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Covid-19: inquinamento, impronta ecologica e clima

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SCIENZE

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Covid-19: inquinamento, impronta ecologica e clima

Proposta di strategia per le aree interne e progetto “Borghi del benessere”

di Teresa Pandolfi, Giovanni Misasi e Matteo Olivieri*

Questo studio si inserisce nel solco del position paper della Società Italiana di Medicina Ambientale (2020), dei dati della Agenzia Europea per l’Ambiente (EEA) e dell’OCSE (2020), e del working paper della università di Harvard (Wu et al., 2020), secondo cui il meccanismo di contagio del Covid-19 sembrerebbe collegato all’inquinamento atmosferico, che funge da vettore di trasporto del coronavirus.

Anche le rilevazioni ambientali condotte nella regione Calabria dalla Associazione Scientifica Biologi Senza Frontiere (ASBSF) durante il periodo di lockdown, sembrano confermare tale ipotesi, nel confronto con altre regioni italiane.

L’implicazione principale di questo studio è che la tutela della salute umana e quella del nostro pianeta sono attività interconnesse, e ciò delinea nuove prospettive nella pianificazione territoriale ed urbanistica in ottica ecosostenibile.

Per supportare un cambio di paradigma, che ormai appare non più rinviabile, viene presentato il progetto “i Borghi del Benessere”, il cui obiettivo è la promozione di un concetto di sviluppo sostenibile che sia al contempo diffuso, tale cioè da invertire la tendenza alla concentrazione di risorse nei centri urbani, e partecipato, attraverso forme decentrate di governance territoriale, che combattano lo spopolamento in atto nelle aree interne e valorizzino i borghi, quali cerniera tra aree urbane, agricole e naturali.

Covid-19 e inquinamento atmosferico

In Italia il Covid-19 ha colpito le regioni del Nord e ha risparmiato quelle del Sud. In particolare, la pandemia ha colpito duramente le aree della Pianura Padana (Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna) che, in base ai dati dell’Agen-

* Comitato tecnico-scientifico della Associazione Scientifica Biologi Senza Frontiere (ASBSF), Cosenza, presidenza@asbsf.it. zia Europea per l’Ambiente (Eea) e dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa), sono tra le più inquinate d’Europa. Anche lo studio di Watts e Belesova (2019), pubblicato su The Lancet, conferma che l’Italia è il primo paese in Europa, e l’undicesimo nel mondo, per numero di morti premature causate dalla esposizione alle polveri sottili Pm2,5.

Similitudini sono state notate anche con la provincia cinese di Wuhan e la regione autonoma spagnola di Barcellona, pure fortemente colpite dal coronavirus e aree fortemente inquinate. Tale evidenza ha indotto ad ipotizzare che i livelli di inquinamento atmosferico possano essere associati alla diversa propagazione dell’epidemia, attraverso la presenza di polveri sottili nell’aria (Pm10 e il Pm2,5), le quali – fungendo da vettori di trasmissione del virus – ne amplificano la diffusione spaziale.

In particolare, tenuto conto che il principale sintomo del coronavirus sono le complicanze respiratorie, si è ipotizzata una correlazione tra la esposizione prolungata agli inquinanti atmosferici e la maggiore vulnerabilità al coronavirus. Infatti, le polveri sottili presenti nell’aria hanno dimensioni microscopiche, nell’ordine di diametro uguale o inferiore a 10 millesimi di millimetro e, attraverso le vie respiratorie, riescono a penetrare stabilmente nei polmoni, causando perciò infiammazioni e rischi per la salute.

La pericolosità di tali polveri sottili è poi direttamente proporzionale alla loro dimensione: infatti, tanto più piccole sono tali particelle, tanto più facilmente esse vengono inalate nel sistema respiratorio e, quindi, danneggiare gli alveoli polmonari.

