FVS - numero di Dicembre/Gennaio 2014

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La rivista dell’Ordine Francescano Secolare d’Italia

Contiene I.R.

Anno 11-12 – n° 12 dicembre 2013 – n° 1 gennaio 2014

Periodico mensile Poste italiane – Sped. in Abb. Post. D.L. 353/03 (conv. in L. 27.02.04 n. 46) art. 1c. 2DCB Padova

Fraternità accese per la pace

L’inchiesta Natale dietro le sbarre



scrivi a: direttorefvs@ofs.it o redazionefvs@ofs.it oppure a: redazione FVS c/o segretariato nazionale OFS, viale delle Mura Aurelie, 9 00165 – Roma

Carissimi fratelli e sorelle d’Italia, per la nostra terra, per la nostra comunità sarda, è tempo di lutto ma anche di ripresa. Ho scritto alle nostre fraternità dicendo che è difficile, per chi canta le lodi a Dio Altissimo, creatore dell’uomo e della terra, capire eventi naturali come quelli che hanno messo in ginocchio gran parte della nostra isola. Anche chi li ha vissuti sulla propria pelle, nelle proprie regioni italiane, certamente non saprà darmi una risposta. Dopo l’alluvione si contano i morti, i dispersi, gli ingenti danni alle case e alle cose, tanto che molte famiglie sono state costrette ad abbandonare la propria abitazione. Tante attività commerciali sono andate tristemente danneggiate; aziende agricole distrutte e morti numerosi capi di bestiame. Grazie a Dio nel mio paese non è successo nulla di grave, e io sto bene, così come la mia famiglia. Ma solo a pochi chilometri da me c’è “un’immane tragedia”, così come anche papa Francesco l’ha definita. È una crisi “incredibile” dentro uno stato di crisi già difficile da affrontare. Penso a quei poveri contadini, agricoltori, allevatori, pastori, la parte più povera del nostro settore produttivo, già in ginocchio per la crisi economica: ora sono proprio a terra. Nel vero senso della parola. Cosa possiamo fare noi? Avere la speranza che tutto abbia un significato importante per la vita della nostra comunità sarda. A chi vive la fraternità nei centri colpiti dal ciclone ho chiesto che si facciano vicini e solidali con chi ha bisogno d’aiuto. Nel nascondimento, ma non troppo. A voi, fratelli e sorelle lontani, chiedo, con carità, una preghiera perché la vita delle persone morte non sia un sacrificio vano. Preghiamo per le loro famiglie e per quelle famiglie che, dopo

Alluvione in Sardegna: solidarietà dell’OFS verso i più poveri la disperazione di questi giorni, sappiano ricostruire e ripartire. Preghiamo perché l’uomo la smetta di calpestare con i propri interessi e comodi la bellezza e la grandezza del creato; preghiamo perché chi è preposto a capire come risolvere questa crisi economica la smetta di “tagliare” ai piccoli comuni, e in particolar modo a tutto ciò che riguarda la salvaguardia del creato, a vantaggio delle proprie tasche e dei propri privilegi. Ma preghiamo insieme, soprattutto, perché il Signore sia provvidente verso chi, oggi, chiede aiuto. Che il Signore ci doni la sua pace. Fraternamente, Mauro Dessì, ministro regionale OFS Sardegna All’accorato appello dei fratelli della Sardegna, l’Ordine Francescano Secolare d’Italia ha risposto con la campagna “L’OFS in aiuto dell’OFS: al servizio dei ’nostri’ poveri”. La campagna spiega: «Dopo la tragedia, è già iniziato in Sardegna il tempo della ripresa. Numerosi centri di raccolta per viveri e indumenti sono stati attivati grazie alla solidarietà della gente di tutta l’isola. La Comunità Europea, lo Stato, la Regione Sardegna stanno provvedendo a stanziare i fondi necessari per ripristinare le opere urbanistiche danneggiate, in particolar modo dighe, strade, ponti, canali. C’è ancora e ci sarà bisogno d’aiuto nel sostenere i più poveri: coloro che, anche riprendendo ad abitare la casa, non avranno risorse necessarie per comprarsi gli arredi, gli elettrodomestici, tutto ciò che è utile per vivere la propria quotidianità. Coloro che, non avendo un’attività produttiva “assicurata”, in particolar modo vivendo la propria economia nel mondo agro-pastorale, hanno bisogno di ripartire da zero. Come Ordine Francescano Secolare vogliamo porre l’attenzione proprio su questi poveri, a partire da quelli di “casa nostra”,

quelli cioè che fanno parte della nostra famiglia francescana e che sono stati danneggiati nelle cose materiali e feriti nell’animo. Ci sono alcuni centri nell’isola dove operano fraternità dell’OFS e della Gi.Fra. da cui arriva questo tipo di richiesta d’aiuto: in particolar modo dalle fraternità di Terralba e San Gavino, nel Medio Campidano, e da Olbia, nel nord dell’isola, dove, grazie alla nuova comunità di frati appena insediatisi, si sta facendo annuncio vocazionale e missionario francescano. Crediamo sia importante concentrare la nostra attenzione su queste situazioni per due motivi: avere amorevole cura verso fratelli e sorelle dell’Ordine di cui, altrimenti, in pochi si preoccuperebbero e offrire una caritatevole testimonianza alle loro comunità dove operano. Tramite il Centro nazionale OFS d’Italia, che si è fatto promotore di una raccolta fondi, il Consiglio Regionale dell’OFS di Sardegna potrà coordinare e favorire la distribuzione degli aiuti sulla base del monitoraggio che nei centri indicati i responsabili locali di fraternità stanno già effettuando». Le offerte potranno essere versate tramite: bonifico bancario su conto corrente presso Unicredit con IBAN: IT 20 F 02008 38278 000401447482 COD. BIC: UNCRITM1J12; con bollettino postale o postagiro sul conto corrente postale n. 21747449 con IBAN: IT 77 U 07601 01600 0000 2174 7449 COD. BIC: BPPIITRRXXX In entrambi casi l’intestazione è la seguente: Associazione Attività OFS d’Italia – ONLUS – C. F. 97311130153 Via della Cannella, 8 06081 – CAPODACQUA D’ASSISI (PG) Causale del versamento: “Offerte pro Sardegna” 3


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28 L’inchiesta

Lettere a FVS

6 Temi 6

28 Natale dietro le sbarre I detenuti, lebbrosi di oggi

Fraternità e pace, binomio francescano

31 Grazie a chi ha dato speranza alla mia vita

Un contributo del vescovo Bregantini

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33 Una giustizia dal volto umano

Missione e nuove sfide

10 Il sacrificio di un vescovo per la pace

35 Apostoli nelle prigioni

11 Caro OFS

La storia siamo noi

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12 Attualità

36 Giovani

12 Tre paginette per la nuova agenda

36 Chi cercate?

16 Uomini e donne di dialogo

38 “Genitori liquidi” e “nativi digitali”

Le incognite del 2014

OFS e Gi.Fra. dal ministro Cécile Kyenge

19 Lessico dell’anima Da beata a santa

20 OFS 20 Parola d’ordine: tra la gente Remo Di Pinto all’assemblea nazionale

25 Il tempo degli Statuti 27 In due righe

Viaggio nel mondo giovanile

41 “Identichit” 43 Femminile plurale Elogio dei difetti

44 Mondo 44 La fede assediata

In Pakistan una croce fra le spine

47 I laici francescani, ultimi fra gli ultimi


49 Bhatti presto martire?

57 Chiostri e campanili

51 Senza frontiere

59 Oltre il segno del Battesimo

53 In Chiara luce

Franz Rosenzweig: scoprirsi mortali

Una “buona notizia”

54 Incontri

61 Segni e tracce

54 Originali, non fotocopie

66 Sipario

Intervista a fra Josè Carballo OFM

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da leggere, da vedere, da ascoltare Sorpresi dalla gioia

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Collaboratori fissi: Andrea Serafino Dester, Remo Di Pinto, Attilio Galimberti, MichaelDavide Semeraro, Anna Pia Viola, Umberto Virgadaula Hanno collaborato a questo numero: Alexander, Gigliola Alfaro, Giancarlo Bregantini,

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Temi

Fraternità e pace binomio francescano

di Giancarlo Bregantini

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raternità e pace: sono i due termini, correlati, della giornata della pace del 1° gennaio 2014. Si può subito dire, davanti a questo regalo che ci ha fatto papa Francesco, indicando il tema “La fraternità, fondamento e via per la pace”, che nulla vi è di più genuinamente francescano di questo binomio. Non c’è infatti pace che non sia basata sulla fraternità. E non c’è fraternità che non sappia generare un frutto di pace. San Francesco le ha inanellate entrambe in modo bello e chiaro! Ecco perché abbiamo gioito quando è stata scelta la città di Campobasso per ospitare la Marcia della Pace 2014, che si svolge l’ultimo giorno dell’anno, con quel sapore di secca contestazione che vuole trasformare un veglione spendereccio in un’austera marcia di speranza, pur in un tempo freddo e gelido. 6


Il messaggio del Papa per la Giornata Mondiale della Pace è un invito alla speranza per le famiglie in difficoltà, per i giovani, per le università, per i carcerati. L’episodio di “Francesco e il lupo” come parabola della vita sociale, politica e culturale del nostro tempo. Un contributo a FVS del vescovo Bregantini, presidente della commissione CEI per lavoro, giustizia e pace 7


Temi Un invito alla speranza Il messaggio del Papa e la Marcia – come tutte le diverse iniziative, marce o veglie di preghiera, organizzate nelle diverse diocesi e comunità italiane – sono un invito alla speranza per tante famiglie che vivono in condizioni di povertà, ma che avvertono la Chiesa realmente “come san Giuseppe”, cioè come custode della speranza quotidiana: con preti solidali e mani che sorreggono, per farsi, in ogni parrocchia, atteso spazio di ascolto in tempo di crisi.

sguardi, di cose da raccontare. È infatti appurato che ogni guerra viene elaborata sulle lavagne e nelle aule di scuola, ben prima che nei campi di battaglia. È perciò nel cuore dei giovani, e nelle loro menti, che vanno creati sentimenti di pace, di rispetto dell’avversario, di giustizia sociale, di dialogo con le opposizioni. Qui nasce la fraternità. E non solo perché si spartisce il pane, ma perché si condivide la verità. Cioè si genera non la cultura negativa dello scarto, ma la cultura dell’incontro!

lontano, per chi chiede un lavoro, per chi soffre in silenzio.

Sono un messaggio accorato per i giovani, che passa per le aule delle nostre scuole e università: sui banchi di scuola si desidera aiutare i docenti a raccontare la guerra del 1914-18 (siamo nell’anno del centenario) non nella logica della “grande guerra”, fatta di enfasi ed esaltazione, ma come la «inutile strage», secondo la severa definizione che ne diede un contemporaneo di primo piano, papa Benedetto XV, il 1° agosto 1917, in pieno e tragico svolgimento. Ebbene, immaginate che, sulla lavagna, ogni docente scrivesse non «oggi tratteremo della Grande Guerra». Ma «oggi parliamo della inutile strage che fu la prima Guerra Mondiale». Tutto cambierà. Non è solo una questione nominalistica, bensì di contenuti, di

Nei luoghi di dolore La riflessione del Papa troverà uno spiraglio passando attraverso le porte delle carceri, per riflettere sui luoghi e sui tempi che schiacciano la fraternità. Ma anche per chiedere finalmente sempre più attenzione a questo luogo di dolore, creando lavoro esterno al carcere, maggior uso delle misure alternative e spazi di incontro tra carcere e società. E quando i “marciatori della pace” passeranno sotto il monumento di san Giorgio, patrono di Campobasso – come quando, in altri luoghi, si farà sosta o riferimento ai santi tipici delle diverse devozioni locali – chiederemo di vincere il male con il bene, infilzando il drago dell’egoismo, perché ci renda accoglienti, ospitali verso chi viene da

alla ferocia del lupo, non arretra, non fugge, non torna indietro. Lo vuole affrontare, pur conoscendone la pericolosità. Secondo passo: non lo affronta con le armi del male, non usa forconi o spade. Gli va incontro con un po’ di

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La parabola di Francesco e il lupo Nella Giornata della Pace non si può fare a meno di rileggere, dai Fioretti di san Francesco, l’episodio del lupo di Gubbio. Perché realmente quel testo mirabile, che ho sempre apprezzato e studiato, indica la concreta strada della fraternità, davanti al potere tirannico o mafioso, in cinque preziosissimi passaggi. Il primo: san Francesco, davanti

La speranza penetra dietro le sbarre: nella foto di Daniele Cappelli (in alto), i detenuti del carcere “Regina Coeli” a Roma impegnati in un laboratorio teatrale tenutosi nell’estate 2013. A destra, mons. Giancarlo Bregantini, vescovo di Campobasso, fra i suoi fedeli (foto in alto). “Fraternità e pace”, dice il vescovo, sono “due fiamme che ardono” (foto accanto) nel cuore della Chiesa.


Missione e nuove sfide Progetti e proposte per il settore “Presenza nel Mondo”: con l’intervento di Bregantini al convegno OFS, si entra nella fase operativa

“Francescani secolari tra evangelizzazione, missione e nuove sfide sociali: progetti e prospettive”: il convegno nazionale OFS del settore “Presenza nel Mondo” – con i suoi tre ambiti: Famiglia, Missione, Giustizia Pace e Salvaguardia del Creato – si è tenuto alla fine di novembre 2013 a Roma ed è stata un’utile occasione di riflessione, approfondimento e dialogo sulle nuove sfide sociali che la fraternità nazionale OFS è

chiamata ad affrontare. Relatore al convegno è stato mons. Giancarlo Bregantini, che ha invitato i francescani secolari a dare risposte concrete per rendere visibile il carisma francescano nella società. Il convegno rappresenta un punto di avvio per far maturare una fase operativa nell’Ordine, con l’elaborazione di progetti mirati, da attuare nel vissuto delle fraternità OFS d’Italia. I delegati presenti, giunti da tutta Italia, hanno manifestato entusiasmo e desiderio di impegno, sulla scia dell’invito pressante di papa Francesco a vivere una fede “di quartiere”, innestata nel tessuto sociale, con la forza della Parola di Dio e del carisma del Serafico Padre. Al convegno hanno partecipato i componenti delle commissioni nazionali dei tre ambiti, i consiglieri regionali, i referenti nazionali Gi.Fra. e molti laici francescani interessati. Con questa e con le prossime iniziative in cantiere, «i francescani secolari tracciano insieme un cammino di speranza, come costruttori di pace, custodi dell’amore e portatori della gioia del Vangelo, nella perfetta letizia», ha detto Alfonso Petrone, consigliere nazionale OFS e delegato per l’ambito “Presenza nel Mondo”.

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Temi pane, lo vuole addomesticare con il bene e non con il male. È armato di tanta fede, nella mitezza del Vangelo, quell’arma che sa conquistare la terra, tramite la preghiera. Il lupo si scaglia certo contro il santo e quasi lo divora. Ma davanti alla sua fermezza, si blocca e si arresta! Nel terzo passaggio, quando il lupo gli è davanti con le fauci aperte, Francesco non tace, non si rassegna alla sua cattiveria. Non è buonista. Anzi, lo ammonisce fortemente, lo rimprovera con durezza per i suoi ben noti delitti e le sue angherie e prepotenze. Gli fa una catechesi seria e severa, lo responsabilizza sui suoi peccati. Non tace per paura o per compromesso. Coscientizzare davanti al male è infatti l’azione educativa di verità e di libertà più necessaria oggi, specie con i giovani. Solo allora può compiere un passo decisivo – il quarto punto – entrando nel vivo del cuore di quel lupo, che non ha solo quattro zampe, ma ne ha due. È ciascuno di noi! Sa infatti che se quel lupo è arrivato a far del male alla gente, non è per cattiveria innata. E Francesco afferma, con sapienza: «Tu sei cattivo perché sei affamato». Cioè, dietro ogni scelta di violenza quasi sempre c’è una ingiustizia evidente, non risolta. Lacrime non ascoltate, un grido di aiuto non accolto. L’ingiustizia è normalmente l’humus della violenza. Infine, al quinto passaggio, san Francesco crea un clima di accoglienza meravigliosa tra la gente di Gubbio verso il lupo, che può serenamente entrare ed uscire di casa in casa, con un bocco-

IL SACRIFICIO DI UN VESCOVO PER LA PACE La città di Campobasso, chiamata ad essere “Città della pace per il 2014”, quest’anno ricorderà in particolare un vescovo, mons. Secondo Bologna (pastore dal 1940 al 1943) che si è offerto vittima per salvare la città dalle distruzioni della guerra, proprio mentre si stavano scontrando sulla linea “Gustav” i due eserciti, alleati e tedeschi, il 10 ottobre 1043. Quella domenica mattina, il santo vescovo ebbe a dire, in un momento di immolazione eroica: «Signore, se per la salvezza di Campobasso occorre una vittima, prendi me, ma salva il mio popolo!». Quella stessa sera, in un bombardamento da parte degli alleati sul seminario, rimase colpito a morte da una scheggia, proprio mentre recitava il santo Rosario insieme a suor Lucia. Il giorno dopo, sia i tedeschi che gli alleati compresero che quel sangue non ne di pane, come dono di delicatezza e fiducia! È l’accoglienza mirabile verso chi ha sbagliato, superando le inevitabili paure o diffidenze. È l’arte più necessaria per creare la fraternità, come risposta alla violenza sociale ed etnica. Non è una storiella edificante, ma una parabola della vita sociale, politica e culturale del nostro tempo. Se gli Stati Uniti e il mondo occidentale avessero agito così dopo l’attentato alle Torri gemelle non avremmo avuto tutta

poteva essere stato versato invano. Gli uni si ritirarono dalla città molisana senza distruzioni; i secondi, avanzando, non bombardarono più. La città rimase intatta, con pochissimi morti. Mons. Bregantini sottolinea: «È la vera pace, perché frutto di quella fraternità, che anche oggi nasce solo se c’è chi si offre per primo, chi si sacrifica come un agnello, ponendo il suo sangue sugli stipiti delle case e alle porte della città». «La città di Campobasso – conclude il vescovo – può avere in mons. Bologna un vanto di gloria e di santità. Il suo cuore zelante, la sua immolazione fino al sangue e le sue sagge scelte di pace diventino lo stile di noi vescovi, di ogni prete e diacono, il cuore delle nostre suore e la passione dei nostri laici, a servizio della bella terra dove viviamo, perché si faccia giardino per tutti». quella scia infinita di guerre, di bombe e distruzioni nel mondo arabo che ora insanguina terre di grande cultura e bellezza, rendendo sempre più insicuro anche l’Occidente. La distruzione delle Torri è stato un estremo grido del mondo povero lanciato al mondo ricco, perché si potessero operare scelte di pace e di giustizia. Perché «se sei cattivo, è perché sei affamato», disse Francesco al lupo. Così va letto oggi il cammino dell’umanità.

