire un fronte, il più vasto possibile, che contrasti lo strapotere di Fincantieri reso possibile dal collaborazionismo dei vertici di Fim, Fiom e Uilm. Il nostro compito è agevolare questo processo unitario.

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Guerra alla guerra dei padroni

Mobilitazioni a Napoli per il reintegro e la libertà di parlare liberamente nei luoghi di lavoro e di questioni di lavoro Si Cobas Nazionale È da più giorni che i nostri 5 compagni licenziati sono fuori dalla Fiat di Pomigliano e dal 5 settembre si trasferiranno davanti alla sede del comune di Napoli. Licenziati per avere inscenato davanti all’azienda il suicidio di Marchionne il quale si sentiva in colpa (metaforicamente) per i lavoratori che si erano tolti la vita in seguito alle difficoltà provocate dal loro licenziamento. Una denuncia, la loro, delle orribili condizioni che vivono gli sfruttati in seguito al licenziamento, la vita miserabile di chi è in questa condizione e, disponendo solo della propria forza lavoro da vendere, si trova in condizioni materiali e psicologiche di indigenza e impossibilità di far campare la propria famiglia; ma anche una denuncia dell’oppressione che i lavoratori vivono continuamente in fabbrica e nel sociale, e più in generale una denuncia politica di questa società basata sullo sfruttamento di centinaia di milioni di lavoratori a livello mondiale. Una battaglia, la loro, per un’iniziativa che va oltre i lavoratori della FCA, che tende a coinvolgere i lavoratori immigrati sfruttati nei magazzini della logistica, quelli dei campi di Foggia che raccolgono i pomodori a 3 euro l’ora, i disoccupati, i precari, i lavoratori della scuola, gli studenti, i giovani di Bagnoli che lottano contro un governo che intende far fronte alla crisi con le “grandi opere” a favore di imprenditori che speculano sulle risorse pubbli-

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che: lo stesso governo Renzi che sostiene i poteri finanziari, che impone “riforme” atte ad abbassare il costo della forza lavoro e il job acts, e che arriva a considerare persino catastrofi come il terremoto di Amatrice succulente occasioni di affari e speculazione.

Il grido di lotta dei 5 licenziati non è confinato nei limiti organizzativi del SI Cobas ma si è ormai diffuso e allargato a più soggetti sociali come dimostrano le numerose iniziative di solidarietà e l’appello che si avvia oramai a superare le mille adesioni. La lotta dei 5 licenziati è paradigmatica di un’ar-

roganza padronale che in gran parte dei luoghi di lavoro colpisce i delegati e i lavoratori più combattivi con l’arma del licenziamento, della cassa integrazione, dei reparti-confino o delle sanzioni disciplinari, e pone la necessità urgente e immediata di una risposta politica contro la guerra che i padroni e i loro Stati hanno dichiarato ai lavoratori e a chi si ribella contro questo sistema. La loro lotta ha un indirizzo politico, non è ristretta alla soluzione che il tribunale deciderà il 20 settembre: l’esperienza storica ha dimostrato che chi detiene la forza economica e politica, il potere, farà di tutto per tenerli fuori dalla fabbrica, ma l’ottimismo dettato dai tanti che hanno dato la solidarietà alla lotta, fa pensare che l’iniziativa dei 5 ha già creato le basi alla ripresa di una lotta più ampia che andrà oltre il 20 settembre, giorno dell’udienza, e attraverserà l’autunno; una lotta che non sarà la sola sommatoria delle varie vertenze sui territori, ma una messa a confronto e sviluppo di una battaglia per far cadere il governo Renzi e inaugurare una nuova stagione di contrapposizione di classe alla guerra che la borghesia ha messo in campo in maniera sempre più oppressiva. Lo sviluppo della lotta non può che avere il fine strategico di essere portata avanti fino all’abbattimento del sistema capitalistico; la lotta che i milioni di lavoratori stanno esprimendo a scala mondiale è un buon auspicio alla loro vittoria per liberarsi dal tallone di ferro che la borghesia usa sui loro corpi.

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attualità

L’Italia che affonda

Terremoti, calamità naturali e incidenti, sono dovuti alla semplice “fatalità” o sono il prodotto dell’avidità della borghesia imperialista? Michele Michelino

cora non possono essere evitati, anche se c’è chi sostiene il contrario, tuttavia - se l’Italia cade a pezzi - prima di incolpare la natura bisogna denunciare la grossa responsabilità della classe dirigente di questo paese. Che le calamità “naturali” siano viste come un affare l’ha affermato candidamente nel corso dello speciale TV “a porta a porta” di giovedì 25 agosto anche il “giornalista” Bruno Vespa. Con i morti e i feriti ancora sotto le macerie, si compiaceva che il terremoto nell’Italia centrale può fare da volano per l’economia. Parlando con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti Graziano Del Rio ha detto testualmente che “questa sarebbe una bella bot-

Il terremoto accaduto tra Accumoli e Amatrice che ha distrutto borghi storici tra Lazio e Marche e fatto quasi 300 morti e centinaia di feriti, è passato. Rimangono le macerie, le persone nelle tende e le inchieste giudiziarie che, con i tempi biblici della giustizia borghese, come sempre rischiano di lasciare impuniti i responsabili. A oggi sono 295 i morti e più di 350 i feriti e poiché il 24 agosto - giorno dello scisma - c’erano molti villeggianti, non si sa se ci sono altri morti sotto le macerie. Purtroppo altri disastri “naturali” sono prevedibili e attesi e certamente avverranno, ma non si potranno annoverare semplicemente fra le calamità.

ta di ripresa per l’economia

L’Italia è un paese che affonda e non si può incolpare solo la natura I morti per “calamità” naturali e incidenti non sono dovuti alla semplice “fatalità”; questi disastri sono il prodotto dell’avidità della borghesia imperialista, il vero cancro del paese e dello sfruttamento intensivo degli esseri umani e della natura. In 44 anni sono stati spesi 122 miliardi di euro, soldi rubati dalle tasche dei proletari e finiti in quelli dei padroni senza alcuna messa in sicurezza dei territori. Tutti i governi - di centrodestra e centrosinistra - che hanno governato il paese hanno favorito l’interesse dei grandi capitalisti e le “grandi opere”, a scapito della messa in sicurezza di interi territori e oggi nelle zone a rischio ci sono ancora edifici e infrastrutture fatiscenti che non possono e non potranno certo reggere l’impatto di future altre calamità naturali. Tuttavia le “disgrazie” non vengono mai da sole. Al disastro generato dal terremoto e dalla mancata prevenzione, alle ruberie di regime e degli amici degli amici, si aggiunge quello della presenza di amianto nelle costruzioni crollate che, in quantità grandi o piccole, ha contaminato e avvelenerà i soccorritori e i cittadini che rimangono nelle vicinanze dei paesi distrutti. È già successo con il crollo delle torri gemelle (World Trade Center), che provocò fra i soccorritori che avevano respirato le fibre di asbesto centinaia di morti per mesotelioma e altre malattie respiratorie, nel silenzio più vergognoso della stampa di tutto il mondo.

Distruggere per ricostruire serve a far ripartire l’economia borghese Ma come sempre al danno si aggiunge la beffa. Come abbiamo appreso dalla denuncia che il 3 agosto 2016 il parlamentare del Movimento 5 stelle Riccardo Fraccaro ha fatto in aula alla camera dei deputati durante la discussione sul bilancio interno del 2015, “I cittadini pagano per i parlamentari l’assicurazione per

malattie tropicali, affogamento, ernie addominali, escursioni in montagna, colpi di sole. Ma non è finita, in

caso di calamità naturali pagheranno gli italiani: terremoto,

inondazioni, alluvioni, eruzioni vulcaniche. Paghiamo

anche l’assicurazione ai deputati se essi subiscono un infortunio

in stato di ebbrezza.

È una cosa inaccettabile”. E ha rilevato: “Ma forse questa supera ancora quella precedente:

un’assicurazione se subite dei danni in caso di sommosse, insurrezione o tumulti popolari. 350 mila euro che spendono i cittadini per assicurarvi, mentre fuori sono stati tagliati dal governo Renzi 4,3 milioni al Fondo sanitario nazionale e ci sono 11 milioni di italiani che rinunciano alle cure o le rinviano. Mentre la spesa

sanitaria privata è aumentata del 3,2 per cento sotto

il governo Renzi, chiedete 350

Amianto morti di “progresso” Segnaliamo l’uscita del libro Amianto morti di “progresso” che racconta le lotte del Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio e di altre associazioni in lotta contro l’amianto, i cancerogeni e le stragi causate dal profitto attraverso le testimonianze degli operai, i documenti processuali e lettere inedite fra Comitato e Inail. Il libro si compone dei seguenti capitali: Cap. 1 – Non solo nelle piazze: i processi penali Sconfitte e vittorie: i casi Eternit, Marlane, Enel, Franco Tosi, ThyssenKrupp, Fibronit, Cantieri navali, Montedison Cap. 2 – Morti per amianto alla Pirelli: la condanna dei manager Cap. 3 – Breda: omertà, lotta, solidarietà operaia, repressione Cap. 4 – La lotta contro l’amianto in Italia e nel mondo Cap. 5 – Solidarietà operaia inter-

nazionale e nazionale Cap. 6 – La lotta contro il governo, l’INAIL e l’INPS Cap. 7 – Lavoro e/o salute? Cap. 8 – Conflitto sociale, solidarietà operaia e popolare, organizzazione. La lotta delle vittime organizzate in Comitati e Associazioni: le stragi dell’Aquila, di Viareggio e della Tricom di Tezze sul Brenta Il libro di 275 pagine e in vendita nelle librerie a 19,50 euro (costo stabilito dalla casa editrice) per gli associati e gli amici del Comitato, per copie limitate, già disponibili il prezzo è 15 euro richiedendolo per telefono ai n. 02 26224099 o 3357850799.