Cambiamenti climatici e protezione della salute umana

Il termine particolato indica un insieme di sostanze costituite da polveri sottili, fumo, microparticelle o anche sostanze liquide che rimangono sospese in atmosfera e – in presenza di particolari condizioni climatiche, come la assenza di piogge o di venti prevalenti – determinano un duraturo peggioramento della qualità dell’aria respirata e quindi un

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effetto “aerosol”.

Se di origine antropica, il particolato è il risultato dei processi di combustione termica nel settore dei trasporti, nelle attività che utilizzano sostanze chimiche volatili (quali solventi e carburanti), in impianti industriali a ciclo continuo come centrali elettriche o termovalorizzatori, nei sistemi di riscaldamento o refrigerazione in aree ad alta concentrazione antropica, come pure in agricoltura intensiva, mediante l’utilizzo di fertilizzanti azotati che causano la dispersione di ammoniaca in atmosfera.

Inoltre, le polveri sottili possono essere causate indirettamente da comportamenti predatori posti in essere dagli esseri umani, spesso responsabili di incendi boschivi o di dissesto idrogeologico nel tentativo di consumare maggiore quantità di suolo per finalità produttive.

La direttiva europea sulla qualità dell’aria (2008/CE/50) fissa per il particolato Pm10 il limite medio giornaliero di 50 μg/m3 e max 35 sforamenti in un anno, e quello medio annuale pari a 40 μg/m3. I valori soglia per il particolato ultrasottile Pm2,5 sono ancora più stringenti: infatti, le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) indicano in 10 μg/m3 il valore associato con elevati rischi per la salute umana.

Nonostante ciò, le città italiane sono malate. Secondo l’Ocse (2020), l’Italia registra valori durevolmente al di sopra dei limiti. Inoltre, nel dossier annuale di Legambiente “Mal’aria di città” (2020), si legge che il 2019 è stato un “anno nero per la qualità dell’aria”, poiché ben 26 centri urbani sono risultati “fuorilegge” in relazione al superamento dei valori limite di legge riguardanti le polveri sottili (Pm10) e l’ozono (O3), e 54 città hanno superato il numero massimo di sforamenti di legge, fissato in 35 giorni all’anno per il Pm10 e in 25 per l’ozono (O3).

Per il settimo anno nelle ultime dieci rilevazioni condotte dall’associazione ambientalista, è Torino la città d’Italia col maggior numero di sforamenti (147 “giornate fuorilegge” nel solo ultimo anno, di cui 86 per il Pm10 e 61 per l’ozono), seguita da Lodi con 135 (55 per Pm10 e 80 per ozono) e Pavia con 130 (65 superamenti per entrambi gli inquinanti. Limitando l’attenzione al solo parametro Pm10, in base ai dati forniti da Legambiente, la città di Torino (centralina Grassi) si colloca ancora una volta in testa alla classifica italiana per numero di sforamenti annuali delle soglie di legge (86 giorni/anno), seguita da Milano (centralina Marche) con 72 giorni/ anno di sforamenti e Rovigo (centro) con 69 giorni/anno, e poi Frosinone (scalo), Venezia (Beccaria e Tagliamento), Alessandria (D’Annunzio), Padova (Arcella), Pavia (P.zza Minerva), Cremona (P.zza Cadorna) e Treviso (S. Agnese), dove i giorni di superamento dei limiti di legge sono compresi tra 68 e 62 giorni all’anno.

Impronta ecologica e livello di antropizzazione

La ”impronta ecologica” (ingl. “carbon footprint”) è un parametro utilizzato a livello mondiale per la stima delle emissioni di gas clima-alteranti, responsabili del riscaldamento del pianeta, cioè il c.d. “effetto-serra”. Il Protocollo di Kyoto definisce sette gas ad “effetto-serra”, ovvero l’anidride carbonica (CO2), il metano (CH4), il protossido d’azoto (N2O), gli idrofluorocarburi (HFCs), i clorofuorocarburi (CFCs), i perfluorocarburi (PFCs) e l’esafluoruro di zolfo (SF6), ma tra essi l’attenzione massima è rivolta alle emissioni di anidride carbonica, in quanto gas prevalente in natura nonché sottoprodotto delle attività antropiche.