«Se sei cattivo, è perché sei affamato»

Nella Giornata della Pace i laici francescani rileggono l’episodio di san Francesco e il lupo di Gubbio: il testo indica la concreta strada della fraternità, davanti al potere tirannico o mafioso. Un testo per rileggere oggi il cammino dell’umanità. 10


Caro OFS di Remo Di Pinto

La storia siamo noi

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empo, spazio, passi. Strada che si apre, giorno dopo giorno, e una prossima importante tappa: il Capitolo elettivo nazionale. Il nostro Dio non lascia orme vuote sulla sabbia, non ci dice: «segui i miei passi». Il nostro Dio è tra noi, abita il nostro tempo, il nostro spazio, i nostri passi, la strada giorno dopo giorno, ci attende e ci invia; si commuove per la nostra fatica, per il nostro disorientamento, ha compassione di noi; comprende la delusione di fronte alle reti vuote dopo una notte passata tra le onde e tra il vento; una “parola” ci chiede: «Avete qualcosa da mangiare?», e poi ci dice: «Gettate le reti alla vostra destra», e ci rende fecondi. Poi ci attende, lui, in carne e ossa, all’alba, seduto sulla spiaggia. Ha acceso un fuoco per noi e ha arrostito del pesce, insieme al pane: amicizia, conforto, accoglienza, ristoro… fraternità. Ci dà da mangiare e ci insegna a fare lo stesso: «Voi stessi date loro da mangiare». Poi una domanda, inaspettata: «Mi ami?». «La storia siete voi, ma non siete soli. Non cercate orme vuote, ma piedi, mani, volti. Mi troverete se mi ascolterete, mentre cercate di pescare, se metterete da parte l’affanno e l’angoscia; mi incontrerete per le strade del mondo, nei volti che abitano nell’ombra, nella periferia, ma solo se prima vi lascerete trovare, raggiungere e toccare da me: allora comprenderete». E poi scherza: «Tanto da soli non potete far nulla, perché la storia siamo noi, non voi, non tu: noi, con me!». Un Capitolo elettivo è ristoro, sosta e ancora invio. Richiede un tempo, un

ascolto, un pasto… risposte. Non serve a nulla continuare all’infinito a farsi sballottare dalle onde, a farsi portare da qualsiasi vento. Eppure conosciamo il rischio, sappiamo che il rumore del nostro caos e le grida delle nostre paure possono coprire la Sua “parola”, che attende silenzio e ascolto.

Per me, per te, sia un «Io credo», attesa dell’alba, del fumo, del fuoco acceso sulla riva, del profumo del pesce arrostito e del pane caldo. «Ti amo? Ti voglio bene», ma stiamo ancora un po’ insieme sulla spiaggia, intorno al fuoco, tu spiegami come e dove… la storia siamo Noi!

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Attualità

Tre paginette per la nuova agenda

Inizia il 2014: un anno che si preannuncia pieno di incognite e di zone grigie, ma anche di promesse per il futuro. Qualche suggestione per mettere in fila le priorità

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P

di Ettore Colli Vignarelli

rendi in mano il calendario del nuovo anno, apri l’agenda che profuma di cartoleria, e pensi. Neppure il tempo di archiviare l’anno che va in pensione che quello nuovo arriva e bussa alle tue giornate, carico di interrogativi e di incognite, denso di zone grigie anche se comunque attraversato da speranze e attese. Il turbinio delle cose, mai così imprevedibile come in questo scorcio di terzo millennio, sconsiglia previsioni e pronostici. Non è facile immaginare che cosa potrà accadere, scrutare nel buio del futuro anche prossimo per ipotizzare scenari e avvenimenti. Resta però doverosa una riflessione di prospettiva, che scongiuri il carpe diem e aiuti a mettere in fila le priorità. Quali saranno i grandi temi di cui il nostro affaticato Paese dovrà giocoforza occuparsi nei prossimi dodici mesi?

In quali acque, più o meno agitate, si avventurerà la nave-Italia? Tra rischi e opportunità sono almeno tre gli ambiti che sembrano stare più di altri al centro dell’attenzione. Il rischio piombo Può sembrare allarmismo, ma il fatto che nelle ultime settimane dello scorso anno si sia dovuto assistere ad un’improvvisa fiammata di violenza metropolitana (mi riferisco ai pesanti disordini visti a Roma a fine novembre), accompagnato dal ricomparire di sigle seppellite nella memoria collettiva della Nazione come quella delle Brigate Rosse, non può che destare qualche preoccupazione. Atmosfere che sembravano uscite dai libri di Sergio Zavoli sulla “Notte della Repubblica” o dalle rievocazioni degli anni ’70 del XX secolo tratteggiate da Lucia Annunziata. Piccoli gruppi militarizzati


che attraversavano il centro cittadino, seminando disordine con tecniche da guerriglia urbana, con ripercussioni su tutta la città. E quel collegamento, forse arbitrario ma inquietante, con i presidi permanenti in Val di Susa, come se la sigla “No Tav” potesse rappresentare un collante per saldare il mondo dell’antagonismo con possibili sussulti di protesta sociale. E poi, sempre a fine novembre, la vertenza sul trasporto pubblico a Genova, con un livello altissimo di tensione sfociata anche in episodi violenti nelle stesse aule della politica comunale. Per non parlare delle centinaia di vertenze per sopravvivenza di molti siti produttivi, aperte nei più diversi comparti e dei presidi dei lavoratori che non vogliono che siano dimenticate o sottovalutate. Una piazza, molte piazze, che, prima d’illuminarsi per Natale, si sono

accese per il disagio sociale, e forse per l’incapacità della politica di dare risposte nuove ed efficaci a problemi mai risolti. Ecco il tema in agenda: il rischio del degenerare del disagio in violenza, di fronte al balbettare delle istituzioni e della politica. Non si possono sottovalutare gli elementi di tensione, e i disegni di quei piccoli gruppi che, collegando antichi residui e nuovi slogan, ogni tanto vengono a galla ed esplodono in violenza. Lo si fece, colpevolmente, anche all’inizio della parabola bagnata di sangue del terrorismo degli anni ’70. Bisogna prenderli sul serio, non tanto per massimizzare il controllo sociale spingendolo fino ai limiti della repressione, quanto per trovare risposte vere. Sarà tanto più facile isolare e reprimere gli elementi pericolosi, quanto più si prenderà seriamente il problema dei

costi della crisi e delle prospettive sociali da offrire a ceti e generazioni che oggi sembrano destinati a un’emarginazione di fatto. C’è bisogno di adeguati interpreti e di investimenti etici e sociali, davvero non facili. La china resta ancora negativa, con tutte le incognite che ne derivano. Così può apparire ancora conveniente a qualcuno speculare appunto sulla crisi, sul disagio, sulla protesta. E cercare di trarne vantaggi personali o politici a breve. La politica deve sforzarsi di dare risposte, finalmente concrete e misurabili, per non scivolare in un grave rischio di destabilizzazione generale. Le forbici e l’aratro Mentre il presidente dell’Inps lanciava un allarme sulla “sostenibilità” del sistema pensionistico, l’autorevole Ocse ci informava che un minuscolo 13


Attualità

Molte piazze, prima d’illuminarsi per Natale, si sono accese per il disagio sociale e per l’incapacità della politica di dare risposte nuove, concrete ed efficaci a problemi mai risolti. C’è il rischio che il disagio degeneri in violenza, di fronte al balbettare delle istituzioni e della politica. È un tema in “agenda” per il 2014.

gruppo di top manager pubblici italiani guadagna mediamente 650mila dollari l’anno. Circa mezzo milione di euro ogni 12 mesi. I dati sono in qualche misura incompleti e parziali, ma resta il fatto che si tratta di tanti, troppi soldi. E dunque viene da domandarsi se sia normale, giusto, adeguato, opportuno, meritato uno stipendio simile. Un tema come questo non può non essere centrale in quello che è l’altro grande tema in agenda per questo 2014. Il tema, appunto, del taglio di una parte della spesa pubblica italiana, in particolare quella improduttiva o, peggio ancora, quella classificabile come spreco. Lo spreco si annida spesso là dove nessuno lo va a cercare, e dove sta cercando di penetrare il nuovo commissario alla spending review nominato dal governo, il prof. Carlo Cottarelli. Un passato alla Banca d’Italia e al Fondo monetario internazionale sono le sue credenziali. 14

Molti buoni propositi, uno in particolare apprezzabile: quello di far dimenticare i tagli lineari per prediligere uno sforzo analitico che individui i veri sprechi, le vere spese inutili. I primi frutti del lavoro del commissario corrispondono complessivamente alle attese: l’impietosa analisi di una macchina statale che nel tempo ha stratificato, metabolizzato e digerito una serie quasi infinita di assurdità che costano miliardi e non servono sostanzialmente a nulla. Un’analisi seria, che va molto al di là della facile retorica sulla “casta” e fa luce sulle troppe anomalie italiane. Ma tra l’analisi e l’attuazione di provvedimenti concreti c’è un grande fossato da colmare. È il fossato di quella che un tempo si chiamava “volontà politica”. La politica ha cambiato atteggiamento? Tutti lo sperano ma non tutti lo credono. E spesso i fatti si incaricano

spietatamente di farci vedere che nessuno vuole rinunciare a niente. Quindi le resistenze che Cottarelli trover����� à���� saranno fenomenali. Il punto comunque è sempre lo stesso: non si può delegare ad un tecnico ciò che è compito della politica. Perché, per esempio, riformare una giustizia civile che privilegia i furbi, creando enormi ostacoli alle imprese, è compito della politica e non di un commissario. O mettere mano alla straordinaria macchina mangiasoldi della sanità “federalista” che ha creato venti Regioni che sono Repubbliche indipendenti non può essere compito del professore, ma è un compito della politica. Il vero cambiamento, insomma, lo deve fare non Cottarelli ma l’intera politica italiana. Anche per cominciare ad immaginare un futuro dopo la “cura dimagrante”. E fare in modo che, dopo le forbici, entri in campo l’aratro.


Il 2014 può essere l’anno decisivo per una grande svolta istituzionale del nostro paese: quella di “un nuovo municipalismo”. I comuni non possono restare confinati in un ruolo marginale: nell’esperienza quotidiana, infatti, sono i sindaci i naturali destinatari e interlocutori dei cittadini italiani, che a loro si rivolgono per ogni e qualsiasi esigenza, aspettativa, ansia o speranza. Il nuovo Rinascimento italiano non può che ripartire dai comuni. Nel segno di una politica finalmente “buona”.

Un nuovo municipalismo Il 2014 sarà, a mio parere, l’anno decisivo per una grande svolta istituzionale del nostro paese. Non le riforme “di vertice” che spesso si sono immaginate in questi anni e che mai hanno raggiunto un vero compimento. Ma una “grande riforma” di base. Quella che possiamo senza timori chiamare “un nuovo municipalismo”. Perché non è più possibile che i comuni rimangano confinati in un ruolo marginale, l’ultimo anello di una “catena alimentare” spietata. Perché nell’esperienza quotidiana le cose sono molto diverse. I sindaci sono i naturali destinatari e interlocutori dei cittadini italiani, che a loro si rivolgono per ogni e qualsiasi esigenza, aspettativa, ansia o speranza. Da un sindaco vanno i lavoratori quando vedono messo in pericolo il loro posto di lavoro. A un sindaco si rivolgono coloro che guidano un’impresa – grande o pic-

cola – per non esser soli di fronte alle tante asperità della crisi economica. Ai sindaci si rivolgono le famiglie per avere asili nido e scuole materne per i loro bambini o assistenza domiciliare e le provvidenze necessarie agli anziani di casa. Ai sindaci si chiede tutela per coloro – in primo luogo i giovani – che vivono le tante facce di un precariato a cui la crisi ci ha troppo spesso abituato. Insomma: non c’è tema della vita di una comunità che non veda il sindaco quale naturale riferimento per persone, famiglie, imprese. Questo spiega anche perché – in un generale clima di sfiducia e diffidenza verso la politica e le istituzioni – i sindaci siano le figure più riconosciute, che ancora mantengono con i cittadini un legame di rispetto, di fiducia, di credibilità. Ne è testimonianza il fenomeno – sempre più frequente – di sindaci che vengono eletti con suffragi superiori a

quelli raccolti dai partiti della propria coalizione, a riprova del fatto che per molti cittadini decisiva è assai di più l’affidabilità personale di un candidato che non la sua appartenenza politica. Bisogna dirlo con chiarezza: senza la passione, la fatica, la generosità, la competenza, la dedizione di tanti sindaci e di tanti amministratori locali il paese non sarebbe in grado di reggere le tante sfide che ha di fronte. Eppure questo ruolo non è stato mai pienamente riconosciuto. Anzi: ancora oggi si propone un’immagine caricaturale dei comuni, visti come una gigantesca falla nella nave-Stato da cui uscirebbero a fiumi le risorse pubbliche. Nulla di più lontano dalla realtà: come i dati confermano con chiarezza, nessun altro comparto quale quello degli enti municipali ha contributo in questi anni ai tentativi di risanamento della finanza statale, subendo in modo pesantissimo tagli che non di rado hanno colpito direttamente servizi e strutture. I comuni sono stati spesso esattori per conto dello Stato (si pensi all’IMU e alla Tares) dovendo contemporaneamente subire una vera e propria falcidie nei trasferimenti. I comuni hanno visto una sequenza di provvedimenti legislativi e normativi che non solo hanno costantemente ridotto le risorse a loro disposizione, ma hanno preteso di incidere sull’ordinamento e sull’organizzazione delle amministrazioni, con prescrizioni spesso umilianti, inutili, quando non fonte di costi supplementari. Il 2014 può e deve essere l’anno della svolta. L’autonomia degli enti locali non è l’espressione di una frammentazione corporativa, ma è la condizione per dare ai cittadini una più efficiente e tempestiva risposta alle loro aspettative. Va rifondato un modello di organizzazione della Repubblica, che faccia vivere i valori dell’autonomia e della responsabilità e il principio di sussidiarietà, quale cardine che regola l’attribuzione delle funzioni. I comuni possono e devono essere lo strumento per costruire una comunità di persone unite da regole di convivenza pacifica, governare i processi sociali, umani e culturali, promuovendo la maturazione dello stare insieme. Il nuovo Rinascimento italiano non può che ripartire dai comuni. Nel segno di una politica finalmente “buona”. 15


Attualità

UOMINI E DONNE DI DIALOGO

di Gianluca Lista e Alfonso Petrone

Nell’incontro tra il ministro Cécile Kyenge e una delegazione OFS-Gi.Fra., i laici francescani si mettono a servizio delle istituzioni italiane per la costruzione di un solido percorso di convivenza civile e di ricerca del bene comune

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are un contributo al dialogo tra culture e religioni: è quanto Cécile Kyenge, ministro dell’Integrazione, ha chiesto ai laici francescani d’Italia. Da loro il ministro si attende, in special modo, un aiuto a «potenziare il dialogo interreligioso, per la costruzione di un solido percorso di convivenza civile e di ricerca del bene comune». Le osservazioni sono giunte durante un incontro, avvenuto il 19 novembre 2013, tra il ministro Kyenge e una delegazione dell’Ordine Francescano Secolare e della Gioventù Francescana d’Italia. Ne facevano parte il presidente nazionale OFS Remo Di Pinto, Alfonso Petrone e Gianluca Lista, consiglieri nazionali OFS per l’ambito “Evangelizzazione e Presenza nel Mondo”, il presidente nazionale Gi.Fra. Lucia Zicaro. Il ministro ha assicurato i presenti che terrà molto in considerazione la disponibilità dei laici francescani per sviluppi e iniziative future, invitando fin da subito l’OFS a partecipare a un «tavolo di dialogo tra culture e religioni diverse», organizzato dal governo italiano. È stato un incontro cordiale, all’insegna del dialogo, del confronto, dell’ascolto reciproco, in un


I francescani sono, per il loro specifico carisma, uomini e donne di dialogo. Il dialogo è sempre una sfida. L’Italia si aspetta che i francescani secolari nel bel paese offrano uno specifico contributo al dialogo tra le culture e al dialogo fra le religioni, soprattutto aprendo sentieri nuovi nel dialogo islamo-cristiano. Nella foto in basso il ministro per l’Integrazione Cécile Kyenge, impegnata in una sessione di dialogo.

clima sereno e accogliente. In apertura, Remo Di Pinto ha illustrato l’identità e l’impegno di servizio dell’OFS e della Gi.Fra. in Italia e all’estero. I francescani hanno poi espresso le motivazioni che li hanno spinti a chiedere di incontrare il ministro Kyenge: la decisa volontà di porsi al servizio delle istituzioni e, in particolare, del ministero dell’Integrazione, che ha assunto anche la delega alle politiche giovanili. L’OFS ha offerto la disponibilità a un’azione sinergica e a un sostegno solidale per i rifugiati sull’isola di Lampedusa. Si è prospettato, in particolare, l’appoggio concreto alla comunità civile e religiosa impegnata sull’isola nell’opera di accoglienza, tramite un progetto in accordo con le istituzioni locali. Il ministro Kyenge ha dichiarato il suo apprezzamento, sottolineando le difficoltà e le resistenze che incontra nel suo lavoro, ma anche la determinazione a portare avanti «un piano di sviluppo e integrazione che miri a potenziare il dialogo tra le culture, e in special modo il dialogo interreligioso». Su questo piano i francescani, forti del loro carisma, possono avere “qualcosa da dire” e “qualcosa da dare” alle istituzioni del bel paese. La Regola auspica che i francescani secolari «rendano presente il carisma di Francesco nella chiesa e nella società» (art. 1). Proprio con questo spirito i responsabili nazionali hanno avviato un rapporto a una collaborazione con un ministro della Repubblica sensibile a temi tanto cari all’Ordine. Cécile Kyenge aveva già avuto un “assaggio” di francescanesimo, partecipando, nel settembre del 2013, al Festival Francescano a Rimini. Il suo stile di vita e la sua storia hanno molto in comune con il carisma e con i valori del mondo francescano. I media hanno messo in luce la sua scelta di «viaggiare con una Fiat Punto a gas del 2007». E furono i suoi contatti con un vescovo del Congo, sua terra di origine, a permetterle di ottenere una 17


Attualità

delle borse di studio messe a disposizione agli studenti congolesi per frequentare la facoltà di medicina all’Università Cattolica del Sacro Cuore a Roma. Kyenge ha vissuto la provvisorietà in un collegio di missionarie laiche a Modena e, per mantenersi gli studi, non ha avuto remore a lavorare come badante, immergendosi in una preziosa esperienza di relazione e di umanità. Al momento della sua nomina a ministro del governo Letta, il 28 aprile 2013, i francescani dell’Emilia Romagna l’hanno salutata con le parole di fra Guido Ravaglia OFM: «La cattolicità non è uniformità, è unità nella diversità. Il diverso diventa un fratello, una persona che ti arricchisce, se sei capace e disposto ad incontrarlo. Nella Chiesa, popoli diversi portano i propri doni al Signore e in questo modo arricchiscono la Chiesa stessa e anche la società che è in grado di aprirsi a quei popoli. L’apertura non significa resa incondizionata rispetto ai propri valori, bensì un efficace confronto che consente di scoprire nel patrimonio culturale degli altri una ricchezza nuova per il tuo. Un augurio di buon lavoro a questa donna, ministro, sorella».

L’incontro tra la delegazione OFS-Gifra e il ministro Kyenge si è svolto in un clima cordiale, sereno e accogliente, all’insegna del confronto e dell’ascolto reciproco. In basso la “foto di rito”: da sinistra, Gianluca Lista e Alfonso Petrone, consiglieri nazionali OFS per l’ambito “Evangelizzazione e Presenza nel Mondo”; al centro il ministro Cécile Kyenge; accanto a lei, Remo Di Pinto, ministro nazionale OFS, e Lucia Zicaro, presidente nazionale Gi.Fra. 18

La convivenza fra diverse culture è visibile nelle situazioni quotidiane, perfino nei mercati alimentari, ormai “multietnici”, delle nostre città (nella foto in alto: spezie orientali in un mercato). Si rende sempre più necessario un piano di sviluppo e integrazione che miri a potenziare il dialogo: perchè la diversità è una ricchezza.