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punture e morsi di animali,

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mila euro agli italiani ogni anno per coprirvi l’assicurazione sanitaria? Ora, signori, io credo che se un’assicurazione deve essere pagata è quella che i partiti devono pagare agli italiani per i danni che con le vostre leggi arrecate ogni giorno”. A differenza del sistema socialista in cui si produce per il benessere della maggioranza della popolazione, nell’economia borghese, nel capitalismo si produce per il profitto di pochi

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e non per il benessere dell’umanità. Il massimo profitto è la molla che spinge i capitalisti a investire e produrre. Le grandi lobby economiche pagano le campagne elettorali dei loro uomini nel governo e nelle istituzioni, e i politici al loro servizio assolvono il loro ruolo di “servi” nella distribuzione degli appalti e dei favori a finanzieri, banchieri, imprenditori, faccendieri e speculatori. Certo forse i terremoti oggi an-

perché pensi l’edilizia che cosa non potrebbe fare”. Lo stesso Del Rio intervenendo ha altrettanto candidamente precisato: “adesso L’Aquila è il più grande cantiere d’Europa e anche l’Emilia è un grandissimo cantiere in crescita, farà Pil”. Vespa ha poi chiuso raggiante affermando che “il terremoto darà lavoro ad un sacco di gente”. Queste dichiarazioni dimostrano tutto il cinismo e l’ipocrisia del potere. Fare soldi sulla pelle delle persone, mandandole consapevolmente a morte in fabbrica o nel territorio (come dimostrano i morti per amianto e altre sostanze cancerogene, sfruttando gli immigrati che lavorano nei campi sotto il sole senza protezioni individuali e collettive o nelle logistiche per due euro l’ora) è considerato “normale”. Molte vite si sarebbero salvate se invece dalle grandi opere inutili come il Mose, il TAV Torino-Lione, e tutti gli enormi giri di affari a vantaggio della criminalità organizzata, della grande finanza e di Confindustria si fosse messo in sicurezza il paese. Altro che eventi e disastri “imprevedibili”. È ancora presente nella nostra mente il disastro ferroviario di Andria in Puglia (trattato sul numero scorso), che si poteva benissimo evitare con un investimento in sicurezza modesto. Per il solo studio di fattibilità del Ponte sullo Stretto i governi hanno preferito spendere centinaia di milioni di euro invece che mettere in sicurezza l’area dello Stretto, la più esposta d’Italia al rischio sismico e idrogeologico. Ma si sa, le grandi opere muovono grandi interessi e le imprese multinazionali con fatturati miliardari che pagano per far eleggere deputati e senatori che devono rispondere ai loro padroni, esigono un ritorno economico. I morti e feriti dovuti alle calamità “naturali” che avvengono periodicamente sono l’occasione per i padroni di realizzare giganteschi profitti sulla pelle della popolazione e per il governo e i politici di avere una vetrina privilegiata in cui mostrarsi addolorati e “umani” andando per qualche ora giorno in mezzo ai “disastrati”, accompagnati dalla stampa e TV di regime: così non pagano nemmeno la pubblicità.

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attualità

Bikini o bourkini: due facce della stessa medaglia

Con la scusa del terrorismo – creato, organizzato e armato dai governi europei, ubbidienti servi delle multinazionali e degli USA – hanno bisogno di creare un “nemico” interno per portare tutta la società verso la guerra senza rischiare opposizioni e proteste Daniela Trollio (*) La scena: una spiaggia di Nizza, gente stesa al sole e quattro uomini in uniforme e pistola, che obbligano un’anziana donna araba seduta sui ciottoli a togliersi il velo e la blusa che porta, sotto lo sguardo indifferente di alcune donne francesi, sicuramente laiche e repubblicane, in bikini. Non è l’unico caso avvenuto questa estate nel paese della Liberté, Fraternité, Egalité. Ora la polizia francese pattuglia le spiagge per costringere le donne che portano il velo a toglierselo, proprio come quella dell’Arabia Saudita e di altri paesi pattugliano le strade per obbligare le donne arabe a coprirsi, in base al precetto religioso, la hisba, che obbliga a “rifiutare il male e imporre il bene”… precetto assunto a quanto pare in toto anche dalle nostre “laiche e democratiche” società. C’è qualche differenza? Io non ce la vedo, a meno di credere che vi sia una relazione tra la libertà delle donne e il numero dei vestiti che devono, o non devono, coprire il loro corpo. Falso dibattito che attraversa le nostre società da tempo: del resto è il logico corollario di quel teorema per cui l’Occidente imperialista afferma che è legittimo “portare la democrazia e il progresso” con le bombe e quindi oggi “libera” le donne obbligandole a spogliarsi in pubblico. Il mercato “libera” noi donne mentre la religione ci reprime? Poter mostrare le tette, magari rifatte a caro prezzo, per vendere meglio un formaggino è libertà o

massima mercificazione talvolta consenziente, che dall’altro lato ha introdotto una nuova parola – femminicidio – che sfuma una realtà tragica: continuiamo ad essere “cose”, merce di proprietà di qualcuno che, quando non rispondiamo più ai suoi canoni, ci butta via, spesso in maniera definitiva. Siamo così “libere” che, se in anni passati si discuteva sul salario alle casalinghe (giusto o sbagliato che fosse) come segno di riconoscimento del lavoro sommerso delle donne – la cura dei figli, l’assistenza degli anziani ecc. – oggi le donne lavorano – quando non sono state le prime ad essere buttate fuori dal mercato del lavoro – di notte, la domenica, a salari inferiori agli uomini, a orari impossibili dovendo far fronte al taglio di tutti i servizi sociali, e vanno in pensione a 65/67 anni. Nessuno ha alzato una sola voce contro le varie riforme, Fornero buona ultima: meravigliosa “parità”. Così come nessuno ricorda che, secondo l’European Network Against Racism il 90% delle aggressioni islamofobiche in Olanda, l’81% in Francia, il 54% in Inghilterra sono avvenute contro donne. Del resto, paradossalmente, sono infinitamente più elevate le vittime musulmane del terrorismo islamico. Si comincia contro una minoranza (musulmana in questo caso) e con le donne velate. Dove si finisce la storia, europea, del ‘900, ce lo insegna. E lo vediamo ogni giorno, all’interno del processo di fascistizzazione di tutti i paesi d’Europa, dove ciò che conta è solo il mercato, il profitto capitalistista, e se per garantirlo va rispolverato

l’arsenale del fascismo, delle persecuzioni razziali (e diciamolo ben chiaro, una volta tanto, invece di chiamarlo con eufemismi come islamofobia) e di guerre sempre più vicine a noi, nessuno si fa scrupolo. Torniamo al binomio bikini-bourkini. Il primo, dal lugubre nome del luogo dove gli Stati Uniti affinarono il loro arsenale atomico deportando gli abitanti dell’isola dall’omonimo nome e lasciandovi un deserto radioattivo avvelenato per i secoli dei secoli, il secondo che si sta rivelando una miniera di profitti – eh, benedetto mercato – per la sua inventrice. Non è che non sia importante analizzare e definire quando e in quali condizioni c’è una vera possibilità di scelta, quando e in che condizioni le donne si mettono o si tolgono i vestiti cedendo a pressioni più o meno dirette ma … per anni abbiamo sentito e ripetuto noi stessi che “la liberazione del proletariato avverrà per opera del proletariato stesso o non sarà tale”. Ecco, io credo che sulla liberazione delle donne valga lo stesso principio: solo una società diversa dove si produca per il bene di tutti e non per il profitto capitalista può garantire (anche se non è automatico, lo sappiamo, come non è automatico il cambiamento di tutta una serie di rapporti, di retaggi culturali ecc. ecc.), solo in una società socialista può avvenire anche questa liberazione. Saranno le donne musulmane a decidere se e quando liberarsi del velo. Noi possiamo fare poco, ma denunciare e criticare gli sporchi e

sanguinosi legami tra i nostri governi, i nostri capitalisti e le dittature come quelle dell’Arabia Saudita e di altri paesi, questo sì che lo possiamo – e lo dobbiamo - fare. E se di donne stiamo parlando, parliamo anche di quello che qualcuno ha definito “pornografia sentimentale”: siamo inondati ogni giorno da fotografie e articoli sul bambino siriano seduto in un’autoambulanza, salvato dai bombardamenti del “perfido” Assad, così come siamo stati inondati dalle immagini che ritraevano il bimbo kurdo annegato su una spiaggia turca. E tutti gli altri bambini rimasti sotto le nostre bombe “democratiche”, morti di fame per la rapina imperialista, chiusi nei campi di concentramento del “democratico” Erdogan cui i nostri “democratici” governi - nonostante la penuria di risorse che sbandierano ogni volta che tagliano i servizi essenziali – hanno fornito milioni e milioni di euro perché ce li tenesse fuori dai piedi? È davvero ora di riaccendere il cervello, il bourkini non è una minaccia, il fascismo e la guerra sì. I governi europei si stanno radicalizzando molto in fretta; con la scusa del terrorismo – creato, organizzato e armato da loro stessi, ubbidienti servi delle multinazionali e degli USA – hanno bisogno di creare un “nemico” interno per portare tutta la società verso la guerra senza rischiare opposizioni e proteste. In pericolo non sono solo le donne che si avventurano con il velo sulle spiagge della repubblica della Marsigliese, in pericolo siamo tutti

noi, in gran parte ubbidiente carne da macello per una società che vive solo per il profitto.