E’ possibile esprimere l’impronta ecologica anche in termini di “porzione di territorio” (terrestre o acquatico) di cui una comunità ha bisogno per riprodurre le risorse consumate o per neutralizzare le emissioni inquinanti prodotte. Comunemente, il termine viene utilizzato per la stima di quanti pianeti equivalenti alla Terra sarebbero necessari per sostenere gli attuali stili di vita umani.

In base ai dati del 2019 forniti dal Global Footprint Network (ma riferiti al 2016), l’impronta ecologica dell’Italia è pari a 4,4 ettari pro-capite, equivalenti ad una biocapacità di 0,9 ettari pro-capite ed un deficit ecologico di -3,5 ettari pro-capite. Questo significa che viviamo al di sopra delle nostre possibilità e, quindi, utilizziamo una quantità di risorse naturali incompatibile con la tutela della salute umana.

Il crescente consumo di suolo, l’utilizzo di processi industriali inefficienti e la densità abitativa comportano squilibri naturali spesso irreversibili, e pongono a rischio la sopravvivenza del genere umano. L’aumento del degrado è visibi-

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le soprattutto nelle regioni industrializzate, dove l’impatto ambientale causato dall’antropizzazione è maggiore rispetto al passato, non solo per l’aumento della popolazione, ma anche per le maggiori fonti di inquinamento e conseguente perdita di biodiversità.

Inquinamento atmosferico a confronto tra regioni italiane

I campionamenti ambientali eseguiti da ASBSF in Calabria durante i mesi di marzo e aprile 2020 hanno riguardato le cinque città capoluogo, nonché le aree industriali di Gioia Tauro (porto e termovalorizzatore) e Crotone (impianto a biomasse), alcuni cantieri della autostrada A2 e in prossimità di svincoli della SS 106, dove si registrano notevoli volumi di traffico. La campagna di monitoraggio ha evidenziato ovunque concentrazioni di particolato atmosferico sottile (Pm10) e ultrasottile (Pm2,5), nonché di metalli pesanti e di inquinanti gassosi (CO e SO2) al di sotto dei limiti di legge. I risultati ottenuti confermano, completandole, le rilevazioni della Agenzia Regionale per la protezione dell’Ambiente della Calabria (Arpacal).

Nello stesso periodo, le rilevazioni condotte in Veneto dalla Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale (Arpa), evidenziavano diffusi sforamenti delle concentrazioni di Pm10, con valori superiori di oltre il doppio dei limiti di legge. In particolare, nei giorni 27/28/29 marzo 2020, le concentrazioni giornaliere hanno toccato punte di oltre 100 μg/m3 in tutta la regione, ad eccezione della zona alpina e prealpina.

L’inquinamento da particolato è stato registrato anche in Lombardia, dove i superamenti della concentrazione di Pm10 hanno riguardato quasi tutte le province, con valori nettamente superiori al limite di 50 μg/m3 per più giorni consecutivi e nonostante il lockdown.

Infine, in Piemonte si sono registrati aumenti anomali delle concentrazioni di Pm10 nel periodo 16/19 marzo 2020, con valori superiori non solo alla media del periodo, ma, in alcuni casi anche ai massimi storici, con superamenti generalizzati del limite giornaliero di 50 μg/m3 ad Alessandria il 18 ed il 19 marzo, e a Novara il 18 marzo. Tale anomalia è stata motivata dalle autorità competenti con l’arrivo di polveri del deserto.

