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comma 20/B art. 2 Legge 662/96 filiale di Firenze

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Proletari di tutti i paesi unitevi!

nuova unità fondata nel 1964

Periodico comunista di politica e cultura n. 2/2017 - anno XXVI

Non siamo pacifisti. Siamo avversari della guerra imperialista per la spartizione del bottino fra i capitalisti, ma abbiamo sempre affermato che sarebbe assurdo che il proletariato rivoluzionario ripudiasse le guerre rivoluzionarie che possono essere necessarie nell’interesse del socialismo

V.I. Lenin

Basta con le spese militari

Liberiamoci dal dominio e dall’influenza degli Usa e dalle nuove guerre che la NATO prepara Più si aggrava la situazione economica in Italia - come negli altri paesi - più si acutizza la “guerra tra poveri” sulla quale soffiano le organizzazioni fasciste nelle variegate firme e la Lega nord, nel tentativo di affermare una mobilitazione reazionaria che si traduca poi nel raggiungimento del desiderato successo elettorale. Nella opinione pubblica sale la protesta contro la solidarietà e l’ospitalità nei confronti degli stranieri fuggiti dalle numerose guerre del mondo e dalla conseguente miseria. Guerre imperialiste volute da forze guerrafondaie che non esitano a distruggere intere popolazioni e paesi ricchi di storia secolare per le proprie mire di conquista delle risorse locali e come soluzione della crisi. Ma non si sente - almeno come sarebbe necessario - attaccare i governanti per come e dove indirizzano, anzi sprecano, le risorse economiche peraltro rapinate dalle tasse. Non si sentono proteste contro i lauti compensi dei membri del parlamento sia italiano che europeo, che dai loro scranni non operano certo nell’interesse dei lavoratori e della popolazione. Se il debito pubblico è in continuo aumento non è certo a causa del welfare. I governanti a tutti i livelli hanno il coraggio di giustificare i tagli ai servizi e alla sanità, la mancanza di case popolari e perfino l’impossibilità di riasfaltare le buche delle strade, non solo quelle di Roma, con la mancanza di fondi. Meno che mai le proteste sono indirizzate contro il riarmo che arricchisce i potenti gruppi dell’industria militare che hanno tutto l’interesse a fomentare nuove guerre, né per l’appartenenza all’alleanza atlantica. Eppure l’Italia spende per la Nato circa 70 milioni di euro al giorno, 63 sono i milioni al giorno per la difesa (da chi?) e per il continuo riarmo. L’ultimo recente acquisto di circa un miliardo di dollari dell’Italia è stato fatto con Israele per comandi volanti, dotati dell’elettronica più avanzata e per missioni di attacco a lungo raggio. Altri 20 miliardi si aggiungono per le cosiddette missioni di pace per le quali a dicembre il consiglio dei Ministri ha emanato una legge che scavalchi l’art. 11 della Costituzione e legittimi la partecipazione dei militari italiani a operazioni e guerre in altri paesi. Se si aggiungono i miliardi che servono per coprire parlamentari (in forza e in pensione) e ministri, i milioni di compensi ai manager statali corrotti e speculatori (anche coloro che portano le aziende al fallimento), quelli che si versano a quel carrozzone dell’UE di cui abbiamo assistito - in occasione del 60 anniversario ad una retorica unità (svanita nel giro di due giorni sull’accoglienza) che corrisponde solo a programmi di impoverimento delle masse popolari e di guerra - abbiamo una vaga idea di quanto si sottrae ai bisogni dei lavoratori e di ciò che si potrebbe fare in materia di servizi, sanità, ambiente (più che mai inquinato dalle esercitazioni militari), messa in sicurezza delle scuole, ricostruzione delle zone terremotate, ristrutturazioni con conseguente aumento dell’occupazione? Il peso economico non sono dunque gli immigrati - peraltro

sfruttati e schiavizzati da padroni, caporali, cooperative nelle campagne, perfino nel “ricco” Chianti toscano - il problema è che siamo governati dalla borghesia con un sistema capitalista e la crisi non sarebbe risolvibile neppure in assenza di stranieri. La nuova amministrazione Trump rafforza la NATO lo assicura il nuovo ministro della difesa Jim Mattis sostenendo che “l’alleanza militare che nella storia ha avuto il maggior successo...” e che “resta la base fondamentale per gli Stati Uniti”. E impone all’Italia l’aumento ad almeno il 2% del Pil da destinare alla Nato (che porterà ad una spesa di 100 milioni al giorno), a questo strumento di morte che alimenta e sostiene le guerre nelle varie zone del mondo, appunto. Ma il riarmo, la Nato, le guerre né tantomeno il sistema capitalista sono messe in discussione da nessuna forza parlamentare, comprese quelle che soffiano sul fuoco del “prima gli italiani”. E la ministra Pinotti che non perde alcuna occasione per esibire il suo ruolo - l’abbiamo vista e sentita crogiolarsi nella difesa dei militari in missione all’estero al festival di Sanremo - approva tutte le richieste imperialiste e già prevede un primo stanziamento per costruire un’unica struttura per i vertici di tutte le forze armate. E mette in pratica il disegno di legge sulla realizzazione del “Libro bianco per la sicurezza internazionale e la difesa” scavalcando il Parlamento (una questione formale vista la composizione), un disegno che prevede nuovi armamenti e... nuove spese. Un nuovo hub come forza di risposta entro 48 ore verso il Nordafrica e il Medioriente sarà organizzato a Napoli sotto il comando dell’ammiraglia statunitense Michelle Howard (a conferma che non tutte le donne sono uguali!), che è anche a capo del Comando Nato e comandante delle forze navali Usa per l’Europa e di quelle per l’Africa, il tutto ovviamente sotto il comando del Pentagono. L’hub per il sud è un’offerta di lavoro per i professionisti della guerra, sarebbe questo un sicuro sbocco occupazionale per i giovani? La NATO, infatti, ha in programma il dispiegamento di nuove forze, un rafforzamento deciso dai Ministri della Difesa dei paesi che vi fanno parte per - come sostiene Stoltelberg - “prevenire le cri-

si” ovvero poter effettuare interventi militari preventivi sul fronte orientale: Estonia, Lituania, Lettonia, Polonia ma soprattutto Ucraina. Il governo di Kiev - che continua a bombardare i russi e ad assassinare i capi della resistenza attraverso attentati ha annunciato un referendum per l’adesione dell’Ukraina alla NATO. Annuncio appoggiato dal premier greco Tsipras, colui che ha illuso la “sinistra” tanto che in Italia si sono pure costituite liste elettorali col suo nome, che, durante una visita a Kiev in febbraio, ha espresso il “fermo appoggio della Grecia alla sovranità, integrità territoriale e indipendenza dell’Ucraina”, ha assicurato la stretta collaborazione per il “conseguimento della pace nella regione”, confermando la sua linea borghese e opportunista, di sostegno agli obiettivi del capitale mascherata con parole d’ordine socialiste. Rientra nella strategia del capitale e dell’imperialismo l’aumento dell’aggressività militare sul piano internazionale e della repressione sul piano interno. Terrorismo e “decoro” sono l’alibi per giustificare misure liberticide (significativo è il decreto Minniti) e di offensiva antipopolare, terreno fertile su cui si innesta la cultura fascista e nazista. Più aumenta la crisi più la borghesia - che è ben cosciente della pericolosità della lotta di classe - contrasta con ogni mezzo l’ideologia comunista in un sempre maggiore numero di paesi. Come continuiamo ad affermare il capitalismo ha dimostrato il suo fallimento ma la classe lavoratrice - tra la ricerca di soluzioni parziali, spesso individuali, e la rinuncia alla lotta, non ha ancora preso coscienza che è possibile cambiare l’attuale sistema e che quello socialista è veramente un altro mondo!

Gli operai Innse Milano contro i licenziamenti di 4 lavoratori. I motivi del conflitto raccontati a “nuova unità” pagina 2 Turchia: il Sultano, l’Europa e la guerra pagina 3 25 Aprile Impediamo la mistificazione della Resistenza Democrazia, il potere del popolo pagina 4 1° Maggio La lotta contro l’abolizione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo continua pagina 5

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lavoro

Gli operai Innse Milano contro i licenziamenti di 4 lavoratori

Il 23 marzo al presidio dei lavoratori licenziati e solidali, davanti ai cancelli Dario Comotti racconta a “nuova unità” i motivi del conflitto Michele Michelino

La storia L’INNSE, nata dall’officina Innocenti Santeustacchio, è stata il simbolo dell’industria metalmeccanica all’interno della zona di Lambrate, nell’area ex Maserati. Nel 2002 la messa in liquidazione e la successiva vendita, quattro anni più tardi al gruppo Genta, che nel 2008 dichiara la chiusura. Ma gli operai decidono di occuparla, dandosi i turni e continuando a lavorare, e lo scontro dura più di un anno. La lotta operaia riconquista le prime pagine dei giornali, grazie a 49 lavoratori che per oltre un anno occupano l’INNSE Presse di Milano, “per salvarla dal fallimento”. Il 5 agosto 2009 quattro operai e un funzionario sindacale della Fiom si barricano per più di una settimana su una gru all’interno della fabbrica scendendo solo dopo l’accordo che salvaguardia tutti i posti di lavoro. Una cordata guidata dalla Camozzi di Brescia ha acquistato l’azienda milanese. Il resto è storia di oggi che racconta nella intervista che abbiamo raccolto da uno degli operai licenziati. Dario, tu sei uno degli operai licenziati, vuoi spiegare ai lettori di nuova unità perché vi hanno licenziato? iamo in lotta da ormai 14 giorni. C’è stato uno sciopero che è durato 8 ore al giorno per 11 giorni di tutti gli operai contro l’azienda che ha licenziato 4 lavoratori (3 operai e una impiegata). L’azienda ci ha licenziato con delle motivazioni che sono a dir poco scandalose: hanno dichiarato che i nostri posti venivano meno. Ad esempio il posto di elettricista veniva a mancare e scrivono addirittura nella lettera di licenziamento che il posto sarà affidato a un’impresa esterna di elettricisti, mentre gli altri tre posti, quello dell’impiegata viene fatto a Brescia e gli altri 2 posti che erano quelli di controllo della qualità, l’azienda intende farli fare direttamente dagli operai. Questa è la motivazione con cui ci ha licenziato. In realtà noi siamo in mobilitazione da gennaio del 2016, cioè da quando l’azienda ha presentato un piano che chiamarlo industriale è una parola grossa, perché è un piano che fa veramente acqua da tutte le parti e non corrisponde nella sostanza a quello che, con la nostra lotta del 2009, gli ha fatto avere la fabbrica. Nel 2009 loro hanno preso dal comune di Milano, con uno scambio d’area d’uso, la fabbrica al prezzo di 1 euro. Avevano detto e dichiarato ai quattro venti che qui ci sarebbe stato un incremento dell’occupazione ar-

conto di quello che sta succedendo nel sindacato. Anche alcune realtà del sindacato di base, l’USB di Melfi e l’USB di Mirafiori hanno fatto un comunicato a nostro favore. Hai parlato di spese per gli avvocati, questo cosa significa che oltre alle spese legali per il licenziamento, la repressione si manifesta non solo contro i 4 licenziati ma anche verso gli operai che lottano? Esattamente. La repressione si manifesta in questo modo. Durante il periodo di Cassa Integrazione durato un anno da marzo 2016 a marzo 2017 abbiamo avuto qualcosa come 38 provvedimenti disciplinari, lettere di sospensione da tre giorni, un giorno, lettere di multa. Quindi è un sistema che il padrone ha adottato, è una cosa veramente impressionante, perché su 27 persone comminare 38 lettere di provvedimenti disciplinari dà la misura che il sistema repressivo del padrone sta funzionando alla grande. Adesso come pensate di continuare a resistere e andare aventi nella lotta?

