La lettera DICEMBRE 2015
anno XXVIII numero 4
Bollettino della parrocchia prepositurale di san Giovanni Battista in Palazzago
Dall’absidiola della chiesa di S. Giuseppe a Precornelli, dove sono collocate tre tele di Francesco Capella (transito di S. Giuseppe, Sacra Famiglia e Sposalizio di Maria e Giuseppe) cogliamo la pala centrale per il Natale 2014. Il pittore che era nato a Venezia all’inizio del XVIII secolo, raccolse lo stile del maestro Giovanni Battista Piazzetta, ricalcandone i toni armoniosi e le scelte cromatiche luminose, con una spiccata predilezione verso colori quali l’azzurro, il rosa ed il viola; insieme, matura una grande raffinatezza nelle forme, accompagnate da grandi contrasti in chiaroscuro. Una piccola svolta si ebbe verso il 1750 quando l’artista cominciò ad entrare in contatto con la diversa realtà di Bergamo, dove nel frattempo si era trasferito, rimanendo influenzato dal nuovo contesto ed ampliando quindi il suo bagaglio artistico, indirizzandosi verso soluzioni cromatiche molto
più varie, nonché avvicinandosi a Giambattista Tiepolo, con cui collaborò nella decorazione della Cappella Colleoni di Bergamo. In città e provincia dipinse numerosi quadri, affreschi e pale per edifici sacri e per palazzi nobiliari.
La sua attività proseguì fino al termine degli anni 70 del secolo, dopodiché il Daggiù (questo il soprannome con cui veniva chiamato) si ritirò a vita privata, fino alla morte che lo raggiunse nella sua casa di Bergamo all’età di 73 anni.
Gli occhi socchiusi aprono su una grande profondità spirituale e invitano a guardare nella sua stessa direzione: lì troviamo la giovane madre che con la mano destra, alza il panno bianco nel quale è adagiato il Bambino e con la sinistra sostiene il braccino di Gesù. Sorpresa: in quella mano lui stringe una piccola croce, segno inequivocabile del mistero pasquale. Natale e Pasqua: Natale perché Pasqua.
Anche le braccia sembrano amplificare quel segno e avvolgere l’umanità nella quale è disceso “non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.” E il cielo dice il suo sì, aprendosi come tenda tra nuvole e facendo affacciare tre putti che sembrano suggerire che ogni nascita porta con sé un disegno: quello di Cristo è chiaro, non nasconde nulla, già dal suo apparire sulla terra. Basta guardare tra le sue mani.
Tra le mani Sembra Giuseppe il più affaticato: il bastone non è solo qualcosa tra le sue mani, ma realmente sorregge il peso del corpo, ricurvo verso Maria e il Bambino. Ma, forse, non è solo il peso del corpo, evidenziato da quelle mani nodose e forti, o del viaggio, o della ricerca della grotta, o del travaglio del parto… E’ il peso dei pensieri e di quella storia incredibile che l’ha portato fin lì e chissà ancora cosa gli chiederà.
[Editoriale]
Questa domanda è risuonata nelle confessioni dei Santi e dei morti, eco della prima tappa del nostro itinerario pastorale “Mai senza l’altro”. Entriamo ora nella seconda, quella dell’Avvento –Natale “Un cuor solo e un’anima sola… nell’unica casa” , con lo stesso interrogativo che risuona nella casa, quella che da sempre Dio ha preparato in suo Figlio, quella in cui viene ad abitare, quella che “dobbiamo difendere fino all’ultimo”. Ci viene in aiuto uno scritto di una giovane ragazza ebrea, Etty Hillesum, morta ad Auschwitz nel 1943 all’età di venti nove anni. All’inizio degli orrori della Shoah, quando ormai regnava confusione e terrore fra gli Ebrei in Olanda riguardo alla loro sorte, il giorno 11 di luglio del 1942 (quel giorno era Shabbat), ella scrisse nel suo Diario: «Se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Dio». E il giorno successivo, di domenica, ella scrive una lunga preghiera nel suo diario, oltre ad altri pensieri: «Cercherò di aiutarti affinché tu non venga
«Dov’è Abele tuo fratello?» distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dovere aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi... Sembra che tu non possa far
molto per modificare le circostanze attuali ma anch’esse fanno parte di questa vita? E quasi ad ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi». Etty Hillesum scrisse questa
pagina quando viveva il difficile passaggio dall’ateismo alla fede e scopriva a poco a poco lo sconosciuto volto di Dio. Ma queste parole, che possono creare sospetto alle menti formate in teologia, contengono una grande verità: Dio vuole farci attenti al nostro prossimo. Dio vuole non solo chiamarci alla solidarietà, la quale è definita come «un accordo generale tra tutte le persone di un gruppo o tra gruppi differenti poiché hanno un comune scopo». Dio vuole molto più di questo, egli desidera un reale interessarsi degli uni per gli altri, un aversi a cuore, ad immagine della cura di Dio per ognuno di noi. Egli è sempre pronto a porre ad ognuno di noi il primordiale interrogativo che fu posto a Caino: «Dov’è Abele tuo fratello?» Auguri! Perché il Natale ci aiuti ad abitare la casa con questa domanda…
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Titolo Titolo sola...” “Un cuorTitolo solo e un’anima nell’unica casa
[Seconda Tappa Avvento-Natale]
Ascolta frequentemente la mia Parola per capire te stessa, quello che stai vivendo e comprendere ciò che Io, il Signore, sto operando nella storia di oggi. Non lasciarti rubare il Vangelo [Il riferimento all’icona biblica di Atti] La lettera pastorale del nostro vescovo: “Donne e uomini capaci di Eucaristia” ci invita a meditare il brano degli Atti degli Apostoli (2,42-47) che descrive la vita della comunità primitiva per rileggere la nostra attuale esperienza di Chiesa. “Stavano insieme...” è la prima frase estrapolata che viene intrecciata con l’itinerario di Avvento e Natale. Essa evoca la dimensione comunionale del vivere evangelico: l’Eucaristia rende possibile la comunione dei cuori e dei corpi, mentre si celebra tale comunione è visibile e possibile. “L’assemblea che si forma in occasione dell’Eucaristia, non è l’esito del nostro sentimento, delle nostre convinzioni, della nostra buona volontà, dell’adempimento di una legge: è piuttosto la gioiosa risposta alla convocazione di Dio alla quale corrispondono coloro che credono in Lui e nell’opera meravigliosa che si è manifestata nella morte e risurrezione del suo Figlio. Quest’opera è capace di fare della nostra vita un’offerta gradita a Dio e per opera dello Spirito Santo di fare del popolo riunito il corpo vivente di Cristo nella storia degli uomini” (Francesco Beschi, Donne e uomini capaci di Eucaristia, 2014). Ripetere la frase “Stavano insieme...” pensando al Natale di Gesù permette di coglierne altre sfaccettature. I pastori, immagine dei convocati alla mensa, stavano insieme nella notte buia quando vengono visitati dall’angelo. Maria, Giuseppe e il piccolo Gesù stanno insieme, immagine di ogni famiglia in cui la vicinanza permette ascolto e cura reciproci, convidisione, dolcezza e stupore per i tanti doni. I Magi evocano una comunione universale: tutti i popoli stanno insieme nell’adorare il Bambino, mentre invocano la pace. [L’immagine della Casa] Se “Stavano insieme...” è la frase che collega le proposte di Avvento-Natale alla lettera pastorale del vescovo, l’immagine che la interpreta è quella della casa. La casa è il luogo in cui la comunione dei fratelli è possibile, nelle case dei cristiani si celebrano le prime eucaristie, prima ancora che vengano costruite le chiese. Dunque l’immagine ricorrente che permette di fare sintesi delle tante proposte è quella della casa e dell’abitare. La casa è il luogo per eccellenza dell’accoglienza (“trovare casa” significa trovare un luogo in cui stare bene, in cui avere riparo), dell’intimità (“essere di casa” significa far parte della famiglia, parteciparne alla vita), dei progetti di vita che si impegna e si rinnova (“mettere su casa” significa staccarsi dalla
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famiglia di origine per inaugurare una propria storia, avere una propria famiglia, prepararsi a dei figli propri). Tutti questi significati dell’umano vivere sono condensati nella celebrazione dell’Avvento e del Natale: la venuta di Gesù trova casa nel cuore di Maria e di Giuseppe per fare casa con gli uomini, proponendo attraverso il suo Vangelo un modo nuovo di convivenza: una vita fraterna fatta di condivisione e aiuto reciproco. [Le scansioni delle settimane] Ogni settimana/domenica di Avvento e Natale si cerca-propone “una casa per...”. 1a di Avvento 2a di Avvento 3a di Avvento 4a di Avvento Natale Epifania
Mc 13,33-37 Mc 1,1-8 Gv 1,6-8.19-28 Lc 1,26-38 Lc 2,1-14 Mt 2,1-12
Una casa per aspettare Una casa per cambiare vita Una casa per dare testimonianza Una casa per accogliere Una casa per Gesù che viene Una casa per aprirsi al mondo
[Proposte Avvento-Natale] • ”Venite Adoremus”: un’ora di adorazione, ogni giorno d’Avvento, in orari diversi e progressivi. Alla Domenica dalle 17.00 alle 18.00. • Invito alla preghiera e all’impegno (con la casetta data alla catechesi). • Libretto della famiglia con 2 candele su un portacandele-casa. • Concorso Presepi. • Ritiri domenicali e incontri genitori. • Preghiera Ado e terza media con sussidi Diocesi. • Santa Lucia (12 dicembre). • Novena di Natale (con messa alle 9.00). • Confessioni vicariali Ado (Brembate, 15 dicembre) e ritiro (20 dicembre). • Confessioni ragazzi (17 e 20 dic); confessione giovani e adulti (22 dicembre). • Campo scuola a Piazzatorre per ado (27-30 dicembre). • Pellegrinaggio a Roma per cresimandi (27-30 dicembre). • Festa di Capodanno in Oratorio. • Corteo dei Magi (6 gennaio 2015). • “Case Aperte“: alcune case si apriranno per un confronto “tra grandi” sulle cose di Dio, accompagnati da alcuni animatori, per tre volte nel tempo d’ Avvento. In giorni diversi, per favorire la partecipazione, ore 20.30.