Nuove prospettive nella pianificazione territoriale

Inquinamento atmosferico e cambiamenti climatici sono fenomeni correlati. Infatti, il particolato causato dalle emissioni di gas serra rimane in atmosfera sotto forma di black carbon (BC) o di gas quali anidride carbonica (CO2) e ozono troposferico (O3) – sostanze che hanno un potenziale impatto negativo sul clima e sul riscaldamento globale – oppure finisce nei mari, contribuendo così al fenomeno di “acidificazione degli oceani”, ritenuto causa dell’estinzione di numerose specie viventi.

Lo sviluppo sostenibile delle aree urbane è una sfida di importanza fondamentale per ridurre le emissioni di carbonio e, quindi, per proteggere la vita. Per questo motivo esiste un consenso crescente sul fatto che occorre agire sui fattori precursori dei gas ad effetto serra per mitigare i cambiamenti climatici in atto, tra l’altro progettando gli spazi in maniera flessibile, in modo che siano adattabili alle mutate esigenze di vita.

La sfida di costruire città a emissioni-zero (“carbon neutral”) non è irrealizzabile ma, anzi, è alla nostra portata. Anche in passato, le epidemie hanno imposto di ripensare urbanisticamente le città e le infrastrutture, in modo da garantire la sicurezza alimentare, la fornitura di servizi pubblici essenziali, e la amenità di vita in abitazioni ben fatte. Per riuscire anche questa volta, è fondamentale ripensare l’impronta ecologica dei processi antropici facendo ricorso a tecnologie pulite e a soluzioni innovative derivate dalla scienza, in modo da includere fattori di mitigazione dei rischi, con particolare riferimento nel settore energetico, dei trasporti e delle telecomunicazioni.

Occorre implementare azioni in molti direzioni, a partire da quelle realizzabili con poco sforzo e immediato. Per esempio, è indispensabile ripensare urbanisticamente le nostre città, attraverso la trasformazione di aree degradate o marginali in “corridoi verdi”, che – oltre a favorire l’assorbimento di inquinanti atmosferici – consentono di dare un apporto significativo nella lotta alle isole di calore urbano, al bilancio energetico e alla rigenerazione di risorse naturali attraverso l’azione degli insetti impollinatori. In questo processo di transizione ecologica delle aree antropizzate, che

vede la biologia in prima linea assieme ad altre discipline scientifiche, viene condivisa la necessità di migliorare la qualità della vita delle persone attraverso l’utilizzo sinergico e non predatorio delle risorse naturali.

Il mondo post-pandemia e la simbiosi con l’ambiente

La pandemia di Covid-19 ha messo in luce le debolezze dell’attuale modello di sviluppo. Improvvisamente ci siamo resi conto che ospedali, mezzi di trasporto pubblico, centri commerciali e altri luoghi di assembramento possono trasformarsi in veicoli di trasmissione del virus, e perfino le case sono apparse luoghi inospitali dove trascorrere il periodo di isolamento forzato. Nella impossibilità di garantire un adeguato distanziamento sociale non è rimasta altra scelta che fermare tutte le attività produttive e culturali, e così le nostre città sono diventate in breve tempo degli ambienti ostili e inadatti alla vita degli individui.

Perfino le infrastrutture strategiche sono state messe a dura prova: per esempio, il lockdown ha imposto un aumento dei rifiuti indifferenziati (ponendo così nuove sfide ambientali), mentre tracce di coronavirus sono state trovate negli impianti fognari e di depurazione di numerose città (con potenziale rischio di contaminazione degli acquiferi dove la depurazione è carente).

Ci siamo resi conto che ogni aspetto del nostro vivere è stato organizzato sulla base di assunzioni rigide, che – se messe in discussione da eventi di eccezionale gravità – non sono in grado di adattarsi prontamente alle mutate condizioni di sistema, e quindi conducono ad un sostanziale peggioramento del benessere. Addirittura, proprio le infrastrutture, progettate per garantire la connessione tra cose e persone, sono apparse inservibili nel momento di maggiore bisogno, e dunque antieconomiche a causa di improvvisa carenza di domanda. Tutto ciò ha contribuito a creare la percezione di una situazione di precarietà e pericolo, i cui effetti psicologici sono destinati a durare verosimilmente a lungo nella mente degli individui.

