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Post-covid. Se i sintomi restano

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Uno studio clinico dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo ha analizzato quei pazienti della prima ondata che a distanza di mesi presentavano ancora strascichi della malattia. Intervista a Serena Venturelli

Astenia, dispnea da sforzo e palpitazioni: a distanza di mesi, molti pazienti ammalatisi di Covid-19 nella prima ondata della pandemia lamentano ancora questi sintomi, in alcuni casi anche disgeusia e anosmia, la perdita dell’olfatto e del gusto, per non parlare degli strascichi psicologici. A indagare sulle conseguenze a lungo termine del virus che da ormai un anno flagella il pianeta è uno studio clinico dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Per ora, sulla rivista Epidemiology & Infection sono stati pubblicati i dati preliminari relativi a una prima metà del campione preso in esame (767 su 1562 pazienti ammalatisi tra febbraio e agosto 2020), ma il risultato è già significativo: 1 su 2 ha ancora sintomi come affaticamento, dispnea da sforzo e palpitazioni; una minima parte è ancora incapace di svolgere le normali attività e ha perso l’indipendenza o addirittura, in pochi casi, non è più autosufficiente. A raccontare più nel dettaglio come è stato strutturato lo studio è il primo autore, l’infettivologa Serena Venturelli.

È stata subito chiara la necessità di “monitorare” i pazienti Covid anche dopo la guarigione?

«Siamo partiti da un’osservazione ex post, perché nei primi mesi di questa malattia non si sapeva quasi nulla. La necessità era duplice: rispondere a una domanda scientifica e offrire un doveroso follow up per tutti quei pazienti che lamentavano sintomi a distanza di tempo dalla negativizzazione del tampone. Abbiamo così ricontattato pazienti che erano transitati dall’Ospedale di Bergamo, da quello di San Giovanni Bianco e dal Presidio Medico Avanzato alla Fiera di Bergamo e che in una gran parte dei casi non eravamo riusciti a seguire fino a percorso concluso, poiché trasferiti presso altre strutture».

Quali le prime evidenze?

«Il 51,4% lamenta ancora sintomi a una mediana di 105 giorni dall’episodio acuto; il 33% a distanza di 3-4 mesi non si definisce “guarito”. Le donne sono più sintomatiche e sofferenti degli uomini e riferiscono stanchezza con una frequenza doppia rispetto agli uomini. La dispnea auto-segnalata è presente in 228 pazienti (29,8%), di cui 52 con dispnea moderata o grave. Le prove di funzionalità respiratoria sono risultate patologiche nel 19% dei casi. 121 pazienti (16%) hanno perso indipendenza, 186 pazienti (24,2%) prendono ancora i farmaci introdotti durante il ricovero, con gli anticoagulanti tra i farmaci più frequenti».

Come vi siete regolati di fronte alla persistenza dei sintomi? C’è un protocollo di cura per questi pazienti?

© fizkes/shutterstock.com

La firma degli specialisti

Il lavoro porta la firma degli infettivologi del Papa Giovanni XXIII Serena Venturelli, primo autore, Marco Rizzi - direttore del reparto di Malattie infettive dell’Ospedale di Bergamo e chiamato dall’OMS al tavolo di lavoro internazionale sul tema -, Simone Benatti, Francesca Binda, Gianluca Zuglian, i pneumologi Gianluca Imeri e Caterina Conti, gli psicologi Ave Maria Biffi e Simonetta Spada, il direttore del Dipartimento di salute mentale Emi Bondi, la neurologa Giorgia Camera, la fisioterapista Roberta Severgnini, il cardiologo Andrea Giammarresi, il medico di Pronto soccorso Claudia Marinaro, l’endocrinologo Alessandro Rossini, il radiologo Pietro Bonaffini, il Direttore del Laboratorio di analisi chimico-cliniche Giovanni Guerra, il direttore del Clinical trial center Antonio Bellasi, Monica Casati e Simonetta Cesa, Direttore Direzione professioni sanitarie e sociali.

«Nel seguirli, abbiamo praticato un’ampia serie di esami strumentali, dai classici prelievi fino a prove spirometriche, Rx torace e laddove indicato Tac ed elettrocardiogramma inclusa una valutazione psicologica; in base ai loro esiti, il 49% è stato indirizzato verso specialisti di II livello. In particolare, medicina respiratoria (281 pazienti; 36,6%), cardiologia (63; 8,2%), medicina fisica e riabilitazione (62; 8%) e neurologia (52; 6,8%). Il 30,5% dei pazienti convive ancora con sentimenti traumatici correlati a COVID-19 ma la quasi totalità si mostra resiliente di fronte alle difficoltà psicologiche, trovando il modo di reagire in modo adeguato all’accaduto. Un’offerta plurispecialistica e multiprofessionale che si è avvalsa della componente medica, infermieristica, tecnica, fisioterapica e psicologica, ricorrendo, quando necessario, anche ad altri professionisti come ostetriche, dietisti e assistenti sociali coordinati dalla Direzione professioni sanitarie e sociali dell’ASST Papa Giovanni XXIII».

C’è una correlazione tra la gravità della malattia in fase acuta e la persistenza dei sintomi?

«Non siamo riusciti a trovare una relazione diretta tra la serietà delle condizioni durante la condizione di positività e queste conseguenze a lungo termine. Nel senso che anche alcuni paucisintomatici (presenti nello studio perché, all’esordio della malattia, hanno fatto almeno un accesso in Pronto soccorso) possono mostrare lunga persistenza di sintomi. Insomma, da questo punto di vista le correlazioni sono ancora al vaglio. Quello che sappiamo è che, nel nostro campione, dall’età media di 63 anni, 668 persone sono state ricoverate e 66 di loro (8,6%) hanno anche avuto bisogno di cure ad alta intensità in Terapia intensiva. Solo 159 non hanno mai avuto bisogno di supporto di ossigeno (21%). Per tutti gli altri si è dovuto invece ricorrere all’ossigeno: in particolare 133 persone (17,8%) hanno avuto bisogno del casco a pressione positiva continua (i cosiddetti CPAP) e 62 (8,3%) di ventilazione meccanica (intubazione). Il ricovero è durato in media 10 giorni (che salgono a 30 per coloro che sono transitati in terapia intensiva), con punte di degenza ospedaliera superiore ai 60 giorni per l’8% dei pazienti».

Neanche le terapie somministrate nei primi mesi dell’epidemia possono spiegare questi effetti?

«No. Il meccanismo patogenico che provoca sintomi a distanza di molto tempo dal contagio è ancora poco chiaro. Il Coronavirus anche in questo si è mostrato diverso da tanti altri suoi “simili”. L’ipotesi più verosimile è sempre legata all’aspetto infiammatorio di questa malattia». (C. D. M.)

Serena Venturelli, primo autore dello studio. Un ex ammalato su due ha ancora sintomi come affaticamento, dispnea da sforzo e palpitazioni; una minima parte è ancora incapace di svolgere le normali attività e ha perso l’indipendenza o addirittura, in pochi casi, non è più autosufficiente. Il Giornale dei Biologi ” 13 | Febbraio 2021

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