Lessico dell’anima Fra Fernando Scocca

Da beata a santa

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ngela, definita «Maestra dei teologi» e «la più grande mistica francescana» (Pio XII), che cosa ha da dire anche a noi oggi? Essenzialmente questo: «La strada dell’interiorità e della contemplazione non è per pochi eletti, bensì per ogni autentico cristiano» (Giovanni Paolo II). Questa donna è stata personaggio del mondo, oltre che sposa e madre. Nata a Foligno nel 1248, fino a trentasette anni è vissuta nella vanità e nel peccato, attingendo alla ricchezza patrimoniale di cui disponeva. La grazia la raggiunge mediante una confessione sacramentale, finalmente ben fatta, dopo altre incomplete e addirittura sacrileghe. Attratta dalla vita del Poverello di Assisi, decide di dedicarsi completamente al Signore nella castità e nella povertà. In poco tempo le muoiono la madre, il marito e i figli. In questi eventi vede una nuova spinta a darsi al Signore. Vende i suoi numerosi beni e distribuisce il ricavato ai poveri. Riserva per sé solamente un ambiente che lei chiamerà «carcere». Nel 1291 professa la Regola del Terz’Ordine Francescano. Il desiderio di farsi modellare da questa Terza Regola francescana la porta a compiere un pellegrinaggio da Foligno ad Assisi, che rimarrà emblematico nella sua vita. Passando tra gli oliveti e vigneti delle pendici del Subasio e sostando nella chiesetta della SS. Trinità, vicino Rivotorto, ella ha esperienze mistiche che la trasformano totalmente. La bellezza del creato le fa dire che «il mondo è pregno di Dio» (nella foto un’opera in china di Giovanna Bruschi su Angela

da Foligno dal titolo: «Questo mondo è pregno di Dio» del 1990). Il suo cammino spirituale è scandito da trenta “passi” che si possono riassumere nelle tre categorie bonaventuriane: via purificativa, via illuminativa, via unitiva. Queste vie sono da intendersi più in senso sincronico che diacronico: possono coesistere nei vari passaggi della vita spirituale. Per quanto riguarda la via purificativa, forte è in Angela la consapevolezza del peccato: «Avevo una profonda conoscenza di tutti i peccati, mi rendevo conto di aver offeso tutte le creature, e dal profondo della memoria i peccati mi tornavano in mente in modo vivissimo di fronte a Dio. E pregavo tutte le creature che sapevo d’aver offeso, di non accusarmi». Il peccato si manifesta soprattutto nel “possedere”, a cui oppone il desiderio di povertà: «Non mi sembrava possibile possedere qualcosa senza commettere un grande peccato». Il pellegrinaggio del 1291 in Assisi caratterizza la via illuminativa di Angela. Dall’indegnità per la consapevolezza del peccato passa alla dignità di figlia e sposa. A Rivotorto lo Spirito le dice: «Voglio venire parlando con te lungo questa via e non cesserò di parlarti e tu non potrai fare altro perché ti ho rapita… Figlia mia dolce, figlia mia, gioia mia, tempio mio, figlia mia, amore mio, amami perché tu sei molto amata da me, assai più di

quanto tu ami me. Figlia e sposa mia dolce. E poiché ho trovato dimora e rifugio in te, ora vieni tu a dimorare e riposare in me». Nella via unitiva Angela raggiunge il vertice mistico nella «visione sopra le tenebre». Nell’unione con Dio, nel centro più intimo della propria anima dove abita Ogni Bene, vede se stessa con gli occhi stessi di Dio in termini di apprezzamento assoluto del proprio essere, la propria esistenza restituita alla santità originale: «Mi vedo sola con Dio tutta pura, tutta santa, tutta vera, tutta retta, tutta sicura e tutta celestiale in Lui e quando mi trovo in questo stato non mi ricordo di altro». Angela è una terziaria francescana. Ora che la veneriamo come santa, riconosciuta tale anche formalmente dalla Chiesa, interceda soprattutto per i fedeli laici francescani chiamati a nuove sfide spirituali in quest’ora della storia.

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OFS

Parola d’ordine: tra la gente 20


Il rinnovamento dell’OFS parte dal “mettersi in gioco” con gli altri: l’intervento di Remo Di Pinto all’assemblea nazionale traccia una linea chiara per il futuro dell’Ordine in Italia, verso le periferie del mondo

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di Paola Brovelli

ede, speranza e carità: su questi tre cardini verte la relazione del ministro nazionale OFS all’assemblea nazionale tenutasi alla fine di ottobre ad Assisi. Il rischio è ascoltare parole «già sentite» che da un lato rassicurano e, dall’altro, rischiano di “annoiare”. Perché, in effetti, siamo fatti così: il desiderio di conversione quotidiana che ci guida nelle vie dell’esistenza si incontra con il bisogno di mantenere lo status quo, con la paura del nuovo e del diverso, con la sensazione di dover difendere l’OFS e la realtà di una fraternità fatta di visi noti e rassicuranti. Il mandato a rinnovare l’OFS, spesso richiamato da Remo Di Pinto, rischia allora di trasformarsi in un tentativo, debole quanto banale, di “ringiovanire” le nostre fraternità, lasciando ai più “anziani” e più saggi la guida dell’Ordine. Ma il rinnovamento di cui si è parlato a ottobre poco ha a che fare con questioni anagrafiche. Anzi: il punto di partenza è stato «una riflessione riservata a noi responsabili regionali e nazionali», giusto per fugare, fin dalle prime parole, il dubbio che il discorso sia indirizzato ad altri, a quelli che erano rimasti a casa. I francescani secolari sono 21


OFS chiamati a «rendere presente il carisma del Serafico Padre nella vita e nella missione della Chiesa» (Reg. 1). E allora, si chiede il ministro nazionale, «in cosa deve consistere il nostro servizio?». È solo necessario trovare un equilibrio tra le diverse spinte che vivono nelle nostre fraternità locali, tra bisogni di ripetitività e slanci missionari, finendo poi per trascinare gli uni e «inseguire» gli altri? «Quel “presente” – nota Di Pinto – interpella con forza e sollecita a una risposta pronta che non può adagiarsi su un passato glorioso né su un futuro ancora da costruire. Siamo chiamati a rendere presente il carisma di san Francesco nella vita e nella missione della Chiesa “oggi”, in un esercizio che in realtà di per sé è già anticipo di futuro». Partire dall’incontro con Cristo «L’impegno a rendere presente il carisma nella vit���������������������������������������������� a e nella missione della Chiesa – ha proseguito il ministro – ci proietta verso un popolo che è “altro e oltre” noi, che va al di là delle pareti della nostra struttura e ci impone una presa di coscienza seria e responsabile dell’attualità della Chiesa e del mondo. Un’attualità che cambia repentinamente, che oggi ci trova dinanzi a una realtà ecclesiale e sociale assolutamente diversa rispetto a quella che cercavamo di leggere e interpretare anche solo lo scorso anno». Siamo allora sempre più chiamati ad essere «testimoni di speranza» tra la gente. «Dobbiamo chiederci se i nostri propositi, tutto il lavoro che stiamo facendo, le energie che stiamo impiegando, i documenti, i testi che stiamo producendo, lo statuto che stiamo approvando, ci stanno conducendo qui o se, piuttosto, non siamo noi stessi tra i naufraghi, nella periferia, in cerca della speranza: una speranza che dobbiamo recuperare a partire dall’incontro personale e comunitario con Cristo». Ecco il passaggio centrale: «Non un incontro fugace, episodico, ma uno “stare con” che offre le risposte e le motivazioni che mancano al nostro teorizzare e che difficilmente possiamo trovare nelle nostre tante parole. Un incontro, quello con Gesù Cristo, in cui risiede la soluzione dei nostri problemi e che da significato al tema di quest’assemblea, a quel “Te” che realizza il passaggio dall’ideologia alla fede viva e vissuta in Cristo, come un Io e Te… tra la gente!». Da qui scaturisce l’idea di OFS tracciata dal ministro: «Non credo ci sia bisogno di un OFS che, assecondando lo stile che già accompagna troppe realtà, ecclesiali e non, si limiti a proclami, annunci, comunicati, eventi episodici. Questi vanno benissimo, ma non possiamo limitarci a dialogare nei macrosistemi in base alla sensibilità di un ministro, di un consiglio nazionale o regionale, o di una commissione. Il nostro primo compito è quello di permettere a ciascun membro della fraternità nazionale (quindi anche a noi stessi) di rendere concreti certi proclami, di darne testimonianza viva attraverso una presenza concreta e fedele alla nostra vocazione, al Vangelo vissuto al modo di Francesco». 22


“Tra la gente”: l’assemblea nazionale OFS di fine ottobre ha, ancora una volta, sottolineato questo mandato fondamentale. In queste pagine alcuni momenti dei giorni ad Assisi con i protagonisti dell’assemblea: il consiglio nazionale, i ministri e vice ministri regionali e gli assistenti regionali. Ascolto e condivisione per il futuro e il rinnovamento di tutto l’OFS. Nella pagina a fianco, in alto: la relazione del ministro nazionale. Al centro: Lorenzo Saccà, ministro regionale delle Marche. Sotto: uno dei gruppi di condivisione. In questa pagina, a fianco: Lucia Zicaro, presidente nazionale Gi.Fra., con Federica Di Bartolomeo, delegato nazionale OFS per la Gi.Fra.; al centro: Mauro Dessì, ministro regionale OFS Sardegna; a fianco: il momento di condivisione degli assistenti regionali. Sotto: Remo Di Pinto con Noemi Paola Riccardi, vice ministro nazionale.

Capitolo elettivo

Assisi, 5-8 giugno 2014 “Voi stessi date loro da mangiare” (Mc 6,37) L’OFS d’Italia per l’universale salute (FF 1846)

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OFS Ancora immagini dell’assemblea nazionale OFS tra momenti liturgici e occasioni di riflessioni e di condivisione. Fra Antonio Belpiede, nella foto centrale, ha presieduto la celebrazione eucaristica che ha concluso la tre giorni ad Assisi.

Una autentica conversione Se queste sono le premesse per il rinnovamento dell’OFS, il lavoro che viene proposto è una conversione reale e concreta per poter vivere appieno la nostra vocazione, non rispondendo ai bisogni di ogni fraternità locale o conformando le fraternità ad alcune specifiche aspettative, bensì fondando la vita di ciascuno «sull’operosità della fede, la fatica della carità e la fermezza della speranza», riprendendo le parole di Paolo ai cristiani di Tessalonica. La fede a fondamento della vita e del servizio; la fede, «chiamata personale per una promessa rivolta a un popolo», dono alla persona per tutta la Chiesa, per tutto l’OFS. «Per questo – afferma Di Pinto – per il bene dell’intera Fraternità nazionale, è indispensabile che i suoi responsabili si rendano disponibili a lasciarsi trasformare sempre di nuovo dalla chiamata di Dio. L’esito del cammino dell’OFS si poggia sulla capacità dei propri responsabili di vivere una fede viva, di abbandonarsi nell’Amore pieno, che è la fede in Cristo, nel suo potere efficace, nella sua capacità di trasformare il mondo e di illuminare il tempo. Dobbiamo chiederci con onestà se a questo esodo – cammino di fede per eccellenza – al quale siamo chiamati preferiamo la “schiavitù” delle nostre sicurezze». E invece spesso il cammino che desideriamo fare è quello della ricerca di consensi o della paura del nuovo e del diverso perché, come spiega Gesù nel Vangelo di Luca, se non si è mai assaggiato il vino nuovo, si pensa sempre che il «vecchio sia gradevole» e non si cercano perciò otri nuovi. Anzi, quasi si arriva a pensare che il vino nuovo debba essere invecchiato. E ancora non ci si riferisce a questioni anagrafiche. Il cammino, «a piedi nudi» ripeterebbe il ministro nazionale, è la condizione che permette di ascoltare ciò che avviene dentro di noi e fuori di noi e che consente di accogliere l’altro nella verità. Senza ricerca di consenso o bisogno di controllo, ma con lo sguardo aperto verso il nuovo che ci chiama e ci sollecita. Lasciando che la zizzania cresca con il grano. Fraternità in cammino Il rischio più grande nel nostro Ordine è proprio quello di confondere bisogni e aspettative e di cercare di estirpare la zizzania prima che sia 24


Il tempo degli statuti Dopo un iter di circa sei anni, approvato dall’Assemblea nazionale OFS il documento messo punto dalla Commissione giuridica. Il vaglio passa al CIOFS di Ciro Caratunti «Ogni cosa a suo tempo», recita l’Ecclesiaste. È stato un iter lungo, protrattosi nel tempo e negli anni, quello dei nuovi Statuti dell’OFS italiano. È iniziato con la Regola, firmata da papa Paolo VI nel 1978, passando prima dalle Costituzioni Generali ad experimentum del 1990 e poi dalle “Costituzioni Generali”, approvate nel 2000. In entrambi i documenti si fa cenno agli Statuti. Ma non era ancora il tempo. Sicuramente non avevamo ancora ben chiaro che dovevamo attendere che il dono si completasse: il dono della fraternità! Non la fraternità locale, ma la fraternità nazionale. Dovevamo attendere che il percorso di unificazione volgesse al termine, possibilmente senza traumi e senza strascichi. Dovevamo percorrere, fino in fondo, il cammino di unificazione delle quattro componenti dell’Ordine Francescano Secolare, fino al 2000 ancora divise per obbedienze legate all’assistenza. Oggi ne riconosciamo, vivendola, tutta la ricchezza.

Da questa ricchezza è nato un gruppo di persone (Ciro Caratunti della Campania, Dimitri Lauretta e Fabio Fazio della Sicilia) che si è stretto intorno all’attuale vice presidente nazionale, Noemi Paola Riccardi, formando la Commissione Affari Giuridici. Si è lavorato insieme, per circa sei anni, alla stesura dello Statuto fra non poche difficoltà, viaggi, studi giuridici, molteplici discussioni e sinergie, ma anche gioia, condivisione, tanta preghiera. Lo Statuto è nato da un foglio bianco che è rimasto tale fino a quando il Signore ha illuminato il cuore e la mente di ognuno, guidando le mani a comporre le parole, a rendere concrete le esperienze di vita fraterna. Terminata la prima stesura, si è passati alla condivisione con tutte le fraternità regionali, per completare il mosaico. Quindi è stata messa a punto l’opera di sintesi di tutti i contributi e la revisione finale, a cura del consiglio nazionale. Durante l’assemblea nazionale, tenutasi ad

Assisi dal 25 al 27 ottobre scorso, lo Statuto è stato approvato. L’attesa non è terminata perché il vaglio passa ora alla Presidenza CIOFS: dopo la ratifica, lo Statuto diventa “reale”. Ma perché uno Statuto? È presto detto: la Regola e le Costituzioni Generali ci indicavano di pensare a questo strumento. E l’Italia era una delle poche nazioni al mondo a non averlo. Lo Statuto è «strumento indispensabile per fornire le risposte ai nuovi quesiti insiti nell’esperienza e nello sviluppo del nostro percorso vocazionale», scriveva lo scorso anno Remo Di Pinto, nostro presidente nazionale. Dunque non una serie di sterili norme giuridiche, ma come dice la premessa dell’elaborato: «Lo Statuto rappresenta lo strumento integrativo al diritto proprio» e serve a «dare risposte pratiche ed esaustive alle varie problematiche inerenti la vita dei propri membri e fraternità». Lo Statuto, dunque, rende concreta la cura del dono della vita fraterna, nello stimolo a guardare a se stessi, alla situazione della fraternità, al mondo circostante per poter vivere il Vangelo in comunione fraterna. Queste norme di vita non mirano all’uniformità che appiattisce il senso di appartenenza alla fraternità, bensì ad un aiuto che renda effettiva la professione emessa, secondo i talenti che il Signore ha donato a ciascuno, nella diversità dei figli di Dio.

La commissione nazionale per le questioni giuridiche: Noemi Paola Riccardi con Fabio Fazio (a fianco) e Ciro Caratunti (in alto). 25


OFS cresciuta, non rendendosi conto che, molto spesso, non riconosciamo l’una dall’altro e rischiamo di strappare solo tutto ciò che è diverso. Si finisce per preoccuparsi più della zizzania che del grano. Si finisce per vedere nemici che minano la solidità e la veridicità dell’OFS, più che fratelli e sorelle, fraternità che ci richiamano a nuovi modi di vivere la nostra missione nella Chiesa e nella società. Si finisce per spegnere la Speranza che ci è stata donata, invece che essere suoi strumenti per la vita dell’uomo. «Una fraternità non è veramente una buona fraternità se non quando ognuno si rende conto che ha terribilmente bisogno del dono degli altri», di ogni “altro”, anche quello che si comporta diversamente da ciò che mi aspetterei e da ciò che giudico “giusto”. Costruire la fraternità nella speranza è compito di ogni professo che «cerca egli stesso di diventare più limpido, più lucido e più fedele nell’esercizio del suo dono». Una fraternità dinamica, sempre in cammino, spiega il ministro: «Resto convinto che l’OFS non è una struttura statica, nella quale “conservare” tutto, ma Chiesa in cammino, popolo di Dio, fraternità di persone come corpo in movimento, anticipo di futuro, veicolo verso la promessa, che si nutre della fede dei suoi membri. È l’atto di fede del singolo che si inserisce in una comunità, nel “noi” comune di un popolo che, nella fede, è come un solo uomo, “il mio figlio primogenito”, come Dio chiamerà l’intero Israele. Non c’è una fede dell’OFS o nell’OFS: c’è una fede dei singoli che va a vantaggio dell’OFS e da questo della missione della Chiesa. Non c’è una memoria da difendere come qualcosa di fisso nel passato, come origine statica – tradizione – da esaltare, perché la memoria di cui parliamo è memoria di una promessa, che è quindi capace di aprirsi al futuro, di illuminare i passi lungo la via». L’incontro io-tu Tutto ciò si può attuare solo in una vita che sappia lasciarsi abitare dall’amore reale e concreto nei confronti degli altri, dei fratelli e delle sorelle che ci sono affidati, dalla «fatica della carità», come la definisce san Paolo nella lettera ai Tessalonicesi. È nella cura reciproca che si cresce nella fede, per portare speranza agli uomini: «La carità è amore, di un amore che è estasi, ma non di un momento di ebbrezza, di esaltazione temporanea, di un cammino che sia esodo permanente dell’io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, verso il ritrovamento di sé, cioè verso la scoperta di Dio. Sentirsi amati, toccati e sanati dalla misericordia di Dio è l’esperienza indispensabile per entrare in questa dimensione d’amore. Si va alla periferia dell’altro solo se riusciamo a farci raggiungere nella nostra periferia. Se lasciamo che ciò avvenga, se ci lasciamo trovare, amare per quello che siamo realmente, allora potremo andare, abbracciare, accogliere, amare, esercitare la responsabilità. Ma è questo che costa fatica! Costa fatica passare dall’esercizio del governo all’eserci26