In tutto questo rivolgimento culturale, nuove discipline scientifiche si sono ritagliate un posto di rilievo nel dibattito pubblico, e tra esse soprattutto l’economia e la biologia, dalla cui interazione è sorto un rinnovato interesse verso i temi dello sviluppo sostenibile. Al centro della discussione si è posto il tema della tutela degli ecosistemi, il cui valore è rappresentato dalla riserva di biodiversità anziché dalla sola riserva di materie prime estraibili.

La salute degli ecosistemi è diventata una variabile strategica nel mondo post-pandemia, poiché nel mondo animale e vegetale è possibile trovare degli alleati per risolvere problemi pratici della vita umana: batteri, funghi, protozoi, alghe, muschi, insetti, pesci, sono “operai” preziosi, in quanto sono in grado di scomporre le catene chimiche complesse e restituire all’ambiente i nutrienti necessari, oltre che l’energia creata dalla fotosintesi clorofilliana. Finora abbiamo sottovalutato questo aspetto, ma ora è arrivato il momento di cambiare, e la pandemia ci impone di farlo! Così, dotarsi di piani di tutela dell’aria e dell’acqua dall’inquinamento e difendere la fertilità dei suoli, ci offre la possibilità di rafforzare le nostre difese immunitarie, smaltire in sicurezza i rifiuti, produrre energie rinnovabili, garantire la sicurezza alimentare, e perfino curare certi disturbi della personalità.

Per troppo tempo abbiamo tollerato il degrado degli habitat pensando che ciò fosse necessario per promuovere lo

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sviluppo economico. Ed invece tutto ciò si è tradotto unicamente in un deterioramento della nostra qualità di vita. Si è guardato a foreste, fiumi, mari unicamente come riserve di biomassa da sfruttare a basso costo, mentre poca o nulla attenzione è stata rivolta ad essi in quanto rigeneratori di risorse naturali, ovvero quali riserve di carbonio in grado di assicurare la prosecuzione della vita sulla Terra.

Mai si è guardato agli habitat quale prima linea di difesa contro la diffusione dei virus né mai si è provato a trovare soluzioni innovative ai problemi comunitari senza dover per forza intaccare il capitale naturale.

E, se non si può escludere che in futuro un altro virus sconosciuto colpisca duramente il genere umano, non di meno è possibile mitigare i rischi di una nuova epidemia, rendendo salubri e ameni i luoghi abitati, e diminuendo la dipendenza umana da fonti di energia non sostenibili o da linee di approvvigionamento insicure. Occorre favorire l’azione dei processi naturali fin dentro le nostre città, prevenendo l’inquinamento e ogni altra condizione che possa far prosperare i virus.

Dobbiamo ripensare i processi produttivi, in modo da poter essere certi che essi continuino ad operare anche in situazioni di emergenza estrema. Soprattutto, abbiamo bisogno di soluzioni decentrate e ritagliate sui bisogni specifici delle nostre comunità, e la biologia (assieme alle biotecnologie) ci aiuta a farlo.

Il campo di discussione è ampio e variegato, ma il dibattito tra discipline scientifiche oggettivamente differenti è possibile perché – in fondo – ad accumunarle c’è la vocazione originaria al sapere olistico, alla poliedricità dell’ingegno, alla sintesi interdisciplinare, che vede l’essere umano non come una entità isolata o egoista, bensì come parte di un ecosistema vivente fatto di relazioni simbiotiche con l’ambiente circostante. Solo a partire da un diverso sguardo sull’umano, le nostre città potranno mutare in meglio in futuro, abbandonando modelli di sviluppo basati sul consumo irreversibile di suolo, e promuovendo invece una sinergia tra ambiente urbano, rurale e forestale.