(CIP “G.Tagarelli” via Magenta, 88 Sesto S.Giovanni)

storia

Sul Patto Molotov-Ribbentrop

Non si poteva più aspettare. Verso la metà di agosto il governo sovietico fu costretto a prendere una decisione definitiva Aldo Calcidese Nel 1939 l’Unione Sovietica era minacciata da un grave pericolo. Si profilava non soltanto l’aggressione fascista della Germania e del Giappone ma c’era anche il pericolo che contro l’Unione Sovietica si costituisse un fronte unito dei paesi capitalisti. Bisogna ricordare che le “democrazie occidentali” avevano regalato a Hitler l’Austria e la Cecoslovacchia e avevano svolto un ruolo infame durante la guerra civile spagnola agevolando i piani dell’Italia fascista e della Germania nazista, pugnalando alle spalle la Repubblica. Per questo i dirigenti sovietici pensavano che Chamberlain e Daladier avrebbero potuto schierarsi dalla parte delle potenze fasciste e appoggiare in un modo o nell’altro il loro attacco all’Unione Sovietica. Bisognava sventare questo pericolo, ma in che modo? L’ex ambasciatore sovietico a Londra, Ivan Michailovic Maiskij, così ricorda quel periodo: “La soluzione migliore, cui l’Unione Sovietica voleva arrivare, era la creazione di una potente coalizione difensiva di tutti i paesi non interessati a scatenare una seconda guerra mondiale. Ciò significava un patto di mutua assistenza con la Gran Bretagna e la Francia. Il governo sovietico sin dall’inizio si era posto su questa strada, proponendo ai governi inglese e francese un patto tripartito e conducendo ostinatamente per quattro mesi negoziati con Londra e Parigi, dando prova di eccezionale pazienza. Tuttavia, a causa del sistematico sabotaggio di Chamberlain e Daladier, che puntavano su un conflitto tra la Germania e l’URSS, nel mese di agosto del 1939 i negoziati tripartiti finirono in un vicolo cieco”. Sui negoziati di Mosca, Maiskij ricorda che il governo sovietico li affrontò con tutta la serietà che meritavano. La missione sovietica inviata ai negoziati era composta da uomini di primo ordine. Capo

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della delegazione era il maresciallo K. E. Voroscilov, allora commissario del popolo per la difesa dell’URSS. I poteri della delegazione sovietica erano molto ampi e davano “facoltà di condurre trattative con le missioni militari britannica e francese e di siglare una convenzione militare sui problemi relativi all’organizzazione della difesa della Gran Bretagna, della Francia e dell’URSS contro qualsiasi aggressione in Europa”. Il generale Doumenc, a capo della delegazione francese, era stato autorizzato ad “accordarsi con il comando delle forze armate sovietiche su tutti i problemi concernenti l’inizio della collaborazione tra le forze armate dei due paesi”. Questo mandato era meno impegnativo di quello della delegazione sovietica, ma in ogni modo il generale Doumenc aveva la possibilità di condurre serie trattative. La posizione del generale inglese Dax risultò peggiore. Si venne a sapere che l’ammiraglio non aveva alcun mandato scritto. Era necessario - commenta Maiskij - una dimostrazione più eloquente della scarsa serietà con cui il governo britannico si era preparato alle trattative militari. Il fatto che l’ammiraglio Dax fosse privo di un mandato scritto del suo governo fu la goccia che fece traboccare il vaso Il governo sovietico per molti mesi aveva avuto pazienza ma ormai era arrivato alla conclusione che Chamberlain era incorreggibile e che c’erano pochissime possibilità di stipulare il patto di assistenza reciproca. Malgrado ciò, la delegazione sovietica dichiarò di essere disposta a continuare la conferenza. Il 13, il 14, 15, 16 e 17 agosto si tennero sette sedute, nel corso delle quali le parti si scambiarono informazioni sulle proprie forze armate... Le forze armate delle tre potenze erano molto imponenti e superavano di gran lunga le forze armate allora a disposizione dell’Italia e della Germania.

I sovietici sapevano che i governi della Polonia e della Romania erano strettamente legati al governo britannico e al governo francese e, nella seduta del 14 agosto, posero una domanda diretta ai capi delle missioni francese e inglese. “Gli stati maggiori dell’Inghilterra e della Francia ritengono che le truppe di terra sovietiche potranno attraversare il territorio polacco per entrare direttamente in contatto con il nemico nel caso di un’aggressione alla Polonia? È previsto il transito delle truppe sovietiche attraverso il territorio romeno in caso di un’aggressione alla Romania? Drax e Doumenc fecero capire che la questione sollevata dai sovietici era una questione politica e come tale non rientrava nelle competenze delle missioni militari. Il 15 agosto Dax comunicò che le due missioni avevano inviato a Londra e a Parigi dei promemoria sulla questione che stava a cuore alla delegazione sovietica”. Ma i giorni passarono inutilmente e il 21 agosto non era ancora giunta nessuna risposta. Intuendo che si era ormai prossimi al fallimento della trattativa, l’ammiraglio Dax tentò di scaricare la responsabilità sul governo dell’URSS e lesse una dichiarazione in cui si affermava che “Ci è difficile capire gli atti della missione sovietica che si è prefissa di sollevare questioni politiche complesse ed importanti”. I delegati sovietici presentarono una risposta in cui si affermava: “Le unità inglesi e americane durante la prima guerra mondiale non avrebbero potuto partecipare all’azione comune con le forze armate della Francia se non avessero potuto operare in territorio francese. Allo stesso modo le forze armate sovietiche non possono prendere parte ad un’azione comune con le forze armate della Francia e della Gran Bretagna se non hanno la possibilità di attraversare i territori polacco e romeno. Questo è un assioma militare. La missione militare sovietica non riesce a comprendere come i go-

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Cuba

Il 90° compleanno di Fidel Castro Il suo lavoro teorico e pratico ha accompagnato per decenni la rivoluzione cubana

Daniela Trollio

Nemico giurato della più grande superpotenza di tutti i tempi, che per più di quarant’anni ha cercato di ucciderlo in centinaia di modi, Fidel Castro Ruz, il Comandante in capo della Rivoluzione cubana, ha festeggiato il 13 agosto il suo 90° compleanno. Non c’è bisogno di ricordare ai lettori di “nuova unità” chi sia Fidel: abbiamo scelto invece un articolo di Marta Harnecker, notissima figura di studiosa – ma non solo, perché col suo lavoro teorico e pratico ha accompagnato per decenni la rivoluzione cubana e poi quella venezuelana – che invita a leggere, o rileggere, l’opera di Fidel con gli occhi di oggi. Opera che non è raccolta in qualche ponderoso tomo, ma si trova in migliaia di discorsi, interviste, scritti. Harnecker, nello scritto che trovate in altra parte di questa pagina, segnala due punti: la tattica riguardo al nemico immediato e all’ampiezza del fronte politico, i criteri che usò per costruire l’unità delle forze rivoluzionarie, inseriti nella strategia rivoluzionaria. Facciamo un piccolo passo indietro. Fine del 1971: dal 10 novembre al 4 dicembre Fidel fa un lungo viaggio nel sorprendente Cile di Allende, già scosso dalla controffensiva dell’imperialismo. Il viaggio è lungo, quasi un mese dal nord del paese fino a Punta Arenas, al sud più estremo ed egli incontrerà e parlerà, nel suo corso, con decine di migliaia di cileni. Vuole rendersi conto con i propri occhi, e con l’estremo rispetto

e la mancanza di dogmatismi che la Rivoluzione cubana ha sempre tributato a qualsiasi progetto di liberazione, se c’è un’altra strada – diversa da quella percorsa a Cuba – per far avanzare la rivoluzione in America Latina. In quella congiuntura così straordinaria, è fondamentale per lui identificare, negli intrecci complessi di una diversa realtà nazionale, i semi di una necessaria rivoluzione in un altro paese del continente. Un viaggio di studio di chi usa il marxismo non come dogma ma come guida per l’azione, per sovvertire l’ordine esistente. E questo emerge chiarissimo nel discorso che terrà all’Università di Concepciòn: il Cile stava facendo i suoi primi passi e le rivoluzioni non sono fatti fulminei, ricorda, ma il risultato di accumulazioni di trasformazioni e quei due punti segnalati da Harnecker sono – tra altri - il suo contributo a questo tentativo. Come finì questo coraggioso progetto lo sappiamo, e lo aveva capito anche lui: il suo dono finale ad Allende fu un fucile, che il presidente cileno userà nella difesa estrema alla Moneda il giorno del colpo di Stato. Ma vogliamo ricordare che Fidel, nel 2005, all’Università dell’Avana affermò anche che il più grande errore della Rivoluzione cubana era stato pensare di sapere come si costruiva il socialismo. Buon compleanno, Fidel: la Storia ti ha assolto e ti sei meritato la riconoscenza di tutti coloro che hanno voluto, vogliono e vorranno un mondo libero dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.....