rivando a 150 operai, per cui era una fabbrica che interessava realmente e che per farla funzionare a dovere avevano necessità di incrementare l’occupazione. Ora, a distanza di 7 anni, siamo ridotti della metà. Da 50 che eravamo, ci siamo ridotti a quasi la metà, 27/28 persone. Come sta andando avanti la lotta? I lavoratori sono decisi ad andare fino in fondo. Dopo 11 giorni di sciopero continuo i lavoratori non potevano sobbarcarsi ancora un altro periodo di sciopero, perché oltretutto il padrone non sta portando produzione. È da un anno esatto che all’INNSE non si batte un chiodo, non c’è praticamente produzione e questo, di fatto, favorisce il padrone. Quindi continuare con questo strumento di lotta vuol dire solo danneggiare gli operai e basta. Per questo abbiamo deciso il rientro in fabbrica degli operai. Fuori il picchetto continua con i 4 licenziati, i compagni e i lavoratori di altre realtà solidali che ogni giorno si presentano al cancello della fabbrica. Inoltre a mezzogiorno nell’ora di mensa da tutti gli operai dell’INNSE escono dalla fabbrica aggiungendosi al pic-

chetto durante la pausa pranzo. Voi siete tutti iscritti alla FIOM; come si è comportato il sindacato rispetto alla vertenza in atto? Sostiene la lotta? In che modo? La FIOM, cui siamo tutti iscritti, fino a metà luglio del 2016 sosteneva la nostra lotta, tant’è che fece un comunicato sindacale in cui diceva che la Cassa Integrazione era illegittima. Da luglio in avanti è intervenuta, probabilmente in accordo con la segreteria milanese della CGIL, la segreteria nazionale della CGIL nella persona del sig. Landini (segretario generale FIOM), che ha sottoscritto un accordo su cui non siamo stati d’accordo e che abbiamo respinto con un referendum. Da lì c’è stata una rottura verticale. La FIOM qui non si è mai vista. Nessuno della FIOM è mai venuto davanti ai cancelli in questo periodo. Oltre alla resistenza operaia e alla solidarietà portata da compagni singoli, quali organizzazioni sindacali, anche di base, vi hanno portato finora la solidarietà? al punto di vista della solidarietà al presi-

dio vengono diversi compagni. I sindacati di base legati alla USB, alcuni militanti sindacali USB, e sono venuti alcuni militanti del SOLCOBAS, il nuovo sindacato che si staccato dal SICOBAS. Il SOLCOBAS ha dimostrato una concreta solidarietà anche dal punto di vista economica, del finanziamento. Noi abbiamo aperto una Cassa di Resistenza per pagare gli avvocati, per mantenere il presidio, per pagare tutte le spese necessarie alla nostra lotta. Quelli che hanno dato realmente solidarietà alla nostra lotta sono stati i 90 delegati di varie fabbriche d’Italia legati alla minoranza sindacale della CGIL, il “sindacato è un’altra cosa”. Il comunicato di solidarietà con la nostra lotta del “sindacato è un’altra cosa” è stato firmato da delegati di molte fabbriche anche importanti, ad esempio la SAME di Treviglio, la Piaggio di Pontedera e la Ferrari di Modena, che non sono fabbrichette di secondo ordine. Questa è stata una bella iniziativa che noi abbiamo apprezzato e propagandato e che hanno propagandato anche loro. Sostanzialmente non credo che Landini e la segreteria nazionale della FIOM possa far finta di nulla rispetto a quanto successo. Se lo fanno, vuol dire che non tengono

Il compagno Piergiorgio Tiboni ci ha lasciato Abbiamo appreso con dolore della morte di Piergiorgio Tiboni ed esprimiamo il nostro cordoglio alla famiglia e alla Confederazione Unitaria di Base. Abbiamo conosciuto Piergiorgio Tiboni negli anni ‘70/80 quando, sindacalista della FIM-CISL, interveniva nelle fabbriche di Sesto San Giovanni, Breda, Falck, Marelli e poi, dopo l’espulsione dalla FIM, fondava la FLMU e la CUB. Con lui abbiamo condiviso momenti di lotta e anche di scontro. Il nostro rapporto in quegli anni è stato spesso conflittuale, vedendoci schierati anche su fronti contrapposti. Il nostro gruppo di operai, iscritti allora alla FLM-Federazione Lavoratori Metalmeccanici (il sindacato unitario dei tre sindacati) - subì anche espulsioni dal sindacato “unitario” per le pratiche di lotta e le posizioni politiche sindacali che prese nei Consigli di Fabbrica contro la FIOM (CGIL) FIM (CISL) e la UILM (UIl)

Ma il rapporto con Piergiorgio Tiboni, sostenitore di un sindacato di base e conflittuale, è sempre stato improntato alla massima correttezza. Quando egli fondò la FLMU, e poi la CUB, ci siamo spesso trovati insieme nelle lotte in fabbrica e nelle piazze. Con Piergiorgio Tiboni se ne va una parte importante del sindacalismo conflittuale che ha fatto la storia del movimento sindacale italiano. Centro di Iniziativa Proletaria “G. Tagarelli” Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio via Magenta, 88 Sesto San Giovanni 21 marzo

Dal nostro punto di vista la lotta è solo sulle nostre spalle. Noi abbiamo chiesto l’intervento del Comune, della Prefettura, di tutti quelli che hanno sottoscritto nel 2009 quell’accordo che, in sostanza, regalava all’azienda 30.000 metri quadri. Ora il comune di Milano ha in mano una carta micidiale che è quella del fatto che l’accordo non è stato rispettato per nulla. In più c’è una richiesta dell’azienda, che il Comune non ha ancora concesso, di 9000 metri quadrati attorno al capannone per l’accesso dei camion. Questa è una leva che si potrebbe usare dal punto di vista del Comune per tentare di ricostruire un accordo che superi quello vecchio e che sostanzialmente faccia, non un piano industriale, perché noi non crediamo nei piani industriali, però che faccia andare avanti la produzione industriale. Da quello che dici, quindi, la vostra resistenza continua sia sul piano sindacale con gli scioperi, sia in tribunale cercando di allargare il fronte della solidarietà. E questo quello che state facendo? Sì è proprio questo. All’interno della fabbrica gli operai sono sempre sul piede di guerra perché il fronte non è solo davanti alla portineria col presidio, è anche interno. Appena il padrone applica un sistema di lavoro che non è normale, gli operai sono disposti tranquillamente a scioperare. Inoltre noi licenziati insieme ai solidali andiamo avanti con il presidio davanti ai cancelli della fabbrica, presidio che gli dà realmente fastidio, cercando di allargare la solidarietà.

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primo piano

Il Sultano, l’Europa e la guerra

L’imbarbarimento del capitalismo non guarda in faccia a nessuno e la guerra è già nel cuore del nostro continente Daniela Trollio (*) “L’Europa sta commettendo crimini di guerra” contro la Turchia, Germania e Olanda hanno “attitudini fasciste”, “proprie dei nazisti”. Si potrebbe, con parecchi distinguo, essere d’accordo, non fosse che questi giudizi vengono da Recep Erdogan, il presidente turco dichiaratamente ammiratore di Hitler, e dai suoi ministri, non proprio brillanti campioni di democrazia e di libertà. Cosa sta succedendo a quello che è stato lo strumento principe della guerra di aggressione alla Siria, con il sostegno ormai riconosciuto persino dai nord-americani dato dal governo turco all’IS, con i suoi campi di addestramento per i terroristi che entravano comodamente in Siria attraverso la lunga frontiera che i due Stati condividono (frontiera oggi ermeticamente chiusa per i profughi, grazie all’accordo Unione Europea-Turchia sui rifugiati)? Facciamo un passo indietro. Nel giugno 2015, alle elezioni generali, il Partito Democratico dei Popoli (HDP), che riunisce il movimento kurdo di liberazione e settori della sinistra turca e delle minoranze etniche del paese, guadagna inaspettatamente ben 80 seggi in parlamento, una vittoria definita “storica” dai kurdi. Erdogan non accetta la sconfitta e indice un referendum, da tenersi nell’aprile di quest’anno, con cui chiede gli vengano ampliati i poteri presidenziali. Chiede quindi a Germania, Austria e Olanda, paesi con una forte immigrazione turca, di poter tenere comizi elettorali sul loro territorio. L’Olanda – che accoglie circa 400.000 turchi - rifiuta in toto, impedendo addirittura l’atterraggio dell’aereo del ministro turco degli esteri e arrestando e rimandando in Turchia, via Germania, la ministra turca della Famiglia. La Germania – che ospita ben 4 milioni di persone di origine turca e kurda - decide di permettere tali comizi, ma a macchia di leopardo, in una città sì e in altre no. Ma, sentendosi definire “nazi”, Berlino ha permesso una cosa inaudita per i turchi: una manifestazione di 30.000 kurdi a Francoforte con alla testa le immagini di Abdullah Ocalan. Questo è l’antefatto.

La guerra in Siria La Turchia di Erdogan è stata, dicevamo, la più importante retrovia per USA, UE e monarchie del Golfo nella guerra contro la Siria che avrebbe dovuto spazzare via il governo legittimo di Assad e permettere al paese ‘ottomano’ di recuperare un ruolo strategico nella regione. Dal suo territorio sono entrati in Siria migliaia di “combattenti” e mercenari, dall’Esercito Libero Siriano al Fronte al-Nusra, allo Stato islamico. Il paese ha fornito ospedali, campi di addestramento, centrali di comunicazione e intelligence a sostegno di tutta questa feccia, che pagava i suoi debiti con il petrolio che il Califfo Ibrahim pompava dai territori occupati in Siria e Iraq. L’intervento in Siria ha permesso al Sultano Erdogan di operare, en passant, contro i suoi storici nemici, i kurdi (quelli siriani, stavolta). Ma la guerra in Siria non è andata come Erdogan sperava, la Siria non è la Libia e resiste e contrattacca. L’Unione Europea in quanto formazione politica – sempre più pericolosamente incoerente quando cerca di attuare una politica “propria”– non ha pagato i suoi debiti: niente ingresso della Turchia nella UE; neanche gli USA l’hanno fatto: niente consegna del più importante nemico di Erdogan, il multimilionario religioso sufi Fethullah Gulen, esiliato negli Stati Uniti dal 1999. E così assistiamo, nella più perfetta applicazione della realpolitik, al rovesciamento degli equilibri. Oggi Erdogan si è avvicinato a Mosca, a Teheran ed ha persino dichiarato che farà tutto il possibile per collaborare con Assad. Il nuovo socio è

stato accolto senza domande. Questo faccia riflettere le anime belle che considerano Putin, il quale ha interessi economici e geopolitici piuttosto importanti nella regione, quasi un anti-imperialista. Il popolo turco ha già pagato questa giravolta con circa 10 attentati terroristici che hanno fatto più di 500 morti.