IN DUE RIGHE

cronaca dalla fraternità nazionale UN VESCOVO FRANCESCANO SECOLARE La fraternità OFS di Cave, in provincia di Roma, ha accolto con gioia mons. Domenico Sigalini, vescovo della diocesi di Palestrina, che nella giornata di sant’Elisabetta d’Ungheria, il 17 novembre 2013, ha emesso la professione nell’Ordine Francescano Secolare. Alla notizia, l’intera fraternità dell’OFS nazionale ha espresso grande gioia. Fra i vescovi italiani degli ultimi anni, francescani secolari, ricordiamo il cardinale Angelo Comastri e il vescovo pugliese mons. Tonino Bello, scomparso 20 anni fa. ASSISTENTI OFS E GIFRA A CONVEGNO Gli assistenti OFS e Gi.Fra. d’Italia si incontrano per il XV corso di formazione, dal 27 al 30 gennaio 2014 presso la Domus Pacis di Santa Maria degli Angeli, in Assisi. Il tema è la «carità perfetta» nell’approccio spirituale, comunicativo

e relazionale. Nel corso, è prevista la presentazione del “Manuale dell’Assistenza all’OFS e alla GiFra”. È possibile prenotarsi entro il 20 gennaio 2014 al Centro nazionale OFS, ai numeri 06.632494 – 334.2870709, oppure inviando un’e-mail all’indirizzo segreteria.assisi@ofs.it. CONCORSO DI NATALE OFS È stato dedicato al tema dell’accoglienza il Concorso di Natale “Caro Gesù Bambino”, promosso dall’OFS d’Italia, riservato ai bambini delle scuole elementari. I bambini sono stati invitati a scrivere una lettera, un disegno o un componimento a Gesù Bambino, esprimendo i propri desideri per un mondo nuovo e una società più fraterna e più accogliente. Previste due premiazioni: una per le classi prima e seconda; l’altra per le classi terza, quarta e quinta elementare. I due vincitori riceveranno una pubblicazione di tema e stile francescano per bambini, e per i genitori un abbonamento a FVS per un anno Il 27 ottobre l’OFS nazionale si è unito alle celebrazioni per lo Spirito di Assisi, a 27 anni dalla storica giornata voluta da Giovanni Paolo II, davanti alla basilica di san Francesco. Remo Di Pinto ha partecipato a nome di Encarnación Del Pozo, ministro internazionale dell’OFS. Nella foto in basso a sinistra mons. Domenico Sorrentino, vescovo di Assisi.

zio della carità. Costa fatica passare dalla ricerca del mio bene alla ricerca del bene dell’altro». «Sono convinto che l’OFS si edifichi attraverso un servizio svolto nella cura delle persone, fuori di sé, nell’incontro tra l’io e il tu; questo aiuta, fa circolare amore, accoglienza, misericordia, pace. Sono certo che questo ci permetterebbe di legiferare meno per difenderci da certe insane creatività. Confrontiamoci, sollecitiamoci nella cura dell’altro, parliamo insieme di come è meglio accogliere e amare, custodire sofferenze e farle proprie nella carità!».������������������������� Confrontiamoci per prenderci cura gli uni degli altri, per accogliere e non escludere, per essere inebriati dal vino nuovo che ogni giorno ci è offerto e che possiamo decidere di offrire. 27


L’inchiesta

Natale dietro le sbarre di Ortensio De Angelis

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olitudine. Abbandono. Disperazione. Voglia di casa, di affetti, di libertà. Passare un Natale dietro le sbarre acuisce le emozioni, ma anche i rimorsi e la tristezza. È la dura realtà per oltre 60mila detenuti che popolano le carceri italiane. Al di là dei problemi della giustizia, del cocente dibattito sull’indulto o sull’amnistia, spesso fin troppo politicizzato, i frammenti di umanità, invisibili perché “rinchiusi”, sono per ogni cristiano e per ogni francescano un richiamo potente al passo evangelico dell’«ero carcerato e siete venuti a visitarmi». «Occuparsi di carceri e di detenuti non è facile, per molte ragioni. In carcere va chi si rende responsabile di comportamenti antisociali, chi viola la legge, chi reca danno ad altre persone. E nell’opinione generale, i luoghi di detenzione sono visti come “qualcosa di sinistro” e incutono timore», dice a FVS 28


«La carne di Cristo»: inizia in questo numero di FVS un’inchiesta fra le “periferie esistenziali” indicate con questa espressione da papa Francesco. Prima tappa dedicata ai carcerati, che sono “i lebbrosi di oggi”. I francescani chiamati a rompere gli schemi: chi si macchia di comportamenti sbagliati resta sempre “persona”, titolare di diritti inalienabili. Cristo non fa distinzione tra detenuti innocenti e colpevoli 29


L’inchiesta

In Italia oltre 60mila detenuti trascorrono il Natale 2013 in carcere. Cristo mette sullo stesso piano chi è nudo, chi è assetato, chi è malato e chi è in carcere, senza fare distinzione tra innocente e colpevole. Essere nella condizione di recluso fa diventare l’uomo uno cosa sola con Lui.

fra Vittorio Trani, OFM Conv, un francescano che è cappellano al carcere “Regina Coeli” di Roma. I lebbrosi di oggi «Come francescani – spiega – vogliamo diventare capaci di avvicinare questa realtà, rompendo gli schemi umani che condizionano scelte e atteggiamenti, proprio come fece il Poverello con i lebbrosi: andò in mezzo a loro e li servì con amore. Erano rifiutati dalla società e dagli uomini di chiesa; 30

Papa Francesco: “Il Signore è dentro con loro” «Dite che prego per i carcerati: li ho a cuore. Prego il Signore e la Madonna che possano superare questo periodo difficile della loro vita. Che non si scoraggino, non si chiudano. Occorre saper dire loro che il Signore è vicino». Sono le parole rivolte da Papa Francesco nell’udienza ai cappellani delle carceri, nell’ottobre scorso. «Il Signore non rimane fuori dalla loro cella – ha proseguito – non resta fuori dal carcere: è dentro. Potete dire ai detenuti: anche Cristo è un carcerato. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore. Lui è lì, piange con loro, lavora con loro, spera con loro». Papa Francesco prega per il ministero dei cappellani, «molto importante» perché «esprime una delle opere di misericordia» e rende «visibile la presenza del Signore nel carcere». «Siate segno dell’amore di Cristo per questi fratelli che hanno bisogno di speranza. Urge anche una giustizia di speranza».

per Francesco divennero i prediletti. Nella piaghe di ognuno di loro, egli vedeva Cristo». Per fra Vittorio, infatti, senza alcuna forzatura «i lebbrosi di ieri si identificano con chi, oggi, si trova dietro le sbarre: chi vive l’esperienza detentiva è come il lebbroso che viveva segregato, fuori da Assisi, lontano dalla convivenza civile. Verso di lui, noi francescani di oggi vogliamo rivolgere l’attenzione», partendo da un esplicito richiamo del Vangelo.

«Ero carcerato, e tu sei venuto» Non si può che ripartire da quella illuminante pagina del Vangelo di Matteo, al cap. 25, per trovare la chiave giusta nel delineare la relazione fra ogni cristiano e il detenuto. Fra Vittorio Trani prosegue: «Gesù mette sullo stesso piano chi è nudo, chi è assetato, chi è malato e chi è in carcere. Non dice “chi è in carcere innocente”. Gesù non fa distinzione tra innocente e colpevole. Essere nella condizione di recluso fa diventare l’uomo una cosa sola con Lui: “Ero in


«Grazie a chi ha ridato speranza alla mia vita» La testimonianza di Alexander dopo l’incontro con i laici francescani nel carcere minorile Sono un ragazzo dell’Europa dell’Est. Giunto in Italia nell’età della pre-adolescenza, subito vengo arruolato da compagni della mia età e della mia nazione per furti e rapine. Mio padre lavora in Italia per mandare denaro a mia madre, in patria. Io, intanto, continuo a usare pistole, manganelli e spray per indurre il sonno. Abbiamo “ripulito” numerose ville. Consumavo alcool ed eroina e tutto mi sembrava bello, spassoso e divertente. Un giorno, oggi direi “benedetto”, qualcosa non funzionò e mi ritrovai catturato dai carabinieri. I momenti successivi furono tremendi. Io, straniero, minorenne, parlavo pochissimo l’italiano. La prima sfida fu incrociare gli occhi severi e tristi di mio padre. Per la vergogna non riuscivo a sostenere il suo sguardo. Il mio orgoglio era ferito. Mio padre, inaspettatamente, mi abbraccia e mi stringe al cuore, senza parlare. Era un primo, strano segno. Per la prima volta mio padre non mi pestava di botte e non mi rimproverava. Non me lo aspettavo! Inizio la vita da carcerato, dove la rigidità e la severità della vita sono la pena più dura. Mi chiudo in totale mutismo. Taglio ogni relazione, convinto che così vinco io. Mentre i miei compagni di carcere giocano e studiano, io resto in punizione perché difendo il mio isolamento con la violenza. Un giorno mi obbligano a partecipare a un incontro, dove un uomo, che si dice “francescano”, ci racconta la sua vita e la sua esperienza. Mi colpisce il suo dolce modo di fare. Alla fine dell’incontro mi lascia un segnalibro dove trovo l’immagine di un

arcobaleno con una frase di Giovanni Paolo II: “La speranza e l’amicizia sono le ali della libertà”. Mentre mi consegna questo biglietto, l’uomo mi stringe con forza e con delicatezza, e riscopro l’abbraccio di mio padre. Alzo gli occhi e piango. Mi nascondo tra le sue braccia per non farmi vedere da nessuno. Il giorno dopo chiedo di rivederlo e chiedo di assistere ai suoi incontri, che mi restituiscono il sorriso. Vengono con lui alcune vecchiette della “fraternità di laici francescani”. Comincia la nostra amicizia. Finalmente in quel carcere troviamo un fratello, che ci aiuta ad avere fiducia nel bello che c’è dentro di noi. Desidero scoprire il segreto della sua gioia di vivere e voglio capire perché si occupa di noi. Un giorno il giudice arriva con il mio nuovo “fratello francescano” e mi fa un regalo: una giornata con lui. Conosco la sua

famiglia, la sua fraternità e i suoi amici. Scopro che la vita con loro è bella e posso cominciare a camminare da solo, sostenuto da loro. Oggi quella famiglia è la mia famiglia. Quegli amici sono “i miei amici”. Io, cristiano ortodosso, scopro san Francesco d’Assisi che, tramite gli amici dell’Ordine Francescano Secolare, mi ha raccolto dalla notte della mia vita e mi ha ridato la luce. Grazie a chi si è chinato sulla mia vita e le ha dato di nuovo i colori della speranza. Grazie ai fratelli di Roma che si sono presi cura di me. Molti dei miei amici, italiani e non, anche se in carcere hanno chiesto di fare la cresima, altri la comunione o il battesimo. I francescani non mi hanno chiesto di diventare cattolico, perché hanno detto che questa è una decisione tra me e il Signore. Alexander 31


L’inchiesta

I Vescovi italiani: «La pastorale carceraria nel suo insieme va compresa come una missione educativa perché il tempo del carcere può e deve essere impostato come un tempo educativo e rieducativo, nel quale la detenzione e la pena subita si integrino in un percorso complessivo di crescita della persona, dal punto di vista umano e cristiano». carcere e tu ti sei occupato di me”». Naturalmente, occorre predisporsi verso la realtà delle carceri in Italia con una dose di sano realismo e concretezza. Unendo la visione civile a quella di fede. «Come cittadini – afferma Trani – crediamo che la legge si debba rispettare, e chi non lo fa deve sopportarne le conseguenze. Nel contempo, da cristiani, aggiungiamo quanto ci viene detto dal Vangelo. Chi si macchia di comportamenti sbagliati rimane sempre “una persona”, con i suoi diritti inalienabili e con la possibilità di cambiare linea di condotta in ogni momento. Questo vale per tutti, anche per chi ha commesso reati infamanti. La risalita può avvenire sempre. Basta pensare al buon ladrone crocifisso accanto a Gesù». L’apostolato nelle carceri Andare a visitare i carcerati, “occuparsi di Cristo in carcere”, oggi non è alla portata di tutti. Non sempre si ha il tempo e l’opportunità di arrivare a 32

L’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per le condizioni inumane dei suoi sovraffollati istituti penitenziari. La crisi del sistema carcerario rilancia l’urgenza di una profonda riforma del sistema penale. Percorsi riabilitativi e lavori socialmente utili possono offrire maggiore efficienza, economicità e umanità.

Fra costi economici e costi umani Sono 64.758, contro una capienza regolamentare di 47.615 posti, i detenuti presenti nelle carceri italiane. Nonostante le misure per ridurre le presenze attraverso misure alternative, gli istituti di pena sono ancora sovraffollati. Le cifre, aggiornate al 30 settembre 2013, sono quelle disponibili sul sito internet del ministero della Giustizia. Sul totale dei detenuti presenti nei 205 istituti di detenzione italiani, le donne sono 2.821, gli stranieri 22.770. I soggetti in semilibertà sono invece 863, e tra questi 90 sono stranieri. La Lombardia, con 8.980 detenuti e poco più di 6mila posti a disposizione, è la regione con il maggior numero di esuberi. Seguono Campania (8.103 detenuti e 5.627 posti), Lazio (7.157 detenuti e 4.799 posti) e Sicilia (6.987 detenuti e 5.540 posti).

Per ogni detenuto lo stato spende ogni giorno una media di 100-120 euro: 4 euro per i tre pasti quotidiani e meno di 20 centesimi per le attività rieducative. Sui 2,8 miliardi di euro assegnati ogni anno dallo stato al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, l’85% sono spese fisse per mantenere 200 istituti e 45mila dipendenti. Il solo istituto penitenziario di “Regina Coeli”, a Roma, costa ogni anno 11 milioni di euro per interventi di manutenzione ordinaria, senza contare le ristrutturazioni straordinarie. Negli ultimi dieci anni sono stati spesi per il “Regina Coeli” circa 110 milioni di euro. Non sono solo i costi economici a pesare sul mondo del carcere. I costi umani, tra condizioni invivibili, malasanità, peggioramento della salute, atti di autolesionismo, violenze, suicidi sono ancora più alti.


Una giustizia dal volto umano La condanna della UE al bel paese può essere un’oppurtunità favorevole per ripensare il sistema penale di Gianluca Sebastiani Che significato e che senso ha la pena? Può avere davvero carattere rieducativo? Il dibattito resta di grande attualità e pone ulteriori interrogativi: somministrando condanne, si esercita davvero la giustizia? E ancora: si può educare al bene attraverso il male? Nonostante leggi penali e penitenziarie improntate alla ri-socializzazione, infatti, il condannato o chi ha già scontato una pena è tuttora respinto dalla società, tornando così spesso a delinquere. Perdipiù, circa un anno fa, l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per le condizioni inumane dei suoi sovraffollati istituti penitenziari. Questa ennesima, umiliante crisi del sistema carcerario, se ben interpretata dalla politica, potrebbe rivelarsi un kairòs: tempo opportuno per un profon-

do cambiamento del sistema penale, che vada oltre la semplice costruzione di nuove carceri e l’adozione di un pur auspicabile provvedimento di clemenza (amnistia o indulto). La Costituzione italiana – che riconosce, fin dai primi articoli, il valore della persona e il contributo del singolo al progresso materiale e spirituale della società – sancisce, al 3° comma dell’art. 27, il cosiddetto “principio rieducativo della pena”, tratteggiando l’immagine di una giustizia intesa come promozione dell’uomo. Rileva inoltre l’esigenza di rispondere al male con progetti di bene, attraverso un aiuto sociale per chi viene punito. La dottrina penalistica più accreditata, inoltre, ricorda che una credibile strategia preventiva dei reati non può basarsi sulla semplice minac-

cia di una pena esemplare o sulla neutralizzazione fisica di chi ha commesso un crimine. Valga, per tutti, l’esempio del terrorista suicida, disposto anche a morire pur di portare a compimento il suo disegno criminoso. Inoltre, per rendere sicura la società, a poco giova mettere in carcere chi ha commesso un delitto: senza un’adeguata cura dei processi di socializzazione, infatti, altri saranno facilmente disposti a rilevare il suo “posto di lavoro criminale”. Una prevenzione realmente efficace, invece, si basa principalmente sulla capacità dello stato di “entrare in dialogo” con i cittadini, facendo sì che questi rispettino per libera scelta i principi fondamentali del vivere sociale. Nulla consolida maggiormente l’autorevolezza del diritto più della decisione personale di chi, rinnegando una precedente esperienza criminosa, sceglie di operare in un’ottica riparatoria nei confronti delle vittime. Di qui l’esigenza di contrastare i fattori che creano spazi economici, culturali e sociali alle attività criminose, l’impegno a recuperare il reo, l’appello a riformare un sistema incentrato sulla pena detentiva, che dovrebbe invece rappresentare l’extrema ratio. Le modalità alternative di risposta al reato sono diverse: percorsi riabilitativi, condotte riparatorie, uso intelligente della pena pecuniaria, procedure di mediazione reo-vittima, lavori socialmente utili. Queste potrebbero offrire all’ordinamento penale profili di maggiore efficienza, economicità e umanità. 33


L’inchiesta

Proposta dal carcere: invece di farli eseguire a ditte esterne, i detenuti hanno suggerito di affidare a loro stessi i lavori di manutenzione, idraulica, elettricità, metalmeccanica e artigianato nel carcere, favorendo, oltre al risparmio, il reinserimento sociale.

varcare le soglie di un istituto penitenziario. Fra Vittorio Trani offre preziose indicazioni e idee: «Verso quel mondo si può rivolgere il cuore. Si può pregare per i detenuti; si può lavorare per una cultura nuova, dove la giustizia umana diventi – come ha detto papa Francesco ai cappellani delle carceri – “una giustizia dalle porte aperte, che ha orizzonti”. Si può lavorare nella società per una giustizia umana che, nel rispetto della legge, non perda mai di vista il bene della persona». E, quando le occasioni lo permettono, ci si può attivare sul piano pratico, per dare un aiuto concreto ai detenuti e agli ex de-

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tenuti che, specialmente in questa fase di congiuntura economica, si trovano a vivere molteplici difficoltà. Alcune fraternità di francescani secolari, in tutta Italia, hanno già cominciato a farlo. Il Natale è incontro tra cielo e terra. È l’amore che varca le barriere dell’umano e riscalda la vita di chi patisce il gelo della solitudine. Il mistero dell’Incarnazione ha illuminato il cuore di Francesco d’Assisi. Il Verbo si fa carne nei carcerati. Persone che, nelle anguste situazioni umane, hanno perso la limpidezza di uno sguardo fraterno, la voglia di una relazione che porta luce e calore. È Natale anche qui.

Nella foto in alto: il caloroso incontro tra papa Francesco e fra Vittorio Trani OFM Conv, cappellano del carcere “Regina Coeli” a Roma. I francescani, sull’esempio del Poverello, sono chiamati a servire i lebbrosi con amore. Per Trani, i lebbrosi di ieri si identificano con chi, oggi, si trova dietro le sbarre.


Semi di un nuovo OFS

Francescani secolari apostoli nelle prigioni Sono diverse le regioni italiane in cui i laici francescani, come fraternità e come singoli, si dedicano all’apostolato nelle carceri. Fra le esperienze che FVS ha raccontato, quella della cooperativa “Fratello Lupo” in Puglia. Nell’OFS del Lazio il servizio nelle carceri è divenuto un caposaldo del settore Evangelizzazione e Presenza nel Mondo (EPM). «In punta di piedi, con timore e tremore, le fraternità si sono affacciate a questa nuova esperienza per l’animazione della liturgia e dei momenti forti dell’anno, nella raccolta di vestiario e beni di prima necessità», racconta a FVS Maria Grazia Di Tullio, delegata regionale OFS per l’ambito EPM. «Abbiamo lanciato due campagne di sensibilizzazione per rispondere a piccoli ma quotidiani bisogni: la prima è “Zuccotti di Natale per il Regina Coeli”, che ha visto impegnate a sferruzzare le donne più anziane delle nostre fraternità. Hanno realizzato berretti in grado di mitigare un po’ il freddo delle prigioni. La seconda si intitola “Una Luce di speranza” e prevede la raccolta di occhiali nuovi o

usati per i detenuti: li si aiuta a leggere per trascorrere le interminabili giornate». La risposta delle diverse fraternità della regione è stata molto positiva e il servizio nato, dall’invito di fra Vittorio Trani OFM Conv, cappellano al “Regina Coe­li” di Roma, prosegue. Attualmente le fraternità dell’OFS Lazio sono impegnate nell’animazione, nella raccolta di beni e in attività ricreative e artigianali nel carcere giudiziario “Regina Coeli” di Roma, nel carcere di Civitavecchia, nel carcere di Cassino e nel super-carcere di Paliano. Altra significativa esperienza è quella dell’apostolato dei laici francescani di Milano nel carcere di Bollate. Don Fabio, il cappellano, li invitò semplicemente a «portare Francesco». Ne è nato un ciclo di quattro incontri da proporre ai detenuti su temi come la misericordia, l’umanità, l’incarnazione di Cristo. «Solo la follia di Francesco poteva pensare a temi così importanti e provocatori, da condividere con dei detenuti», racconta a FVS Maria Cavallaro dell’OFS di Milano-San Francesco, settore EPM.