verni e gli stati maggiori della Gran Bretagna e della Francia, nell’inviare nell’URSS le proprie missioni non abbiano impartito loro istruzioni precise su una questione così elementare. Tuttavia se i francesi e gli inglesi trasformano tale questione assiomatica in un grande problema da analizzare a lungo, ciò significa che vi sono tutti i motivi per dubitare del loro desiderio di giungere ad una seria ed effettiva cooperazione militare con l’URSS. In forza di quanto sopra esposto, la responsabilità per la lentezza delle trattative militari e la loro rottura ricade, naturalmente, sulla Francia e sulla Gran Bretagna”. Così i negoziati militari per il sabotaggio dell’Inghilterra e della Francia finirono in un vicolo cieco. A questo punto, al governo dell’Unione Sovietica si imponeva la necessità di cercare altre strade per garantire la propria sicurezza. L’ambasciatore Maiskij osserva che “Il no anglo-francese al passaggio delle forze armate sovietiche attraverso il territorio della Polonia e della Romania fu solo l’ultimo e decisivo anello di una lunga catena di delusioni. A quel punto diventò assolutamente chiaro che il patto tripartito per la lotta contro l’aggressione era irrealizzabile. E anche ammettendo la possibilità che il patto infine venisse stipulato, sorgeva poi un problema ancora più importante: in che misura l’Inghilterra e la Francia avrebbero rispettato il patto stipulato? Erano ancora vivissimi nella memoria i tristi esempi dell’Austria, della Cecoslovacchia e della Spagna. L’Inghilterra e la Francia avevano tradito questi paesi. Dov’era la garanzia che avrebbero fatto fronte meglio ai loro impegni nei confronti dell’Unione Sovietica? Non era forse molto più probabile che, con questo o quel pretesto, Chamberlain e Daladier avrebbero voltato le spalle all’URSS?” “L’amara necessità” di un accordo con la Germania “In sostanza nell’agosto del 1939 non si poteva fare più affidamento sul patto tripartito. L’Unione Sovietica aveva davanti a sè due prospettive: una politica di isolamento o l’accordo con la Germania. Nella situazione del 1939, quando lungo le frontiere dell’Estremo Oriente già tuonavano i cannoni, quando Chamberlain e Daladier facevano grandi sforzi per spingere la Germania contro l’URSS, quando gli stessi tedeschi erano indecisi sulla direzione in cui lanciare il primo

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Il miglior omaggio a Fidel: guardare nella sua stessa direzione Marta Harnecker (*) Più di mezzo secolo fa, mentre nelle case latinoamericane si celebrava l’inizio del nuovo anno, succedeva una buona cosa a Cuba: un esercito guerrigliero, con base sociale contadina, trionfava nell’isola caraibica liberando il paese dalla tirannia batistiana. Si inaugurava così un processo politico che pretendeva non solo di rovesciare un dittatore ma di seguire una linea coscientemente rivoluzionaria: trasformare profondamente la società a beneficio delle grandi maggioranze. Questo trionfo delle forze popolari, guidate dal Movimento 26 Luglio e dirette dal giovane avvocato Fidel Castro Ruz, risvegliò la simpatia della maggior parte della sinistra occidentale, ma in particolar modo della sinistra dell’America Latina. Era una luce che si affacciava nell’oscuro ambiente conservatore che si viveva allora nel sub-continente. Aveva rotto con due tipi di fatalismo molto diffusi nella sinistra latinoamericana: uno geografico e l’altro militare. Il primo affermava che gli Stati Uniti non avrebbero tollerato una rivoluzione socialista nella loro area strategica e Cuba trionfava molto vicino alle sue coste. Il secondo sosteneva che, data la sofisticazione che gli eserciti avevano raggiunto, non era più possibile vincere un esercito regolare, ma la tattica guerrigliera impiegata dai rivoluzionari dimostrò che era possibile indebolire l’esercito nemico fino ad arrivare a

Foto: Gioia Minuti sconfiggerlo. Era logico, allora, che – dopo il trionfo cubano – il tema della lotta armata passasse ad essere il tema centrale della discussione della sinistra della nostra regione. Ma dietro le armi e la tattica guerrigliera c’era molto di più; esisteva tutta una strategia politica costruita ed abilmente applicata da Fidel, senza la quale non si può spiegare la suddetta vittoria. Il massimo dirigente cubano capì molto bene che la politica non poteva essere l’arte del possibile – una visione conservatrice della politica – ma l’arte di costruire una correlazione di forze sociale, politica e militare che permettesse di trasformare quello che sembrava impossibile in quel momento in qualcosa di possibile nel futuro. Ho selezionato, come contributo a questa rivista, le conclusioni del mio libro La strategia politica di Fidel. Dal Moncada alla vittoria perché le considero di assoluta attualità. La prima di queste si riferisce al

colpo, una politica isolazionista era estremamente rischiosa. Restava una sola via, quella dell’accordo con la Germania. Era possibile questa via? Sì, era possibile. Fin dall’inizio dei negoziati tripartiti, Berlino aveva mostrato un grande nervosismo e aveva seguito con la massima attenzione le loro peripezie. Intorno alla metà di agosto nessuno dubitava più che di lì a qualche giorno i cannoni avrebbero tuonato e gli aerei avrebbero sganciato le prime bombe. Non si poteva più aspettare. Verso la metà di agosto il governo sovietico fu costretto a prendere una decisione definitiva. Al dilemma dinanzi cui si trovava in precedenza era subentrata l’amara necessità di concludere un accordo con la Germania. Cinque mesi di sabotaggio dei negoziati tripartiti da parte della Gran Bretagna e della Francia, sostenute dagli Stati Uniti, non lasciavano all’URSS altra soluzione”. Così l’Unione Sovietica si trovò di fronte “all’amara necessità” di cui

nemico immediato e all’ampiezza del fronte politico. Lì segnalo le grandi lezioni che si possono apprendere dall’enorme flessibilità tattica che Fidel impiegò per costruire l’ampia alleanza di tutte le forze anti-batistiane. Il leader cubano capì che per ottenere il trionfo contro il dittatore era necessario unire il massimo di forze sociali e così, passo per passo, costruì l’unità non solo con le classi e i settori rivoluzionari ma anche con settori riformisti e, ancora, con quei settori reazionari che avessero la minima contraddizione con il dittatore. Per ottenere questo obiettivo dovette ripiegare su molti aspetti, ma mai su questioni di fondo: non accettò mai una possibile ingerenza straniera per facilitare le cose, né l’utilizzo di un golpe militare con gli stessi obiettivi, né l’esclusione di alcuna forza rappresentativa di alcun settore del popolo. La seconda si riferisce ai criteri che usò per costruire l’unità delle forze rivoluzionarie. In questa

parte del testo segnalo gli insegnamenti che possiamo trarre dalla sua stessa pratica e dai suoi discorsi. Nessuno quanto lui lottò per l’unità, trasformandola in un pilastro della sua strategia politica prima e dopo la vittoria. Fidel preferì evitare le discussioni teoriche per incentrare la sua energia nell’applicare una strategia politica corretta; egli era convinto che sarebbe stata la pratica a risolvere, con meno guasti interni, le differenze ideologiche e politiche dei diversi gruppi rivoluzionari. Per finire questa piccola presentazione, voglio ricordare una frase di Antoine de Saint-Exupéry: “Amare non è guardarsi l’uno con l’altro; è guardare insieme nella stessa direzione”. Penso che la più grande espressione di amore e il più grande omaggio che possiamo fare a Fidel nel suo 90° compleanno sia guardare nella sua stessa direzione. (da: rebelion.org; 12.8.2016,traduzione di Daniela Trollio CIP “G.Tagarelli” via Magenta ,88 Sesto S.Giovanni)

parla l’ambasciatore Maiskij. Il patto fra la Germania e l’URSS venne firmato il 23 agosto. Non si trattava di un’alleanza come quella che l’URSS aveva offerto a Gran Bretagna e Francia, ma semplicemente di una dichiarazione di neutralità. Una prima conseguenza del patto Molotov-Ribbentrop fu l’esplosione di contraddizioni all’interno dello stesso schieramento fascista. Mussolini e Franco disapprovarono il patto. I giapponesi erano inferociti, dal momento che avevano dichiarato a Hitler di essere pronti a unirsi a lui nella crociata antisovietica. Ma anche i gruppi reazionari che in Occidente avevano lavorato per anni per scagliare Hitler contro l’Unione Sovietica stavano vedendo fallire i loro piani. I conservatori che a Londra avevano sostenuto Hitler si scagliarono contro di lui. La giornalista Anna Louise Strong, nel suo libro “L’era di Stalin”, racconta come un diplomatico sovietico le avesse spiegato l’importanza del patto Molotov-Ribbentrop per la salvezza del paese sovietico. “In quel periodo tragico un diplomatico sovietico mi disse: “Se non fosse per il nostro patto di non aggressione noi saremmo ora esposti all’attacco sia dall’Europa che dall’Asia a causa dell’alleanza della Germania, dell’Italia e del Giappone. La Gran Bretagna e la Francia avrebbero tenuto la linea Maginot e avrebbero finanziato Hitler. L’America sarebbe stata l’arsenale del Giappone contro di noi, come lo è stata contro la Cina. Con il patto di non aggressione noi abbiamo introdotto un cuneo fra Hitler, il Giappone e i sostenitori di Hitler a Londra, abbiamo diviso il campo del fascismo mondiale e non avremo da combattere contro tutto il mondo”. L’Unione Sovietica aveva guadagnato un respiro di circa due anni. E, cosa ancora più importante, aveva separato Hitler dai suoi sostenitori occidentali per tutta la durata della guerra. (A.L. Strong, L’ERA DI STALIN, p.141)