CASA OSPITANTE
Indirizzo
Telefono
Animatori gruppo
Giorno
Ora
Fam. Peliccioli
Brocchione, 14
035-19833631 Antonio - Ivana
Fam. Scalise
Campinette, 27
035-548444
Francesca - Tabita Mercoledì 3-10-17 dicembre 20.30
Fam. Agazzi
Longoni, 71
035-548160
Luigi - Patrizia
Martedì 2-9-16 dicembre
20.30
Mazzoleni Giacomina Al Forno, 14
035-550242
Giovani
Giovedì 4-11-18 dicembre
20.30
Fam. Vanoncini
Carosso, 48
035-551129
Lucia P.
Mercoledì 3-10-17 dicembre 20.30
Rota Giselda
Ca’ Quarengo, 49 035-550077
Luca A.
Martedì 2-9-16 dicembre
20.30
Fam. Mazzoleni
Campo delle Rane, 148
Riccardo P.
Venerdì 5-12-19 dicembre
20.30
035-540828
Giovedì 4-11-18 dicembre
20.30
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Titolo Titolo Titolo Tra indissolubilità e misericordia L’Assemblea sinodale straordinaria, svoltasi a ottobre, è il primo passo di un cammino che proseguirà nel 2015, come attenzione pastorale della Chiesa al pilastro che regge la società. Ci si interroga sui diversi problemi che riguardano il matrimonio, le relazioni affettive ed educative, le iniziative pubbliche a sostegno dei nuclei familiari. Senza trascurare la denatalità, le condizioni di povertà, l’aumento dei divorzi, le unioni di fatto, la comunione ai divorziati risposati...
Subito dopo l’elezione di papa Francesco, il cardinal Ravasi dichiarò: “C’è un respiro nuovo che aspettavamo”. Oggi, dopo venti mesi di pontificato, possiamo dire che si è creato un altro clima nel tessuto ecclesiale: un clima di libertà di parola nel quale con parresia ogni cattolico, vescovo o semplice fedele, può lasciar parlare la propria coscienza e dire quello che pensa, senza essere subito messo a tacere, censurato o addirittura punito, come avveniva negli ultimi decenni. La Lettera
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Questo non significa clima idilliaco, perché conflitti anche aspri sono presenti in seno alla chiesa – come del resto è testimoniato già negli scritti del Nuovo Testamento – ma se questi sono vissuti senza scomuniche reciproche, se ciascuno ascolta le ragioni dell’altro senza fare di lui un nemico, se tutti hanno cura di mantenere la comunione, allora anche i conflitti sono fecondi e servono ad approfondire e a meglio dar ragione delle speranze che abitano il cuore dei cristiani. Purtroppo si può constatare che ormai ci sono “nemici del papa”: persone che non si limitano a criticarlo con rispetto, come avveniva con Benedetto XVI e Giovanni Paolo II, ma si spingono fino a disprezzarlo. Un vescovo che dichiara ai suoi preti che l’esortazione apostolica Evangelii gaudium“avrebbe potuto scriverla un campesino” esprime un giudizio di disprezzo, ma profeticamente dichiara che quella lettera è leggibile e comprensibile anche da un povero e semplice cristiano della periferia del mondo. Così, al di là delle intenzioni, quelle parole sprezzanti costituiscono un elogio. Alcuni giungono anche a delegittimare l’elezione di Bergoglio in un conclave che non si sarebbe svolto secondo le regole, altri sostengono che vi siano sono ancora due papi, entrambi successori di Pietro ma con compiti diversi... Conosciamo da tempo costoro come persone inclini a inseguire le proprie
[Enzo Bianchi]
ipotesi ecclesiastiche anziché l’oggettività della grande tradizione cattolica nella quale vale il primato del vangelo. Certamente la composizione di questo sinodo, il nuovo modo di procedere nei lavori, l’invito del papa a parlare chiaro, con coraggio anche criticando il suo pensiero o manifestando un parere diverso, la richiesta di franchezza negli interventi hanno creato un’atmosfera sinodale inedita rispetto a tutti i sinodi precedenti. Papa Francesco vuole che l’assise sia vissuta nello spirito della collegialità episcopale e della sinodalità ecclesiale e non sia una semplice celebrazione: e Francesco ha tutta la saldezza per dire che comunque il sinodo si svolge secondo la grande tradizione cum Petro et sub Petro, cioè con il papa presente e al quale, in quanto successore di Pietro, spetta personalmente il discernimento finale. Quanto al tema del sinodo, è incandescente perché è in gioco non tanto una disciplina diversa riguardo al matrimonio, alla famiglia e alla sessualità, bensì il volto del Dio invisibile, un volto che noi cristiani conosciamo solo nel volto di Gesù Cristo, colui che ci ha narrato, spiegato, fatto conoscere Dio. È in gioco il volto del Dio misericordioso e compassionevole, come sta scritto nel suo Nome santo dato a Mosè e come è stato raccontato da Gesù, suo figlio nel mondo, il quale non ha mai castigato i
peccatori, non li ha mai puniti ma li ha perdonati ogni volta che li ha incontrati, spingendoli così al pentimento e alla conversione. È indubbio che al cuore del confronto e dell’approfondimento sinodali ci sono parole di Gesù che non possono essere dimenticate né tanto meno manomesse. Nei vangeli, infatti, di fronte al divorzio – permesso da Mosè ma condannato, non lo si dimentichi, dai profeti... – Gesù non sceglie la via della casistica ma risale all’intenzione del Legislatore e Creatore e nega ogni possibilità di rottura del vincolo nella storia d’amore tra un uomo e una donna: “Nell’in-principio non fu così... I due diventeranno una sola carne... L’uomo non divida quello che Dio ha congiunto!”. Linguaggio chiaro, esigente, radicale perché nel rapporto tra uomo e donna legati nell’alleanza della parola data, è significata l’alleanza fedele tra Dio e il suo popolo: se una fedeltà viene smentita, anche l’altra non è più credibile. Messaggio esigente e duro, che i presbiteri dovrebbero annunciare alle loro comunità mettendosi in ginocchio: “È una parola del Signore, non nostra, a chiedere questa fedeltà. Noi ve
la ripetiamo perché è nostro dovere farlo, ma ve la annunciamo in ginocchio, senza presunzione né arroganza, perché sappiamo
che vivere il matrimonio fedelmente e nell’amore rinnovato è difficile, faticoso, impossibile senza l’aiuto della grazia di Dio...”. Ma se questo è l’annuncio evangelico che non può cambiare, resta vero che nella storia, e particolarmente oggi, questo vincolo nelle storie d’amore non è sempre assunto nella fede, nell’adesione alla parola di Cristo e, comunque, a volte si deteriora, si corrompe e muore. Sì, tra coniugi occorre stare insieme fino a quando uno rende più buono l’altro, ma se questo non avviene più, dopo ripetuti tentativi, allora la separazione può essere un male minore. Ed è qui che a volte può iniziare una nuova storia d’amore che può mostrarsi portatrice di vita, vissuta nella lealtà e nella fedeltà, nella condivisione della fede e dell’appartenenza viva alla comunità cristiana. Per quanti vivono in questa condizione non è possibile celebrare altre nozze né contraddire il sacramento del matrimonio già celebrato, ma se compiono un cammino penitenziale, se mostrano con l’andare degli anni saldezza nel nuovo vincolo, non si potrebbe almeno ammetterli alla comunione che dà loro la possibilità di un viatico portatore di grazia nel cammino verso il Regno? Secondo la dottrina cattolica tradizionale l’eucarestia è sacramento anche per la remissione dei peccati. Il cardinal Martini si chiedeva: “La domanda se i divorziati possono ricevere la comunione andrebbe rovesciata: come può la chiesa arrivare venire in loro aiuto con la forza dei sacramenti?”. La ri-
sposta a queste domande può venire solo dal papa, dopo aver ascoltato la chiesa attraverso il sinodo. Si rifletta inoltre su un dato: perché preti, monaci, religiosi che emettono una pubblica promessa a Dio al cuore della chiesa, pur avendo abbandonato la vocazione ricevuta e contraddetto i voti pronunciati – voti che san Tommaso d’Aquino diceva che la chiesa non può mai sciogliere – possono partecipare pienamente alla vita anche sacramentale della chiesa, mentre chi si trova in altre situazioni di infedeltà ne è esclusi? Questa appare come ingiustizia di una disciplina fatta da chierici che vivono più o meno bene il loro celibato e non conoscono la fatica e le difficoltà del matrimonio... Cosa si attende allora dal sinodo un cattolico maturo nella fede? Che si confessi ancora e ancora l’indissolubilità del matrimonio, ma lo si faccia manifestando la misericordia di Dio, andando incontro a chi in questa esigente avventura è incorso nella contraddizione all’alleanza e invitandolo a camminare nella pienezza della vita ecclesiale. Il Dio cristiano ha un volto in cui la misericordia è immanente alla giustizia: è un Dio compassionevole che in Gesù ha camminato e cammina con chi è ferito, con chi è malato... è un Dio che vuole che tutti si convertano e vivano. La Lettera dicembre ‘14