Quattro incontri, con Parola, Fonti e condivisione: Francesco e la conversione, Francesco e i ladroni, Francesco e l’incontro col Sultano, Francesco e il Presepe di Greccio. Un incontro al mese, iniziando con la visione del film Francesco della Cavani. «Ero già stata, come volontaria, anni fa in carcere. Due piccole esperienze di animazione liturgica, dove non si erano mai create occasioni di scambio coi detenuti. I confini erano rimasti ben netti a rimarcare la sfacciata realtà: noi eravamo quelli liberi e loro erano quelli dentro», prosegue Maria. «Arrivavo con questa esperienza pregressa a quella nuova del Carcere di Bollate. Alla fine del primo ciclo di incontri rendo grazie a Dio e a Francesco per il dono di questa opportunità di grazia». Restano scolpiti nel cuore, nota Cavallaro, «i volti dei detenuti che hanno scelto di partecipare agli incontri. I loro sorrisi. La loro semplicità nel condividere. Il calore con cui parlano di Dio. Alcuni arrabbiati con la vita. Altri fedeli, fiduciosi. Tante persone belle, in cammino, che ce la mettono tutta per rialzarsi. Per continuare a sperare. Anche in galera». L’impressione rimasta a Maria fa pensare: «Sono stati loro a essere venuti da noi. A portare nei nostri cammini di fede un po’ di sana provocazione. A spogliarci dei nostri valori assoluti per chiederci di vestire quelli incarnati. Ogni persona non è il reato che ha commesso. Lo insegna Francesco davanti ai ladroni. Ogni persona ha una dignità ed è un dono di Dio».

Nella foto a lato: la santa Messa nella Rotonda del carcere “Regina Coeli” a Roma, celebrata da fra Vittorio Trani e animata dalle fraternità OFS del Lazio. 35


Giovani

Chi cercate?

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Viaggio nell’universo giovanile, fra crisi di identità e potenzialità nascoste, fra nuove tecnologie, analfabetismo affettivo e presenza nel volontariato

A

di Antonella Giannini

patici, malinconici, demotivati, desocializzati, «tra i più ignoranti d’Europa». Incollati ai media e ai nuovi strumenti di comunicazione come Facebook e YouTube, che, secondo autorevoli osservatori, sarebbero «la seconda vita dei giovani italiani». Uno sguardo sui giovani e sulla loro spasmodica ricerca di identità, in una società “liquida” e segnata dalla crisi, rischia di cadere nei clichet o di essere prigioniera di luoghi comuni. La crisi, infatti, investe sì tutte le generazioni, ma a trovare le difficoltà maggiori sono soprattutto i giovani, cioè quanti si trovano nella fase di elaborazione della personalità, della costruzione di un’identità stabile e definita. L’identità è il risultato di un processo incessante, che dura tutta la vita. Forgiata e influenzata da numerosi fattori, storici, ambientali e culturali, si muove tra percezione di sé e percezione degli altri: porta l’individuo a sapersi orientare, a conoscere la propria posizione nella quotidianità, nell’ambiente circostante e nel mondo. 37


Giovani Lo “schermo” della tecnologia Secondo un’indagine dell’Osservatorio Europeo sui Giovani, «i giovani italiani fra i 15 e i 30 anni privilegiano fortemente le relazioni brevi e immediate; vogliono essere “ora” e questo spiega la mancanza di impegno sociale, l’appiattimento sul presente, il loro utilizzo di telefonini e SMS». Mancano, secondo l’inchiesta, lo sguardo verso il futuro, le aspirazioni e i desideri. I giovani sono smarriti e confusi. Ma quali sono le radici di questa apatia? E, soprattutto, è una analisi condivisibile? Cosa cercano i giovani e cosa nascondono nella loro “immersione tecnologica”? «Un giovane ha difficoltà a capire chi è perché incontra “noi deboli” e un modesto clima solidale, anche nelle cerchie fondamentali di relazione, quali la famiglia e gli amici. Sono certezze che cadono», sostiene, in un colloquio con FVS, Donatella Pacelli, docente di Sociologia generale presso la Libera Università Maria SS. Assunta di Roma (LUMSA). L’assenza di un aiuto diretto nella sfera affettiva più intima dà vita a «un’identità nomade», cioè «continuamente ricercata e poi

L’emergenza educativa: “genitori liquidi” e “nativi digitali” La rivoluzione digitale sembra essere alla base di una sorta di mutazione antropologica: gli adulti di oggi sono “generazione-di-mezzo” (affascinati dalla tecnologia ma dotati di un sistema mente-cervello predigitale), bambini e giovani sono invece “nativi-digitali” (cresciuti cioè in costanti immersioni telematiche). I nativi digitali imparano subito a manipolare parti di sé nel virtuale attraverso gli avatar e i personaggi dei videogiochi, sviluppano ampie abilità visuospaziali, grazie ad un apprendimento prevalentemente percettivo, utilizzano il cervello in modalità multitasking, sono abilissimi nel rappresentare le emozioni (attraverso la tecnomediazione), un po’ meno nel viverle. Sono meno abili nella relazione face-to-face, ma molto capaci nella relazione tecnomediata. Non hanno come riferimento la comunità degli adulti, poiché, grazie alla tecnologia, vivono in comunità 38

tecnoreferenziate, in cui costruiscono autonomamente i percorsi della conoscenza. Figli orfani di maestri In questo contesto si assiste a un fenomeno straordinario: il silenzio degli adulti e lo smarrimento dei figli, che si possono definire “figli orfani di maestri”. I genitori di oggi, utilizzando una metafora altrui divenuta ormai famosa, possono definirsi “genitori liquidi”. Si tratta di genitori che appartengono alla generazione-di-mezzo, capaci di utilizzare la tecnologia digitale ed anzi da essa affascinati. Hanno un profilo su facebook come i loro figli, scimmiottano i figli stessi, e sono pienamente avvolti dalle dinamiche narcisistiche del contesto attuale. Sono genitori affettuosi, preoccupati per i loro figli, ma hanno rinunciato ad educare, cioè a trasmettere visioni della vita, assetti valoriali e di significato, riflessioni di sen-

so. Sono accudenti ma non educanti. Il rapporto educativo è sempre l’incontro tra due libertà, tuttavia nell’ambito del rapporto genitori-figli esiste uno sbilanciamento. Il genitore liquido subisce il tema dell’ambiguità, della fluidità dei ruoli, del narcisismo e del bisogno di emozioni: la relazione educativa ne risulta sbiadita proprio nella sua essenza. In questo senso il genitore liquido è un genitore silente, che rinuncia a narrare e a narrarsi, rinuncia a trasmettere una visione della vita, limitandosi a offrire una molteplicità di scelte che non possono non determinare un profondo smarrimento nel figlio. L’epoca delle passioni tristi D’altro canto la generazione attuale vive due fenomeni a tenaglia, capaci di spegnere progressivamente la fiducia e la speranza. Il primo fenomeno è il silenziamento del desiderio: il bambino “viziato” è quel bambino i cui desideri


Di fronte all’instabilità affettiva delle cerchie relazionali più strette, i giovani faticano a porre lo sguardo verso il futuro, le aspirazioni e i desideri… E cercano altrove le proprie certezze.

sono soddisfatti prima ancora che li possa manifestare. Il secondo fenomeno è l’affermarsi di una visione in cui il futuro è percepito come una minaccia e non come una attesa. I due fenomeni sono alla base di un nichilismo psicologico, che si aggira fra i giovani come un fantasma inquietante e che penetra nelle profondità dell’anima. In questo senso si può definire quest’epoca come “l’epoca delle passioni tristi”, in cui sta crescendo una generazione orfana di maestri, profondamente segregata dal mondo degli adulti e, però, capace di

riorganizzarsi attraverso comunità tecnologiche, dotate di propri saperi e visioni grazie ad una tecnologia capace di costruire ragnatele relazionali nuove, liquide, leggere e infinite. Emergenza educativa Gli adulti da almeno un decennio hanno progressivamente rinunciato ad educare. Ma cosa significa educare, se non farsi carico dell’altro attraverso una relazione autentica, piena, autorevole e aperta alla trasmissione di una visione valoriale e densa di significati del-

la vita? In questo senso educare vuol dire riscoprire il valore della relazione e avviene attraverso la riscoperta della narrazione. Narrare se stessi, la propria vita, la vita della famiglia e della società nella quale viviamo significa trasmettere valori e visioni della vita. Questo richiede agli adulti una capacità innanzitutto di stare con i figli, di essere-per e di essere-con, di entrarci in relazione, di essere significativi ed anche affascinanti. Educare vuol dire anche accettare il rischio della libertà dell’altro, che può determinare momenti difficili e conflittuali. Educare vuol dire trasmettere qualcosa che ci è proprio e dunque significa anche mettersi in discussione, perché educare vuol dire essere autorevoli, e quindi competenti, esperti, ma soprattutto coerenti e responsabili. Se, dopo il tempo della liquidità, tornerà il tempo della riscoperta del valore del legame e della relazione, questo sarà perché alcuni adulti coraggiosi avranno accettato la sfida dell’educazione, restituendo così all’umanità del terzo millennio la fiducia nella vita e la speranza nel futuro. Tonino Cantelmi psicologo e psicoterapeuta docente alla Pontificia Università Gregoriana 39


Giovani nuovamente messa in discussione attraverso cerchie relazionali molto provvisorie». Il giovane che trova rifugio costruendosi «una sorta di schermo» attraverso gli strumenti tecnologici, vive perciò una «povertà a monte: I giovani fanno degli strumenti tecnologici un uso normale, da figli del loro tempo», prosegue Pacelli. «Gli strumenti sono solo strumenti, seppure, come è ovvio, non sempre neutri. Basta farne un uso consapevole». Chi si costruisce una vita relazionale attraverso le nuove tecnologie invece «malcela dei vuoti che non vengono colmati per altre strade e rivela un certo analfabetismo affettivo», cioè l’incapacità di affrontare nella realtà i normali rischi di una relazione: il mancato riconoscimento, i contrasti, i deficit affettivi propri e altrui. Le conversazioni online funzionano finché non si inserisce un elemento di contrasto, poiché in questo tipo di relazione «l’altro è solo un recettore di gratificazione e riconoscimento». Sono, invece, le relazioni “faccia a faccia” quelle che davvero nutrono e fanno crescere, in cui si impara a riconoscersi e accettarsi nelle somiglianze, quanto nelle differenze. L’etica della prossimità nel presente a tinte fosche Di certo neppure il clima sociale e culturale di oggi aiuta i giovani. Prosegue la docente: «La ricerca d’identità è difficile non solo perché stiamo vivendo in un momento storico rappresentato con tinte tanto oscure, in certi casi addirittura apocalittiche – a volte si parla di “crisi nella crisi”. C’è anche un’incertezza valoriale, culturale, che pesa molto sulla progettualità dei giovani». I progetti sono fortemente identitari, ma spesso i giovani non hanno la possibilità di definirne uno. Il sistema sociale nega loro gli spazi pubblici, li relega agli ultimi posti e questo impedisce loro di mettersi in gioco e mostrare le proprie potenzialità. Eppure i giovani non si scoraggiano, anzi sanno ben reagire. Se ne parla poco, ma c’è un’ondata crescente di partecipazione giovanile su molte importanti questioni sociali. «I giovani sono gli attori più convinti del volontariato», ricorda Pacelli, ricercano la partecipazione spontanea e si impegnano a «mettere in campo l’etica della prossimità, con il loro personale modo di guardare meglio e prima i temi oltre confine. I giovani non sono un futuro da costruire, sono già il presente dell’associazionismo». Aprire un varco nella società Perché le nuove generazioni siano in grado di trovare e costruire un’identità sana occorre una responsabilità collettiva. Un giovane “alle prime armi” ha innanzitutto bisogno di figure adulte solide come modelli di riferimento, da cui trarre stimoli positivi, disponibilità al dialogo, spinta ad affrontare il futuro con più coraggio, flessibilità e creatività. La famiglia, che rimane il legame affettivo fondamentale, è il laboratorio di queste esperienze e può senz’altro fare di più. Incisiva, a 40

È necessario che il giovane non si senta “uno fra tanti”, ma “uno per tanti”: egli è un patrimonio di bellezza, ricchezza, novità da cui la società non può prescindere.


Pianeta Gi.Fra.

“IdentiChiτ” Il progetto educativo Gi.Fra. del triennio 2013/2016 «Sei figlio?», chiede a ogni giovane il testo che la Gioventù Francescana d’Italia propone per il cammino formativo. La risposta, che mira a creare nei giovani la consapevolezza dell’essere “tutti di Dio”, è nel titolo: «Ti appartengo». di Giuliano Cattabriga La Gioventù Francescana d’Italia mette al centro del suo prossimo triennio di animazione la riscoperta della propria identità cristiana. Dopo il triennio 2010/2013 intitolato “Ricomincio da tre” – in cui i giovani si sono formati alla riscoperta della “persona” attraverso le tappe della relazione Io-Tu-Noi – la prossima sfida educativa che la Gi.Fra. d’Italia si pone è quella di interrogarsi sul ruolo del giovane, riscoprendo il posto che Dio gli ha affidato, per occuparlo con coerenza. Solo così il giovane può vivere in pienezza le relazioni, comprendendo la verità di ciò che egli stesso è.

Per questo “IdentiChiτ”, il titolo del nuovo triennio di animazione 2013/2016, è più di un gioco di parole: “Identi” come l’identità cristiana la cui riscoperta è l’obiettivo finale del progetto educativo; “Chi” come i quesiti fondamentali che ritornano per ogni tappa (Chi sono io? Chi è il mio modello di riferimento? Chi e come mi guida?); “τ” come il tau, simbolo dell’esperienza di vita francescana componente dell’identità del giovane francescano, tutta da riscoprire. Seguendo alcuni brani della lettera di san Paolo agli Efesini, in questi tre anni la Gi.Fra. ha scelto di interrogarsi sulla questione della figliolanza, della grazia

ricevuta nell’essere figli attraverso l’esempio di Gesù e dello Spirito. Riprendendo la liturgia, poi, le tappe sono scandite all’inizio dalla dossologia «In Cristo, con Cristo e per Cristo» per ribadire con maggiore forza che è attraverso Lui, con Lui e per Lui che la Gioventù Francescana vuole interrogarsi sulla propria figliolanza, rispondendo a tutto questo grazie ai doni dello Spirito Santo. Le tre tappe si pongono ciascuna una domanda di base alla quale il giovane è chiamato a rispondere: «Sei figlio?» per riscoprire di esserlo fino in fondo, facendo esperienza di essere amati da un amore che è insito in noi dall’eternità, per ritrovarsi figli di Dio e della Chiesa, un padre e una madre non solo terreni. Segue: «Con chi sei figlio?» per guardare a Gesù come modello dal quale apprendere le modalità di essere figlio (parole, gesti, emozioni, dinamiche). Approdando a: «Dove e come sei figlio?» per prendere sempre più coscienza che, attraverso i doni dello Spirito, il giovane è chiamato a divenire, anch’egli, “padre” e “madre”. “IdentiChiτ” è dunque un cammino nel quale il giovane è chiamato a mettersi in gioco e a riscoprirsi figlio con il Figlio per eccellenza, Cristo. Divenendo padre/madre consapevole del proprio ruolo e delle proprie capacità, nelle modalità e secondo le strade che lo Spirito Santo indicherà. 41


Giovani tal proposito, la prof.ssa Pacelli: «Se i giovani trovassero nella propria famiglia una garanzia di affettività, riconoscimento e ascolto, questo sarebbe per loro il sostegno principale. Se si sta bene insieme e si soffre insieme, ci si ammala e ci si cura insieme». E poi bisogna aprire loro un varco nella società. Dare loro fiducia, rendere concreti tanti discorsi di “apertura” e creare degli spazi in cui possano liberamente dar voce alle loro abilità e conoscenze. «I giovani di oggi sono molto più preparati di quelli di ieri. Ci sono molte competenze linguistiche, relazionali, capacità di lavorare in gruppo e di sfidare ambienti ostili. Sarebbe auspicabile che la società desse maggiore spazio a questi giovani, di cui tanto parla e dei quali tanto si preoccupa. Se gli spazi non ci sono, forse la generazione precedente dovrebbe mettersi un po’ più da parte». «Se si sta bene insieme e si soffre insieme, ci si ammala e ci si cura insieme». Custodire la vita nelle fasi più delicate dell’infanzia e dell’adolescenza, garantendole il diritto di “divenire”, comporta sacrificio e gratuità da parte degli adulti, ma può fare della società odierna – e di quella futura – un luogo accogliente e più giusto per tutti.