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TPI Aia

Silenzio dei mass-media, ma non solo

Il Tribunale dell’Aia ha stabilito che Slobodan Milosevic non era responsabile per i crimini di guerra commessi durante la guerra in Bosnia nel 1992-1995. Serviti alla Nato per scatenare lo smembramento della Jugoslavia con la complicità del governo D’Alema Enrico Vigna* La Camera di primo grado del TPI dell’Aja ha unanimemente sentenziato che Slobodan Milosevic non era parte di una “impresa criminale congiunta” per perseguitare musulmani e croati durante la guerra in Bosnia. Il giudizio del 24 marzo 2016 afferma che “la Camera ha stabilito che non vi erano prove sufficienti presentate in questo caso, per stabilire che Slobodan Milosevic fosse parte di un progetto per scacciare i musulmani bosniaci e i croati bosniaci dal territorio serbo-bosniaco…”. I giudici hanno sottolineato che Slobodan Milosevic e Radovan Karadzic avessero all’inizio della guerra, operato per la conservazione della Jugoslavia e che Milosevic era sempre schierato su questa posizione. La Camera del TPI ha stabilito che “… Slobodan Milosevic ha sempre perseguito questo obiettivo ed era contro la secessione della Bosnia-Erzegovina… “. La Camera ha rilevato che “… l’autoproclamazione di sovranità da parte dell’Assemblea della BiH in assenza dei delegati serbobosniaci il 15 ottobre 1991, fece precipitare la situazione…”, e che Milosevic aveva una posizione cauta circa la costituzione della Republika Srpska come risposta. La sentenza afferma che nelle comunicazioni intercettate con Radovan Karadzic, “… Milosevic era dubbioso se fosse stato saggio usare ‘un atto illegittimo in risposta ad un altro atto illegittimo’ e messo in discussione la legittimità di formare un’Assemblea serbo bosniaco...” I giudici hanno anche scoperto che “…Slobodan Milosevic aveva espresso le sue riserve su come un’Assemblea serbo-bosniaco potesse escludere i musulmani che erano ‘per la Jugoslavia’...” Il giudizio osserva che in incontri con i serbi e funzionari serbo bosniaci “… Slobodan Milosevic aveva dichiarato che “ … i membri di altre nazioni ed etnie dovevano essere protetti e che l’interesse nazionale dei serbi non era la discriminazione...”. Inoltre è provato che “… Milosevic aveva sempre ribadito che qualsiasi atto criminale doveva essere combattuto con decisione...”. La Camera di primo grado ha osservato che “… in riunioni private, Milosevic era estremamente arrabbiato con la leadership serbobosniaca che voleva respingere il piano Vance-Owen...”. È stato anche determinato che “… Milosevic ha cercato di ragionare con i serbi bosniaci dicendo che capiva le loro preoccupazioni e ragioni, ma che la cosa più importante era porre fine alla guerra… e incoraggiava per un accordo politico… “. Nel corso di una riunione del Consiglio Supremo di Difesa, Milosevic aveva sottolineato che i leader serbo bosniaci, non avevano il diritto di chiedere più di metà del territorio in Bosnia-Erzegovina, affermando che “… non si deve avere più di ciò che ci appartiene. Poiché, rappresentiamo un terzo della popolazione. [...] Noi non abbiamo diritto a oltre la metà del territorio e non si deve strappare via qualcosa che appartiene a qualcun altro! [...] Come si può immaginare che due terzi della popolazione possano essere stipati nel 30% del territorio, mentre il 50% è troppo poco

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per voi ?! È umano, è giusto?!…”. In altri incontri con i funzionari serbi e serbo-bosniaci, la sentenza osserva che Milosevic aveva ripetutamente dichiarato che bisognava porre fine alla guerra e che il più grande errore dei serbo bosniaci era quello di “… cercare una completa sconfitta dei musulmani bosniaci… mentre era necessario ricercare e accettare proposte di pace…”. “… Vistosamente in silenzio dal marzo 2016, giorno del verdetto dell’Aia, sono il New York Times, il Washington Post, il Los Angeles Times, la CNN e il Times di Londra per citarne solo alcuni, dei giornali partigiani della “democrazia e della giustizia” che hanno partecipato alle campagne contro Slobodan Milosevic e al suo diritto a una “giustizia secondo la legge”, come inciso sopra l’ingresso della Corte Suprema degli Stati Uniti. Dove sono le voci di Christiane Amanpour della CNN, Roy Gutman e John Burns, che hanno ricevuto un Pulitzer per le loro menzogne e​​ inganni in Bosnia? Dove sono Nicholas Burns e il marito dell’Amanpour James Rubin che regolarmente vomitavano menzogne dalla CNN contro Milosevic per 8 anni? Dove è Carla Del Ponte? Dove sono Joan Phillips e Charles Lane che hanno avanzato nella loro carriera, con il lavoro di propaganda e falsità? Dove è James Harf PR della Ruder/ Finn, che ha incassato milioni di dollari promuovendo menzogne e immaginazioni per i governi croati e bosniaci musulmani? Dove sono Chris Hedges, Charlene Hunter Galt, ciarlatani dei media come Maggie O’Kane della stampa britannica? Dove è Tom Post che ha scritto l’articolo infame di prima pagina su Newsweek, circa “50.000 stupri di donne musulmane bosniache”? Dov’è Sylvia Poggioli che abilmente ha scritto un saggio di disinformazione nella Relazione Neiman ad Harvard? Dov’è John Pomfret del Washington Post che ha sostenuto di aver visto “4.000 uomini e ragazzi di Srebrenica che si erano salvati a Tuzla”? Dov’è David Rohde i cui libri e articoli hanno demonizzato il popolo serbo con grande astuzia? E dov’è Carol Williams del Los Angeles Times che ha scritto in un anno il giornalismo più odioso, anti-ortodosso e intriso di dogmatismo cattolico, di quanto la maggior parte dei giornalisti potrebbero fare in un decennio? E, infine, dove sono creature come

Minna Schrag, terza procuratrice americana prestita al Tribunale dell’Aja, da uno studio legale di New York, e che ha detto agli studiosi di diritto internazionale che: “… È stata una nuova esperienza che deve essere un precedente, di poter decidere prima sulle regole delle prove e alla procedura, di decisioni prese in conversazioni improvvisate nei corridoi del Tribunale Penale per la Jugoslavia...?” Se i media e il sistema giuridico sono questi, corrotti e disonesti, i serbi devono correre ai ripari dalla verità, e hanno diritto di poter disprezzare un mondo… che deliberatamente ha manipolato i fatti per demonizzare il popolo serbo con una colpa collettiva, non visto in Europa dal tempo di Hitler, questi sono mostri che hanno fatto della parola “serba” sinonimo di male, un processo inumano in uso ancora oggi… Che possano marcire all’inferno per questa orribile farsa legale, la Madeleine Albright, il direttore di scena, che dovrebbe essere in piedi sul banco degli imputati all’Aja, insieme con il generale Wesley Clark e William Jefferson Clinton…” si chiede su beoforum, W. Dorich. “… Non sono qui davanti ad un Tribunale illegittimo e illegale, che non riconosco, per difendere Slobodan Milosevic, ma solo per difendere la Jugoslavia e la dignità del popolo serbo, e con essi la verità e la giustizia dei popoli, contro l’arroganza e l’arbitrio dei potenti della terra, che hanno devastato e distrutto il mio paese, e umiliato il mio popolo…”. Slobodan Milosevic, prima di morire ha dovuto trascorrere gli ultimi cinque anni della sua vita in carcere, difendendo caparbiamente se stesso e la Serbia dalle false accuse di crimini di guerra nel corso di una guerra, che ora rivelano, stava cercando di fermare. Le accuse più gravi che Milosevic ha dovuto affrontare, tra cui l’accusa di genocidio, erano tutte in relazione alla Bosnia. Ora, dieci anni dopo la sua morte, il TPI dell’Aja ha ammesso che non era colpevole. Il 30 ottobre 2005 lo stesso Milosevic aveva osservato con grande realismo: “… se questo Tribunale per quanto illegale, riesce anche a ignorare le falsità clamorose contenute negli atti di incriminazione… tanto vale che leggiate la sentenza contro di me, la sentenza che siete stati istruiti ad emettere… Se la Corte non si rende conto dell’assurdità del rinvio a giudizio letto ieri in aula,