E la NATO dove sta? La Turchia è un paese che, oltre ad essere membro della NATO, ha la seconda forza armata più numerosa dell’organizzazione atlantica, 411.000 effettivi. Oltre a varie basi militari USA, sul suo territorio ospita l’enorme base nordamericana di Incirlik, luogo fondamentale per le politiche militari nord-americane nella regione, sia rispetto al Medio Oriente che alla Russia. L’esercito turco ha storicamente strettissimi legami con i militari USA in tutti i campi. Eppure, nel luglio del 2016, un gruppo di alti ufficiali tenta un colpo di Stato, fer-

mato in meno di 48 ore. Arresti, uccisioni, incarcerazioni, stato di emergenza, purghe. Auto-golpe di Erdogan o rivolta di parte dell’esercito? La domanda vera è se la NATO ci ha messo lo zampino per dare un avvertimento a Erdogan, rimasto con il cerino in mano dopo che l’amministrazione Obama, costretta dalla resistenza siriana, aveva deciso di non rischiare l’intervento di terra con le proprie truppe visto che i mercenari avevano fallito.

Il mercato del bestiame A complicare le cose, nella primavera del 2016, la UE sottoscriveva l’accordo sui rifugiati, a seguito della crisi in Grecia, con un finanziamento per iniziali 3 miliardi di euro, che poteva arrivare ai 6,4, mettendo in pratica la più grande deportazione di massa dalla 2° guerra mondiale. Sei mesi dopo che la fotografia del piccolo Aylan annegato sulla spiaggia di Bodrum aveva fatto il giro del mondo causando fiumi di lacrime - di coccodrillo - l’accordo della

vergogna veniva candidamente firmato. Il succo dell’accordo (che non è materia di questo articolo) è l’esternalizzazione delle politiche di rifiuto e di repressione dei rifugiati, subappaltando il lavoro sporco a Erdogan. Un corollario dell’accordo, poco pubblicizzato, è la definizione della Turchia come “paese sicuro”, cioè che risponde ai criteri di protezione legati al diritto di asilo. Naturalmente nessuno verifica cosa succede nei campi di concentramento sotto controllo militare, perché di questo si tratta, ma l’Europa ha la memoria corta. Persino l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) rifiuta di essere implicata in quello che definisce “un incarceramento dei rifugiati”. Nel bel mezzo di una campagna mediatica senza precedenti sui pericoli di una “invasione” senza controllo, cifre alla mano, l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Filippo Grandi, usa questa immagine per ristabilire la realtà: “Se l’Europa dovesse accogliere la stessa percentuale di rifugiati che accoglie il Libano in relazione alla sua popola-

zione, dovrebbe alloggiare 100 milioni di rifugiati”. Ma l’accordo, lungi dal risolvere alcunché, in questi giorni si è trasformato in un boomerang per la UE. Dopo l’inasprimento delle relazioni con Olanda e Germania, il ministro turco dell’Interno, Süleyman Soylu, ha dichiarato molto chiaramente e molto concretamente: “Se volessimo, ogni mese potremmo aprire la strada a 15.000 rifugiati e voi perdereste la testa”. Abbiamo cercato di ricordare alcuni elementi che ci permettano di capire quello che sembra un balletto di ubriachi: il Sultano Erdogan che insegue il sogno di un nuovo Impero Ottomano, l’Europa “minacciata” di invasione dai rifugiati, nuovi pericoli di guerra per l’aspro scontro in atto... Sappiamo, in realtà, dove andranno a parare queste interpretazioni: abbiamo bisogno di maggiore sicurezza!! E qui le cose si fanno più chiare. L’industria europea della “sicurezza” è dominata dalle grandi società produttrici di armi, come le francesi Airbus, Thales &Safran, la spagnola Indra e... sorpresa sorpresa... l’italiana Finmeccanica. Tutte vendono armi a paesi del Medio Oriente e del Nord d’Africa per un totale, nel 2015, di 95.000 milioni di euro. I governi europei ne hanno beneficiato due volte: prima concedendo loro le licenze per la vendita diretta di armi, e poi concedendo loro i contratti per la sicurezza di frontiera per far fronte alle conseguenze. Lo scontro – annunciato – con la Turchia è parte di quel gioco mortale in cui i cittadini europei - primi fra tutti i proletari, alle prese ogni giorno con il taglio dei salari, dei diritti, con l’azzeramento delle conquiste degli ultimi 50 anni - sono le vittime, finora inconsapevoli, di politiche che sui cadaveri di molti, moltissimi, fanno la fortuna di pochi capitalisti. L’imbarbarimento del capitalismo non guarda in faccia a nessuno, la guerra non riguarda più le periferie, è già nel cuore del nostro continente. Non è ora di dire e, soprattutto, di fare qualcosa? (Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli” via Magenta, 88 Sesto S.Giovanni)

Giustizia per le vittime dell’amianto e dello sfruttamento

IN RICORDO DI TUTTI I LAVORATORI E I CITTADINI ASSASSINATI IN NOME DEL PROFITTO Sabato 29 aprile 2017 – ore 16.30 corteo

partenza dal Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli” di Via Magenta 88, Sesto San Giovanni fino alla lapide di via Carducci L’amianto, uno dei tanti strumenti dello sfruttamento capitalistico: un assassino silenzioso che ha ucciso ieri, uccide oggi e continuerà a farlo anche domani. Solo la bonifica dei luoghi di lavoro, di vita e del territorio può arrestare la strage che colpisce ogni anno migliaia di lavoratori e di cittadini (in Italia e nel mondo) fra l’indifferenza dei governi e delle istituzioni. Gli assassini: padroni e managers che, pur di fare profitti, con la complicità di tutte le istituzioni, non hanno esitato a produrre ed utilizzare questo cancerogeno di cui conoscevano gli effetti fin dall’inizio del 20° secolo. Le vittime: decine di migliaia di operai, lavoratori e cittadini, che muoiono senza fare notizia. La prescrizione e i tempi lunghi dei processi proteggono gli assassini dandogli l’impunità. Una ‘giustizia’ di classe condanna inoltre le vittime e le loro associazioni a pagare le spese processuali, com’è successo nei processi contro la Franco Tosi di Legnano e l’Enel di Turbigo. I poteri economici e politici mandano un segnale chiaro: questi processi non si devono più fare, l’unico diritto riconosciuto è quello del profitto. Ma noi non ci arrendiamo. Dopo il corteo, la manifestazione terminerà alle ore 17,30 con un’assemblea aperta presso il Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli” di Via Magenta 88, Sesto San Giovanni web: http://comitatodifesasalutessg.jimdo.com

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25 Aprile

Impediamo la mistificazione della Resistenza

Si potrà parlare di vera liberazione quando ci sarà la chiarezza di voler schiacciare la testa del capitalismo attraverso il potere politico della classe operaia organizzata

Democrazia, il potere del popolo

Settantadue anni fa l’alba della democrazia dopo il ventennio fascista e la guerra imperialista. Fu rivoluzione? No, fu democrazia borghese. Oggi il tramonto di quella democrazia prepara controrivoluzione e nuovo fascismo

Emiliano

Luciano Orio

A 72 anni dal 25 Aprile 1945 sono sempre attuali le ragioni che portarono i partigiani a prendere le armi. Con la grande vittoria dell’Armata Rossa a Stalingrado e, nel nostro paese con gli scioperi delle fabbriche del nord nel ‘43, iniziò il processo di disgregazione del campo nazista e fascista e la lotta armata partigiana dilagò in tutto il paese, sotto la spinta e la direzione politica dei comunisti. Durante la Resistenza gran parte delle formazioni partigiane affrontavano fascisti e nazisti armi in pugno non solo per farla finita con la dittatura, ma per un mondo libero da ingiustizia, sfruttamento e guerra, una battaglia, quindi contro i padroni non meno che contro i loro tirapiedi fascisti. Oggi affrontiamo gli stessi nemici. I padroni che approfittano della crisi per sfruttare sempre di più la classe lavoratrice, la minacciano, ricattano, licenziano se lotta per i propri diritti. I vari governi che si succedono interpretano le esigenze del capitalismo: attaccano le condizioni di vita e di lavoro di operai, pensionati, disoccupati, studenti con controriforme come il Jobs act o la “buona scuola”, con il piano casa, i tagli alla sanità, le grandi e inutili opere, con un mercato del lavoro senza più regole e per prevenire reazioni di massa colpiscono con denunce, sanzioni economiche, arresti, processi nel tentativo di instaurare un clima di paura. I fascisti - che mai sono scomparsi dal panorama politico di questo paese e dal 1945 hanno continuato a occupare posti chiave nello Stato: dalla magistratura, alla polizia, dall’esercito ai servizi segreti coprendo attentati e omicidi - rialzano la testa con una politica strumentale basata su “prima gli italiani” e continuano con le aggressioni squadriste contro lavoratori in lotta, immigrati, antifascisti e comunisti. Il loro compito è fomentare l’odio contro l’immigrato con parole d’ordine populiste e razziste, scatenando così una guerra tra poveri e dividere la classe lavoratrice e le masse popolari, infatti non spendono una parola contro chi sfrutta o delocalizza all’estero (per meglio sfruttare un’altra classe operaia e aumentare i profitti), contro le aggressioni militari e il saccheggio delle risorse che spingono migliaia di proletari ad emigrare. I fascisti alzano il tiro anche perché si sentono legittimati da decenni di propaganda revisionista e dalla sistematica diffamazione della Resistenza alimentata da tutti i partiti istituzionali. In particolare Casapound cerca oggi una piena agibilità istituzionale attraverso l’alleanza anche sul piano elettorale con la Lega di Salvini. Non si può negare il diritto di parola a chi si presenta alle elezioni, dicono istituzioni e giornalisti, e così la “libertà di espressione” dovrebbe diventare, secondo questi soggetti, lo scudo per far circolare liberamente nei quartieri popolari la propaganda fascista di Lega, Forza Nuova, Casapound, Casaggì ecc. e coprire le loro azioni squadriste. Secondo le istituzioni chi si oppone ai razzisti si pone contro la legalità e questo non può meravigliarci perché la legge è sempre e soltanto uno strumento nelle mani delle classi dominanti. L’unico antifascismo che conosciamo, e l’unico che realmente produce risultati, è quello quotidiano, vissuto nei quartieri, che non conosce deleghe. Un antifascismo che non ha nulla a che spartire con chi trasforma il giorno della Liberazione in un rituale con vuoti discorsi dei politicanti di turno dove c’è posto per i rappresentanti della chiesa e le bandiere sioniste responsabili dei massacri di Gaza; né con chi, dal governo e dall’opposizione, promuove e sostiene le aggressioni militari in Siria, Libia, come già in Jugoslavia, e appoggia i gruppi nazisti in Ucraina. Per noi il 25 Aprile è una giornata di mobilitazione anticapitalista, e il modo migliore per rendere omaggio alla Resistenza è quello di restituire a quell’esperienza i suoi reali contenuti e i suoi profondi insegnamenti: il carattere di classe di quella lotta, la forza sprigionata dall’azione collettiva di tante donne e di tanti uomini espressione del popolo e delle masse lavoratrici e del ruolo esercitato dai comunisti. Il 25 Aprile non è una data da rimuovere, da dimenticare e far dimenticare, una pagina della nostra storia da girare una volta per tutte attraverso campagne revisioniste e mistificatrici contro l’antifascismo militante e il comunismo. È un ulteriore momento di riflessione per ripercorrere i grandi ideali che alimentarono l’esperienza della Resistenza per restituire fiducia sulla possibilità di realizzare la società socialista abbattendo quella capitalista priva di umanità, proiettata solo a generare oppressione, disuguaglianza, povertà, distruzione ambientale, guerra. Come i partigiani e le partigiane ritenevano possibile e necessario nei drammatici giorni del ‘43/45 quando pensavano di poter fare in Italia ciò che nel 1917 era stato fatto in Russia: la Rivoluzione proletaria. Riflettere per costruire il percorso in modo organizzato. All’attacco profondo al mondo del lavoro e al futuro delle prossime generazioni, il movimento operaio e popolare può rispondere con una ripresa della lotta, con la solidarietà di classe e l’organizzazione nei luoghi di lavoro e di studio, ma anche e soprattutto, con la chiarezza della prospettiva generale di trasformazione dei rapporti di produzione nella società, cioè di voler schiacciare la testa del capitalismo attraverso il potere politico della classe operaia organizzata. Solo così si potrà parlare di vera liberazione.