Progetto “Borghi del benessere”

Il progetto “I borghi del Benessere”, promosso da ASBSF, nasce nel 2013 con l’obiettivo di stimolare il dibattito pubblico intorno al ruolo strategico dei borghi italiani quali depositari di conoscenze e competenze a rischio di estinzione, e di favorire altresì un nuovo modello di vita sociale, ecosostenibile, che promuova il contatto attivo delle persone con l’ambiente naturale.

Ad oggi sono 44 i Comuni calabresi che hanno aderito formalmente al progetto tramite protocollo di intesa. L’idea di fondo è che la definizione attuale di progresso ha allontanato le persone dalla consapevolezza che la sopravvivenza del genere umano dipende dallo preservazione dello stato di salute del territorio e, pertanto, una maggiore comprensione delle relazioni esistenti tra matrici ambientali aria-acqua-suolo-energia è la chiave per prenderci cura fattivamente del pianeta Terra.

L’iniziativa si inserisce pertanto nel filone della lotta ai cambiamenti climatici, e si ripropone di riconoscere ai borghi il ruolo di cerniera tra aree urbane, agricole e naturali. Nei borghi, infatti, si producono buona parte delle derrate alimentari e le materie prime che trovano un mercato nelle aree a maggiore densità abitativa, come pure i servizi ecosistemici utili alla crescita delle aree urbanizzate. Per esempio, è nei borghi peri-urbani che inizia la lotta al dissesto idrogeologico o agli incendi, come pure la rigenerazione di capitale naturale e la protezione del paesaggio.

Non deve stupire, pertanto, se tra aree urbanizzate, naturali e rurali si siano sviluppati storicamente dei rapporti sinergici e di mutua dipendenza, tanto che oggi i borghi sono unanimemente considerati dei presidi avanzati di controllo di aree marginali del territorio, nonché serbatoio di un grande patrimonio della nostra cultura.

Tra i vantaggi di questo approccio vanno citate la possibilità di implementare politiche di coesione dal basso, capaci di ridurre i divari territoriali tra aree centrali e periferiche di una nazione, nonché sperimentare un modello di sviluppo economico pluridimensionale, disegnato sulla base delle specificità territoriali anziché essere incentrato sulla industrializzazione quale unico motore di sviluppo economico.

Tra le numerose azioni finora svolte e/o in itinere, spesso in collaborazione con scuole e gruppi di animazione locale, si citano:

A) Progetto Sarcopenia

La sarcopenia indica la perdita progressiva di massa muscolare e la conseguente diminuzione delle forze, che si verifica in prevalenza nelle persone anziane. Con l’avanzare dell’età, infatti, gli esseri umani tendono naturalmente a perdere parte delle forze fisiche, rendendo l’organismo umano fragile e più esposto alle malattie. Nei casi più gravi, la sarcopenia è accompagnata dall’insorgere di problemi psicologici, poiché il progressivo deterioramento delle condizioni fisiche e la conseguente difficoltà nello svolgere le azioni abituali, può essere causa di autoesclusione sociale o di depressione, soprattutto in quelle persone che con fatica accettano l’inevitabile declino fisico. Dal momento che non esistono farmaci in grado di guarire dalla sarcopenia, gli unici rimedi ritenuti efficaci per mantenere un adeguato stato di salute, sono un’alimentazione equilibrata (come la dieta mediterranea), una buona idratazione con il giusto apporto di sali minerali, assieme a una moderata attività fisica e al buonumore. Infat-

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ti, l’esposizione prolungata ai raggi solari favorisce la produzione di vitamina D, un ormone naturale ritenuto parte del processo di mantenimento del tono muscolare. Tali attività sono facilitate nei borghi.