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Titolo Titolo Riscoprire un Titolo volto del beato Paolo VI La mattina del 23 agosto 1968 il viaggio in Colombia vive il momento che più resterà impresso nella memoria: Montini si reca al Campo San José - nella pianura di Mesquera, a trenta chilometri da Bogotà - dove lo attendono oltre 250 mila campesinos, i braccianti più poveri, l’icona della negazione di quella «destinazione universale dei beni» che la Populorum Progressio ha riaffermato. Il Papa arriva in elicottero e la terra - ancora una volta protagonista - si solleva intorno, creando una nube: le autorità pronte ad accogliere l’illustre ospite scappano indietro e probabilmente Montini stesso vede ben poco appena si apre il portellone. Ma appena la polvere si posa lo spettacolo che gli si presenta davanti è quello di una moltitudine avvolta nei poncho e nelle ruana. Chi sono davvero questi uomini e queste donne? Così li racconta in un ritratto di magistrale efficacia Giuseppe Josca, sulle colonne del Corriere della Sera: «Il reddito medio di un campesino latino americano è di quindicimila lire al mese - annota -. In genere non possiede la terra, né riesce a godere dei suoi frutti. Si nutre con metà delle caloLa Lettera
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rie necessarie a un adeguato livello dietetico, non sa leggere, non ha mai sentito parlare del golf o del bridge. Mangia a lume di candela, non per creare un’atmosfera romantica, ma perché non ha la luce elettrica. E la sua unica abbondanza sono i figli, benedizione, spesso, di una unione non necessariamente consacrata da un prete». Paolo VI passa in mezzo a loro a lungo, stando in piedi su una jeep bianca. «La massa era come una macchia scura e compatta - continua il suo racconto Josca -. Ma se fosse stato possibile isolare uno per uno i volti, si sarebbero certo riconosciuti gli uomini e le donne che in questi ultimi quindici o venti anni sono stati i protagonisti o le vittime di alcuni degli avvenimenti più inquieti e drammatici della recente storia colombiana. Le vittime del sistema feudale per cui in Colombia un tre per cento di privilegiati possiede ancora il sessanta per cento delle terre coltivabili, nonostante gli sforzi per varare un programma di riforma agraria che è senza dubbio uno dei più avanzati del continente. Si sarebbero riconosciuti i destinatari della propaganda ca-
[E Paolo VI disse ai campesinos: «Voi siete un sacramento»]
strista e rivoluzionaria, i testimoni della violencia scoppiata per dispute politiche nel 1948, dopo l’assassinio a Bogotà di Jorge Gaitan, e sconvolse poi in particolar modo le zone rurali e i gli sperduti villaggi di montagna, mescolandosi e confondendosi con il brigantaggio, le vendette personali, le faide di paese, e provocando un ecatombe di vite umane: trentamila secondo i risentiti rapporti ufficiali, duecentomila secondo le stime più accreditate». A questa umanità Paolo VI propone un filo rosso decisamente forte. Perché nel suo discorso pone l’Eucaristia ciò che il Congresso di Bogotà sta celebrando - in relazione diretta con la loro condizione. «Voi siete un segno, voi un’immagine, voi un mistero della presenza di Cristo - dice Montini ai campesinos -. Il sacramento dell’Eucaristia ci offre la sua nascosta presenza viva e reale; mai voi pure siete un sacramento, cioè un’immagine sacra del Signore fra noi, come un riflesso rappresentativo, ma non nascosto, della sua faccia umana e divina. (..) Voi - aggiunge ancora - siete Cristo per noi. Noi vi amiamo con un’affezione preferenziale; e con noi vi ama, ricordatelo bene, ricordatelo sempre, la santa Chiesa cattolica». Ma il Papa però non si ferma qui; avverte che chi lo ascolta
vuole ascoltare da lui anche un giudizio sui problemi che frenano uno sviluppo che sia realmente amico di tutti. «Oggi - continua - la questione si è fatta grave, perché voi avete preso coscienza dei vostri bisogni e delle vostre sofferenze, e, come tanti altri nel mondo, non potete tollerare che codeste condizioni debbano sempre durare e non abbiano invece sollecito rimedio. Allora noi ci domandiamo che cosa possiamo fare per voi, dopo aver tanto parlato in vostro favore». E la risposta sta in quattro grandi impegni che Montini prende di fronte ai campesinos: il primo è quello di continuare a difendere la loro causa, con particolare attenzione ai diritti «all’equa retribuzione, alla conveniente abitazione, all’istruzione di base, all’assistenza sanitaria e alla partecipazione ai benefici e alle responsabilità dell’ordine sociale». Ma il secondo è ancora più chiaro: «continueremo promette Paolo VI - a denunciare le inique sperequazioni economiche tra ricchi e poveri». Su questo punto scende parecchio nel dettaglio: chiede ai governi e a «tutte le categorie dirigenti ed abbienti» di affrontare «con larghezza e coraggiose prospettive le riforme necessarie per un più giusto e più efficiente assetto sociale, con progressivo vantaggio delle classi oggi meno favorite e con più equa imposizione degli oneri fiscali sulle classi
più abbienti, specialmente su quelle che, possedendo estesi latifondi, non sono in grado di renderli più fecondi e redditizi, o, se lo possono, ne godono i frutti con esclusivo profitto». È un Papa che affronta il tema della riforma della terra e che denuncia i comportamenti speculativi quello che a Bogotà si rivolge ai campesinos. Ma c’è anche un terzo impegno che Montini ha ben chiaro: per far uscire i lavoratori agricoli dalla miseria serve anche una cooperazione tra Stati, perché i mercati più forti non soffochino i più deboli. Promette dunque di perorare la causa dei Paesi più bisognosi, perché ottengano aiuti senza che questo leda né la loro dignità né la loro libertà. Ma chiede anche ai Paesi ricchi di «aprire al commercio più facili vie in favore delle nazioni ancora prive di sufficienza economica». Perché la ricchezza, anche quella delle nazioni spiega Montini - deve rispondere al suo «scopo primario di servizio all’uomo», frenando «il suo facile godimento egoistico, o il suo impiego in spe-
se voluttuarie, o in esagerati e pericolosi armamenti». Infine il quarto impegno, quello che chiama in causa direttamente la Chiesa: «Cercheremo
noi stessi, nei limiti delle nostre possibilità economiche, di dare l’esempio, di ravvivare sempre di più nella Chiesa le
sue tradizioni di disinteresse, di generosità, di servizio, sempre più richiamandoci a quello spirito di povertà che il divino Maestro ci predicò». Durante il viaggio Montini elogerà espressamente le diocesi dell’America Latina che hanno messo loro per prime a disposizione dei contadini più poveri i loro terreni. Conclude citando la beatitudine evangelica dei poveri: «Lasciate che noi, pur sempre adoperandoci in ogni modo per alleviare le vostre pene e per procurarvi un pane più abbondante e più facile, vi ricordiamo che “non di solo pane vive l’uomo” e che di altro pane, quello della Parola e della Grazia divina, noi tutti abbiamo bisogno». E insieme - proprio nel Paese di Camilo Torres - ribadisce l’invito fermissimo a non riporre la propria fiducia nella violenza e nella rivoluzione. «Ciò è contrario allo spirito cristiano - ammonisce il Papa - e può anche ritardare, e non favorire, quell’elevazione sociale sociale a cui legittimamente aspirate». La Lettera dicembre ‘14
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I tempi del dolore
[Ottavario dei defunti]
Ogni morte è violenta, ogni perdita definitiva viene percepita come un attentato al nostro desiderio di continuità e sicurezza, al nostro bisogno di legami, alla nostra forza vitale. Passo passo, nelle celebrazioni al cimitero, iniziate con la messa del pomeriggio, il 2 novembre e con il ricordo serale dei 28 defunti dell’ultimo anno, abbiamo riletto quello che accade alla notizia o di fronte alla morte diretta di una persona cara. E cosa ci aspetta in seguito, per poter guardare bene in faccia le cose e sentirne profondamente l’affetto, prima di poter andare avanti. Per poter andare avanti. La Comunità, a partire dall’evento pasquale ci affida una parola di consolazione e di speranza. Quest’anno l’abbiamo raccolta dalle parole di Newman, affidate, insieme al cero da portare sulle tombe, alle famiglie dei defunti.
LUCE GENTILE
(Lead, Kindly Light) Conducimi tu, luce gentile conducimi nel buio che mi stringe; la notte è scura la casa è lontana, conducimi tu, luce gentile. Tu guida i miei passi, luce gentile non chiedo di vedere assai lontano, mi basta un passo, solo il primo passo; conducimi avanti luce gentile. Non sempre fu così, te ne pregai perché tu mi guidassi e conducessi, da me la mia strada io volli vedere; adesso tu mi guidi luce gentile. Io volli certezze, dimentica quei giorni, purché l’amore tuo non m’abbandoni finché la notte passi, tu mi guiderai sicuramente a te, luce gentile. Conducimi tu, luce gentile, conducimi nel buio che mi stringe; la notte è scura la casa è lontana, conducimi tu, luce gentile. (Cardinale John Henry Newman, Sicilia 1832)
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JOHN HENRY NEWMAN
(Londra, 21 febbraio 1801 – Edgbaston, 11 agosto 1890) Teologo e filosofo inglese, Cardinale , beatificato
da Benedetto XVI il 19 settembre 2010. Sulla sua tomba è scolpito l’epitaffio scritto da lui stesso, un epitaffio che doveva narrare, secondo il suo intento, la storia del suo pellegrinaggio: «Ex umbris et imaginibus in veritatem» «Dall’ombra e dai simboli alla verità.»