Democrazia, il potere del popolo. Com’è diverso in questa parola il significato letterale, cioè la contrapposizione del popolo al potere di una sola persona (monarchia) o di un piccolo gruppo (oligarchia), da quello generico che indica una forma di governo. Con questo nome sono stati indicati nella storia forme e modi diversi di attuazione di governi del popolo o che come tali si sono qualificati. L’autenticità letterale di questa parola si scontra con l’uso che di essa ne ha fatto lo Stato, qualunque esso fosse: schiavistico, feudale, borghese, socialista. Questo significa che la democrazia pura, aclassista non esiste e non è mai esistita. Anzi, rappresentando una forma di potere statale, altro non è che un sistema di dominio di una classe su tutte le altre. Il concetto di democrazia ha subito continue evoluzioni: la storia conosce democrazie schiaviste, nelle quali il potere apparteneva al popolo, composto esclusivamente da proprietari di schiavi, ed escludeva la maggior parte della popolazione, cioè gli schiavi stessi. Nelle democrazie borghesi, a parole tutti i cittadini hanno gli stessi diritti, ma nella pratica questi diritti si riducono a quello di poter morire di fame; mentre la libertà è, per la maggior parte della popolazione, la libertà di vendere la propria forza lavoro al miglior offerente. Il suffragio universale, così come il riconoscimento della libertà di opinione, di parola, di stampa, di organizzazione non hanno un significato neutro, aclassista, ma realizzano il concetto borghese di democrazia. Di fronte alla materialità delle diverse condizioni economiche, per esempio, tra un industriale ed un suo operaio, tutti questi principi democratici non rappresentano altro che una assurda uguaglianza formale, che non intacca il dominio incontrastato del primo, il capitalista, che ha tutte le possibilità economiche, sul secondo, l’operaio, che non ne ha. “Nel più democratico Stato borghese le masse oppresse urtano ad ogni passo contro la più stridente opposizione tra l’uguaglianza formale, proclamata dalla democrazia dei capitalisti e le infinite restrizioni e complicazioni che fanno dei proletari degli schiavi salariati”. Per Lenin, nelle democrazie borghesi non è il Parlamento a decidere delle questioni più importanti, ma sono invece la borsa e le banche. Quindi lasciamo la forma e badiamo alla sostanza: la famosa uguaglianza sancita dalle costituzioni borghesi non è mai esistita, né poteva esistere finché esistono le classi sociali, gli sfruttatori e gli sfruttati. Tuttavia, diversamente dai regimi terroristici di tipo fascista o di stampo religioso-feudale, la democrazia politica borghese ha permesso alle classi lavoratrici di organizzarsi, di maturare politicamente e di prendere coscienza della propria forza. Noi pro-

letari, quindi, pur non considerando la democrazia borghese quale scopo finale della nostra lotta, cerchiamo di difenderla là dove ci può servire (vedi il risultato del referendum sulla Costituzione di dicembre). Circa settant’anni fa, dopo una guerra di Liberazione popolare, venne finalmente sconfitta l’odiosa oppressione fascista. Fu un evento che modificò la storia del nostro paese, ma fino a che punto? Fu rivoluzione? No, fu Costituzione, l’espressione del dominio di classe della borghesia sulla classe oppressa. Venne formata e modificata per agire, con le sue norme, sull’ordinamento statale preesistente e come ogni costituzione rispecchiò la struttura economica del paese (capitalista), all’interno di contraddizioni che nascevano dai rapporti di forza tra le classi sociali. La Costituzione che nasceva dalla lotta armata alla tirannia fascista fu soggetta ai rapporti di forza tra borghesia e proletariato: si rese evidente fin da subito che le classi proletarie e popolari avevano, in questo rapporto, un peso notevolissimo, derivato dalla lotta di Liberazione. Per questi motivi la Costituzione ci offre significativi aspetti formali, che si rispecchiano in alcuni articoli, che rimangono però sulla carta, per venire nella pratica disattesi ogni qualvolta le necessità dei padroni e del loro stato lo richiedono. La Costituzione “fotografa” lo stato della democrazia, cioè del rapporto tra le classi, in determinati periodi storici. Nella crisi economica, sociale, ambientale, politica, culturale del capitalismo dei nostri giorni essa va difesa, come in altri frangenti, senza dimenticare però che rappresenta per i padroni una sorte di reliquia di cui disfarsi, quando, se e dove può essere utile. In realtà, nella crisi, le disuguaglianze crescono: i sacrifici richiesti si moltiplicano, la disoccupazione dilaga, ma lievitano pure gli indici di borsa, i derivati e i dividendi. Quando circa dieci anni fa scrivevamo che toccava a noi lavoratori e proletari pagare questa crisi, non eravamo lontani dall’immaginare che essa si sarebbe consolidata, tanto da divenire strategia di attacco del capitale. Pensavamo che le lotte dei lavoratori, colpiti dallo sfruttamento brutale, avrebbero prima o poi, automaticamente, arginato l’offensiva capitalista. Purtroppo non è stato così. Non solo abbiamo pagato e paghiamo la crisi, ma la crisi alimenta la crisi. Oggi stiamo pagando il fallimento dei padroni e la ricrescita dei loro profitti. Ogni automatismo è destinato a saltare di fronte alle politiche di austerità, alla privatizzazione di ogni forma di welfare, allo svuotamento della democrazia. Il welfare, cioè le regole e i meccanismi di difesa che i lavoratori avevano imposto con le loro lotte, è il primo bersaglio nella guerra del capitale: vogliono distruggere le istituzioni che i lavoratori avevano conquistato con la forza della lotta per difendere le proprie condizioni di vita e di lavoro, la propria autonomia di classe dalle condizioni dettate dal mercato e dal capitale. Obiettivo dei padroni e del loro Stato è procedere verso lo smantellamento di ogni azione collettiva di classe. La crisi indebolisce e paralizza. La democrazia seppure borghese - è al centro di questo attacco. Essa subisce un processo continuo di svuotamento nel corso del quale regole e meccanismi vengono semplicemente bypassati e nuovi istituti più adatti al dominio di classe della borghesia prendono il sopravvento. Rimane solo la democrazia formale, quella sostanziale è progressivamente svuotata. Riprendere l’iniziativa non significa cercare di ammorbidire politiche di devastazione sociale troppo rigide, come tanti a sinistra invocano, ma rovesciare l’oligarchia capitalista al potere e imporre la democrazia di classe del proletariato per il proletariato. Diversamente non si farà altro che alimentare la devastazione sociale, ambientale e soggettiva, preparando forme più o meno modernizzate di fascismo. Quindi solo mettendo i capitalisti in condizioni di non più nuocere e sradicando le loro radici economiche nella società potremo procedere ad una ulteriore e più evoluta concezione di democrazia, quella socialista. Lo Stato borghese si abbatte e non si cambia.

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1° Maggio

La lotta contro l’abolizione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo continua

La classe operaia deve ancora liberarsi dalle catene, prendere in mano il proprio destino, costruire il proprio futuro e il partito comunista per il cambiamento del sistema capitalista Michele Michelino Ormai da anni il 1° Maggio - giornata internazionale di lotta del proletariato e degli sfruttati di tutto il mondo, occasione di scioperi, manifestazioni e proteste contro lo sfruttamento capitalista - è stato snaturato dai sindacati di regime e trasformato in una giornata di festa. I supermercati e i grandi magazzini rimangono aperti e i dipendenti restano reclusi. I sindacati confederali festeggiano con concerti e una manifestazione nazionale all’insegna del pacifismo, dell’unità nazionale, del nazionalismo a sostegno dell’imperialismo italiano, la chiesa celebra San Giuseppe falegname. In ogni caso in Italia, come in tante parti del mondo, migliaia di operai e proletari insieme a compagni rivoluzionari, comunisti, anarchici, sindacati di base, scendono nelle piazze sulla base dell’internazionalismo e della solidarietà di classe. Il 1° Maggio i rivoluzionari di tutto il mondo ricordano che la storica conquista delle 8 ore fu un importante passo sulla strada dell’emancipazione operaia e che nel 1886 fu bagnata dal sangue proletario degli operai statunitensi, e che la lotta contro l’abolizione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo continua. La lotta per le otto ore fu la prima lotta mondiale di un proletariato che si riconosceva come classe internazionale. Il 1° Maggio gli operai scioperavano e scendevano in piazza, nelle strade, si radunavano in conferenze e assemblee per dimostrare l’unità degli sfruttati, la solidarietà internazionale, riconoscendosi come classe con gli stessi interessi. Oggi, dopo 131 anni, lo slogan: 8 ore per lavorare, 8 ore per dormire e 8 ore per educarci, o 8 ore per fare quello che mi pare (quest’ultimo usato in polemica contro chi sosteneva che la riduzione della giornata lavorativa avrebbe portato ad una maggiore ‘dissolutezza’) è ancora attuale. Gli sviluppi della scienza e della tecnica renderebbero possibile un’altra notevole riduzione d’orario, ma oggi persino la “storica” conquista delle 8 ore è messa in discussione e vanificata dalla “modernità” del capitalismo e dalla flessibilità della giornata lavorativa. Nonostante la crisi, le fabbriche chiuse, gli operai licenziati o in cassa integrazione i padroni e i governi, nella difesa strenua del profitto i padroni costringono i lavoratori a lavorare sempre di più e, come si vede dalla tabella che riportiamo, i lavoratori italiani sono quelli che in Europa lavorano di più con salari sempre più bassi. 1) Italia ore lavorate 1.734 2) Giappone 1.729 3) Spagna 1.689 4) Regno Unito 1.677 5) Finlandia 1.645 6) Francia 1.473 7) Germania 1.371 (Ore annue lavorate in diversi paesi, dati OCSE 2014) Nel “moderno” sistema capitalista lo sviluppo del macchinario, il mezzo che accorcia il tempo di lavoro, l’informatica e la robotica si trasformano per l’operaio in maggiore tempo di vita disponibile per la valorizzazione del capitale. La maggiore introduzione dei robot sostituirà sempre più la manodopera aumentando la disoccupazione e il conseguente impoverimento. I mezzi che potrebbero essere usati per alleviare la fatica e per accorciare la giornata lavorativa si trasformano nel