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Femminile, plurale

di Anna Pia Viola

Elogio dei difetti

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lla fine di un anno e, soprattutto, all’inizio di quello nuovo arrivano i bilanci. Impietosi, inclementi e apparentemente “giusti”. Spinti, forse a ragione, dall’imminenza del Natale, volenterosi di ricominciare “sperando che sia un anno migliore”, iniziamo a guardare i nostri difetti, quegli aspetti del nostro carattere che abbiamo giurato di odiare e di voler cambiare, e invece… Eccoci qua con le stesse asperità, amareggiati e arrabbiati perché volevamo farcela ad essere persone migliori, proprio come volevano gli altri. Ed è questo il nostro peggior difetto! Parliamone. In teoria, e in modo generico, tutti noi diciamo di essere consapevoli dei nostri limiti e difetti, diciamo pure che rimarremo sempre limitati, in quanto uomini. Questo in teoria, ma nella vita pratica, concreta, vogliamo proprio eliminare quei tratti del nostro carattere che non ci piacciono, che non vogliamo avere. Dimentichiamo che non possiamo togliere volontariamente ciò che non dipende e non è dipeso da noi: il nostro carattere è il risultato di diversi fattori, culturali, ambientali, familiari e personali. È presuntuoso, oltre che illogico, cercare di cambiare il frutto di qualcosa che non abbiamo né piantato né coltivato noi, eppure… vogliamo essere diversi, “migliori”. Ma non basta, facciamo di peggio! I “difetti” verso cui ci ostiniamo sono spesso quelle caratteristiche che non piacciono a chi ci sta accanto. Loro ci vorrebbero diversi! Quante volte ci siamo sentiti dire: «Ma perché fai così? Ma perché te la prendi? Ma perché non cambi?». Hai voglia

di sfogliare le pagine del Vangelo in cui si ripete in continuazione che Dio in persona ha scelto l’uomo nella sua storia, con i suoi difetti, non per cambiarlo, farlo diverso, ma per annunciargli che attraverso il limite Egli poteva essere accolto dagli uomini. L’ossessiva corsa a cancellare i difetti rivela la malcelata voglia di essere noi Dio. Vogliamo essere perfetti, o comunque non vogliamo avere “quella” caratteristica. Che dire allora? Non sforziamoci più di essere migliori? Tutt’altro! Dico che occorre capire bene COSA si deve migliorare, e cioè lo sguardo benevolo verso la nostra umanità che è fatta di difetti concreti, concretissimi. Più si cresce, più si matura, più si conosce e più si scopre di non conoscersi (direbbe Socrate: «so di non sapere»). Il lieto annuncio del Natale, quest’anno lo accolgo dalle prime battute del Vangelo di Matteo: genealogia di Gesù Cristo… Questa pagina di Vangelo, per molti di noi una noia mortale (diciamolo pure), sono rintocchi di campane che ad ogni nome rivelano una storia fatta di innegabile luce, ma di enormi ombre! Questo Gesù prende autorevolezza – origine appunto – da uomini come il re Davide (e ho detto tutto!). Lui, il Re che non ha imparato dal suo errore. È vero che si è pentito dell’adulterio con Betsabea e dell’omicidio di suo marito, eppure pensa ancora di costruire un Tempio al Signore… Il vanesio non cambia, ha voglia di grandezza. Ma di Davide sappiamo già. Quello che spesso non consideriamo è che in questo elenco di storie concrete, che hanno segnato il DNA storico e

spirituale di Gesù, ci sono alcune donne il cui comportamento non è certo esemplare. Ci viene detto da Matteo (1,3) che la discendenza di Giuda (e Gesù è un giudeo, discendente di Giuda), ossia i figli Fares e Zara, proviene da Tamar, che, per rivendicare un suo diritto si finge prostituta, inganna il suocero (Giuda) unendosi a lui (Gen 38,18-30). Che dire di Racab (o Raab), prostituta di mestiere e, se permettete, molto probabilmente colpevole di aborti data la situazione, che viene tuttavia elogiata per il suo complotto a favore di due spie. E poi c’è Rut, che da straniera acquisisce il diritto di far parte del popolo eletto. Tutte queste donne vengono elette, scelte, nella situazione in cui si trovano, e il bene che compiono, la storia che scrivono parla anche del loro limite, della loro colpa. Da Maria è nato Gesù, chiamato Cristo, il quale da Tamar, Racab, Rut e Betsabea apprende che la via della salvezza si apre nella storia concreta di ciascun uomo, con tutti i suoi difetti conosciuti e da conoscere. 43


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La fede assediata

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di Paolo Affatato

na croce campeggia sul filo spinato. Non c’è immagine più eloquente di quella che si incontra all’ingresso della cattedrale cattolica del Sacro Cuore a Lahore per esprimere come si vive oggi la fede cristiana in Pakistan. Una fede assediata, segnata dalla sofferenza, ma anche testimoniata con coraggio e speranza. La comunità cattolica pakistana vive sì una quotidianità fatta di minacce e discriminazioni, ma questa via crucis annuncia già oggi, nel “qui e ora”, la risurrezione. Lahore è la capitale della provincia pakistana del Punjab, dove l’estremismo religioso islamico si fa sentire, nella società e nella politica. Dopo l’attentato alle Torri gemelle nel 2001 e la guerra in Iraq e Afghanistan, i credenti pakistani – poco più del 2%, su una popolazione di 185 milioni di abitanti, al 95% musulmani – hanno visto moltiplicarsi gli attacchi terroristici. La logica che li genera è quella deformata della «vendetta contro i

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A destra: la “croce fra le spine” che accoglie i visitatori sul cancello di ingresso della cattedrale cattolica del Sacro Cuore a Lahore, capitale della provincia pakistana del Punjab. Simbolo pregnante della condizione della fede cristiana nella “terra dei puri”. Ma il Pakistan è nato nel 1947 dalla scissione con l’India come “nazione per i musulmani”, rispettosa delle minoranze e dei diritti, non come “terra musulmana”, governata dalla legge islamica.


Nelle chiese, recintate per ordine del governo, la comunità cattolica in Pakistan vive una quotidianità fatta di minacce, violenze e discriminazioni. Senza perdere la speranza, annunciando la risurrezione. I francescani testimoni dello “spirito di Assisi”

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cristiani», assimilati, nella propaganda del radicalismo islamico, «all’Occidente che bombarda e uccide». Per questo una disposizione governativa ha imposto a tutte le chiese e agli edifici cristiani di costruire una cinta muraria e di alzare recinzioni con filo spinato, per prevenire aggressioni e violenze terroristiche. Ogni chiesa ha dovuto dotarsi di agenti di sorveglianza e check-point. Istituti e strutture cristiane, scuole, parrocchie e oratori che sono, nello spirito evangelico, oasi di accoglienza, di dialogo e di benignità verso il prossimo, si sono all’improvviso trasformati in fortezze. Il senso di assedio o di estraneità, rispetto al territorio e al tessuto sociale circostante, è cresciuto notevolmente. Cristiani nella “terra dei puri” Lo status dei cristiani in Pakistan ha subito una storica torsione in negativo: basti pensare che i primi missionari francescani, fin dal sec. XIII, e poi nel sec. XIX, al seguito dei colonizzatori inglesi, portarono nel subcontinente indiano l’annuncio del Vangelo e

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In alto: ragazze di una cooperativa tessile nella città di Faisalabad. La cooperativa è stata avviata dalle suore cattoliche per contribuire a migliorare la condizione delle donne nella società. A sinistra: l’arcivescovo francescano di Lahore, Sebastian Shaw OFM, abbraccia e benedice una fedele alla fine della Messa domenicale in cattedrale.


I laici francescani, ultimi fra gli ultimi Younas John è un laico cristiano pakistano che lavora a stretto contatto con il Vescovo di Lahore, la città storicamente più importante del Pakistan. Il Vescovo, il francescano Sebastian Shaw OFM, ha scelto Younas fra i suoi uomini di fiducia, che lo aiutano nell’amministrazione della diocesi. Younas è ministro di una fraternità dell’Ordine Francescano Secolare a Lahore. I laici francescani, in questa difficile realtà sociale, economica e politica agiscono come lievito nella massa. Offrono la loro testimonianza di fede discreta ma significativa. Sono uomini e donne del dialogo, immersi in un mondo musulmano – a volte ostile – dove comunque non si sentono stranieri o reietti. «Siamo pienamente cristiani e pienamente pakistani: non c’è conflitto fra queste due identità», spiega Younas a FVS. L’approccio specifico che i francescani secolari hanno in terra pakistana è quello proprio del carisma francescano, fatto di accoglienza e benignità verso il prossimo,

a qualunque etnia, religione e/o classe sociale appartenga. I francescani secolari, che hanno fraternità a Lahore, Karachi, Islamabad, le tre maggiori città del Pakistan, vivono «seguendo le orme di Francesco nella società, con le loro famiglie, al lavoro, nella scuola, nei rapporti interreligiosi quotidiani», racconta Innocent Mehboob, ministro nazionale dell’OFS pakistano, che cura anche una fiorente realtà della Gioventù Francescana. A caratterizzarne la presenza è «l’impegno per la giustizia e la pace», che significa «un costante e fraterno supporto a quanti soffrono

per discriminazioni, ingiustizie, sofferenze, persecuzioni». I francescani in Pakistan – circa 600 in totale, fra religiosi e laici – si dedicano «alla solidarietà e all’aiuto concreto dei poveri e dei sofferenti, portando un lieto annuncio agli emarginati, spesso anche analfabeti», spiega il ministro. Il messaggio evangelico e il carisma francescano fanno spesso breccia fra i semplici e gli umili, fra i poveri e gli analfabeti, fra la gente dei ghetti e delle periferie, dei quartieri dove mancano i servizi di base e si vive in estremo disagio. In tali contesti, il messaggio di Cristo viene a restituire dignità agli emarginati. Gli stessi francescani secolari sono spesso famiglie molto povere e delle classi sociali più basse. Ma questa condizione, l’essere gli ultimi nella scala sociale, conclude Mehboob, diventa «una via privilegiata per portare il messaggio cristiano, un messaggio fatto di amore, povertà, umiltà, mitezza». (p.a.)

Una luce fra le mani, strette fra quelle del ministro nazionale OFS Innocent Mehboob: così due sorelle del Pakistan emettono la professione nell’Ordine Francescano Secolare a Lahore. Nella foto, seduto alla sinistra di Mehboob, Younas John, ministro della fraternità OFS locale. 47


Mondo

In alto: il parroco di Jehlum (Punjab) benedice i fedeli alla fine della Messa, come è prassi in tutte le chiese. Nelle foto a destra: una tipica fabbrica di mattoni di argilla in Punjab; un scorcio dell’ingresso della cattedrale del Sacro Cuore a Lahore. In basso: la “Moschea reale” di Lahore, la più grande del Pakistan, costruita nel 1673. Può accogliere fino a 100mila fedeli.

costruirono le prime chiese. Allora il Pakistan non esisteva ancora, era tutt’uno con l’India, da cui si staccò solo nel 1947, quando l’impero britannico, lasciando uno dei dominion più importanti, sancì la partition che diede vita a due stati indipendenti: uno per gli indù, uno per i musulmani. Quest’ultimo, il Pak-stan («terra dei puri»), nella mente del padre fondatore, Ali Jinnah, era una nazione non teocratica, ma pluralistica e accogliente verso le minoranze religiose (indù, cristiani, sikh) che vi risiedevano. Tanto che tutt’oggi i cristiani locali vanno fieri della loro identità e cittadinanza pakistana, chiedendo solo di poter godere, secondo i valori originari e una visione democratica, dei diritti e delle libertà garantiti a tutti gli altri cittadini, senza discriminazione di religione o etnia. Fatto sta che il senso di assedio o gli atti di violenza settari e gratuiti non hanno creato paura o nascondimento ma hanno avuto il benefico effetto di rafforzare la testimonianza di fede. I fedeli che ogni domenica gremiscono la cattedrale di Lahore mantengono vivo il ricordo della bomba che nel 2008 sventrò le mura del compendio, uccise due donne cristiane innocenti, devastò il centro delle suore paoline. E lo spettro di nuovi attentati è tornato ad aleggiare dopo la tragica strage di Peshawar, città nel nord del paese: il 22 settembre 2013, nella chiesa di Tutti i Santi, l’attentato di due kamikaze islamisti ha ucciso 126 fedeli cristiani e ne ha feriti altri 166. 48


SHAHBAZ BHATTI PRESTO MARTIRE? sta preparando. Per i fedeli pakistani, intanto, Shahbaz è «già un martire, è già un santo». Oggi manca a tutti il suo zelo per la difesa delle minoranze cristiane e dei diritti di ogni cittadino. Alla radice dell’esperienza di Bhatti c’è anche una traccia di francescanesimo. Bhatti è nato nel villaggio di Kushpur, borgo contadino nel centro della provincia del Punjab. Kushpur significa “villaggio della felicità”: fu fondato agli inizi del ’900 dai frati cappuccini belgi. È un’oasi dove i 5mila abitanti cristiani sono il 99% della popolazione. A Kushpur c’è la casa natale di Bhatti e c’è anche la sua tomba. (p.a.)

Proclamare al più presto “martire” Shahbaz Bhatti, il ministro cattolico delle minoranze religiose ucciso nel marzo del 2011 in un attentato terroristico a Islamabad. È questo il desiderio della Chiesa pakistana che, all’indomani dell’assassinio – una cesura nella storia della comunità cattolica nel paese – aveva scritto una lettera alla Santa Sede, manifestando l’intenzione di spalancare a Bhatti la strada della beatificazione.

«È una persona che ha dato la vita per la fede», scrissero allora i vescovi. Il testamento spirituale del ministro, un testo che è una accorata testimonianza – pubblicato in Italia nel libro Cristiani in Pakistan. Nelle prove la speranza, per i tipi della Marcianum Press – aveva fatto il giro del mondo. Ora, a quasi tre anni dal tragico episodio, si fa strada la possibilità concreta di aprire un processo diocesano di beatificazione e la Chiesa locale si In alto a sinistra: un manifesto che ricorda Shahbaz Bhatti, il ministro cattolico delle minoranze religiose, ucciso nel marzo del 2011 in un attentato terroristico a Islamabad. La sua semplice tomba (foto sopra) si trova nel suo villaggio di nascita, Kushpur, borgo contadino nel centro della provincia del Punjab. A sinistra: donne cattoliche in preghiera in una chiesa di Faisalabad.

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Intolleranza tollerata Sono 4.286 i morti e 4.066 i feriti in diversi omicidi mirati, attacchi di militanti, attentati terroristici avvenuti in Pakistan nei primi otto mesi del 2013. Lo riferisce il “Centro per la ricerca e gli studi sulla sicurezza”, thinktank con sede a Islamabad. «A causa delle falle nello stato di diritto, il Pakistan è diventato un campo di sterminio in cui militanti e talebani operano impunemente», commenta l’Ong “Asian Human Rights Commission” «Il rispetto per la vita e il senso di giustizia sono spariti. Urge un intervento sulla giustizia penale – prosegue la nota – ma occorre la volontà politica per farlo». «Una intolleranza pervasiva è ampiamente tollerata in Pakistan», afferma un altro rapporto sui diritti umani nel pae­se, pubblicato nel 2013 dalla Ong locale “Human Rights Commission of Pakistan”. Il testo cita oltre 200 episodi di violenza per motivi di religione.

Nuovo slancio spirituale Ma a Lahore preti, suore, famiglie, giovani, bambini danno l’impressione di una comunità che nelle prove non si scoraggia, ma vive con fiducia piena nella Provvidenza, certa di essere vicina a Dio. Tantopiù a conclusione dell’Anno della Fede «che ha lasciato nei cristiani pakistani un profondo rinnovamento spirituale e un nuovo slancio per la missione. Ha rafforzato l’unità fra i credenti e infuso nuova speranza, in un momento oggettivamente difficile», spiega a FVS mons. Sebastian Francis Shaw OFM, arcivescovo di Lahore. L’iniziativa di proclamare un Anno della Fede è stata apprezzata anche dai leader delle altre comunità cristiane ufficialmente riconosciute (Chiesa Presbiteriana, Esercito della Salvezza, Chiesa anglicana del Pakistan). «Come cristiani – ha detto il card. Fernando Filoni, Prefetto della Congregazione vaticana per l’Evangelizzazione dei Popoli, in una recente visita nel paese – siamo chiamati a seguire Gesù che, passando, annunciava il Regno di Dio, facendo del bene. La Chiesa è sempre chiamata a costruire ponti e non muri. Sappiamo che questo servizio non è facile e nemmeno sempre ben compreso. Sappiamo ugualmente che non siamo soli e che dietro e al di sopra di questo servizio c’è la grazia di Dio e l’opera dello Spirito Santo». Il card. Filoni ha raccomandato ai vescovi locali «di incoraggiare e confermare sempre nella fede il popolo di Dio. Negli ultimi decenni essere cristiani in questo paese non è stato sempre facile. Anzi, in alcune circostanze, la comunità cristiana in Pakistan, a causa di estremismi e fanatismi, ha dato un’alta testimonianza di martirio e di fe50


A sinistra: l’imam della “Moschea reale” di Lahore, Muhammad Abdul Khabir Azad, una delle maggiori personalità musulmane del Pakistan, è uomo aperto al dialogo. Amico dei frati francescani, partecipa stabilmente a incontri e convegni interreligiosi. In alto: fedeli e bambini alla Messa domenicale nella parrocchia della città di Jehlum, in Punjab. Nella pagina accanto: una famiglia dell’Ordine Francescano Secolare di Lahore, realtà fiorente e in crescita; in basso una suora durante la Veglia pasquale.

SENZA FRONTIERE

Cronaca dalla fraternità internazionale SOSTEGNO ALLE FILIPPINE COLPITE DAL TIFONE HAYIAN La presidenza internazionale dell’Ordine Francescano Secolare ha rivolto

a tutti i laici francescani del mondo un invito a sostenere il popolo delle Filippine con preghiere e donazioni, in seguito al terribile tifone Hayian che ha investito il centro dell’arcipelago nel novembre 2013, i cui effetti sono tuttora gravi e ben visibili. Per rispondere in modo concreto ai bisogni «dei nostri fratelli e delle nostre sorelle in modo rapido e sicuro», il CIOFS invita a inviare donazioni al tesoriere dell’OFS Nazionale delle Filippine.

Bank Account name: Secular Franciscan Order Bank Account: 005581000687 Bank of Philippine Islands (BPI) – Family Bank Bustillos Branch, Sampaloc, Metro Manila – Philippines Swift Code: BOPIPHMM L’OFS E LA CULTURA «Fare cultura significa portare al mondo e testimoniare i valori e i fondamenti del proprio modo di essere, della propria spiritualità»: lo afferma il nuovo programma di formazione pubblicato dalla Commissione Presenza nel mondo della presidenza del CIOFS, titolato L’OFS e la cultura. La scheda completa del programma, disponibile sul sito web www. ciofs.org, è stata elaborata da Anna Pia Viola e Attilio Galimberti, membri dell’OFS italiano e collaboratori di FVS, a cura di fra Amando Trujillo Cano TOR. Il programma spiega che

«fare cultura ha che fare con la scelta dell’impegno cristiano e, nel nostro specifico, francescano secolare». I francescani secolari, infatti, sono chiamati ad essere «nel mondo e per il mondo». PER LE VITTIME DEL GENOCIDIO IN PAPUA I francescani secolari sono in prima linea nel denunciare ed esprimere solidarietà per le vittime del genocidio nell’Irian Jaya, parte occidentale dell’isola di Papua Nuova Guinea, appartenente al territorio nazionale dell’Indonesia. Accanto e all’interno dell’Ong Franciscan International, espressione della famiglia francescana e accreditata all’ONU, i francescani secolari stanno contribuendo a rompere il silenzio su una strage che è stata di recente raccontata nel nuovo rapporto della Asian Human Rights Commission, dal provocatorio titolo “Il genocidio dimenticato”. 51


Mondo A destra: la bandiera del Pakistan, concepita dal fondatore della patria Muhammad Ali Jinnah, ha una parte verde, che rappresenta la maggioranza musulmana del paese; e una parte bianca, per indicare le minoranze religiose, che ebbero un ruolo riconosciuto e significativo fin dal 1947, anno di nascita dello stato. I cristiani in Pakistan sono poco più del 2%, su una popolazione di 185 milioni di abitanti, al 95% musulmani.

deltà a Cristo». Filoni ha quindi elogiato la Chiesa pakistana per la sua edificante risposta alla violenza, sempre avvenuta attraverso la preghiera, il perdono e l’impegno per il dialogo. Citando, poi, l’esempio di Shahbaz Bhatti, il ministro cattolico per le minoranze religiose, che «ha dato il suo sangue per la fede, ed è morto per la pace». Francescani, nello “spirito di Assisi” È proprio un messaggio di pace quello che i francescani in Pakistan – eredi dei primi missionari col saio, che portarono in questa terra la luce della fede – testimoniano ogni giorno. Lo fanno vivendo secondo lo spirito di Assisi, sinonimo di incontro e accoglienza verso ogni uomo. È uno spirito che si incarna nella vita di donne, uomini, laici e religiosi, che fanno del dialogo e del servizio al prossimo la loro missione, in umiltà e compassione. I “seguaci del Poverello” si fanno “strumenti di pace”, portano l’amore dove c’è l’odio, il perdono dove c’è l’offesa, la gioia dove regna la tristezza. «È un popolo delle beatitudini, che semina pace e speranza», come ama definirli il vescovo Shaw. Il riferimento principe per i francescani in Pakistan è l’episodio in cui il Santo d’Assisi portò un messaggio di pace al sultano Melik Al kamel. Si avventurò senza paura in terra musulmana – in tempi di guerre di religione – per predicare il messaggio di Cristo che è amore, riconciliazione, passione sconfinata per l’uomo. Oggi lo spirito francescano vive e fiorisce in Pakistan, perché è un messaggio di fraternità universale. Perché scopre nell’uomo la traccia di Dio creatore, e rende così ogni frammento di umanità un dono prezioso, al di là di casta, etnia, religione, classe sociale. «I cristiani, in alcune aree del Pakistan, sono in croce. Sono perseguitati a causa della fede, subiscono povertà e discriminazioni. Ma le piaghe di questa sofferenza portano alla vita», spiega il vescovo Shaw, che ha scelto come motto episcopale la frase «Dio, fammi strumento della tua pace». Morte e violenza continuano a sferzare i cristiani pakistani: lo confermano il caso di Shahbaz Bhatti, o quello di Asia Bibi, donna cristiana condannata a morte ingiustamente per “blasfemia”. Ma la speranza vive: «Se il chicco di grano non muore non porta frutto», ripete il vescovo. 52