dove si sostiene che la Jugoslavia non è stata vittima di un attacco della NATO, ma ha aggredito se stessa, è consigliabile risparmiare tempo e passare direttamente alla sentenza. Leggetela e non mi annoiate…”. Il TPI ha cercato di non pubblicizzare il fatto che Milosevic era stato giudicato estraneo a crimini di guerra e alla loro pianificazione. Il Tribunale confidava che le 1.303 pagine riguardanti il presidente jugoslavo e serbo, sepolte tra le 2.590 pagine del verdetto Karadzic, sarebbero rimaste ignorate. Infatti è stato solo grazie a siti serbi e russi, e ad una delle poche eccezioni in occidente, rappresentata dal sito del giornale inglese The Guardian, che questa notizia si è diffusa a livello internazionale. Occorre ricordare che Slobodan Milosevic è morto per un attacco di cuore appena due settimane dopo che il Tribunale gli aveva negato la sua richiesta di sottoporsi ad un intervento chirurgico al cuore in Russia. È stato trovato morto nella sua cella, meno di 72 ore dopo che il suo avvocato aveva consegnato una lettera al Ministero degli Esteri russo in cui denunciava il timore di essere stato avvelenato. Il rapporto ufficiale del Tribunale sulla motivazione circa la morte, ha confermato che “ nel campione di sangue prelevato da Milosevic il 12 gennaio 2006, era stato trovato del Rifamicin (un farmaco non prescritto per le sue cure), e che per intoppi burocratici non era stato

comunicato a Milosevic fino al 3 marzo 2006. La presenza di Rifamicin nel sangue di Milosevic avrebbe contrastato il farmaco per l’alta pressione del sangue che egli stava prendendo, aumentando così il rischio di attacco di cuore che alla fine l’ha ucciso. Il TPI non ha mai effettuato alcuna indagine adeguata e indipendente sulle reali cause della morte del presidente Milosevic. I risultati delle indagini interne svolte dal tribunale stesso sono state bocciate con una riserva della Russia nel Consiglio di sicurezza dell’ONU, basata su una serie di accertamenti medici, dove è chiaro che al Presidente Milosevic è stato rifiutato un trattamento adeguato, quando a causa della sua malattia, la sua vita era gravemente a rischio, e quindi, che il Tribunale abbia commesso almeno un omicidio giudiziario. Molti esperti e studiosi internazionali hanno denunciato tutto questo come un disegno che potenti interessi geopolitici preferivano non far arrivare vivo Milosevic alla fine del suo processo, con la possibilità che fosse assolto e le loro criminali menzogne rivelate. Intercettazioni prese al Dipartimento di Stato USA svelate da Wikileaks, confermano che il Tribunale dell’Aja ha discusso lo stato di salute di Milosevic e le sue cartelle cliniche, con il personale dell’ambasciata degli Stati Uniti all’Aia senza informare nessuno. Perché? E ORA? Tralasciando le loro mise-

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rie morali e professionali i disinformatori di professione al servizio dei potenti e delle logiche imperialiste occidentali…, cosa faranno i disinformatori sempre opportunamente schierati in linea con il “politicamente corretto” e i disinformatori in buona fede, solo perché “ignoranti”, cioè ignoravano atti e fatti ma sentenziavano e aizzavano contro “Hitler Milosevic”, il “macellaio dei Balcani”, il “criminale genocida”, demonizzandolo come un mostro, diffondendo falsità, menzogne, infamità. Migliaia di giornalisti, politici, esponenti di ONG falsamente umanitarie, pacifinti e utili idioti. Tutti costoro che sui media sono stati giudici, giuria e boia di Slobodan Milosevic… ORA, chiederanno scusa? Avranno un sussulto etico e di coscienza? Abbasseranno il capo e con onestà intellettuale renderanno onore alle centinaia di migliaia di vittime della guerra di Bosnia, si indigneranno per essere stati usati dalla propaganda mediatica di guerra, contribuendo informativamente e oggettivamente alle tragedie e al dolore subito dai popoli di bosniaci e per tutto lo spargimento di sangue in Bosnia? E al popolo serbo e jugoslavo, che, come conseguenza ha subito un criminale embargo e sanzioni durate anni, che hanno immiserito e devastato socialmente e umanamente la propria gente? Staremo a vedere. “… Io sono il vincitore morale! – ha detto Milosevic all’Aia il 30 ottobre 2001. Io sono fiero di ogni cosa da me fatta, perché sempre fatta per il mio popolo e il mio paese, e in modo onesto. Io ho solo esercitato il diritto di ogni cittadino a difendere il proprio paese, e questo è il vero motivo per cui mi hanno illegalmente arrestato. Se voi state cercando dei criminali di guerra l’indirizzo non è qui a Scheveningen (il carcere olandese dov’era detenuto, Ndt) ma al Quartier Generale della Nato e nelle capitali occidentali, dove è stata pianificata la distruzione del mio paese, la Jugoslavia, e del mio popolo…. Noi non abbiamo attaccato o aggredito nessuno, ma ci hanno costretto a combattere a casa nostra, per difendere il nostro paese e la nostra terra… Questo abbiamo fatto e lo rifaremmo perché questa non è un’infamia ma un onore per qualsiasi popolo e uomo…”. * portavoce Forum Belgrado Italia Agosto 2016

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estero

Le mire polacche sull’Ucraina golpista La Polonia - “campione” della democrazia a stelle e strisce nell’Europa orientale - non avanzerebbe pretese se non sentisse le spalle coperte dai tutori d’oltreoceano

Fabrizio Poggi Lo scorso agosto l’ambasciatore ucraino in Polonia, Andrej Deščitsa, ha accusato Mosca di creare tensioni nei rapporti tra Kiev e Varsavia. Secondo Deščitsa, la risoluzione adottata il 22 luglio dal Senato polacco, che qualifica come “genocidio” i massacri dei polacchi di Volinja, sterminati dai filonazisti ucraini di OUN-UPA nel 1943-1944 e l’invito al Sejm, la Camera bassa, a stabilire l’11 luglio quale ricorrenza nazionale in ricordo delle “vittime del genocidio”, non avrebbero “raffreddato i rapporti tra Polonia e Ucraina”. Sarebbero invece i servizi segreti russi, dice Deščitsa, a soffiare sul fuoco delle relazioni polaccoucraine, attraverso “internet, in cui compaiono commenti che creano tensione nell’interesse di una parte terza”. Il Senato polacco ha scelto l’11 luglio perché quella data, nel 1943, rappresentò il culmine della campagna di sterminio: quel giorno, reparti di OUN-UPA di Stepan Bandera e Roman Šuchevič attaccarono contemporaneamente circa 100 villaggi polacchi, provocando oltre centomila vittime, in gran parte donne, bambini e vecchi. Nel 2013, in occasione del settantesimo anniversario della carneficina, il Sejm, pur con una maggioranza destro-nazionalista, aveva definito quei fatti “pulizia etnica con elementi di genocidio”. Nel 2015, la Rada ucraina replicava, riconoscendo l’attività di OUN-UPA come “lotta per l’indipendenza ucraina” e istituiva le feste nazionali dell’1 gennaio e del 14 ottobre: data di nascita di Stepan Bandera e della formazione dell’UPA. Ora, per rispondere alla risoluzione polacca del 22 luglio, alla Rada si propone una risoluzione “sulla commemorazione delle vittime del genocidio commesso dallo Stato polacco nei confronti degli ucraini negli anni 19191951”. Lo scorso 28 agosto, Jurij Šuchevič, deputato della Rada e figlio del famigerato Roman, ha dato un ulteriore affondo alla disputa, affermando che i polacchi avrebbero adottato la risoluzione sul “genocidio” della Volinja, perché in realtà ambiscono a togliere all’Ucraina proprio quella parte di territorio. Si tratta di “una manipolazione postcoloniale” ha detto Šuchevič, intervistato dal polacco Gazeta Wyborcza; “voi (Varsavia) agite esattamente come Mosca. Vi dimostrate simili alla mentalità post-coloniale e post-imperiale di Mosca. Pensate non sappia cosa nascondono i polacchi nei loro cuori? Il sentimento di una Polonia dal mar Baltico al mar Nero. Vilnius è nostra; L’vov è nostra” ha sentenziato Šuchevič. “I camerati di mio padre nell’UPA mi raccontavano come, mentre essi combattevano contro i Sovietici o i tedeschi, l’Armia Krajowa (emanazione del governo borghese polacco in esilio a Londra) attendeva solo l’occasione per attaccarli alle spalle”. Effettivamente, la Polonia ha poco da invidiare all’Ucraina, a giudicare dalle più alte onorificenze che le massime autorità di Varsavia tributano a nomi che non sono da meno dei Bandera e Šukhevič ucraini, quali Władysław Liniarski, Zygmunt Szendzielarz, Zygmunt Błażejewicz o Kazimierz Kamieński. Questi personaggi, con i loro reparti dell’Armia Krajowa, organizzavano incursioni contro truppe tedesche ma, al tempo stesso – spesso ricevendo materiale bellico dagli stessi nazisti – compivano stragi di militari sovietici e di civili in Galizia e nella regione Vilnius e proseguirono poi, a conflitto terminato, in azioni antipolacche e antisovietiche, con massacri di soldati dell’Armata Rossa, dell’NKVD e della milizia del nuovo governo popolare polacco, incendiando villaggi e chiese di religione ortodossa, uccidendo donne e bambini ebrei in Lituania, Polonia e Bielorussia, fin-