loro contrario e diventano una potente arma del capitale per impedire eventuali ribellioni operaie e scioperi. La parola d’ordine che portò alla conquista legale delle 8 ore e all’unità del proletariato internazionale nella lotta contro il capitale recitava: “l’offesa verso uno riguarda tutti” e si basava sul principio della solidarietà di classe senza tenere conto della qualifica, della nazionalità o della “razza”. Il contrario di quello che succede oggi, dove il proletario immigrato, lo “straniero” e l’operaio italiano diventano “concorrenti” e “nemici”. Il razzismo, fomentato da chi ha interesse ad acuire la concorrenza fra lavoratori mettendo i proletari gli uni contro gli altri, serve solo ad alimentare guerre fra poveri, abbassare i diritti e il salario a tutti a tutto vantaggio dei capitalisti. Il lavoratore italiano non potrà mai emanciparsi in un paese dove la concorrenza e lo sfruttamento considerano normale far lavorare come schiavi gli immigrati e dove il numero dei disoccupati aumenta a dismisura, in particolare fra i giovani e comprese le donne. L’Italia è il Paese europeo con il numero più elevato di persone che vivono in “gravi privazioni materiali”, secondo la definizione di “povertà” dell’Eurostat. Sono 41,092 milioni i poveri in Europa, di cui 6,982 milioni in Italia. Si tratta di persone che non possono affrontare una spesa inaspettata, il dentista, permettersi un pasto a base di carne ogni due giorni o tre giorni, mantenere una casa, fare una vita decente. Di questi un milione e 470mila famiglie residenti in Italia vivono in condizioni di assoluta povertà, cioè 4 milioni e 102mila persone pari al 6,8 dell’intera popolazione. La “modernità” del capitalismo si vede anche dai dati degli infortuni e dei morti sul lavoro, un vero e proprio bollettino di guerra. Nel 2016 i morti sul lavoro sono stati, secondo l’Osservatorio Indipendente di Bologna, 641 e, se si considerano i morti sulle strade e in itinere, oltre 1400: si tratta di una stima minima, per l’impossibilità di conteggiare le morti in itinere delle partite IVA individuali, di coloro che lavorano in “nero” e di altre innumerevoli posizioni lavorative, dato che solo una parte degli oltre 6 milioni di partite IVA individuali sono assicurate all’INAIL. Attraverso il nazionalismo, il localismo, il razzismo, i borghesi e i partiti al loro servizio alimentano divisione e concorrenza fra lavoratori.

L’Italia è presente ed è coinvolta in decine di guerre imperialiste nascoste dietro il nome di “missioni umanitarie”. Con le guerre le industrie multinazionali legate alla produzione di materiale bellico - industria definita pilastro dal ministro Pinotti -, il capitale finanziario, le banche, gli speculatori fanno soldi a palate sui cadaveri insanguinati dei proletari, uomini, donne e bambini e dei popoli del mondo. Intanto nei paesi imperialisti i proletari e le masse popolari vedono le loro condizioni di vita e di lavoro peggiorare inesorabilmente e costantemente. La storia insegna che senza una teoria rivoluzionaria non è possibile nessun movimento rivoluzionario e oggi la borghesia ha concentrato la sua offensiva proprio su questo. Dopo la sconfitta momentanea delle rivoluzioni proletarie, la borghesia ha cominciato un’opera di smantellamento, revisione e cancellazione della teoria marxista-lenista dello Stato e dell’analisi delle classi sociali. Ormai da anni è cambiato anche il lessico comune. Le parole padroni e operai – borghesi e proletari – sono state sosti-

tuite da “datori di lavoro” e “risorse umane”. Le guerre imperialiste e di rapina sono chiamate “missioni di pace”. L’imperialismo, dopo aver affossato temporaneamente il socialismo, agisce ormai senza freni. La brutalità del sistema di sfruttamento dell’uomo sull’uomo si abbatte contro chiunque ostacoli i suoi interessi per sottomettere ancora di più la classe proletaria, nel tentativo di cancellare la sua memoria storica La storia e la realtà di ogni giorno dimostrano che il lavoratore isolato come “libero” venditore della propria forza-lavoro è alla completa mercé del padrone. La conquista della giornata lavorativa di 8 ore è stata ottenuta perché è diventata una rivendicazione di tutto il proletariato internazionale che ha lottato non solo contro il singolo padrone ma contro lo Stato rappresentante dell’intera classe capitalista, cioè di coloro che possiedono tutti i mezzi di produzione. La lotta contro lo sfruttamento e la conquista delle otto ore è stata il risultato di una guerra civile fra la classe capitalista e quella operaia. Una lotta a volte latente e lenta, a volte pacifica e in alcuni mo-

menti violenta, nella quale il movimento operaio e proletario si è presentato e imposto sulla scena politica come un’unica classe internazionale con gli stessi interessi. Sebbene la Costituzione della Repubblica Italiana formalmente stabilisca l’uguaglianza dei diritti fra padroni e operai, come sempre succede, fra diritti apparentemente uguali vince chi ha dalla sua la forza del potere economico, politico, istituzionale, militare: in una parola, lo Stato borghese. In mancanza di un combattivo movimento operaio, unito e organizzato che costringa lo Stato (in quanto capitalista collettivo) a obbligare i singoli padroni a mettere un argine sia alle condizioni di sfruttamento nei luoghi di lavoro, sia alle continue delocalizzazioni produttive e spostamenti delle sedi legali delle imprese all’estero, l’unico diritto realmente riconosciuto da questa società è quello al profitto a scapito di tutti gli altri. Senza una propria organizzazione, il proletariato è legato al carro della borghesia imperialista e la classe operaia senza una sua organizzazione, come un gregge di pecore, è condotto al macello. Il proletariato è una classe internazionale e l’emancipazione della classe operaia, l’unica classe che, liberando se stessa libera tutta l’umanità, si può ottenere solo con il proletariato organizzato nel suo partito. Un partito operaio rivoluzionario, comunista che, conquistando il potere politico, espropria la classe dei capitalisti e si appropria dei mezzi di produzione. Un partito che distrugge la dittatura del capitale e della borghesia imperialista e instaura la democrazia operaia, la dittatura del proletariato in un sistema socialista dove si produce per soddisfare i bisogni degli esseri umani e dove lo sfruttamento capitalista è considerato un crimine contro l’umanità. È giunto il momento in cui la classe operaia, per liberarsi dalle sue catene, deve smettere di delegare agli intellettuali borghesi di “sinistra” o ad altri il proprio futuro e la costruzione del suo partito ma sia lei stessa l’artefice del proprio destino.

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attualità

Russofobia o sovietofobia?

Un’analisi che eluda i caratteri di classe di “accusati” e “accusatori”, limitandosi alla pura e semplice “continuità storica”, eludendo passaggi epocali fondamentali, appare tanto comoda quanto superficiale Fabrizio Poggi All’approssimarsi del centenario della Rivoluzione d’Ottobre – ma in Russia già da tempo si ricordano i cento anni dalla rivoluzione borghese del febbraio 1917 e non è solo il patriarca Kirill a parlare dei rivoluzionari che “versarono sangue innocente, torturarono e tormentarono” - si fanno paragoni tra l’intervento straniero contro la giovane Repubblica socialista tra il 1918 e il 1920 e l’odierno accerchiamento della Nato ai confini russi. Effettivamente, oggi come allora, i Paesi baltici si vanno sempre più riempiendo di basi e soldati occidentali; aerei, navi e truppe straniere, anche italiane, vengono stanziate dal Baltico al mar Nero; in Asia centrale e nel Caucaso la Nato cerca sempre nuovi punti di appoggio e la Polonia, oggi come 100 anni fa, manifesta una crescente russofobia. I fatti sono evidenti. Ma, sopra ai fatti, sembra si tenti di costruire un’equivalenza abbastanza zoppicante: la volontà occidentale di “difendersi” da una “aggressività” russa che, nei secoli, non avrebbe mai mutato di carattere, ma solo di forma. Sia che tale “continuità storica” serva, da un lato, l’ostilità antirussa, sia che difenda, dall’altro, la grandezza nazionale, la matrice sembra cambiare di poco. Lo storico moscovita Aleksandr Sytin, intervenendo sulla rivista ucraina “Riva sinistra” (malvagiamente sinistra) scrive che l’ideologia anti-sovietica è diventata obsoleta e per rafforzare la propria egemonia globale l’Occidente deve passare dall’antisovietismo a “un odio fisiologico per tutto ciò che è russo e al radicamento nella coscienza dei russi dell’assurdità, inutilità e nocività dell’esistenza della Russia e dei russi stessi”. E “ogni politico occidentale che manifesti simpatie per la Russia o legami con essa, dovrà dire immediatamente addio a carriera e reputazione. Ogni dichiarazione di simpatia per la Russia (non per Putin, ma proprio per la Russia) dovrebbe essere equiparata alla negazione dell’olocausto o a un’espressione di simpatia per il nazismo tedesco”. Inoltre, Putin “è solo la personificazione individuale, dei caratteri costanti propri della civiltà russa”, che non potrà mai “diventare un Paese civile normale. Lo dimostra tutta la sua storia”. Sull’altro versante, l’alfiere presidenziale, il segretario del PCFR Gennadij Zjuganov, mentre denuncia a ragione le scelte liberali del governo filooligarchico di Dmitrij Medvedev, difende la politica di “grandezza nazionale” di Vladimir Putin e la inquadra in una costante secolare, che va dalla Russia di Pietro I, Elisabetta II, ma ancora prima di Aleksandr Nevskij e Ivan Groznij, per arrivare fino alla Russia socialista e all’Unione Sovietica di Leonid Brežnev, così che le conquiste sociali, politiche, industriali, culturali della dittatura del proletariato non sarebbero altro che una ulteriore manifestazione della grandezza nazionale russa. È così che Alessandro III, lo zar che Engels, nel 1892, definiva “il capo ereditario della reazione europea”, viene presentato come colui che “senza condurre alcuna guerra, in quasi 15 anni allargò di mille chilometri le frontiere meridionali del nostro paese” e Nicola II è solo l’imperatore responsabile del fatto che, con la guerra russo-giapponese del 1905, “per la prima volta nella storia millenaria del paese fummo costretti a cedere nostro territorio”. Il tutto, senza soluzione di continuità, in un fluido intreccio di russofobia, antisovietismo e ancora russofobia, perché “Chiunque istighi alla russofobia e all’antisovietismo, combatte contro la statualità russa” e “chiunque pratichi l’antisovietismo, giunge inevitabilmente alla russofobia”. Ora, se quest’ultima proposizione può avere un tratto relativo di verità, limitato comunque alla cronaca politica contingente, rimane in ogni caso da spiegare, con qualche argomentazione più solida delle semplici affermazioni, il passaggio da 70 anni di antisovietismo all’esultanza

occidentale per una Russia che, negli anni ‘90, ha “scelto la libertà”. Difficile parlare di russofobia occidentale nei confronti di Mikhail Gorbačev e di Boris Eltsin, così come è difficile parlare di russofobia nei confronti di Alessandro III o Nicola II. Sembra in effetti che, dietro la categoria della “russofobia” attuale, si intenda nascondere il dato della crisi che il mondo capitalistico tenta di allontanare, con l’ac-

za storica” che, nei circoli nazional-patriottici, soppianta ogni visione classista e porta ad accomunare i progressi di Pietro il Grande con le realizzazioni dell’epoca socialista. Che nel XVIII e XIX secolo, l’impero britannico e la Francia orleanista o bonapartista si scontrassero con l’impero zarista nella spartizione dell’intera fascia meridionale e orientale euroasiatica, non esclude che,

ungarici, greci, turchi e giapponesi a tentare di soffocare con le armi la giovane repubblica sovietica russa, aggredendola dal Baltico al mar Nero, in Ucraina, Crimea e Caucaso, lungo il Volga, negli Urali, in Siberia e in Estremo oriente. E, se pure oggi qualcuno ne parla, nei talk show televisivi russi, si arriva addirittura a travestire da russofobia quell’intervento straniero a fianco dei sanguinari generali

est l’aggressione nazista; non parla dei piani anglo-americani di annientamento dell’Urss iniziati già prima del 1945. La russofobia descritta da Il Giornale e congeniale anche a settori nazionali russi fa perno esclusivamente sulla contrapposizione di interessi espansionistici est-ovest e ignora la sovietofobia, ad esempio, che si esprimeva negli attacchi portati all’Urss attraverso premi Nobel assegnati ai cosiddetti “difensori dei diritti umani”: difensori così nobili da invocare il lancio di missili nucleari su Mosca. E ora, ai nazional-patrioti russi, scrive Aleksej Šmagirev su rotfront. su “piace la potenza creata dalla rivoluzione in Urss, ma non vogliono ammettere che quella fosse una potenza socialista, di uno Stato operaio-contadino, costruito sotto le insegne e sulla base delle idee del marxismo, tra cui quella dell’internazionalismo proletario”.