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Chiara luce

di Sr Riccarda Settimo

Una “buona notizia”

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n pomeriggio normale: le monache, dopo la preghiera dell’ora nona, si ritirano nelle loro stanze per la consueta meditazione; solo la portinaia, a motivo del suo ufficio, resta in sala capitolare, più vicina al parlatorio. Squilla il telefono: all’altro capo la voce nota di una persona malata, che con tono sofferente domanda: «Sorella, mi dia una buona notizia: Gesù mi ama?». Davanti ad una domanda come questa, non si può rispondere citando il catechismo o quel tal documento o, persino, il solito versetto della Bibbia. Ci si rende conto che la fede non è una teoria e l’evangelizzazione non è la trasmissione di un contenuto dottrinale, cose cioè che solleticano solo l’intelligenza della persona, suscitando, nella migliore delle ipotesi, un comportamento eticamente (e freddamente!) coerente con le idee proclamate. «Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia piena»: nelle parole dell’apostolo Giovanni scopriamo che la fede è la relazione con la persona di Gesù, un incontro quotidiano che coinvolge, avvolge e – perché no – sconvolge tutta la nostra persona, i nostri sensi fisici (udire, vedere, toccare) e metafisici (contemplare), che dilata e riempie della Sua Vita tutta la nostra vita, la quale, inevitabilmente, finisce per traboccare ancora Vita nella vita del nostro prossimo. Allora le parole sgorgano dalla pienezza del cuore e riscaldano, infondono speranza, coraggio, e “rianimano” la stessa Parola, perché sia quella Buona

Notizia che ciascuno sta aspettando per la propria vita, perché – dice l’apostolo – anche voi siate in comunione con noi, cioè sia vinta ogni solitudine che intristisce l’esistenza e, insieme a Lui, la nostra gioia sia piena. Allora le Comunità di vita contemplativa, chiamate cioè a vivere in maniera specifica la comunione con Dio nel dono totale della propria vita, sono “per vocazione” luogo di evangelizzazione, sia “dentro” che “fuori”. Per noi Clarisse, evangelizzare vuol dire far giungere il Vangelo in ogni ambito della nostra esistenza, permettergli di abitare ogni ambiente del nostro monastero in ogni minuto della nostra giornata; significa fare del Vangelo il criterio di ogni scel-

manda ai Romani e la sola corsa abbia per traguardo l’ultimo posto, quello dei servi. È la vita comune, forse, il luogo in cui di più si manifesta la nostra fragilità, in cui abbiamo bisogno di guardarci con gli occhi di Gesù e di sperimentare la paternità di Dio che, sola, ci dona di accoglierci come sorelle, figlie dello stesso Padre, ciascuna da Lui donata all’altra, ogni giorno, come la sua “buona notizia”. È questa, dunque, la più bella forma di evangelizzazione, questo è il modo più convincente di trasmissione della fede: essere con la nostra stessa vita la “buona notizia” che Dio ha inviato agli uomini; e noi monache di clausura siamo chiamate ad esserlo in modo parti-

ta, il modello di ogni gesto, l’alfabeto di ogni discorso, la misura (senza misura!) della carità, così da divenire, nel mistero di Dio, «specchio ed esempio» per tutti i fratelli e le sorelle. Anche la vita fraterna ha bisogno di essere continuamente “evangelizzata” affinché tra noi non prevalgano i criteri umani della simpatia e dell’antipatia o della ricerca dei primi posti, e non vi sia spazio per l’invidia e la gelosia, per la mormorazione e la divisione, ma l’unica contesa sia quel «gareggiate nello stimarvi a vicenda» che san Paolo racco-

colare ogni volta che rispondiamo alla porta o al telefono, quando accogliamo quanti desiderano pregare con noi o ci chiedono di condividere la meditazione della Parola, quando condividiamo con i poveri ciò che la Provvidenza ci dona, quando prestiamo le nostre orecchie al dolore dell’uomo e ce ne facciamo carico nel nostro cuore, quando ci rallegriamo per la bellezza e l’amicizia di tanti fratelli e sorelle che Dio ci ha posto accanto come riflesso della sua incomparabile bellezza e della fedeltà della sua amicizia, come la sua “buona notizia” per noi. 53


Incontri

Originali, non fotocopie

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di Roberto Luzi

«R

estate secolari, non siate una fotocopia dei frati o delle suore. Siate fieri della vostra secolarità. E poi: andate alle periferie, dove nessuno vuole andare o dove noi religiosi non possiamo andare. Il vostro chiostro è il mondo»: è un richiamo forte, quello che giunge ai laici francescani da fra Josè Rodriguez Carballo OFM, segretario della Congregazione vaticana per i religiosi, già ministro generale dei frati minori. Fra Josè viene eletto «199° successore di san Francesco d’Assisi» nel 2003, e guida l’Ordine finché, il 6 aprile 2013, papa Francesco lo nomina Segretario della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica. La Congregazione vaticana è quella cui fa riferimento giuridico l’Ordine Francescano Secolare, a differenza di altre associazioni e movimenti laicali che fanno capo al Pontificio Consiglio per i Laici. Quella di Carballo, oggi arcivescovo, è stata la prima nomina ufficiale del neoeletto Papa: un gesto significativo. «La responsabilità dei francescani in questo momento storico – rimarca Carballo – è grande», e si dispiega soprattutto nel

Fra Josè Carballo, segretario della Congregazione vaticana per i religiosi: «I laici, offrendo il dono della fraternità, sono essenziali per la nuova evangelizzazione»

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Incontri

contributo alla “nuova evangelizzazione”. Nell’intervista con FVS, l’Arcivescovo col saio spiega: «Il mondo si attende tanto da noi. Come francescani non possiamo dimenticare che la fedeltà al carisma e alla nostra identità sono sempre itineranti e creative». Quale contributo possono dare i religiosi e i laici francescani alla nuova evangelizzazione? Come frati e come francescani secolari siamo chiamati a dare, prima di tutto, la testimonianza di una vita totalmente donata al Signore e ai fratelli, particolarmente agli ultimi. Questi devono essere – di fatto, e non solo in via teorica – i nostri prediletti, perché sono i prediletti di Gesù e di Francesco. Inoltre noi frati e voi laici possiamo offrire al mondo contemporaneo il dono della comunione. In questo modo esprimeremo il mistero della Chiesa che è comunione. Per tutti i francescani la vita di comunione e di fraternità è elemento essenziale per collaborare alla nuova evangelizzazione. In tale prospettiva, come possiamo recepire, nel nostro specifico, tre verbi usati più volte dal Papa: «camminare», «edificare», «confessare»? Iniziamo dal «camminare», che è essenziale per un cristiano e, naturalmente, per un francescano. 56

Nelle foto, fra Josè Carballo mentre celebra una Eucaristia (in alto); nel cordiale colloquio con papa Francesco (in basso); in compagnia di un confratello frate minore africano (a destra). Carballo ricorda che i «francescani sono chiamati a dare, prima di tutto, la testimonianza di una vita totalmente donata al Signore e ai fratelli».


CHIOSTRI E CAMPANILI nel paese una prima, piccola fraternità. Il delegato generale per le Missioni OFM, l’italiano fra Massimo Tedoldi, insieme ad alcuni frati africani già presenti nel continente nero, sta curando da vicino i primi passi della nuova realtà, accolta dalla popolazione locale con gioia e con speranza.

UNA CLARISSA “GIUSTA FRA LE NAZIONI” Il Museo Yad Vashem di Gerusalemme ha conferito il titolo di “giusto tra le nazioni” a Suor Giuseppina Biviglia (1897-1991), per aver salvato numerosi ebrei nel monastero di San Quirico ad Assisi, durante la seconda Guerra Mondiale. Suor Giuseppina – allora abbadessa del monastero – e le clarisse ospitarono e nascosero gli ebrei, vittime dei rastrellamenti tedeschi,

anche a rischio della loro vita. La cerimonia di consegna è prevista presso il Museo della Memoria di Assisi. I FRATI MINORI ARRIVANO IN CAMERUN Si rafforza la presenza del carisma francescano in Camerun, dove già esiste una missione dei frati cappuccini e una fiorente realtà di francescani secolari. Da alcuni mesi anche l’Ordine dei Frati Minori ha avviato

INCONTRI “PRO DIALOGO” A ISTANBUL Prosegue instancabile il cammino del dialogo interreligioso, portato avanti con convinzione dalla famiglia francescana nel Vicino Oriente. Ne sono un esempio gli speciali incontri “Pro dialogo”, organizzati a Istanbul (Turchia) dal Centro Francescano Internazionale per il Dialogo (CEFID) insieme alla Custodia d’Oriente e di Terra Santa. All’ultima assemblea, tenutasi nel novembre 2013, hanno preso parte numerosi membri dell’Ordine dei Frati Minori Conventuali. Scopo del meeting: conoscere l’Islam “dal di dentro” e riflettere sulla propria fede cristiana vissuta in mezzo ai musulmani.

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Incontri La vita è cammino, cammino alla presenza del Signore per scoprire cosa ci chiede il Signore. Un giovane, come un adulto, è chiamato a vivere alla presenza del Signore, sapendo che Lui c’è sempre, ci accompagna sempre, non ci abbandona mai. Per noi francescani è importante camminare con altri fratelli e sorelle: ecco l’importanza della fraternità, ecco l’importanza di sentirci famiglia. E camminare anche mano nella mano con la Chiesa. Questo è garanzia per non sbagliare strada. Il verbo «edificare» richiama il compito, per noi francescani, di riparare la chiesa? Il Santo Padre, quando parla di «edificare», chiede che si faccia sulla roccia che è Cristo. Cristo occupi il centro della nostra vita. È Lui il cammino, la verità e la vita. Detto con le parole di Francesco, Lui è «tutto». Dal primo momento, il Santo Padre insiste nel dire che la Chiesa non è una Ong. Ecco perché la fede è un elemento indispensabile per costruire la Chiesa. Senza la fede non si può concepire la Chiesa e non si può edificare la Chiesa. Come ricorda papa Benedetto XVI nella lettera apostolica Porta Fidei, la fede, lampada che illumina il nostro cammino, può illuminare il cammino di tanti altri. Non basta celebrarla nelle nostre comunità. Si deve testimoniarla negli ambiti dove siamo: al lavoro, in famiglia, tra gli amici. Parlando di «riparare» o «edificare» la Chiesa non possiamo dimenticare altri due aspetti: il primo è riparare la propria esistenza, quindi convertirsi in “vangelo vivente”. In secondo luogo, per riparare la Chiesa è necessaria una vita fraterna autentica. La fraternità, per ogni seguace di san Francesco, è la prima forma di evangelizzazione. Il terzo verbo è «confessare»: cosa significa per i laici francescani? La “confessione della fede” si fa soprattutto con la vita. Ricordiamo quanto Francesco dice sulla predicazione: la prima forma di predicazione è la testimonianza silenziosa. Poi, se conviene davanti a Dio, si deve anche predicare. Meno parole e più esempio, maestri e testimoni allo stesso tempo: è quanto ci chiedono il mondo e la Chiesa in questo momento. Papa Francesco ci mostra il cammino per confessare la fede in modo comprensibile per l’uomo di oggi. Con i suoi gesti, profondamente evangelici, ci rivela, ancora una volta, che mentre le parole muovono gli esempi trascinano. Non si può separare vita e messaggio. Nella GMG di Rio de Janeiro il Papa ha richiamato tutti alla semplicità. Cosa può dire Francesco d’Assisi ai giovani d’oggi? Ai Pastori, ai giovani, a tutti, Francesco d’Assisi grida: «Vangelo». Francesco è profondamente attuale: perché è “esegesi vivente del Vangelo”, un Vangelo vissuto nella radicalità, «sine glossa». Francesco prende il Vangelo nella sua nudità e continua 58

Camminare, edificare, confessare: tre verbi usati spesso da Papa Francesco che, secondo fra Carballo, sono la bussola per i laici francescani oggi: camminare alla presenza del Signore, anche nelle asperità dell’esistenza; edificare la vita sulla roccia, che è Cristo, soprattutto attraverso il dono della fraternità; confessare, più che con la predicazione, con la testimonianza delle opere.


Oltre il segno del

Battesimo

di fratel MichaelDavide Semeraro e fratel Andrea Serafino Dester, Koinonia La Visitation

Franz Rosenzweig: scoprirsi mortali

F

ranz Rosenzweig nasce il 25 dicembre 1886 a Kassel, in Germania in una famiglia ebrea di raffinata cultura e ben inserita nella borghesia tedesca; l’osservanza religiosa è limitata alla celebrazione delle feste più importanti. Durante gli studi ginnasiali, Rosenzweig è attratto soprattutto dall’arte e dai grandi pensatori della cultura tedesca, ma, per soddisfare i desideri del padre Georg, si iscrive alla facoltà di medicina dell’università di Gottinga, proseguendo poi tali studi a Monaco e Friburgo. A Friburgo comincia ad emergere in Franz l’interesse per la storia e la filosofia; abbandona completamente gli studi scientifici per dedicarsi allo studio di queste discipline, a lui più congeniali. Alla base del pensiero filosofico di Rosenzweig sta il netto rifiuto delle pretese idealistiche e totalizzanti della filosofia, la quale, pur radicandosi nella limitata condizione mortale del singolo, finisce per negare la realtà della morte e del tempo. Da ciò deriva la tesi a effetto con cui Rosenzweig apre il suo complesso capolavoro, la paura della morte genera la filosofia, ma la filosofia nega la realtà della morte: «Rigettare la paura che attanaglia ciò ch’è terrestre, strappare alla morte il suo aculeo velenoso, togliere all’Ade il suo miasma pestilente, di questo si pretende capace la filosofia». Mentre progetta una carriera acca-

demica, nel 1913 Rosenzweig vive una profonda crisi spirituale e manifesta l’intenzione di convertirsi al Cristianesimo; vuole però entrare nel Cristianesimo da ebreo, non da pagano. Si reca perciò, nell’ottobre del 1913, in una piccola sinagoga ortodossa di Berlino per celebrare la festa dello Yom Kippur. Mentre è seduto in preghiera, Franz matura un’altra profonda crisi nella quale scopre un Ebraismo che non è un residuo del passato, ma una religione e una speranza vivente; decide quindi di restare ebreo e di dedicarsi completamente all’Ebraismo. Nel 1914 si trasferisce a Berlino dove studia per incrementare la sua conoscenza della lingua ebraica, dell’arabo e del Talmud e incontra per la prima volta Martin Buber. Nello stesso anno scoppia la Prima Guerra Mondiale e Rosenzweig, richiamato nell’esercito tedesco, è inviato sul fronte macedone. Durante la permanenza in trincea comincia a stendere La Stella della Redenzione, opera centrale di tutta la sua speculazione. Nel 1920 sposa Edith Hahn, conosciuta a Berlino, e si trasferisce a Francoforte per dirigere la “Casa libera dell’insegnamento ebraico”, appena istituita dal rabbino Nobel. Nel 1921 soffre i primi sintomi di una sclerosi che lo paralizza lentamente. Nel 1925 comincia a tradurre in tedesco la Bibbia ebraica con Martin Buber. Nell’ultimo periodo della sua vita resta paralizzato a causa della malattia,

ed è capace di muovere soltanto gli occhi, ma attraverso un alfabeto posto di fronte al suo letto riesce a comunicare con la moglie e a continuare a scrivere. Muore nel 1929 a soli 43 anni. «Poiché, certo, un Tutto non morrebbe e nel Tutto nulla morirebbe. Soltanto ciò ch’è singolo può morire, e tutto ciò ch’è mortale è solo», ma scrive ancora ne La Stella della Redenzione, «Certo è necessario che almeno una volta nella vita un uomo si spinga fuori. Egli deve essersi sentito almeno una volta in tutta la propria terribile povertà, solitudine e lacerante separazione dal mondo intero ed essere rimasto un’intera notte faccia a faccia con il nulla. Ma la terra lo reclama di nuovo. Non gli è concesso, quella notte, bere fino in fondo la pozione. Per sfuggire alla strettoia del nulla un’altra via gli è destinata, una via diversa da questo precipitare nelle fauci dell’abisso. L’uomo non deve rigettare da sé la paura terrena, nel timore della morte egli deve rimanere», e questo rimanere è possibile solo grazie all’amore. Per Rosenzweig non è la verità che è Dio, ma è Dio che è la verità, nel senso che Egli è più che la verità proprio in quanto origine e luce del vero. All’uomo e ai vari popoli della terra spetta il compito di inverare il vero, di vivere autenticamente questa verità. L’uomo, allora, che si scopre e accoglie mortale, è redento con un appello alla vita e all’amore. Questa vuole essere l’ultima parola di Rosenzweig. 59


Incontri quindi nella sua freschezza, nella sua “lingua madre”. Per Francesco, dire Vangelo è dire Gesù Cristo. Francesco è tutto Vangelo, è tutto Cristo. E, poiché Cristo si è fatto “piccolo”, anche Francesco vuole vivere fino in fondo la minorità, fatta di semplicità, di spogliazione. Né la Chiesa, né noi francescani possiamo allontanarci della semplicità, altrimenti non andremo lontano. La semplicità è condizione per capire il Vangelo, la minorità condizione per seguire Cristo. Fra Josè, che messaggio lancia ai francescani secolari d’Italia, nel loro impegno per la “nuova evangelizzazione”? Restate secolari, non siate una fotocopia dei frati o delle suore. Siate fieri della vostra secolarità. E poi, non dimenticate che la formazione è garanzia di un vissuto con passione e di un futuro abbracciato con speranza. Direi anche: andate alle periferie, dove nessuno vuole andare o dove noi religiosi non possiamo andare. Uscite dalle sacrestie: i vostri luoghi preferiti siano le strade, le piazze, le famiglie, i luoghi di lavoro. Il vostro chiostro è il mondo. Appartenenti a una fraternità, inviati dalla fraternità, ben formati, andate, testimoniate, annunciate.

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La missione dei francescani secolari è quella di «andare nelle periferie, dove nessuno vuole andare o dove noi religiosi non possiamo andare», dice fra Carballo. Lasciare le sacrestie per riempire le strade e le piazze.