Il “Progetto Sarcopenia” intende valorizzare il valore sociale degli anziani, favorendone l’attivismo e l’inclusione sociale, attraverso attività a basso sforzo fisico quali l’orticoltura, laboratori di artigianato, incontri culturali (cfr. anche il progetto “Piatto della salute”), attività ricreative all’aperto (passeggiate ecologiche, giardinaggio, ecc.), scambio di conoscenze intergenerazionali, in modo da favorire l’attività motoria in un contesto amichevole e accogliente.

B) Progetto “Piatto della Salute”

Il tema del cibo salutare è tornato prepotentemente di attualità in tutto il mondo. I cibi organici e biologici, in particolar modo quelli ricchi di aminoacidi, spesso prodotti a km-zero, risultano particolarmente utili per rafforzare il sistema immunitario, equilibrare il rapporto tra massa muscolare e grassi, contribuire al dinamismo delle funzioni cerebrali e, quindi, rallentare i processi di invecchiamento naturale.

Il progetto consiste in più azioni poste sotto la supervisione di ASBSF, tra cui la certificazione dei processi produttivi biologici, il rilascio di marchi di qualità a “denominazione comunale d’origine” (De.Co.), la tutela e la valorizzazione delle varietà di cibo autoctono o a rischio di estinzione (p.e. grani antichi), e la diffusione di conoscenze legate al corretto valore nutritivo del cibo.

Tale iniziativa è stata poi ulteriormente declinata nel progetto “Ambasciatori della salute”, volto a identificare dei testimonial credibili nel diffondere le buone pratiche salutari nella produzione e nel consumo di cibo nelle comunità locali, nonché nei progetti-gemelli, a) “Casetta dell’acqua”, che – oltre a contribuire alla riduzione delle plastiche monouso – intende sensibilizzare le persone sull’importanza di bere acqua dotata del giusto apporto di sali minerali e priva di cloro, e b) “Biopackaging”, con la progressiva sostituzione di imballaggi in plastica con bio-polimeri naturali, per esempio quelli ottenuti a partire dagli scarti di produzione delle arance.

Conclusioni

Ogni crisi porta con sé la possibilità di ripensare il modo di vivere da lasciare in eredità alle future generazioni. Ciò che il Covid-19 ha insegnato è che l’inquinamento può essere un veicolo di trasmissione di virus insidiosi, ma anche il fatto che le pandemie mettono in luce le fragilità della società, con conseguenze da pagare in termini di diseguaglianze sociali nell’accesso ai servizi essenziali.

Purtroppo, ad essere colpite maggiormente dagli effetti del virus sono state le persone che vivono in aree di degrado ambientale o di disagio sociale.

Ripensare l’urbanistica in funzione equa ed ecosostenibile è dunque una necessità non più rinviabile. Ciò comprende tra l’altro il ripensamento delle funzioni abitative e l’uso di infrastrutture essenziali, legate alla mobilità (strade, ferrovie, porti, aeroporti, ecc.), all’educazione (scuole, università), alla salute (ospedali, laboratori, case di cura) e alla vita pubblica (tribunali, uffici pubblici, ecc.). Per questo motivo, vale la pena investire per aumentare la capacità di produrre localmente le risorse di cui si ha bisogno, decongestionando le aree più densamente popolate soprattutto durante lunghi periodi di confinamento sociale, e e riducendo il rischio sanitario.

La sfida riguarda un cambio di paradigma nei rapporti tra aree urbane, agricole e naturali, tenendo conto delle implicazioni economiche, sociali e ambientali dell’inquinamento atmosferico sulle scelte di pianificazione territoriale, che passano attraverso una riduzione dell’impronta ecologica; la tutela della biodiversità; una maggiore resilienza ai cambiamenti climatici; la tutela dell’ambiente e lo stile di vita salutare. Tutti elementi che favoriscono il benessere degli individui, rendendoli meglio in grado di contrastare le minacce di agenti patogeni, e possono creare nuove opportunità di lavoro in settori finora trascurati.

Bibliografia

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