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ché non furono eliminati nel luglio 1945. Dunque, tra golpisti ucraini e nazionalisti polacchi che fanno a gara a spararle più grosse - “l’Urss invase Ucraina e Germania nel 1941” aveva detto l’ex premier golpista Arsenij Jatsenjuk; mentre il Ministro della difesa polacco Anthoni Macierewicz paragona l’attuale situazione europea a quella degli anni ‘20, allorché “la Polonia respinse il tentativo della Russia bolscevica di conquistare l’Europa” - e nonostante qualche guizzo democratico polacco – l’arresto di due giovani neonazisti ucraini sorpresi a fare il saluto nazista nell’ex lager di Majdanek - secondo l’ambasciatore Deščitsa, i contrasti tra Varsavia e Kiev sarebbero opera di Mosca. In realtà, pare che non tutto, nelle farneticazioni di Šuchevič sulle mire polacche, sia fuori luogo. C’è chi ricorda ai golpisti di Kiev, così smaniosi di antisovietismo e “decomunistizzazione”, i “regali” sovietici all’Ucraina, senza i quali oggi essa sarebbe ridotta a un terzo. A parte le aree cedute dalla Russia tra il 1919 e il 1926 (regioni di Kharkov e Odessa; Governatorato di Nikolaev e parte della regione di Kherson; Regioni di Donetsk e Lugansk; parte del Caucaso settentrionale; parti dei Governatorati di Brjansk e di Voronež) nel 1939 l’Urss ottenne che entrassero a far parte dell’Ucraina le regioni di L’vov, Ternopol e Ivano-Frank; nel ‘40 la regione di Černovits; quella della Transcarpazia nel ‘45 e infine la Crimea, con la città a statuto speciale di Sebastopoli, nel 1954. Quindi l’Ucraina rischia di perdere molti pezzi del proprio territorio, non solo a favore di Varsavia. Lo stesso segretario generale dell’ONU, Ban Ki-moon, aveva dichiarato che “l’Ucraina non è uno Stato, bensì un circondario amministrativo dell’Urss”. Oltre alla tragedia del Donbass e alla questione delle pretese polacche alla “restituzione” dei territori entrati a far parte dell’Ucraina dopo il 1939, ci sono un centinaio di città

e villaggi della Transcarpazia ucraina che vorrebbero dar vita a un “rione ungherese separato”, vicinissimo ai confini ungherese e rumeno. In generale, se le varie pretese su differenti spezzoni dell’Ucraina dovessero venir riconosciute da un Tribunale internazionale, quanto rimarrebbe degli odierni 604mila kmq di territorio? Se ne andrebbero le aree settentrionali della Rzeczpospolita polacca, della Galizia - regioni di L’vov, IvanoFrank, Ternopol - e della Volinja – Lutsk e Rovno - e della Slobožanščina russa, oltre a quelle del Khanato di Crimea e dell’odierno Donbass e poi quelle della Transcarpazia ungherese. Kiev rischia di mettersi da sola in un vicolo cieco: i golpisti pretendono che il passato sovietico debba essere cancellato e criminalizzato, oppure pensano che le norme previste per l’associazione alla UE valgano per tutti paesi, meno che per loro? Tra quelle norme della UE, l’art.1 della Convenzione del Consiglio d’Europa del 1950 (“Difesa della proprietà delle persone fisiche e giuridiche”), prevede la restituzione della proprietà sulle terre. E la destra reazionaria al potere in Polonia guarda all’Ucraina occidentale come alla “propria terra primordiale”. L’organizzazione polacca “Restitucija kresov” sta da tempo esaminando oltre mille richieste di “restituzione” avanzate da cittadini polacchi, le cui proprietà sono finite in territorio ucraino alla fine della guerra. “L’ingresso in UE significa restituzione”, afferma Igor Pykhalov, così che se a Kiev “negano ogni eredità sovietica, ne consegue che l’Ucraina detiene illegalmente i propri territori occidentali”. La Polonia non intenterà causa a Kiev per qualche edificio appartenuto a ebrei o emigrati russi: lo farà piuttosto, scrive Elena Ryčkova su Nakanune.ru, “per Galizia, Volinja e Polesie, vale a dire le attuali regioni di L’vov, Ternopol, Ivano-Frank, Rovno,

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Lutsk, Žitomir” in cui, a detta di Varsavia, i polacchi sono ancor oggi bistrattati da Kiev. Da tempo, il presidente Andrzej Duda sta chiamando i polacchi a tenersi pronti alla battaglia per le restituzioni, anche se, scrive Pykhalov, molti polacchi avrebbero da ridire nel trovarsi in casa gli eredi delle SS ucraine responsabili del “macello della Volinja” e, comunque, sembrano non rinnegare la vecchia visione degli ucraini quali “schiavi delle campagne”. Sensazionale, scrive ancora Ryčkova, la posizione della Camera di commercio austriaca, secondo cui “l’Ucraina, in quanto Stato, dovrebbe autoestinguersi a favore della Russia, a esclusione dell’antica regione della Galizia, che 100 anni fa faceva parte dell’Austria-Ungheria”; posizione che fa imbestialire Varsavia, che ne rivendica la proprietà da tempo più antico. Più a ovest, la questione verte sulle regioni

della Transcarpazia e della Bucovina: la prima, con la città di Užgorod, appartenuta sia all’Ungheria che alla Slovacchia e che conta ancora forti minoranze ungherese e slovacca. Per quanto riguarda la Bucovina, con la regione di Černovitsi, è appartenuta alla Romania fino alla fine della guerra e Bucarest ha più volte dichiarato la volontà di “proteggere” le minoranze rumene sia in Bucovina, sia in Bessarabia settentrionale (Moldavia) che meridionale. Poi ci sono i Gagauzi della Moldavia meridionale e i Bessarabi della regione di Odessa, che vorrebbero dar vita a una Repubblica autonoma di Budžak, la Bessarabia Vecchia, la cui capitale dovrebbe essere Belgorod-Dnestrovsk, l’antica fortezza ottomana di Akkerman. L’Ucraina, scrivono i media rumeni, “è uno Stato artificiale, non omogeneo, apparso sulle rovine dell’Urss. Forse che, in caso di molto probabili sconvolgimenti interni, lo Stato rumeno non dovrebbe intromettersi, a difesa dei rumeni residenti in Bucovina settentrionale, provincia di Herca, Bessarabia settentrionale e meridionale e, perché no, Transnistria?”. Tutte queste pretese rumene e ungheresi, ma soprattutto polacche, su alcune regioni dell’Ucraina occidentale, possono apparire strampalate. Ma bisogna tener conto delle condizioni che hanno ridotto l’Ucraina a ruolo di piazzaforte dell’espansione della Nato verso est: i tutori occidentali del paese non paiono interessati tanto alla sua “integrità territoriale”, quanto alla sua funzione geopolitica e alcune parti del suo territorio possono benissimo esser lasciate a chi le rivendica. Tanto più se, ad avanzare delle pretese, è un altro “campione” della democrazia a stelle e strisce nell’Europa orientale, quale la Polonia e, nota Ilja Polonskij su topwar.ru, Varsavia non parlerebbe così apertamente della questione se non sentisse le spalle coperte dai tutori d’oltreoceano, tanto che il canale TVP1 polacco ha già mostrato una mappa di come viene vista la futura divisione dell’Ucraina.

Addio Walter Dai compagni di Nuoro abbiamo appreso - con immenso dispiacere - la prematura scomparsa del compagno Walter Massimo Contu di Iglesias, portato via da un male incurabile. Molti di noi hanno conosciuto Walter in Liguria quando era apprendista e poi militante dell’Unione della Gioventù comunista, organizzazione del PCd’I (m-l), sempre in prima fila nella lotta contro i fascisti degli anni ‘70, diffusore di “nuova unità” Lo salutiamo come hanno fatto i compagni del Collettivo Comunista (marxistaleninista) di Nuoro sul suo profilo fb dove pubblicava anche gli articoli della nostra rivista: “Addio compagno Walter, ti salutiamo a pugno chiuso come a te piaceva, le bandiere della Terza Internazionale Comunista sventolano listate a lutto, addio amico e compagno di lotta”. I compagni della redazione di “nuova unità”

Ciao “Fiabetto” Il 10 luglio, invece, ci ha lasciato - anche lui per il male che l’ha portato allo stremo delle sue forze - il compagno Fabio Giannecchini di Viareggio. Compagno impegnato nel Coordinamento comunista toscano con la sua passione politica, con un’attenzione particolare alla situazione dei giovani disoccupati e precari. Abbiamo ricordato Fabio all’apertura della festa di “Partigiani sempre”, che ogni organizziamo a Viareggio, insieme alla compagna Nicoletta, i figli, i parenti e gli amici. Festa dove lui non si è mai risparmiato e, in effetti, abbiamo sentito la sua mancanza e la sentiremo anche nelle altre nostre iniziative. La partecipazione della compagna Nicoletta e dei figli, ai quali siamo stati e saremo sempre vicini al loro dolore, ce lo farà sentire sempre a nostro fianco.