Segni & Tracce da leggere, da vedere, da ascoltare

Un libro su Gesù del maestro di Napoli pag. 62

Presepi

Natale con l’arte

La “voce” di Assisi,

da tutto il mondo

di Raffaello

frate Alessandro,

in mostra a Rimini

a Palazzo Marino,

canta il Natale

fino al 6 gennaio

municipio di Milano

nel suo nuovo cd

pag. 63

pag. 65

pag. 65 61


Segni & Tracce

C’era un libro su Gesù nel cassetto del maestro di “Io speriamo che me la cavo”

AUDIOVISIVI PAOLINE: 60 ANNI DI INNOVAZIONE L’Editoriale Audiovisivi delle Paoline compie sessant’anni di vita. «È un’occasione preziosa per fare memoria della storia vissuta e, nel contempo, individuare lo spartito delle prospettive future», spiegano le Figlie di San Paolo. «Gli inizi dell’attività discografica, nel 1953, sotto l’impulso di don Giacomo Alberione, furono umili e carichi di difficoltà ma – ricordano – sostenuti da una grande fede e convinzione. I primi dischi vennero prodotti come supporto ai filmini catechistici, a quel tempo senza sonoro». Oggi, con lo sviluppo del web, la produzione discografica si è aperta a nuovi canali: «Cambiano gli strumenti ma – precisano le Paoline – la missione è quella di sempre: offrire contributi per la crescita umana e cristiana delle persone, con un’attenzione sempre vigile ai cambiamenti in atto nella società». 62

«U

no dei figli più belli, che aveva il polso della città e che sapeva dare la medicina per curare i mali di Napoli». È la descrizione che don Luigi Merola, prete napoletano noto per il suo impegno contro la camorra e presidente della fondazione ’A voce d’e creature, dà di Marcello D’Orta, morto martedì 19 novembre a Napoli. Malato da tempo di cancro, il maestro e scrittore, autore del best seller “Io speriamo che me la cavo”, stava scrivendo un libro su Gesù. Nel 2012 era invece il libro ’A voce d’e creature, scritto a quattro mani con don Luigi Merola dedicato ai ragazzi a rischio che la fondazione del sacerdote cerca di recuperare. Il libro contiene, infatti, quello che i bambini pensano sulla camorra e i problemi di Napoli, ma anche le loro lettere al sindaco e al Papa, le loro storie – non sempre facili – e poi le speranze, i sogni, le aspirazioni per un mondo migliore. «Per me – dice don Merola – è stato un maestro e, al tempo stesso, ho visto in lui un bambino tra i bambini. Era capace di parlare ai ragazzi stando dalla loro parte, e quindi di leggere il loro cuore. Maestri come lui, purtroppo, oggi sono veramente rari perché sapeva guardare il mondo con gli occhi dei bambini. Per i ragazzi della Fondazione è venuto meno un punto di riferimento importantissimo. Per quattro anni

ha portato avanti un laboratorio sulla scrittura, per aiutare i piccoli a scrivere e a imparare nuovi vocaboli. Nei nostri quartieri, infatti, c’è tanta ignoranza e D’Orta diceva che questa è una forma di schiavitù. Per Marcello il fatto che i ragazzi imparassero anche poche parole nuove a settimana era motivo di gioia». Per lei cosa è significato l’incontro con il maestro scrittore? «Mi ha dato una carica in più ad amare questa città. Nonostante abbia denunciato spesso con i suoi scritti i mali di Napoli, D’Orta era legato a questi luoghi. Mi diceva sempre di non andare mai via da Napoli e di continuare a scrivere dei problemi che la affliggono e anche delle sue bellezze dal di dentro». Negli ultimi tempi D’Orta stava scrivendo un libro su Gesù: ci può raccontare qualcosa? «Aveva già scritto una quarantina di pagine. Qualche giorno prima del suo ultimo ricovero all’Ospedale Monaldi mi ha detto che in un primo momento voleva parlare di Gesù visto dai bambini, poi ha deciso di scrivere come lui vedeva Gesù, anche in questi anni della malattia. Come lo ricordano i suoi bambini? «Uno di loro mi ha chiesto: “Ma adesso sta in Paradiso?”, io gli ho risposto: “Marcello sicuramente, noi speriamo che ce la caviamo ad andare in Paradiso”». Gigliola Alfaro


Segni & Tracce Chiara Frugoni firma uno splendido albo per ragazzi

La Caritas e Migrantes della diocesi di Rimini promuovono l’undicesima Mostra dei presepi dal mondo, un originale punto di vista sull’arte popolare legata al Natale. Il tema di quest’anno è “Famiglia e Lavoro”. Sarà possibile visitare la mostra fotografica sulla Sacra Famiglia nella quale saranno rappresentate immagini del patrimonio artistico della diocesi e della tradizione religiosa dei vari paesi di provenienza degli immigrati residenti a Rimini. La Mostra rimarrà aperta dal 7 dicembre al 6 gennaio presso la sala dell’Arengo in piazza Cavour, dove una trentina di gruppi di immigrati allestiranno il loro presepe. Saranno esposti circa 300 presepi provenienti da tutto il mondo.

Natale multilingue e multimedia per la Diocesi di Novara Inglese, tedesco, olandese, francese e spagnolo. Sono le cinque lingue in cui è stato realizzato un sussidio per la celebrazione della Messa durante il tempo liturgico di Avvento e del tempo di Natale. L’iniziativa è dell’Ufficio di pastorale del turismo della diocesi di Novara, lo scopo è offrire un supporto alle numerose parrocchie diocesane frequentate da molti turisti provenienti da tutta Europa. «Un’iniziativa per migliorare l’accoglienza e l’ospitalità liturgica – spiega il responsabile dell’ufficio diocesano, don Roberto Sogni – a partire dalle indicazioni che il nostro vescovo ha suggerito nella sua ultima lettera pastorale “Come sogni la Chiesa di domani?”. Si tratta di un tassello, seppur piccolo, per sognare insieme la nostra Chiesa del futuro». Il sussidio si può scaricare dal sito www.diocesinovara.it.

scaffale

PRESEPI DA TUTTO IL MONDO IN MOSTRA A RIMINI

Un vecchio lupo rifiutato dal branco si aggira affamato nel bosco, si avvicina a case e fattorie e compie razzie di bestiame. Gli uomini lo temono, lo odiano, ma non riescono a catturarlo. Allora chiedono aiuto a un frate, che si dice abbia il dono di capire la lingua degli animali. Francesco promette di parlare al lupo e si avventura con un gruppo di fratelli alla sua ricerca. Ma quando cala la notte e si ode l’ululato del lupo, i frati fuggono intimoriti, lasciando Francesco da solo. Anche Francesco ha paura, ma ha fatto una promessa agli uomini e continua a camminare nel fitto del bosco, a piedi nudi nella neve. Quando Francesco si ferma spossato e si addormenta su un letto di sassi, il lupo si avvicina, lo annusa e sente un odore magico, nuovissimo, diverso da quello di tutti gli altri uomini. D’ora in poi il lupo sarà sempre al suo fianco. Uno splendido albo illustrato in cui i bambini apprezzeranno la storia avventurosa, gli adulti l’alto valore dei contenuti. Chiara Frugoni, Francesco e il lupo. Un’altra storia, pp. 32 euro 15

L’elogio della disobbedienza di Chiara d’Assisi È la storia di un incontro, questo libro intimo e provocatorio: tra una grande scrittrice che ha fatto della parola il proprio strumento per raccontare la realtà e una donna intelligente e volitiva a cui la parola è stata negata. Non potrebbero essere più diverse, Dacia Maraini e Chiara di Assisi, la santa che nella grande Storia scritta dagli uomini ha sempre vissuto all’ombra di Francesco. Eppure sono indissolubilmente legate dal bisogno di esprimere sempre la propria voce. In questo racconto, che a volte si fa scontro appassionato, segnato da sogni e continue domande, Dacia Maraini traccia per noi il ritratto vivido di una Chiara che prima è donna, poi santa dal corpo tormentato ma felice: una creatura che ha saputo dare vita a un linguaggio rivoluzionario e superare le regole del suo tempo per seguirne una, la sua. Dacia Maraini è autrice di romanzi, racconti, opere teatrali, poesie, narrazioni autobiografiche e saggi, tradotti in venti paesi. Dacia Maraini, Chiara d’Assisi. Elogio della disobbedienza, Rizzoli, pp. 256 euro 17,50 63


Segni & Tracce

Quando il cinema alza la voce contro l’indifferenza «RIFLETTERE SULLA COMUNICAZIONE ECCLESIALE» «È necessaria una riflessione di ordine generale sul comunicare nella Chiesa». Lo ha detto il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della cultura, intervenuto all’incontro con i giornalisti presso la Libera Università Maria SS. Assunta (LUMSA) su “Comunicazione e verità nell’era di papa Francesco”. L’evento ha costituito in un certo senso il prodromo della cerimonia di conferimento al cardinale della laurea honoris causa in Scienze della Comunicazione, svoltasi poco dopo in occasione dell’inaugurazione dell’Anno accademico 2013-2014. Nella cultura contemporanea, afferma il porporato, «esiste una crisi della comunicazione» mentre «l’eccesso di comunicazione rischia di diventare negazione della comunicazione». Per Ravasi «è necessaria una riflessione di ordine generale sul comunicare nella Chiesa». 64

“A

ll Is Lost” (Tutto è perduto) di J. C. Chanders – protagonista Robert Redford – presentato fuori concorso al 66° Festival di Cannes (nelle sale italiane da febbraio 2014) ha inaugurato il 3 dicembre la XVII edizione del Tertio Millennio Film Fest. “Coprotagonista” del film, che racconta la lotta per la sopravvivenza di un naufrago dopo lo speronamento in mare aperto della sua barca a vela da parte di un container alla deriva, una violenta tempesta. E proprio “Innocenti nella tempesta. Il cinema contro la globalizzazione dell’indifferenza” è stato il tema del Tertio Millennio Film Fest 2013, al quale il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha conferito una propria targa di rappresentanza. Un tema, spiega don Ivan Maffeis, presidente del festival e della Fondazione Ente dello Spettacolo, ispirato «all’invito di papa Francesco a globalizzare la solidarietà e con il quale la rassegna ha voluto lanciare un forte segnale contro l’indifferenza». Organizzato dalla Fondazione Ente dello Spettacolo e dalla “Rivista del Cinematografo”, in collaborazione con il Centro sperimentale di cinematografia – Cineteca nazionale, il “Tertio Millennio” è l’unico festival cinematografico italiano realizzato con il patrocinio dei Pontifici Consigli della cultura e delle comunicazioni sociali.

Ad esprimere l’auspicio che «il cinema ancora una volta sappia andare incontro all’uomo, calarsi nella sua realtà di oggi», ma anche avere «la capacità di farci sognare e sperare», è monsignor Claudio Maria Celli, presidente del Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali e presidente del consiglio di amministrazione del Centro Televisivo Vaticano, intervenuto alla presentazione. Nel richiamare il tema «indicato da papa Francesco per la Giornata delle comunicazioni sociali: la comunicazione come momento e promozione della cultura dell’incontro», monsignor Celli spiega che l’incontro «è attenzione, vicinanza, simpatia per l’altro». «Un aspetto tipico del Santo Padre in questi primi mesi di pontificato – la seconda riflessione del presule – è la sua grande capacità di farsi capire, di parlare in maniera semplice, diretta, senza avere bisogno di mediazioni culturali. Come il Vangelo, il Papa parla e arriva direttamente al cuore dell’uomo» e, come alcuni affermano, «sa anche farci sognare e sperare». «Se non costituiscono forse un’arca di salvezza – ha concluso l’arcivescovo – i film in rassegna sono almeno una scialuppa che nel suo guscio racchiude storie di vita e le consegna al pubblico con una domanda». Giovanna Pasqualin Traversa


Segni & Tracce

Natale con l’arte di Raffaello a Palazzo Marino di Milano Sarà un dono preziosissimo quello che i milanesi troveranno sotto l’albero questo Natale. Fino al 12 gennaio nella sala Alessi di Palazzo Marino, il municipio della città, sarà possibile ammirare la celebre Madonna di Foligno di Raffaello Sanzio (1483-1520). Ritorna ormai l’attesa esposizione natalizia promossa dal Comune di Milano e da Eni, quella che a ingresso gratuito ha permesso di ammirare negli anni precedenti i capolavori di Caravaggio, Leonardo, Tiziano, De La Tour. Fino alla mostra dei record, l’anno scorso, Amore e Psiche di Canova, che ha fatto registrare 225mila ingressi. Adesso grazie al prestito dei Musei Vaticani arriva questa famosa opera rinascimentale dipinta da Raffaello tra il 1511 e il 1512. La tavola fu commissionata da Sigismondo de’ Conti, illustre umanista di Foligno e segretario di papa Giulio II. Doveva essere collocata sull’altare della chiesa di Santa Maria in Aracoeli sul Campidoglio a Roma, ma venne poi trasferita nel 1565 alla chiesa di Sant’Anna presso il Monastero delle Contesse a Foligno. Portata in Francia da Napoleone nel 1797, in seguito al Trattato di Tolentino, entrò a far parte della Pinacoteca Vaticana nel 1816. L’arte di Raffaello è tale da rendere vivissima una sacra conversazione tra i santi e la Madonna, in cui è coinvolto

anche chi guarda. San Giovanni Battista ha gli occhi fissi sullo spettatore e indica la Vergine con il Bambino, san Francesco supplica Maria e indica lo spettatore, così come san Girolamo che sta intercedendo per Sigismondo.

La Vergine Maria, rivolge lo sguardo al Figlio, ma con la coda dell’occhio sembra osservare le persone sottostanti. Sguardi da cui saranno interpellati anche i visitatori di Palazzo Marino proiettati anche senza volerlo in uno scenario sublime.

UNA SINGOLARE MOSTRA DI “CHARTULAE” NATALIZIE Le «chartulae nataliciae» sono biglietti augurali d’arte realizzati da incisioni originali d’autore stampate a mano. L’idea nasce da una cartula, il famoso biglietto con parole fraterne inviato da

Francesco a frate Leone nel 1224. E oggi quest’idea è diventata un’iniziativa che caratterizza il Natale ad Assisi, con un deliziosa mostra di questi oggetti d’arte. La mostra, in esposizione al santuario di San Damiano fino al 12 Gennaio 2014, dalle 10.00 alle 12.00 e dalle 15.00 alle 16.30, verrà replicata successivamente presso il Museo della Porziuncola a Santa Maria degli Angeli.

La “voce” di Assisi canta il Natale Fra Alessandro Giacomo Brustenghi, nato a Perugia il 21 aprile 1978, all’età di 21 anni decise di donare la vita al Signore e al servizio del Suo Regno seguendolo sui passi di Francesco d’Assisi nell’Ordine dei Frati Minori. La passione per la musica e per il canto, coltivata attraverso lo studio di entrambe le discipline sin da adolescente presso il Conservatorio, insieme ai doni che in questo ambito il Signore gli ha fatto e all’impegno, hanno permesso ad Alessandro di impreziosire le liturgie celebrate nei conventi in cui ha finora vissuto. Un anno fa, fra Alessandro fu scoperto proprio alla Porziuncola dal grande produttore Mike Hedges e lanciato nell’ottobre 2012 dalla Decca, l’etichetta di Pavarotti, con “La voce da Assisi”, uscito il 16 ottobre 2012, 35mila copie vendute in Italia e una lunga permanenza nella classifiche pop in vari Paesi.

Ed ora è uscito nei negozi e negli store on line “Tu scendi dalle stelle”, il suo nuovo album: quindici tracce con brani della tradizione natalizia internazionale, da quello che dà il titolo al disco a Adeste fideles fino a O Tannenbaum, titoli meno scontati come Veni veni Emmanuel, canti di ispirazioni francescana, come Alto e glorioso Dio e arie sacre, come l’Ave Maria di Bach-Gounod. Il disco è stato registrato tra Londra, nei mitici e prestigiosi studi di Abbey Road (quelli dei Beatles, ndr) e la Terra Santa, dove sono stati girati anche i video dei brani. «Era la prima volta per me laggiù. Avevo nello sguardo l’immagine della Sacra Famiglia che viaggiava per quelle strade. Vedere migliaia di pellegrini venuti per adorare il Signore dove lui ha scelto di nascere, in una terra segnata ancora da sofferenza e violenza, carica di emozione quello che fai». 65


Sipario

Sorpresi dalla gioia

L’editoriale dell’ultima pagina

di Ettore Colli Vignarelli

S

orpreso dalla gioia è il libro in cui Clive Staples Lewis, il grande scrittore britannico autore di capolavori come Le lettere di Berlicche o Le due vie del pellegrino racconta il suo passaggio dall’ateismo al cristianesimo. È una storia, come dice l’autore, «insopportabilmente personale». Si legge la storia di questa conversione senza accorgersi di percorrere una lunga strada: dai passatempi dell’infanzia alle emozioni dell’adolescenza all’inizio della maturità. È������������������������� �������������������������� come assistere all’indagine di un detective che voglia andare a fondo di un «caso» che lo appassioni. C’è qualcosa di analogo nella nuova e sorprendente esortazione apostolica di papa Francesco,

uscita a fine novembre e già destinata ad essere considerata come un primo documento-chiave del suo pontificato. Un’analogia che comincia dal titolo: “La gioia del Vangelo”. O meglio, la “Alegrìa del Evangelio“, come è intitolata la versione originale in castigliano. E poi nella struttura narrativa: anche qui, come nel delicato racconto di Lewis, c’è un itinerario, una road map che suggerisce le «vie per il cammino della Chiesa nei prossimi anni». All’inizio di tutto c’è, appunto, la gioia del Vangelo, che «riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia». Mentre «il grande rischio del mondo attuale, con 66

la sua molteplice e opprimente offerta di consumo, è una tristezza individualista che scaturisce dal cuore comodo e avaro, dalla ricerca malata di piaceri superficiali, dalla coscienza isolata». Anche molti credenti cadono in questo rischio, «e si trasformano in persone risentite, scontente, senza vita». Mentre «quando qualcuno fa un piccolo passo verso Gesù, scopre che Lui già aspettava il suo arrivo a braccia aperte». Nella dinamica dell’incontro con la salvezza gioiosa donata da Cristo risorto sta, dice il Papa, il cuore della vocazione di tutti i cristiani e la ragion d’essere propria della Chiesa. Una dinamica naturaliter missionaria. Se qualcuno «ha accolto questo amore che gli ridona il senso della vita» chiede Francesco «come può contenere il desiderio di comunicarlo agli altri?». L’esperienza dell’incontro personale con Cristo è «la sorgente dell’azione evangelizzatrice». Per questo l’evangelizzazione non può mai essere intesa come «un eroico compito personale, giacché l’opera è prima di tutto sua (…). Gesù è “il primo e il più grande evangelizzatore”. In qualunque forma di evangelizzazione il primato è sempre di Dio». Tenendo ben fermo questo saldo principio, il Papa propone quello che senza timore possiamo definire il “manifesto” di un rinnovamento profondo proposto a tutti i cristiani. Rinnovamento del cuore e delle forme operative, perché se la missione propria dei cristiani è quella di annunciare la gioia del Vangelo, lo scopo configura anche le forme e i modi in cui essa avviene. Tutti «hanno il diritto di ricevere il Vangelo». Per questo – scrive papa Francesco – «i cristiani hanno il dovere di annunciarlo senza escludere nessuno, non come chi impone un nuovo obbligo, bensì come chi condivide una gioia, segnala un orizzonte bello, offre un banchetto desiderabile. La Chiesa non cresce per proselitismo ma “per attrazione”». C’è questo e molto altro in questo documento straordinario, che ci è stato affidato e a cui da subito non possiamo che affidarci. Un testo destinato a scuotere la Chiesa e ciascuno di noi, invitandoci a lasciarci attraversare dalla “allegria” di annunciare il cuore palpitante del Vangelo tra gli uomini d’oggi, così come sono.


Uno sguardo oltre l’orizzonte

Tanti contenuti, molti sguardi, una prospettiva nuova… il mondo, l’attualità, lo spettacolo, i giovani, la famiglia francescana, l’economia, la musica in una rivista in continua ricerca del volto dell’uomo.

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www.edizionimessaggero.it Nella forma di un dialogo profondo e sorridente tra due frati, la storia di un cammino verso una vita più fraterna: una sfida vitale che la rivelazione biblica e l’esempio di Gesù invitano ciascuno ad affrontare. pag.g. 144 - € 12,00

Il libro raccoglie le immagini più suggestive e le parole più toccanti di papa Francesco nella città del Poverello. Per rivivere il giorno in cui il vescovo di Roma si è recato ad Assisi per pregare sulla tomba del santo di cui ha assunto il nome e al quale ispira il suo pontificato. pagg. 48 - € 6,00

L’affascinante vicenda della presenza di san Francesco e dei suoi frati in Terra Santa, nel solco della storia travagliata che va dalle crociate a tutta la dominazione musulmana di Gerusalemme. pagg. 120 - € 10,00


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