Dalla posta di oratoriopalazzago.it leggiamo: “Non ho potuto fare a meno di meravigliarmi quando ho saputo che una pagina de “La camera bella” era stata letta durante un momento di riflessione al cimitero. Grazie ragazzi: avete saputo cogliere quanta serietà ci possa essere anche in un approccio luminoso e lieve al tema della morte. Siamo fatti per l’infinito…” [Laura Blandino]
QUANDO SUCCEDE Come un colpo al cuore arriva la notizia, con lo stordimento dell’imprevisto, l’affanno per cercare di fare qualcosa, il sentirsi morire noi stessi, la sensazione di non poterci sottrarre a ciò che sta accadendo. E poi l’incredulità, l’assoluta impossibilità di capire, di renderci conto: ”Ma come? Se gli ho parlato un minuto fa...se ieri…” Inevitabili gli esercizi del pensiero che vuol tornare indietro e impedire l’evento:” Ma allora ...se non gli avessi detto...se avessi fatto...se, se…” arrivando a sospettare di noi stessi, quasi corresponsabili dell’accaduto… Tutto questo rivela il desiderio testardo di tornare indietro, di immaginare una finale
diversa perché non ci rassegniamo e non possiamo crederci davvero. Poi la rievocazione degli ultimi momenti: “Che cosa avrà provato? Che cosa ha sentito? Mi avrà chiamato? Avrei potuto aiutarlo?” Ci sentiamo completamente diversi, estranei a noi stessi e alla realtà che ci circonda.
berare con il pianto. Altre volte no e ci si chiude, non lasciando entrare nessuno nel nostro dolore o, addirittura, fingendo che non sia successo nulla. Altre volte la morte arriva come liberazione da una sofferenza prolungata . Ci siam preparati, ce lo aspettavamo. Ma in realtà non si
VUOTO Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo diventando simile agli uomini (Fil 2,6-7). “La morte è stata nella casa di fronte nella giornata d’oggi. Lo capisco dall’aria sbalordita che han sempre certe case” Emily Dickinson Tutto prende un sapore diverso. A volte si riesce a li-
è mai preparati. E nascono tante domande e cominciamo a sentire il vuoto dentro, un buco nero nella nostra esistenza, la definitività della mancanza, il taglio di una delle nostre radici. La Lettera dicembre ‘14
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IL DOLORE NEL PRIMO PERIODO Comincia la processione dei parenti, dei vicini, degli amici che ci dicono la loro vicinanza; eppure siamo convinti che nessuno può capire veramente ciò che proviamo. Addirittura questo può trasformarsi in rancore o in fastidio verso chi vuole occuparsi di noi. In attesa del funerale non riusciamo a dormire o, se ci assopiamo ci risvegliamo di scatto come se ci avessero appena dato la notizia. Poi il funerale, la sepoltura. Tutto finito. I parenti se ne vanno, noi a casa, la solita casa che non è più però quella di prima. Torniamo al cimitero da soli, a portare fiori, a parlarle; pu-
pensiamo al nostro caro come fosse ancora vivo sotto terra, imprigionato, al freddo, al buio e allora con Giosuè Carducci quando perse il figlioletto Dante potremmo dire: ”Tu fior de la mia pianta /Percossa e inaridita,/Tu de l’inutil vita/Estremo unico fior,/Sei ne la terra fredda,/Sei ne la terra negra; Né il sol più ti rallegra/Né ti risveglia amor (Canto Antico). Ma non è lui a soffrire, siamo noi, che però abbiamo bisogno di fisicità, non potendo credere che ci abbia davvero abbandonati. E allora si ricercano sensazioni, percezioni, aspetti che lo caratterizzavano. Allunghiamo una mano pensando di trovarlo accanto nel letto, lo sentiamo muoversi per la casa, se suo-
GRIDO Alle tre Gesù gridò con voce forte: Eloì, Eloì, lemà sabactàni? , che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato (Mc 15,34). liamo, preghiamo, piangiamo, che fatica andare via. Quella tomba è ciò che resta, una fisicità che ci è stata sottratta. “Aiutami! Dammi un segno!”… Oppure, in una sorta di incubo
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na il telefono ci aspettiamo di udire la sua voce, qualcuno alla porta, è lui...una voce, è la sua. Ma subito torniamo alla cruda realtà, al buco nero dato dalla scomparsa. Ci vuole tempo
perché l’immagine della persona che teniamo ben radicata in noi si bonifichi e da sofferente si trasformi in immagine positiva, benevola, coincidente con l’eredità spirituale che ci ha lasciato. Allora sarà utile trovarci un angolino in cui piangere, riordinare le foto o gli oggetti cari, ricordare i progetti realizzati insieme, i viaggi… sapendo che subito dopo il sentimento sarà ancora più acuto. Ma è meglio tenersi in contatto con l’esperienza vissuta piuttosto che cedere a fantasie lugubri o alla disperazione. In questo percorso, che richiede tempo, sono possibili alcuni tipi di illusione, vedendo presente la persona scomparsa in uno di spalle, dietro il casco… Ma la verità la conosciamo e dal vuoto, il grido: ” Ora il vento s’è fatto silenzioso/E silenzioso il mare;/Tutto tace; ma grido/Il grido, sola, del mio cuore,…/Grido e brucia il mio cuore senza pace/Da quando più non sono/Se non cosa in rovina e abbandonata. (Giuseppe Ungaretti, La Terra promessa III Coro).
QUELLO CHE SEGUE I giorni passano, la routine della vita riprende, compiamo gli stessi gesti, ma sentiamo che non è più come prima. Riprendiamo il lavoro ma non siamo efficienti come prima, ci distraiamo facilmente, ci ritroviamo a pensare alla persona scomparsa. Ma dedicarci al lavoro ci aiuta. Poi torniamo a casa e ripiombiamo nell’incredulità. Andiamo nella sua stanza, apriamo l’armadio, il comodino, la mensola del bagno: luoghi terribili, testimoni di una quotidianità che non esiste più. E che dire degli odori? L’odore del cinturino del suo orologio, dell’accappatoio… E gli oggetti? “Dovresti darli via, regalarli, portarli alla caritas” ci dicono. “Non sono ancora pronta”… Bisogno di segni fisici, di ritrovare ancora qualche ricordo sensibile perché non siamo ancora pronti a interio-
QUALCHE MESE DOPO Arriva il momento in cui sentiamo che il dolore più acuto ci ha lasciati, o si ripresenta solo in alcune circostanze (ci basta a volte sentire una canzone, o avvertire un profumo, o rammentarci di un gesto della persona che non c’è più). Con la quota di « normalità» ritrovata possiamo compiere alcuni altri piccoli riti di rinascita: la nostra parte malata, quello spazio della nostra mente (e del nostro cuore) che ospitava la figura malata e morente del nostro caro, ora comincia a ospitare una figura di lui o di lei più sana, risultante dall’insieme di ciò che lui è stato, che lei è stata, per tutto l’arco della sua esistenza, e non mutuata solo dagli ultimi giorni o istanti di vita. Sta rinascendo un legame positivo tra noi e l’immagine della persona cara.
rizzare la sua presenza. Allora abbiamo stanze identiche al giorno della morte dopo 10 anni, vestiti conservati come il giorno dell’in-
sorta di “feticismo del lutto”: un attaccamento agli oggetti che sembra avere la funzione di tenere sempre acceso il dolore
GLI ODORI “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Disse Gesù: “Togliete la pietra! ”. Gli rispose Marta, la sorella del morto: “Signore, già manda cattivo odore, poiché è di quattro giorni” (Gv 11,21.39). cidente, suppellettili allo stesso posto… scenografia di un copione che nessuno osa modificare. Ma in questo modo la sofferenza viene ogni giorno rigenerata, il distacco quotidianamente rivissuto, la tragedia continuamente rinnovata, perché l’ideologia di fondo sembra essere: ”Se non soffri, non sei più legato a me; se non muori un po’ anche tu, significa che non mi vuoi bene, ti dimentichi di me…” Ma questo è inferno! Addirittura, ci può essere una
perché non si sostituisca a modi più sani di onorare la memoria. Meglio tenere sempre la memoria della persona cara, non il dolore! Anzi: l’attenzione ossessiva al nostro dolore impedisce la giusta memoria e non rende giustizia alla autentica esistenza della persona che se n’è andata, anche là dove il dolore è avvertito come “necessaria espiazione” di qualche torto che riteniamo di aver fatto al nostro caro. L’espiazione però non può essere inutile e distruttiva.