Paura del socialismo

cerchiamento militare (principalmente) terrestre della Russia e quello (principalmente) marittimo della Cina - due paesi che negli ultimi anni hanno dato maggiori segni di vitalità economica. Sarà un caso che, mentre si parla a più non posso di russofobia, si evochi molto più sommessamente il concetto di sinofobia? Da settant’anni di sovietofobia è parso quasi naturale, sorvolando l’intermezzo dei “malvagi anni ‘90”, scivolare fluidamente in una “russofobia” che nasconde una realtà del tutto diversa. Quando Gennadij Zjuganov, che pure dimostra una conoscenza non superficiale delle categorie politiche leniniane, parla di “statualità russa”, che andrebbe ininterrottamente dall’impero zarista all’Unione Sovietica, pare con ciò sorvolare sul “piccolo particolare” della profonda differenza tra Stato autocratico semifeudale, organo dei latifondisti e del nascente capitale industriale, stato borghese attuale, al servizio della moderna oligarchia industriale-finanziaria russa e stato socialista, strumento della dittatura del proletariato. Difficile dimenticare che la fobia manifestata per settant’anni dal mondo capitalistico nei confronti dello Stato proletario, per tutto ciò che ha rappresentato, nel mondo intero, per le masse sfruttate di ogni continente, sia tutt’altra cosa della rivalità economica e militare tra stati borghesi, sia a oriente che a occidente.

RT e “Il Giornale” A proposito della russofobia, un paio di mesi fa la russa RT prendeva spunto da un servizio de Il Giornale, per inquadrare l’odierno atteggiamento occidentale in una tradizione storica che salta un’intera fase dello sviluppo sociale non solo russo, ma mondiale: il periodo sovietico. La “paura” della Russia sarebbe insomma rappresentata esclusivamente dai timori occidentali di vedersi sottratte sfere di intervento economico e geopolitico. Dalla narrazione apologetica della “grandezza storica” nazionale russa, scompare il fatto che l’impero zarista che sconfisse Napoleone, infrangendo l’espansionismo francese succeduto alla Grande rivoluzione, fosse quella “prigione dei popoli” che imponeva all’Europa la controrivoluzione assolutista e semifeudale. Una “grandez-

a quel tempo, gli istituti della democrazia borghese britannica sopravanzassero di molto i forti residui feudali che contrassegnavano la burocrazia nobiliare zarista. Al contrario, la moderna russofobia pare nutrirsi di elementi che effettivamente avevano caratterizzato il dispotismo zarista, per affibbiarli sic et simpliciter al socialismo sovietico, come fenomeni che sarebbero congeniti alla tradizione “barbarica” russa. Ovviamente, Il Giornale non parla né di Rivoluzione socialista, né di periodo sovietico. Non una parola su quella particolare russofobia che, tra il 1918 e il 1921, portò oltre un milione di soldati inglesi, americani, canadesi, francesi, italiani, cecoslovacchi, polacchi, serbi, tedeschi e austro-

bianchi, contro l’Esercito Rosso, come se tale aggressione non cercasse di strangolare il primo Stato socialista degli operai e dei contadini, ma mirasse al predominio sulla Russia in quanto tale. Molto più esplicito l’allora Ministro della guerra di sua maestà, Winston Churchill, che scriveva nelle sue memorie: sarebbe “sbagliato pensare che abbiamo combattuto per la causa dei russi nemici dei bolscevichi. Al contrario, i russi bianchi hanno combattuto per la nostra causa”. Il Giornale non parla, naturalmente, dell’accerchiamento cui non la Russia, bensì l’Urss, fu sottoposta poi per i primi due decenni successivi all’intervento armato straniero e nemmeno di come si cercasse fino all’ultimo di indirizzare a

Non si parla mai di socialismofobia da parte di coloro che denunciano, a ragione ma in maniera parziale, l’attuale russofobia come il paravento per mascherare l’arretramento della potenza geopolitica statunitense e il conseguente accerchiamento militare della Russia attraverso il dispositivo offensivo della Nato, che risponde anche ai giochi di potenza europei. Ma non ne parla nemmeno chi, di converso, riconosce i risultati della Rivoluzione socialista solo per accomunarli al “genio” russo di ogni epoca e sotto ogni regime. Non sarà piuttosto che l’odierna russofobia affondi le radici non tanto, o non solo, nei timori suscitati dalle innovazioni di Pietro I che fecero grande la Russia, quanto nella paura del socialismo nata nel 1917, rafforzatasi nel 1945 e che non ha mai abbandonato i circoli capitalistici? Una paura di socialismo che oggi è molto comodo far passare fluidamente, con fantasiosa continuità storico-politica, nella Russia odierna uscita dalla cosiddetta perestrojka e dalla controrivoluzione del 1991. Un’analisi della cosiddetta russofobia che eluda i caratteri di classe di “accusati” e “accusatori”, che si limiti alla pura e semplice “continuità storica”, eludendo passaggi epocali fondamentali, appare tanto comoda quanto superficiale.

Ciao Manes Quando ci lascia un compagno è sempre troppo presto e il 20 marzo ci ha lasciato Sergio Manes in seguito ad una lunga malattia che non lo ha mai fermato nella sua attività militante. Con Sergio Manes alcuni compagni della nostra redazione hanno percorso una lunga strada all’interno del PCd’I (m-l), e poi il contatto è rimasto costante per alcune iniziative e per il suo impegno nel Centro di documentazione e nella casa editrice “La città del Sole”, una iniziativa per mantenere viva la propaganda del marxismo. Proprio in questi ultimi giorni era prevista la stampa del testo di Concetto Solano: “Imparare dalle sconfitte: l’Unione Sovietica dal socialismo alla barbarie” con la prefazione del nostro direttore. Aveva lanciato già da due anni un appello per la celebrazione del Centenario della Rivoluzione d’Ottobre affinché “questo importantissimo anniversario non si esaurisse in una miriade di generose iniziative di mera celebrazione... “è tempo che i comunisti imparino dalla storia attraverso una riflessione critica rigorosa sulla loro stessa esperienza, soprattutto per illuminare il proprio cammino – oggi più che mai difficile – sulla strada della trasformazione rivoluzionaria della società...” spendendosi in riunioni in molte città d’Italia. Non è riuscito ad arrivare a questa data fondamentale per i comunisti e la loro lotta per il socialismo per cui il testimone passa ad altri compagni. Ci mancheranno le sue insistenze su argomenti che erano al centro del suo pensiero e la sua “frenetica” attività. Solo nel settembre scorso sosteneva: “È giunto il tempo di scatenare tra gli stessi comunisti, ma anche tra coloro che si

ispirano ancora ad orizzonti anticapitalisti, una seria lotta ideologica attiva e dedicare ad essa energie e risorse”. Un impegno costante che perseguiamo tutti noi comunisti. Siamo vicini nel dolore alla compagna e ai figli. la redazione di “nuova unità”

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rassegna stampa

Notizie in breve, marzo 2017 Bolivia, 3 marzo

sione piena sono proposte vergognose” che colpiscono i diritti dei più deboli. Hanno partecipato alle manifestazioni anche organizzazioni come il Movimento dei Sin Tierra, il Movimento dei Lavoratori senza Casa, il Fronte Popolo senza Paura e il Fronte Brasile Popolare. Ci sono stati scioperi parziali nella scuola, nella sanità, nelle banche, nei servizi pubblici. A Brasilia migliaia di manifestanti hanno occupato il Ministero delle Finanze. Secondo l’ex presidente Lula “l’attacco farà sì che milioni e milioni di brasiliani non potranno andare in pensione, farà sì che i lavoratori più poveri, soprattutto i contadini della regione nord-est, riceveranno la metà del salario minimo”.

Il governo boliviano presenterà all’Assemblea Legislativa Plurinazionale una nuova legge sull’elettricità, che garantirà la presenza dello Stato nella catena di generazione, trasmissione e distribuzione dell’energia: lo comunica oggi il Ministro dell’Energia Rafael Alarcòn. Il nuovo provvedimento si aggiunge alla già previsto Legge sugli Idrocarburi e l’Energia Nucleare presentata in gennaio. L’obiettivo dei provvedimenti, parte della Agenda 2025 del governo, è che tutti i boliviani dispongano di luce elettrica.

Germania, 3 marzo

Siria, Palmira 17 marzo

Ad un anno di distanza, le ONG tedesche Oxfam Germania e GegenStrömung (Controcorrente) denunciano oggi, come in passato, la responsabilità della società tedesca Voith Hydro e della multinazionale Siemens nell’assassinio dell’attivista ambientale e sociale Berta Càceres, assassinata da un commando armato il 3 marzo 2016. Berta lottava contro il progetto idroelettrico Agua Zarca, Honduras, progetto non realizzato perchè dopo l’assassinio numerosi enti finanziari ritirarono il loro appoggio.

Inghilterra, Londra 4 marzo Migliaia di persone, circa 200 mila secondo gli organizzatori, hanno partecipato ad una manifestazione per protestare contro i tagli e la privatizzazione che minacciano il Servizio Sanitario nazionale (NHS), la cui crisi è stata negli ultimi mesi definita dalla Croce Rossa “una crisi umanitaria”. Il Collegio Reale dei Chirurghi, già alla fine dello scorso anno, aveva avvertito che l’alta occupazione dei letti, che arrivava all’89% di quanto disponibile, avrebbe potuto provocare un serio problema se non ci fossero stati investimenti da parte del Governo. Secondo la BBC, di questo passo verrebbero chiusi completamente numerosi ospedali. Le restrizioni salariali per il personale hanno invece portato a 25 mila infermieri in meno. I manifestanti hanno chiesto anche la cancellazione dei tagli per 20 mila milioni di sterline che il governo intende applicare entro il 2020.