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lettere

La rubrica delle lettere è un punto fisso di quasi tutti i giornali. Noi chiediamo che in questa rubrica siano presenti le vostre lettere, anche quelle che spedite ai vari quotidiani e riviste che non vengono pubblicate. Il sommerso a volte è molto indicativo

Il comunismo salverà il mondo Certo il primo tentativo di costruzione del comunismo è fallito, ma anche l’uomo prima di riuscire a volare ha fallito più di una volta. Il comunismo è l’unica alternativa alla guerra mondiale atomica. Poi, più che fallito è stato sconfitto dalla guerra fredda e dalle tante piccole guerre calde che il capitalismo-imperialismo gli ha scatenato contro: propaganda, corruzione, sanzioni e blocchi economico-finanziari, sabotaggi e appunto guerre, sono state le potenti armi con cui il capitalismoimperialismo ha sconfitto il primo tentativo di costruzione del comunismo. Comunismo vuol dire porre fine al sistema della concorrenza per passare gradatamente ad un sistema di equa condivisione del lavoro e della ricchezza tra tutti i popoli! Ben si sa che la concorrenza ha anche aspetti positivi sull’economia delle nazioni, ma in ultima analisi è la concorrenza che determina la miseria, la fame e le migrazioni di interi popoli. La concorrenza è la causa delle guerre commerciali, della disoccupazione e dei bassi salari; e sarà anche la causa della terza guerra mondiale atomica che inevitabilmente scoppierà se non si porrà fine a questo sistema arcaico che ormai ha fatto il suo tempo, dopo essere stato indubbiamente fattore di sviluppo economico a lato di grandi crimini e sfruttamento. Il disastro africano e le guerre in Medio Oriente che tutti i giorni vediamo è il prodotto di questo sistema economico, è il prodotto della concorrenza e della pretesa occidentale di esportare la “democrazia” in tutto il mondo! L’Africa, ancora oggi, dopo aver subito per secoli il colonialismo, viene saccheggiata dalle multinazionali occidentali che continuano a devastare quei territori (altro che aiutarli a casa loro!). I leader africani che

BoycottGoogle. La Palestina cancellata! Se si cerca la Palestina su google non si trova, non esiste. Anche le aree della Cisgiordania e della Striscia di Gaza sono considerate Israele. Ma non è una novità. Su Google mala Palestina non è mai esistita, lo si è scoperto ora perché alcuni giornalisti palestinesi in un comunicato scrivono di “falsificazione della storia, della geografia e del diritto dei palestinesi alla propria terra”, ma anche di “un tentativo di manomettere la memoria di palestinesi e arabi, così come quella del mondo”. Ed hanno aperto una petizione contro la scelta del motore di ricerca, sottolineando che questa decisione “è contraria a tutte le norme e le convenzioni internazionali”, mentre su Twitter è stato lanciato l’hashtag #BoycottGoogle. La

Nonostante i fascisti... Non posso non girarvi le foto che ha scattato qualche giorno fa il mio collega a Gori (Stato della Georgia) città natale di Stalin. Racconta anche che la grande statua di Stalin nella piazza centrale di Gori è stata sradicata di notte nel 2010 dai fascisti giorgiani, solo con l’aiuto di un forte dispiegamento della sbirraglia locale, e solo al terzo tentativo. Per due volte gli era stato impedito da una forte mobilitazione popolare. Ricordo che i familiari delle vittime (334 fra cui 186 bambini), assassinati da terroristi provenienti dalla Cecenia, nella scuola di Beslan (Ossezia del Nord) nel settembre 2004, subito dopo la strage, resero omaggio a una delle ultime statue di Giuseppe Stalin rimaste ancora in piedi. Stefano Valsecchi Milano

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potevano riscattare quelle popolazioni sono stati uccisi da noi occidentali a cominciare da Patrice Lumumba. Questo sistema per reggersi implica una crescita infinita dell’economia, ma le risorse della terra non sono infinite, per cui questo sistema è “destinato” a finire. E già si vede che non funziona più. È destinato a finire anche perché la politica dei capitalisti è tutta volta alla riduzione della spesa pubblica, dei salari, del costo del lavoro e di tutti i costi di produzione. I capitalisti sostituiscono il lavoro umano (il lavoro vivo) con il lavoro delle macchine tecnologiche (lavoro morto). Non capiscono – o lo capiscono ma se ne fregano – pensando solo al vantaggio immediato, che così facendo non fanno altro che impoverire un mercato che invece dovrebbe diventare sempre più ricco onde poter vendere tutte le merci prodotte. La riduzione dei prezzi delle merci in conseguenza della riduzione dei salari ecc. non sarà più sufficiente a compensare l’impoverimento relativo (ma anche assoluto) delle masse popolari e quindi l’impoverimento del mercato. All’interno di questo sistema fondato sulla concorrenza ci sarà poi sempre chi vince e chi perde e chi perde non accetterà mai di restare nel suo territorio a morire di fame, sete, malattie e guerre! L’ideologia secondo cui per uscire dalla crisi economica e sociale si debba essere competitivi è appunto falsa e rischia di portare il mondo alla catastrofe: il mondo ha bisogno di condivisione non di competizione! I liberali che ci dicono tutti i giorni che dobbiamo essere competitivi sono signori fuori dal tempo e cattivi maestri! Oratorio Tina Modotti Savona-Genova

petizione lanciata su Change.org, cinque mesi fa, aveva raccolto 25.000 adesioni nel giro di pochi giorni, dopo che il link è tornato a circolare, in pochi giorni la raccolta di firme ha superato le 100.000 adesioni. L’iniziativa di Google, secondo loro, “fa parte del programma di Israele di decretare il proprio nome come quello che rappresenta lo Stato legittimo nelle generazioni a venire ed abolire per sempre quello della Palestina”. Personalmente sono d’accordo per boicottare tutto ciò che riguarda Israele per la sua politica di oppressione nei confronti della popolazione palestinese per cui propongo anche il boicottaggio di google! Giovanna Angeloni

Il fascismo sempre in agguato Non ha trovato molto spazio nelle notizie il brutale assassinio del vice ministro dell’Interno boliviano Rodolfo Illanes, a fine agosto. È stato massacrato dopo essere stato rapito da un gruppo di minatori che chiedevano al governo la modifica di una legge. Illanes era stato mandato per un dialogo con i manifestanti che già si erano scontrati con la polizia. È la dimostrazione che non sempre i lavoratori sono dalla parte giusta, infatti, pare che i minatori, che estraggono argento e stagno nelle miniere nazionalizzate chiedessero l’associazione alle compagnie private - che

Tina Modotti ricordata in Messico Un busto della fotografa, militante comunista italiana e dirigente dell’Internazionale Comunista Tina Modotti è stato scoperto il 19 agosto nella delegazione di Azcapotzalco, a Città del Messico, in occasione del 120° anniversario della sua nascita. “Sei stata un regalo dell’Italia per il mondo, sei morta in Messico molto giovane, eternamente giovane”, ha affermato Pablo Moctezuma, capo

promettono stipendi più alti -. Il presidente Morales ha definito la protesta una “cospirazione politica” organizzata dall’opposizione di centro destra: “Abbiamo informazioni e documenti che provano che è una mossa per far cadere il governo”, ha detto. In effetti i vari poteri non possono accettare neppure la più vaga forma sociale diversa dal capitalismo e, purtoppo, trovano sempre terreno fertile per i loro piani. Francesco Liberato Ancona

della delegazione che ha promosso l’inaugurazione del busto. “Sei nata un 17 agosto e sempre continuerai a vivere perché la tua storia e la tua opera non ti lasceranno morire mai. La tua sensibilità ti avvicinò alle migliori idee di giustizia, democrazia, pace e ti portò a trasformare le tue intenzioni in azione con passione rivoluzionaria”. Tina Modotti morì a Città del Messico il 5 gennaio del 1942. Aldo Calcidese Milano

Un esempio per tutti - 24 agosto Oggi deportazioni h.12:45 da Malpensa, volo Egyptianair per Kartoum, sosta carburante al Cairo. Quaranta sudanesi e un’ottantina di poliziotti. Persone rastrellate ieri a Ventimiglia, portate a Imperia: uno per uno sono passati da avvocati e giudice, che ha convalidato l’espulsione. Si sono così parati le spalle, formulando “legalmente” una deportazione di massa per un paese dove c è la dittatura, guerra e persecuzione. E questo è illegale. Questo è assassinio. La banalità del male è ormai ovunque. Parallelo Palestina

nuova unità Rivista comunista di politica e cultura (nuova serie) Anno XXV n. 5/2016 - Reg, Tribunale di Firenze nr. 4231 del 22/06/1992 Redazione: via R. Giuliani, 160r - 50141 Firenze - tel. 0554252129 e-mail nuovaunita.firenze@tin.it redazione@nuovaunita.info - www.nuovaunità.info Direttore Responsabile: Carla Francone Hanno collaborato a questo numero: Aldo Calcidese, Eraldo Mattarocci, Michele Michelino, Fabrizio Poggi, Daniela Trollio abbonamento annuo Italia euro 26,00 abbonamento annuo sostenitore euro 104,00 abbonamento Europa euro 42,00 abbonamento altri paesi euro 93,00 arretrato euro 5,20 I versamenti vanno effettuati sul c/c postale nr. 001031575507 intestato a: nuova unità - Firenze Stampato interamente su carta riciclata, nessun albero è stato abbattuto per farvi leggere queste pagine Chiuso in redazione: 20/08/16

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