Ma allora il tipo di legame precedente era forse negativo? Lo era sì! Era un legame che avrebbe portato noi a essere malati al suo posto, o noi a morire con lui o con lei. «Che cosa vorrebbe che facessi dei suoi abiti se fosse qui?» possiamo allora cominciare a chiederei.
forma di testamento o di dichiarazioni, ci aiuterà di sicuro attuarli; ma gli esercizi di immedesimazione sopra esemplificati torneranno utili in molte occasioni e ci terranno in contatto con ciò che quella persona ha rappresentato per noi. La cura della tomba può cambiare: ormai lo sen-
LA BONIFICA E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita (Mt 6,27). «Come vorrebbe che usassi il suo denaro?» Possiamo cercare, anche così, di farci noi carico delle intenzioni che lui o lei non possono esprimere; e anche dei desideri che la persona cara avrebbe voluto realizzare se fosse ancora in vita. Questo significa raccogliere la sua eredità spirituale. Va da sé che, se la persona cara avesse lasciato dei desiderata chiaramente espressi, sotto
tiamo che il nostro caro non «abita» al cimitero. Anche la nostra persona può ottenere maggiore attenzione da parte di noi stessi. « Come vorrebbe che fossi, cosa vorrebbe che facessi? » possiamo chiederci. Se ci voleva bene, non avrebbe voluto vederci piangere, trascurarci, tormentarci nei rimorsi. Meno che mai avrebbe voluto vederci annientati, inerti, sciatti, rinunciatari, passivi. La Lettera dicembre ‘14
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UN ANNO DOPO Un tempo si “portava il lutto” per un anno, includendo così il primo anniversario. Pur nel mutamento degli stili, un anno continua ad essere un tempo rituale, nel senso che occorre sentire che quella ricorrenza
modifica migliorativa dell’ambiente in cui si vive, una vacanza rilassante. A volte si è restii a lanciarsi in un progetto positivo, perché si teme che gli altri non attribuiscano più alcuna importanza a ciò che ci è toccato vivere. Possiamo temere di essere giudicati superficiali o
IL PROGETTO E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno (Gv 6, 39). si avvicina, tornare dentro il clima di quel periodo dell’anno: sentire gli odori e vedere i colori e udire i suoni che fecero allora da triste scenografia della perdita. Da lì si ricomincia, concludendo un primo ciclo di dolore e liberandosi dalla pena che accompagna i primi mesi, il primo anno vissuto senza la persona cara. Ognuno di noi ha delle ricorrenze a cui tiene, e che deve vivere dentro una assenza. Il suo compleanno, il Natale, le vacanze estive, tutto, nel ciclo dell’anno , può diventare una ricorrenza che viviamo in altro modo, senza quel « qualcuno speciale». Dobbiamo superare quel giro di boa, per poter di nuovo prendere il largo. A questo punto può aiutare il fare un progetto: un nuovo hobby, un miglioramento lavorativo, riallacciare relazioni trascurate; oppure semplicemente una La Lettera
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di dar adito a idee del tipo «Ha superato, sta proprio bene, è tornato/tornata quello/quella di prima». Soprattutto, possiamo sognare o anche immaginare da svegli che la persona perduta ci rimproveri: «Mi hai dimenticato, vuoi goderti la vita senza di me». In quest’ultimo caso, è ancora la parte malata, sofferente o addirittura morta, quella con cui stiamo facendo i conti: una parte non ancora bonificata dal processo di recupero. Ma occorre tempo. Non si può forzare un processo naturale. Dobbiamo avere pazienza con noi stessi. Tracce del nostro “caro malato” potrebbero anche restare sempre dentro di noi. Altro discorso è la sofferenza che deriva dal perdere qualcuno cui si era legati da un legame fortemente ambivalente o di segno negativo (caratterizzato da dominanti sentimenti di
ostilità, o addirittura da odio). L’elaborazione del lutto può essere persino più difficile. Qualunque fosse il legame che avevamo con la persona deceduta, se dopo un anno la sofferenza è ancora tale da impedirci di studiare, o di lavorare, di provare a fare qualche progetto a beneficio della nostra persona, di sperimentare momenti di serenità e di fiducia nel futuro, di dedicarci con tranquillità ed energia agli altri membri della famiglia; se siamo tormentati dai ricordi tragici al punto da non riuscire a dormire e a sognare; se non riusciamo a distaccarci dagli oggetti appartenuti alla persona perduta; se sentiamo di essere malati o morti dentro; se ci sentiamo sopraffatti dalla rabbia o dal rimorso, allora abbiamo bisogno di un aiuto psicoterapeutico, perché il rischio del restare soli è quello di aggravare la condizione di sofferenza psichica e morale, trascinandoci sempre più dentro uno spazio malato della nostra personalità, distruggendo le nostre risorse e le nostre speranze e lasciando nella costernazione e nell’impotenza chi ci vuole bene. Ci fermiamo qui , con elementi sufficienti sufficienti per guardare in faccia la realtà. Ora, ciascuno può andare avanti aprendo nuovi spazi di evocazione e di riflessione personale.
“Fratelli, nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore. Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi (Rm 14, 7-9). Con queste parole, e anche in molti altri passaggi, san Paolo dà la risposta ultima e quasi paradossale, la risposta cristiana, a una domanda che inevitabilmente l’uomo si pone attraverso il dolore della perdita di una persona amata: «Esiste qualcosa, una realtà, uno spazio, un valore che mi lega ancora alla persona che ho perso? Esiste una realtà in cui io e lei possiamo ritrovarci?» Intuitivamente l’uomo cerca questo spazio, questo senso. Un valore, un ideale che ha fatto vivere la persona morta e al quale anch’io possa dedicarmi, penso a coloro che si sono sacrificati per la libertà
o la giustizia, o all’ educazione dei figli, oppure, come per gli uomini dell’Antico Testamento, una stirpe che resti fedele a Dio, una progenitura numerosa come per Abramo. Intuitivamente cerchiamo un terzo termine, un terzo punto in cui ritrovarci, magari semplicemente l’intuizione di un soffio di vita che ci deborda. I riti e le credenze di tante religioni confermano questa intuizione. Ora la fede cristiana introduce una risposta particolare e paradossale a questa esigenza. È attraverso la sua morte e la sua resurrezione che Gesù ha come reso relativa, per così dire, la differenza tra la vita e la morte. La vita è una relazione, una relazione con Cristo che «è morto perché viviamo insieme a Lui », Infatti, ed è qui il paradosso, doveva raggiungerci nella morte perché la nostra relazione con Lui sussistesse aldilà, e attraverso, la nostra morte. È nel momento della sua passione, nell’agonia del Getsemani, nell’abbandono - «Dio mio, perché mi hai abbandonato? » - che consuma realmente la
comunione al nostro dolore, alla nostra oscurità di fronte alla morte di coloro che amiamo e alla nostra stessa morte. Lo spazio di unità tra la vita e la morte è stato conquistato attraverso l’esperienza della morte stessa. Ora noi crediamo che questa signoria di Cristo sulla vita e sulla morte è universale. Come il Vangelo non cessa di direi, Gesù è unito a ogni uomo e molti lo hanno incontrato senza saperlo attraverso i fratelli. Per i discepoli di Gesù la relazione con Lui è la vita costitutiva: «Sia che siamo vivi, sia che siamo morti»; e misteriosamente ciò è vero per ogni uomo.
CHI AMA LA VITA NON TEME LA MORTE Immobile nel letto, estenuata dall’agonia, la nonna appare ormai del tutto estranea al mondo che la circonda: credo sia questo il motivo per cui i familiari si sono finalmente decisi a chiamarmi. «Lei capisce - fa la figlia con poco tatto - aspettavamo che perdesse la conoscenza per non spaventarla con la presenza del prete». Quando comincio a dire le preghiere, lei insiste: «Da ieri non reagisce più, non riconosce neppure noi figli». Mi avvicino all’orecchio della nonna e comincio a recitate il Padre Nostro: lei muove le labbra... A questo punto insisto per restare solo con lei: usciti tutti, apre gli occhi e con un filo di voce fa: «Era ora che arrivasse! Temevo che mi avrebbero lasciato morire senza prete e sacramenti: per questo ho deciso di non parlare più ai miei, perché non era possibile che facessero pagare a me le conseguenze delle loro paure». Si confessa, recita le preghiere, riceve la comunione e l’unzione degli infermi e poi ai familiari presenti fa: «Spero che abbiate capito ciò di cui ha bisogno chi, come me, sta per incontrare il Signore». don Davide Rota (da L’Eco di Bergamo, 9 novembre) La Lettera dicembre ‘14
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[I verbi del prete. Forme dello stile presbiterale. di Caldirola e Torresin]
Celebrare La domenica per un prete si presenta come un giorno di lavoro. Qualcuno ci ironizza perfino sopra, dicendo che è giusto che anche i preti si diano da fare almeno un giorno alla settimana, visto che non si capisce bene che cosa facciano negli altri sei. In effetti, un prete sente e vive la domenica come un giorno speciale, nel quale si gioca molto del suo ministero e del suo servizio al regno di Dio. A pensarci bene, non sono tante le istituzioni che, tutte le settimane dell’anno, offrono un appuntamento costante, con la possibilità di incontro con le persone; neanche il campionato di calcio riesce a fare altrettanto e poi per la domenica del prete non c’è sciopero che tenga! La domenica tanta gente si muove, si mette in cammino per andare verso la chiesa. Sarebbe bello poter inquadrare la scena dall’alto e seguire passo dopo passo una serie di rigagnoli umani che diventano un fiume. Anche il prete qualche passo per andare in chiesa lo deve pur muovere, magari piomba direttamente in sacrestia dai propri appartamenti, ma oggi, sempre più, deve prendere la bici o la macchina per celebrare in qualche chiesa vicina o lontana dalla sua abitazione. Ci lamentiamo spesso del fatto che molti dei nostri fedeli arrivano a messa in ritardo, ma non dobbiamo sottovalutare il rischio che noi stessi preti non ci facciaLa Lettera