Siria, 9 marzo The Washington Post afferma oggi che l’arrivo di unità del Corpo di Fanteria di Marina statunitensi (USMC) nel paese potrebbe significare una nuova tappa nella guerra. Le truppe fanno parte dell’11° Unità di Spedizione, che da mesi si trova nella regione e che dispone di cannoni ultraleggeri M-777, secondo testimonianze rese sotto anonimato da ufficiali nordamericani. Il giornale sottolinea che fino ad ora erano presenti nella zona centinaia di membri delle Forze di Operazioni Speciali (FOE) impiegati come consiglieri e addetti allo spionaggio. La presenza, invece, di truppe convenzionali terrestri, trasportate da Gibuti al Kuwait e quindi in territorio siriano, senza l’assenso del governo legittimo, fa pensare ad una nuova scalata della partecipazione nordamericana al conflitto siriano. La notizia si aggiunge a quella, già pubblicata da altri giornali, della presenza in territorio siriano di effettivi del 75° Reggimento di Rangers, altra forza d’élite del Pentagono. Attualmente gli USA hanno dispiegato 5 mila soldati in Iraq e circa 500 sul suolo siriano. Secondo un rapporto del Dipartimento della Difesa USA, fino a fine febbraio di quest’anno la coalizione guidata dai nordamericani ha effettuato 18.458 attacchi aerei, di cui 11.160 in Iraq e il resto in Siria, con un costo superiore a 11 mila milioni di dollari.

USA, New York 11 marzo Nell’annuale rapporto, il Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite (CDH), la relatrice sul diritto all’alimentazione, Hilal Elve, avverte che l’uso di pesticidi in agricoltura, tanto nei paesi in via di sviluppo che in quelli sviluppati, provoca circa 200 mila morti ogni anno. La maggior parte della popolazione mondiale è esposta ai pesticidi, secondo Elve, attraverso gli alimenti, l’aria, l’acqua o per contatto diretto. I pesticidi provocano cancro, Alzheimer e Parkinson, problemi ormonali, sterilità, malformazioni congenite.

USA, New York 11 marzo Secondo il sottosegretario generale per i problemi umanitari dell’ONU, Stephen O’Brien, più di 20 milioni di persone sono sull’orlo della morte per mancanza di acqua potabile e cibo. L’emergenza umanitaria che colpisce Yemen, Sudan del Sud, Somalia e parte della Nigeria ha provocato la più grande crisi umanitaria registrata dalla costituzione delle Nazioni Unite (1945) ed ha una causa comune: il conflitto armato. Più di 7 milioni di yemeniti soffrono la fame e due terzi della popolazione ha bisogno di aiuti per sopravvivere. Nel Sudan del Sud 7,5 milioni di persone hanno bisogno di aiuti, “in un paese dove la situazione è pegggiore che mai” e dove la fame che lo domina “ha origine dalla mano dell’uomo”. Qui 1 milioni di bambini soffre di malnutrizione severa, 270 mila sono in pericolo di morte e negli ultimi mesi si è estesa l’epidemia di colera iniziata nel giugno 2016. A causa dei costanti bombardamenti e delle operazioni militari a terra non è possibile far giungere loro aiuti umanitari. In Somalia, 3 milioni di persone corrono il rischio di morire di fame, non solo per la siccità ma anche per la presenza delle truppe del gruppo terrorista Al Shabaab e i continui scontri che ne conseguono. Nel nord-est della Nigeria 7,1 milioni di persone soffrono di “insicurezza alimentare”.

Yemen, Al Joja 12 marzo Ventidue persone sono state uccise durante un bombardamento della “Coalizione araba” su un mercato della città, dove sono presenti i ribelli huti. La coalizione, che ha iniziato a intervenire nello Yemen nel marzo dello scorso anno, è stata accusata varie volte di aver provocato vittime civili.

Corea del Sud, 12 marzo Dopo le rivelazioni di Wikileaks sul fatto che la CIA può aver creato modi di accesso allo Smart TV di Samsung per registrare conversazioni effettuate vicino all’apparecchio, la Samsung informa di aver iniziato un’inchiesta. Secondo le rivelazioni, la CIA ha creato un modo “Fake Off” (falso spento) perchè il televisore sembri inattivo. Benchè quanto denunciato da Wikileaks non abbia ancora ricevuto conferme, già nel 2015 Samsung aveva ricevuto critiche per aver avvertito di non fare conversazioni troppo vicino ai televisori “intelligenti” e il mese scorso la Commissione Federale di Commercio USA ha accettato un accordo giudiziario con il fabbricante Vizio, accusato anch’esso di raccogliere e condividere dati dei suoi clienti senza permesso.

Brasile, 16 marzo Il governo ha privatizzato oggi 4 grandi aeroporti del paese, per un totale di quasi 470 milioni di dollari; la compagnia tedesca Fraport di Francoforte è il maggior acquirente. Sono andati alla Fraport i terminals di Fortaleza e di Porto Alegre. L’aeroporto di Salvador è stato acquisito dalla compagnia francese Vinci Airports, quello di Florianòpolis dalla società svizzera Zurich International Airports. Le privatizzazioni degli aeroporti sono parte di un piano di tagli con cui il governo conservatore di Michel Temer asserisce di voler combattere la crisi economica. Nel piano di privatizzazioni sono previste le concessioni a privati anche di strade, porti ed altre grandi infrastrutture e imprese statali.

Brasile, 16 marzo In tutte le grandi città del Brasile – da San Paolo a Porto Alegre, Rio de Janeiro e Brasilia - oggi ci sono state manifestazioni contro la riforma delle pensioni e per chiedere le dimissioni del presidente Michel Temer. La mobilitazione è stata indetta dalla CTU (Centrale Unica dei Lavoratori) che, nel suo comunicato, afferma che “l’aumento dell’età minima a 65 anni e la definizione del tempo di contribuzione in 49 anni per avere la pen-

Auguri Pach! Tanti fraterni auguri di pronta guarigione al giovane compagno Pacifico, nostro collaboratore, ricoverato da due mesi per un delicato intervento chirurgico. Aspettiamo il suo ritorno e di leggerlo al più presto!

I compagni della redazione

nuova unità 2/2017

L’esercito siriano ha abbattuto un caccia israeliano e ne ha danneggiato un secondo nei pressi della città. Secondo l’agenzia SANA, “l’Esercito segnala che i cacciabombardieri israeliani sono entrati nello spazio aereo siriano provenienti dal Libano. Si tratta di un attacco perpetrato dal nemico sionista in appoggio ai criminali del gruppo Daesh”. Il regime di Israele ha confermato il fatto, negando però l’abbattimento dell’aereo. Si tratta dell’incidente più serio tra le due parti dallo scoppio della guerra del 2011.

Brasile, Brasilia 17 marzo “In materia militare, il Brasile è gli USA della regione”: lo afferma oggi il comandante dell’esercito brasialiano per esprimere il malessere che corre tra le Forze Armate riguardo a due aspetti: l’uso dei militari come polizia interna e la riforma della pensioni prevista dal governo di Michel Temer. Il malessere è così profondo che il governo ha deciso un aumento del 36% del bilancio del Ministero della Difesa. I militari si oppongono al progetto che prevede di inserirli nel sistema pensionistico nazionale, il che li porterebbe a perdere i loro privilegi attuali: il loro Sistema di Protezione sociale, che riguarda 296.000 militari, ha però un deficit annuale di 10.000 milioni di dollari, quasi la metà del deficit totale del sistema che copre i 26 milioni di pensionati brasiliani. Mentre i lavoratori versano l’11% del loro salario all’Istituto Nazionale di Previdenza Socialie i militari contribuiscono per il 7,5% del salario. I circa 300.000 militari ricevono invece più denaro dei 50 milioni di beneficiari del Piano Borsa Famiglia, il programma lanciato dal governo di Lula (2003-2010) che ha contribuito a ridurre la povertà.

Grecia, 19 marzo Nel primo anniversario del patto tra Unione Europea e Turchia sui rifugiati, nel Giorno contro il razzismo, in 12 città della Grecia – tra cui Atene e Salonicco – si sono svolte manifestazioni contro il razzismo, l’islamofobia e l’accordo stesso. Nella capitale Atene la mobilitazione è iniziata in piazza Omonia per finire, dopo 4 ore, davanti alla sede del Parlamento. La manifestazione è stata convocata da una decina di collettivi antirazzisti, partiti politici e sindacati. I collettivi, in una conferenza stampa, hanno sottolineato che è la prima volta che tutte le organizzazioni antirazziste si uniscono per dar vita ad una risposta coordinata contro il razzismo.

USA, New York 20 marzo I familiari di 800 vittime dell’attacco dell’11 settembre alle Torri Gemelle hanno presentato oggi una denuncia al tribunale di Manhattan contro l’Arabia Saudita, paese che accusano di complicità nell’attentato che è costato la vita a 3.000 persone. La denuncia, presentata dallo studio Kreindler, accusa diversi funzionari dell’ambasciata saudita di aver fornito denaro, protezione, consigli, mezzi di trasporto, accesso a corsi di addestramento di pilotaggio ai sequestratori Salem al-Hazmi e Khalid al-Mihdhar un anno e mezzo prima dell’11 settembre. Dei 19 sequestratori, 15 erano di nazionalità saudita e 3 di loro avevano lavorato per l’ambasciata del paese. Nella denuncia si sostiene che la famiglia reale saudita era al corrente che varie organizzazioni nel paese erano affiliate ad al-Qaeda e che “durante il decennio precedente all’11 settembre, l’Arabia Saudita è stata responsabile di finanziamenti fondamentali ad al-Qaeda, vitali per le operazioni dell’organizzazione terroristica e per i suoi preparativi per materializzare gli attacchi dell’11 settembre”, oltre a sottolineare che numerosi ufficiali sauditi, interrogati dalle autorità statunitensi dopo l’attentato, mentirono ripetutamente “negando di essere in contatto o di avere informazioni sull’assistenza materiale prestata ai sequestratori e ad al-Qaeda”. Gran parte delle accuse esposte sono state riprese dalle investigazioni portate avanti dall’FBI.

Usa, New York 20 marzo È morto nella sua residenza di Pocantico Hills, a 101 anni, il magnate David Rockefeller, nipote del fondatore della Standard Oil John D. Rockefeller. Considerato una delle figure più influenti del grande capitalismo USA, con un patrimonio stimato in 3.000 milioni di dollari, era uno dei 200 uomini più ricchi del pianeta ed è stato, tra l’altro: membro fondatore, membro vitalizio e membro del comitato di direzione del Club Bilderberg; presidente della Chase Manhattan Bank; direttore della Banca della Riserva Federale di New York.