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mo trovare pronti; proprio per questo, nei nostri anni di vita comune, abbiamo sempre cercato di farci trovare in chiesa con un buon tempo di anticipo. Quello di attendere sulla soglia, che all’inizio poteva essere soltanto un gesto di attenzione e di cura nei confronti dei fedeli, è diventato, poco alla volta, un’esigenza spirituale. Per noi è importante aspettare le persone: è un modo per dare corpo alla nostra attesa e, a imitazione di Gesù, vorremmo poter dire ogni volta: <<Ho desiderato ardentemente celebrare la Pasqua con voi>>. Ma anche per la gente è fondamentale sentirsi attesa; sarebbe bello che l’eucaristia, più che un precetto, diventasse un appuntamento aspettato e custodito con gioia. D’altra parte, il <<Fate questo in memoria di me>> è l’unica cosa che ci ha chiesto Gesù: è lui stesso infatti che attende noi preti con la nostra gente per un incontro che gli sta particolarmente a cuore. Mentre attendiamo sulla soglia e salutiamo la gente che entra in chiesa, ci è dato di percepire con chiarezza come uno dei tratti fondamentali del ministero del prete sia quello di radunare e di raccogliere. Apriamo la porta a persone che portano con sé cammini differenti: storie a volte confuse, apparentemente estranee e lontane le une dalle altre; un’umanità che porta pesi e ferite inimmaginabili; storie di
fede e modi diversi di cercare Dio e di sentirsi da lui a volte accolti e a volte abbandonati. Quello che conta alla fine è che le porte si aprano per tutti e che per tutti ci sia posto; col tempo si diventa indulgenti anche con quelli che arrivano in ritardo, sapendo che Dio ha più pazienza di noi nell’aspettarli e nel raccoglierli. Ci è capitato di riflettere con il Consiglio pastorale, per un anno intero, sulla celebrazione domenicale. Ci siamo messi nella prospettiva di ascoltare come dei credenti <<normali>> vivano questo appuntamento di festa in festa. E’ stata una sorpresa gradita cogliere l’intensità spirituale e umana con cui tanti fedeli comuni sostengono il loro cammino di fede semplicemente grazie a questa <<manna settimanale>>. Sono stati proprio i nostri parrocchiani ad aiutarci a riscoprire la ricchezza del presiedere l’Eucaristia della domenica ed è stato con loro che è nata l’intuizione di raccogliere la cele-
brazione in tre passi successivi; una sorta di esercizi spirituali scanditi in tre tappe diverse, ma connesse tra loro: entrare, sostare, uscire. SAPER <<ENTRARE>> Guardiamo la gente che entra in chiesa e la seguiamo nei tanti piccoli gesti che compie per prendere posto davanti a Dio. Il segno della croce ha tracciato una linea di separazione con tutto quanto c’era prima; l’acqua benedetta ha purificato lo spirito, ha lasciato cadere gli affanni e le preoccupazioni; la ricerca del proprio posto tra le panche ha fatto sentire a casa; il volto conosciuto del vicino ha creato il clima di famiglia; lo sguardo al tabernacolo ha messo di fronte alla presenza del Signore. A pensarci bene, in questi gesti apparentemente semplici dimora tutta la fatica di passare da una vita dispersa e frenetica a un luogo che riporta al cospetto di Dio. Tutto questo il prete lo fa rivivere passo dopo passo nei riti di in-
troduzione. Facciamo insieme gesti consolidati e antichi: ci salutiamo nel nome del Signore, riconosciamo il peccato, chiediamo perdono, invochiamo una misericordia che guarisce. E la preghiera si fa canto:<<Gloria nel cielo e pace sulla terra>>. Arriviamo così alla prima orazione: si chiama <<colletta>> perché raccoglie i pensieri e le speranze di tutti e la preghiera di ciascuno diventa corale, abbracciando anche chi non c’è, chi è rimasto a casa. La grazia e la fatica del fedele che <<entra>> nella celebrazione domenicale sono identiche alle nostre. Non possiamo dare per scontato di trovarci già <<dentro>> la celebrazione e sono molti i fattori di dispersione e di distrazione propri del prete. Non è difficile leggere nei gesti e sul volto del celebrante una tensione eccessiva, a volte addirittura un affanno. La domenica è talmente ingolfata di iniziative, incontri, raduni, attività <<promozionali>> e <<misLa Lettera dicembre ‘14
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sionarie>>, occasioni e temi di riflessione (e di collette obbligatorie!) da segnalare e ricordare alla gente… che il prete rischia seriamente di pensare a tutto, ma di dimenticarsi di sé, del popolo di Dio e di Gesù. Ci è lecito sognare una domenica meno congestionata, liberata da troppi appuntamenti accessori che fanno smarrire il senso dell’essenziale. L’esperienza ci suggerisce che le domeniche migliori sono quelle più <<vuote>>: non il vuoto di idee o il vuoto celebrativo, ma quello spazio libero che permette alla grazia di Dio di entrare. Ci piace a questo punto citare un racconto chassidico:<< Una volta il Baalshem si fermò sulla soglia di una sinagoga e rifiutò di mettervi piede. “Non posso entrarvi – disse-. Da una parte all’altra e dal pavimento al soffitto è così stipata di insegnamenti e di preghiere che dove ci sarebbe ancora posto per me?”. E, notando come coloro che lo circondavano guardassero stupefatti, aggiunse: “Le parole che escono dalle labbra dei maestri e di coloro che pregano, ma non dal cuore rivolto al cielo, non salgono in alto, La Lettera
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ma riempiono la casa da una parete all’altra e dal pavimento al soffitto”>>. Un buon esercizio ce l e b r a t i vo per il prete è quello di fare spazio e mantenere sgombra la soglia, perché gli uomini possano entrare al cospetto del mistero e la grazia possa operare nel segreto dei cuori. SAPER <<SOSTARE>> Il mistero della celebrazione eucaristica chiede un cuore capace di fermarsi e di sostare. Ci sono parole che domandano una particolare attenzione, sulle quali è bene soffermarsi con cura e ci sono gesti che, per essere gustati e compresi, hanno bisogno di essere fatti e rifatti e chiedono la forza della ripetizione: < < Fa t e questo in memoria di me>>. Le due mense si richiamano a vicenda: <<mangiamo>> la Parola e <<contempliamo>> il pane spezzato. Si aprono nella messa momenti di delicata intimità, ci sono parole che entrano nel profondo del cuore e gesti che ci chiedono solo di guardare il Signore negli occhi, a tu per tu. In questa
grande ricchezza di parole e di gesti capita spesso di perdersi, ma probabilmente né a noi né ai fedeli è chiesto di comprendere e ricordare ogni cosa con piena consapevolezza. L’eucaristia non è una serie di concetti da afferrare, ma un luogo in cui rimanere; basta poco, basta stare davanti al Signore. La distrazione e la dispersione che ci capita di cogliere negli sguardi dei fedeli, assonnati durante l’omelia o persi nel vuoto al momento della preghiera eucaristica, rischiano di essere anche le nostre. Non siamo certo esenti da pensieri che ci portano lontano proprio nel momento in cui dovremmo trovare il centro stesso del nostro ministero. A volte ciò che rischia di disperderci è proprio un eccesso di preoccupazione rispetto al nostro compito di presidenza dell’eucarestia. Ci chiediamo se il sacrestano abbia preparato tutto a dovere, ci infastidisce il lettore che incespica nella dizione, siamo tesi quando il coro o il solista intona malamente il canto dell’alleluia, lanciamo strali con gli occhi nei confronti di coloro che impiegano infiniti minuti a portare le offerte all’altare. Insomma, presiedere porta a una serie di pensieri che rendono più difficile per il prete il raccoglimento. Eppure questa è l’unica cosa che conta e che permette l’atto stesso della presidenza: l’assemblea fiuta subito se un
prete prega, se è immerso nel mistero che celebra o se invece sta recitando una parte, se guarda frequentemente l’orologio perché lui stesso non vede l’ora di finire o se si trascina in prediche infinite o in gesti affettati ed enfatici che
non raramente sconfinano nel ridicolo. Per età e per formazione siamo cresciuti in un periodo in cui pareva che le cose più significative in una celebrazione fossero la <<partecipazione>> e la creatività. Tutto rischiava di essere legato all’inventiva del prete o a qualche effetto speciale studiato ad arte per attirare l’attenzione o per stupire e coinvolgere il malcapitato fedele. Con gli anni abbiamo imparato ad apprezzare il carattere stilizzato e sobrio dello stile celebrativo: pochi gesti e parole misurate, perché esse devono solo rimandare a un mistero che tutti ci supera. Ci sono una competenza e un ritmo della celebrazione che vanno rispettati e farlo è un’arte raffinata che si impara coltivando una spiritualità pro-
fonda e una sensibilità delicata. Scrive PP. De Clerck: <<Non si tratta di trovare in se stessi delle belle idee da esprimere durante la celebrazione, ma al contrario bisogna lasciarsi prendere da un’azione fatta di parole e gesti destinati a tra-
sformare le nostre idee e tutta intera la nostra vita>>. La nostra età anagrafica ci porta a essere un po’ a disagio con la tendenza di questi ultimi anni. Rifiorisce un certo rubricismo, un’attenzione quasi maniacale alle norme liturgiche, come se l’unica possibilità di partecipazione fruttuosa alla liturgia fosse legata alla collaborazione millimetrica del messale sulla mensa, al numero delle candele, o all’inclinazione del dito mignolo del celebrante. Confessiamo che questo <<ritorno>>al passato ci provoca un po’ di fastidio. Scrive E. Bianchi: <<Una tentazione che può toccare il presbitero nell’esercizio dell’ars celebrandi è quella del protagonismo che a volte assume i tratti di un vero e proprio esibizionismo….
il presbitero si fa animatore dell’assemblea… enfatizzando i gesti della propria pietà personale… Ne consegue che non sono più raccontate le azioni di Dio, ma i credenti sono portati a cogliere i gesti liturgici come azioni che appartengono a chi le compie>>. SAPER <<USCIRE>> Anche le cose belle devono finire e la celebrazione cerca gesti e parole per concludere bene. Non è facile. E’ bello finire salutando: salutiamo il Signore con il segno della croce, così come siamo entrati, perché Gesù è il primo che incontriamo entrando, ma sarà anche il primo che incontreremo uscendo dalla chiesa. Ma ci salutiamo anche tra di noi: la comunione ci fa diventare un solo corpo. Da anni l’abitudine di salutare la gente che esce dalla chiesa è diventata una delle gioie più grandi e dei gesti più fecondi del nostro ministero. E’ un gesto che, poco alla volta, cambia il clima di un’intera comunità. Non costa nulla, è gratuito e forse, proprio per questo, è molto efficace. E’ un momento che anche noi preti attendiamo con gioia: ci fa sentire più contenti e rende la gente più felice. Non è cosa da poco che da un’assemblea che ha celebrato il mistero di Gesù escano volti gioiosi, gente serena e non invece sguardi corrucciati o persone <<bastonate>> dalle nostre predicazioni moralistiche. Il vangelo deve essere una buona notizia. E allora ci chiediamo: la domenica per il prete può essere un tempo di riposo? La Lettera dicembre ‘14
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Nuovi sherpa del web Ora che le tecnologie sono entrate nelle nostre vite e costituiscono la normalità per i ragazzi di oggi, che tipo di azione educativa dovrebbero intraprendere i genitori per minimizzare i pericoli e cogliere tutti i vantaggi dell’era digitale? Sono le domande che hanno mosso gli incontri proposti ai genitori dei ragazzi di terza media e degli adolescenti, in un itinerario ormai consolidato, organizzato all’inizio del nuovo anno dalle parrocchie della zona pastorale. L’equipe del Conventino di Bergamo ci ha accompagnati nel percorso. Capita a molti genitori di avere a un certo punto l’impressione che il proprio figlio adolescente viva in un’altra dimensione. Fisicamente vicino forse, ma con la testa altrove, collegato al mondo, risucchiato dal suo profilo Facebook e dai suoi giochi elettronici, in perenne controllo dei messaggi WhatsApp, in preda a frenetiche cavalcate sui tasti del cellula re. Magari facendo più cose contemporaneamente. Collegato e scollegato al tempo stesso. Ma come sta crescendo? Che cosa prova? Come vede la vita, l’amore, le relazioni, il mondo attraverso l’occhio di internet? Saprà discernere reale e virtuale, capire che cosa La Lettera
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è giusto o sbagliato in quella dimensione impalpabile dove tutto è possibile senza i limiti della realtà? Che fare allora? Limitarlo, controllarlo, lasciarlo andare? «Il primo passo è capire che cosa significano le tecnologie per le nuove generazioni - consiglia Barbara Volpi -. I ragazzi non hanno memoria dì un mondo senza internet e per loro è normale, per esempio, entrare in relazione attraverso gli strumenti tecnologici. Anzi, esserne privi significa essere tagliati fuori. Tuttavia non si possono dare in mano a un adolescente mezzi così potenti, senza prendere in considerazione tutte le possibili conseguenze». Conoscenza e attenzione da parte del genitore sono fondamentali anche per Caterina Cangià, docente di Pedagogia e comunicazione sociale e multimedialità e di Processi formativi all’Università Salesiana di Roma: «La prima cosa che dovrebbe fare un genitore per aiutare il figlio a usare bene la tecnologia è mantenere lui stesso per primo un atteggiamento orientato alla realtà e utilizzare la tecnologia
[Itinerario genitori adolescenti sulle nuove tecnologie]
quando arricchisce e completa la realtà, non quando la sostituisce. Vedo invece tanti adulti usare la tecnologia a sproposito, essere risucchiati dal suo fascino, trascurando il dialogo e la comunicazione diretta di cui i ragazzi hanno invece estremo bisogno. Ne vedo altri che, per incuria o ignoranza, lasciano i figli in mano alle tecnologie, quasi si trattasse di un nuovo tipo di baby sitter. In un caso e nell’altro viene a mancare il ruolo del genitore che deve invece essere aggiornato, deve saper spiegare i possibili effetti negativi, deve essere sempre disposto al dialogo e nello stesso tempo fermo con il figlio quando vede un pericolo, così come farebbe per un cibo sbagliato. Molti genitori, invece, non conoscono affatto il mondo dei loro figli». Non giova ai genitori, rincara Volpi, il «digital divide», cioè l’eccessiva disparità di conoscenze in campo digitale rispetto ai loro figli. Di fatto l’ultima Indagine nazionale Telefono Azzurro Eurispes sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza (2012) rivela che per gli adolescenti tra i 12 e i 18 anni solo la metà dei genitori sa navigare bene (13,7 per cento) o abbastanza bene (39,3 per cento) in internet, la restante metà conosce poco o per nulla questa tecnologia.
«Il divario - spiega Volpi - dovrebbe essere colmato il più possibile e il modo più semplice per farlo è farsi aiutare proprio dai ragazzi. Per certi versi è un ribaltamento dei ruoli, che è allo stesso tempo un esercizio di umiltà e un grande segno di attenzione. Per i genitori è l’occasione per trasmettere la saggezza e l’esperienza accumulata, utile ai ragazzi per discernere valori e contenuti anche nel mondo virtuale. Una condivisione che è un completamento e un riconoscimento del reciproco valore». Poco lungimirante sarebbe, invece, l’atteggiamento opposto che demonizza l’uso delle tecnologie: «Porterebbe solo all’incomunicabilità e, in definitiva, a una solitudine dei ragazzi nell’uso di questi mezzi, che essi sperimenterebbero altrimenti e senza alcuna guida».
[RISCHI POCO VIRTUALI] Non tutti gli esperti leggono i rischi della Rete allo stesso modo. C’è chi crede che le nuove tecnologie causino, o possano in prospettiva causare, un maggior numero di problemi e atteggiamenti devianti e chi invece ritiene che si tratti degli stessi pericoli della vita reale enfatizzati dalle nuove tecnologie. I più citati sono la
dipendenza da internet, analoga a quella da sostanze; il cyberbullismo, cioè la violenza di gruppo perpetrata contro una vittima tramite mezzi digitali, e la pedofilia, agevolata in internet dalla possibilità di agire nell’anonimato o con altre identità. In realtà non è ancora chiaro quanti e di che effettiva gravità siano i rischi della Rete. Sta di fatto, però, che essa sta mutando il modo di rapportarsi dei giovani con la realtà e con gli altri, aumentando alcuni rischi prima attenuati dai limiti della vita reale. Il cambiamento più evidente, almeno secondo la psicologa Barbara Volpi, è che la Rete è diventata l’ambito privilegiato di esperienza e di costruzione dell’identità: «Recentissimi studi - spiega Volpi - hanno dimostrato che la formazione del cervello si completa solo a 28-30 anni. Negli adolescenti, in particolare, non è ancora sviluppata la “corteccia frontale”, che è la parte del cervello deputata al riconoscimento dei pericoli. Così, fragili e poco attrezzati, essi entrano nel mondo virtuale, incontrando tutti e subito gli ambiti classici di sperimentazione del sé, un tempo incontrati per gradi: la relazione, il gioco e il sesso. La Rete, d’altro canto, s’incastra perfettamente con le esigenze dell’adolescenza: offre tutto e subito, soddisfa il narcisismo e il senso di onnipotenza tipico dell’età. Tuttavia, senza esperienza e punti di riferimento non è facile per loro discernere, dare un senso, un valore, un giudizio a ciò che trovano in Rete, con tutti i rischi che ciò può comportare quando si è in
una fase evolutiva». Cresce su questa radice, per esempio, il sexting, lo scambio di foto, video e testi a sfondo sessuale o pornografico, spesso realizzati con il cellula re, che finisce per esporre nella piazza virtuale la sfera più delicata della vita privata di un ragazzo o una ragazza, provocando alla fin fine nell’interessato grande imbarazzo e dolore. Secondo l’indagine di Telefono Azzurro, il 25,9 per cento dei ragazzi ha ricevuto contenuti di questo tipo, ma in realtà il fenomeno è in forte aumento. Conoscere queste dinamiche aiuterebbe i genitori a prendere contromisure: dal dare un’altra visione della sessualità e della privacy a guidare alla comprensione dei danni, fino a fornire i consigli pratici, come quello, per esempio, di non rivelare a nessuno, nemmeno a chi sembra più amico, le proprie password, vere porte di accesso ai dati personali. Cambiano gli ambiti della sperimentazione ma anche il modo di comunicare. Anzi, per un ragazzo di oggi to be always on, cioè essere perennemente collegato ad amici veri e virtuali, è una cifra fondamentale della propria socialità. «Alla relazione da muretto, da strada, da supermercato - afferma Cangià si sostituisce quella attraverso un supporto elettronico, che prevede sempre meno il ricorso al faccia a faccia. Ma in questa comunicazione mediata i giovani perdono i “tratti proLa Lettera dicembre ‘14
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sodici” cioè tutti quei segni non verbali quali il ritmo, l’intonazione, l’espressione del volto, che permetterebbero loro di comprendere meglio l’interlocutore e di correre ai ripari se si è detto qualcosa che ferisce.
ra dell’iperconnessione s’insinua il tarlo della solitudine, della comunicazione che non comunica, dell’amicizia che condivide solo i link, della sperimentazione di sé che non fa maturare.