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lettere

La rubrica delle lettere è un punto fisso di quasi tutti i giornali. Noi chiediamo che in questa rubrica siano presenti le vostre lettere, anche quelle che spedite ai vari quotidiani e riviste che non vengono pubblicate. Il sommerso a volte è molto indicativo

I venti forti di “Madre Terra” A volte mi chiedo che ne è dei venti che agitarono bandiere rosse. I venti forti di “Madre Terra” soffiano ancora però nelle aperte praterie indiane “i pellerossa”. Quando arriva il tempo di “rivoltare la terra” Lance Hanson, poeta indiano Cheyenne, lascia la sua casa in Oklahoma. Questa casa dei suoi nonni era stata costruita dove sorgevano accampamenti del popolo Cheyenne. Lascia prima del tramonto del sole le antiche colline, ma le nuvole sono nere e oscurano la luce e la corsa del bisonte non si sente più. Si mette poi instancabilmente in cammino, per far conoscere la sua poesia tenera e rabbiosa, con la sua voglia di urlare i suoi versi randagi che non potranno mai rimanere chiusi nei cassetti, per raccontare e denunciare la situazione del suo popolo. Più che viaggio fu una fuga disperata, quella del Cheyenne Little Fingernail, uno degli ultimi tre guerrieri rimasti al popolo Cheyenne nel loro tentativo di sopravvivenza con donne e bambini verso Nord, verso il Wyoming. “Unghia del dito mignolo” fu assassinato dai “soldati blu” quando aveva solo vent’anni a nord di Fort Robinson, nel Nebraska. Legato al suo corpo e quindi sempre con lui, gli assassini trovarono un libro di appunti disegnato. Né il suo “cuore” e nemmeno questo suo libro sono “seppelliti a Wounded Knee”. Niente di lui si trova seppellito in pace. Questo suo libro, perforato da tre pallottole, si trova nel “Museo di Storia Naturale di New York”. Dalle mie modeste ricerche non sono riuscito a trovare che in tutto il territorio degli Stati Uniti d’America esista un monumento pubblico che ricordi il genocidio dei Pellerossa, invece esiste un grande memoriale della Shoah. Antilope Bianca, capo di pace Cheyenne, era un antenato, per la precisione, uno zio del poeta Lance Hanson. Fu assassinato nel 1864 nel massacro a Sand Creek. Prima di morire cantò una nobile canzone di morte “Niente vive a lungo, solo la Terra e le montagne”. Secondo la testimonianza dello stesso poeta Lance Hanson “Cheyenne Antilope Bianca” venne decapitato e numerose parti del suo corpo furono tagliate. Brandelli della sua carne, uniti a quelli di due bambini, furono portati in un saloon di Denver e mostrate alla folla”. Lo storico Ned Blackhawk ha scritto che “in termini di puro orrore, pochi eventi sono paragonabili a Sand Creek”. Lance Hanson raccontava in un’intervista datata anno 1989, che nessun libro di storia adottato nelle scuole yankee rammentava ai bambini pellerossa, di cui il 40% non riusciva neanche a terminare le scuole, le geste di questi eroi indiani, loro sì “uomini rossi”, ma solo quelle dei “visi pallidi”. I tassi di mortalità infantile della popolazione dei nativi americani erano uno dei più alti in tutti gli Stati Uniti, insieme con quelli per malattie infettive. Da allora penso che ben poco sia cambiato per i Pellerossa, i veri “Americani”. La loro vita nelle “riserve Indiane” penso che sia ancora una lotta per la sopravvivenza, fatta di povertà e cibo cattivo e di rabbia per i loro territori rubati dai ladri “imperialisti yankee” che li porta ad abusare di droghe e alcol. Lo stesso Lance Hanson ha avuto un periodo di ricovero nell’ospedale dei veterani di guerra di Oklahoma City per i traumi post bellici dato che era stato coinvolto (almeno lo spero...) come marine all’aggressione imperialista in Vietnam, portandolo a un abuso di alcol, mentre suo fratello era morto di overdose a San Diego nell’anno 1989. Il fim “ThunderHeart”(Cuore di Tuono) del 1991, racconta che il Pellerossa Sioux “Jimmy Doppio Sguardo” rinchiuso in una riserva Indiana, viene incolpato dell’omicidio di un uomo. “Sono cinquecento anni che siamo guerrieri, cinquecento anni che ci difendiamo” dice ad un certo momento del film Jimmy Doppio Sguardo. Com’è ancora guerriero Leonard Peltier, attivista del movimento “American Indian Moviment” che da oltre quarant’anni sta marcendo nelle galere yankee, nonostante che sia molto malato e abbia perso la vista da un occhio. Leonard Peltier è il più conosciuto prigioniero politico Indiano detenuto nelle carceri statunitensi. È stato condannato a ben due ergastoli (ma perché i Pellerossa hanno due vite?), perché accusato di essere coinvolto nell’omicidio di due agenti FBI avvenuto nell’anno 1975. Nonostante numerose prove che lo scagionerebbero, non si è riusciti a ottenere la revisione del processo, e il “Premio Nobel delle guerre” (ben sette durante i suoi mandati) Barak Obama non ha firmato la grazia, come tutta la serie di tutti i “cosiddetti” Presidenti che lo hanno preceduto. Peltier è rimasto in cella anche nei giorni dei funerali di entrambi i genitori e suo figlio Paul è morto a 41 anni a Washington, mentre chiedeva la libertà del padre. Non sono Leonard Peltier continua a lottare, ma i Pellerossa resistono a Standing Rock nel Nord Dakota contro l’oleodotto che minaccia la vita dei fiumi Missouri e Missisipi. “Madre Terra” sempre ricorda i giorni mancati e ci dice che anche i “visi pallidi” passeranno forse più velocemente delle altre tribù. “... Dio ti maledica Amerika. Cos’hai fatto ai tuoi figli. Il vento chiamerà per sempre i loro nomi”. Stefano Contena Valsecchi Milano P.S. Tutte le informazioni sulla vita del poeta Cheyenne Lance Hanson le ho estratte dall’articolo “La Poesia è un’ascia di guerra. Incontro con Lance Hanson” di Claudio Galluzzi, apparso su “abiti-lavoro” quaderni di scrittura operaia del 1989. (Riconosco che é un po’ datato... come per il sottoscritto... - ma non ho trovato autorevoli fonti più recenti). Il titolo è stato invece composto unendo due lavori di antologie poetiche dedicate al popolo Pellerossa, nelle quali erano state pubblicate poesie di Lance Hanson.

Benvenuti in Serbia, paese della manodopera a basso costo Così inizia lo spot del Ministero dell’Economia della Repubblica di Serbia con il quale sono stati invitati gli imprenditori esteri a investire in Serbia. In Serbia oltre alla manodopera a basso costo si offrono gratis: il terreno per le aziende future, edifici già esistenti, le infrastrutture necessarie, tutta la documentazione, permessi per lavori edili. Oltre a tutto questo è possibile avere anche un regalo di 10.000 euro per ogni posto di lavoro. Questa possibilità non è in vigore per gli imprenditori locali. Però il valore piu basso è quello della manodopera. Il risultato di tutto questo dopo 20 anni è che oggi la differenza tra la Serbia e gli altri paesi in cui si vive in modo relativamente dignitoso, è che la popolazione in Serbia è in estrema povertà o al limite di povertà. I più vulnerabili sono i più giovani e gli anziani. I datori di lavoro in Serbia come strumento di valutazione del lavoro prestato prendono il salario minimo, che rappresenta il modo legale per ottenere profitto extra. Il salario minimo per un’ora è di 121 dinari (un po’ meno di 1 euro). Per 176 ore mensili 21.296,00 dinari equivalenti a 176 euro. Secondo le statistiche il paniere mensile (il materiale di prima necessità per una famiglia media di 4 componenti) è di 68.000 dinari equivalenti a 560 euro, che la maggioranza delle famiglie in Serbia può solo sognare. Secondo le statistiche i lavoratori con salario minimo non sono poveri. Ufficialmente, il cittadino è povero (se vive da solo) se ha il salario al di sotto dei 13.400,00 dinari (110 euro). Inoltre è definita povera una famiglia con 4 componenti con entrate mensili al di sotto dei 28.156.00 dinari. Quindi, secondo l’ufficio nazionale di statistica, in una famiglia media (due genitori e due figli) 7,5 euro dovrebbero essere sufficienti per il cibo, il materiale igienico e scolastico, vestiario, bollette... Tali entrate in Serbia le ha il 25,6% della popolazione. Questo significa che 1 cittadino su 4 vive ufficialmente oltre la soglia di povertà. In Serbia, il paese piu povero d’Europa, ci sono 76 cucine popolari che distribuiscono un pasto gratuito al giorno a 36.000 persone di cui un terzo sono bambini. Kragujevac è una citta che condivide il destino del paese. Ci sembra che Kragujevac ancora non

abbia calcolato tutti i poveri; il numero ufficiale degli utenti della cucina popolare presso la Croce Rossa è 700. Però è aumentata la richiesta per cui sono stati aperti altri 3 siti dove viene distribuito il cibo che avanza nella mensa universitaria, nel Centro anziani e nel Centro per persone con disturbi mentali “Male Pcelice”. L’aumento della povertà a Kragujevac è causato dall’economia in crisi: in Fiat è stato licenziato un turno intero (850 lavoratori), sono stati licenziati 650 lavoratori dei fornitori Fiat, è incerto il destino del reparto Zastava INPRO (132 lavoratori da 3 mesi senza salario e con prospettiva di liquidazione dell’impresa), la Centrale termica ha enormi debiti e conto bloccato (su 500 lavoratori per la metà si prevede licenziamento), il reparto Selleria con oltre 400 lavoratori, generalmente donne, con grossi problemi e salari al di sotto del salario minimo e la previsione di licenziamento di metà impiegate, lavoratori in esubero negli uffici pubblici... Nei decenni passati e nel periodo di transizione Kragujevac ha percorso la strada da gigante industriale a “pianura di fame”, per arrivare poi a essere la città che, con l’arrivo della Fiat, doveva avere possibilità positive. Questa città aveva anche una strategia ufficiale per riduzione della povertà finanziata dai donatori esteri la cui durata è scaduta 4 anni fa e che non ha dato nessun risultato. Forse perchè gli stranieri difficilmente riescono a capire come la perdita di lavoro durante il crollo decennale ha trasformato anche la fascia dei cittadini con maggiori sicurezze e con alti titoli di studio in contrabbandieri, utenti di negozi di merce usata, venditori ambulanti... È anche difficile capire come gli anziani che vivono in campagna e hanno una casa che sta per crollare e un pezzettino di terra non hanno alcun diritto di essere aiutati dallo Stato. Lo Stato, in cui c’è una fascia di persone che si sono arricchite in modo molto sospetto, in cui i bambini poveri non vanno alle feste di compleanno perchè non possono comprare il regalo e non vanno alle gite scolastiche per lo stesso motivo e se ne vergognano. Oggi offre invece speranza attraverso programmi televisivi con reality, fiction e simili. È il divertimento che viene offerto per dimenticare lo stomaco vuoto.

Rajko Blagojević

nuova unità Rivista comunista di politica e cultura (nuova serie) anno XXVI n. 2/2017 - Reg, Tribunale di Firenze nr. 4231 del 22/06/1992 Redazione: via R. Giuliani, 160r - 50141 Firenze - tel. 0554252129 e-mail nuovaunita.firenze@tin.it redazione@nuovaunita.info - www.nuovaunità.info Direttore Responsabile: Carla Francone Hanno collaborato a questo numero: Luciano Orio, Michele Michelino, Emiliano, Daniela Trollio

Cosa resta di Sana’a? Dello Yemen non si sente mai parlare dai mass media (anche voi però voi ne fate raramente qualche riferimento) eppure in questo paese si sta consumando una strage umanitaria. Evidentemente per non turbare i monarchi sauditi visti i lucrosi affari che Stati Uniti e Paesi europei compiono con le petromonarchie. Ci sono 12 milioni di persone che rischiano la morte per fame e inedia per l’embargo marittimo e aereo; si contano oltre tre milioni gli sfollati, più di 10mila vittime e 40mila feriti dei quali si può

immaginare la situazione sanitaria, a causa dei bombardamenti incessanti dell’Arabia Saudita sostenuta dalla coalizione Usa, Gran Bretagna, che durano dal 2015. Una situazione che passa nell’indifferenza generale. Lo Yemen è il paese più povero del mondo arabo e la sua tragedia è di trovarsi in una posizione strategica sul Golfo di Aden pattugliato, insieme al mar Rosso dalle navi da guerra saudite e statunitensi che bombardano anche i porti. Vorrei che almeno se ne parlasse... Marisa Belli Roma

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