In Rete sale il rischio di creare fraintendimenti o di sfiorare il bullismo, proprio perché non si percepiscono più nella loro complessità i sentimenti degli altri e gli effetti di ciò che diciamo e facciamo nel mondo virtuale». A una quantità di amici crescente nei social media non corrisponde spesso un’abilità relazionale nel mondo reale: «Ci sono ragazzine - spiega Volpi - che postano una loro foto su Facebook e cercano di colmare la fragilità narcisistica tipica dell’età aspettando ansiosamente i “mi piace”, ma poi in un incontro reale non saprebbero che cosa dire». Recenti ricerche, rivela la studiosa, attestano che solo i12,8 per cento degli «amici» con cui si è collegati sono reali amici e conoscenti. Nell’e-
[LA PROVA DELLA REALTÀ] Che cosa manca? Il più vecchio dei componenti, il meno tecnologico forse: la prova della realtà. Secondo Volpi è proprio nella relazione reale che si costruisce tra genitori e figli fin dalla prima infanzia il nocciolo duro dell’identità dei futuri ragazzi e la capacità di andare per il mondo con la convinzione di avere alle spalle un porto sicuro. «Secondo la teoria dell’attaccamento di Iohn Bowlby (psicologo e psicoanalista) una sana relazione tra genitore e figlio è quella in cui il piccolo sa che allontanandosi dal parco, se gli succede qualcosa, il genitore è pronto a soccorrerlo. Oggi non possiamo ignorare i parchi virtuali in cui vanno i nostri figli. La genitorialità digitale, come io la definisco, è proprio riuscire a costruire questa base sicura anche nel mondo di internet». Ma come farlo concretamente, giorno per giorno? «Innanzi- tutto - afferma Cangià - educando a una tecnologia a servizio di tutte le meraviglie che possiamo fare nel mondo reale. Ma per ottenere il risultato dobbiamo compiere alcuni passi. Primo: essere consapevoli dell’uso che noi stessi facciamo delle tecnolo-
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gie; inutile regolarle ai nostri ragazzi se poi noi per primi ne siamo assorbiti: coerenza e dialogo sono fondamentali. Secondo: aggiornarci costantemente sui rischi e le possibilità del- la Rete, scegliendo testi divulgativi ma scientifici, non una chat qualsiasi. Terzo: fare attività insieme con i propri ragazzi, dal bricolage alla musica, alla vita all’aria aperta. Quarto: spiegare i rischi delle nuove tecnologie e la necessità di avere costantemente relazioni faccia a faccia. Quindi ben vengano gli amici reali e le esperienze fatte assieme. Quinto: dare il gusto di un dialogo con se stessi silenzioso e interiore, che - per chi crede - potrebbe sfociare nel dialogo con l’Assoluto». Spesso i problemi nella Rete hanno la solita causa, aggiunge Volpi: «Molti genitori non osservano più i loro figli: è sufficiente che vadano bene a scuola ma non sanno se sono felici, se qualcosa li turba o se hanno un bisogno represso». Nelle tante possibilità della Rete, nel groviglio dei suoi link, manca una narrazione coerente: «Non stancatevi mai di dire ai vostri figli che cosa è importante per voi, quali sono i vostri valori, che cosa è giu-sto o sbagliato e perché. A costo di fare i grilli parlanti. Ma quella narrazione, costante e coerente, magari mal digerita o ascoltata con sufficienza, sarà la loro impercettibile guida nelle strade del web».
Titolo Titolo Titolo [Festa della Madonna del Rosario]
Una bella festa, quella della Madonna del Rosario. Domenica 5 ottobre. Accoglienza di don Davide, anniversari sacerdotali (di don Eliseo che ha presieduto la messa, nel 45° di ordinazione, di don Elio (45) e don Mario (40) che, assenti, abbiamo ugualmente ricordato e per il 25° di professione religiosa di Suor Mariagrazia Rota Bulò, cui si è associato il 50° di alcune Suore delle Poverelle (per capirci quelle della cucina). Coloro che per la prima volta erano presenti alla celebrazione con noi si sono positivamente meravigliati per la partecipazione e la familiarità, nonché dei segni della festa. Questo ci rincuora, nell’anno pastorale in cui il Vescovo ci scrive che la liturgia deve dar forma alla Comunità. E qui sottolineiamo due aspetti Il primo prende a prestito il lungo striscione -40 metri con 1100 nomi stampati, quelli delle famiglie nelle quali siamo passati per la benedizione delle case nello scorso anno pastorale. S’è snodato dall’altare portato in processione dai ragazzi che lo sostenevano da una parte e dall’altra, creando una sorta di cordata (che è l’immagine del nuovo anno per il quale i ragazzi, gli adolescenti e gli operatori pastorali han ricevuto un moschettone). Così, apriva la processione la croce e subito
Qualcuno tira, qualcuno molla…
dopo tutti i nomi –storie, strade, rosari…-e da ultimo la statua della Madonna del Rosario con il nuovo abito e l’ampio manto. Il messaggio è chiaro: la sequela dietro al Signore (a Pietro che voleva stare davanti Gesù dice: “dietro a me”) sorretti, sospinti, richiamati da Maria. Poi, al rientro, il telo è stato appoggiato lungo tutta la chiesa, ma non lo conteneva . Ecco l’orizzonte della celebrazione: ciò che viviamo e gustiamo in chiesa non può essere trattenuto, ma va portato, secondo la provocatoria espressione di don Tonino Bello: ”La pace è finita, andate a messa”. Il secondo aspetto parte da un’osservazione lungo la processione, con tutte le fasce d’età. Davanti, i ragazzi con un passo veloce, dietro la banda che cadenza l’incidere a ritmo di musica. In alcuni momenti sembrava un tira e molla con velocità diverse. Ecco: in una comunità ci sono “tempi” diversi, categorie diverse, stli diversi. L’essere “un cuor solo e un’anima sola” secondo la frase guida dell’anno- non toglie le differenze, ma chiede un ascolto reciproco che si fa condivisione del cammino degli altri. Qualcuno tira, qualcuno si fa tirare, qualcuno rimane indietro, a volte si creano distanze…ma il desiderio è di camminare insieme, “mai senza l’altro”. La Lettera dicembre ‘14
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Vado a Mezzoldo Crediamo che a volte ci vogliano davvero delle occasioni, come questa di Mezzoldo, che ti permettono di sentire musiche nuove, di trovare il tuo “io” nel silenzio della preghiera e nell’estraneo il fratello di cui hai bisogno. E’ stato come quando un cieco comincia a vedere, una
persona che sente comincia ad ascoltare. E’ stata un settimana piena di incontri, riflessioni e confronti con te stesso e gli altri. Il nostro bagaglio d’esperienze si è arricchito più che mai dato che per vivere al meglio l’esperienza ci è stato suggerito di sporcarci le mani, metterci in gioco e soprattutto di non tirarci mai indietro. La paura è stata la nostra fedele compagna nelle prime ore a Mezzoldo, ma ha lasciato subito il posto allo stupore, alla voglia di fare e di capire il perché di tante cose. Crediamo che non valga la pena di raccontare con esattezza ciò che abbiamo fatto, perché ciò che conta è COME lo abbiamo fatto: lo abbiamo fatto con una passione che abbiamo riscoperto essere nuova in noi. Abbiamo capito che quello di cui abbiamo bisogno è la passione per la vita, La Lettera
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per educare e per avere fede. Ognuno di noi ha vissuto questo cammino in modo personale, ma tutti ci siamo trovati d’accordo sul dire che ci ha segnato, ci ha un po’sconvolto e ci ha messo in discussione, ma soprattutto ci ha dato la carica per vivere davvero e non solo sopravvivere. Il momento più bello che abbiamo vissuto è stato il momento della SPIRITUALITA’, intenso e diverso dai soliti momenti di preghiera. Sulle note della musica, ciascuno creava uno spazio tutto suo nel quale si isolava, ma si sentiva comunque parte della grande famiglia lì riunita per vivere insieme il momento della preghiera. Riscrivere poi il Vangelo in un cartoncino aggiungendo le nostre impressioni, frasi che ci venivano in mente, ci ha permesso di sentirlo nostro e di sentirci davvero partecipi ad esso. Questo momento intenso ci ha segnato tutti in qualche modo e ci ha permesso di riflettere su noi stessi e sulla nostra fede. Anche la messa è stata speciale, ricca di piccoli gesti significativi che ci hanno colpito e che ce la faranno ricordare per sempre. Legarsi così tanto a delle persone in una settimana poi è stato fantastico! Ci siamo scoperti un’unica grande famiglia perché quando si vive sotto lo stesso tetto, anche se per poco, si diventa una piccola grande famiglia. Abbiamo capito che prima di tutto, prima di essere animatori, bisogna essere persone: saper ascoltare davvero, saper regalare il nostro tempo, noi stessi, agli
[Mattia e Stefano]
occhi e alla voce dell’altro, perché l’ascolto è comunicazione! Abbiamo condiviso idee, pareri, momenti e ci siamo confrontati con persone con il nostro stesso spirito di oratorio. L’atmosfera creatasi di ascolto e confronto istruttivo ha permesso a quelli più timidi di noi di esprimere le loro opinioni senza paure, perché alla fine siamo diventati più di un gruppo; mano a mano che condividevamo tutto, la timidezza è sparita e ha lasciato spazio alla condivisione e al confronto. Ci dissero che l’esperienza di Mezzoldo sarebbe finita presto quando mancavano ancora tre giorni. Ce lo dissero per farci capire che quello che stavamo vivendo, pur essendo l’esperienza più bella in assoluto, sarebbe finita e che saremmo tornati a casa. Ci ricordarono che da Mezzoldo bisognava tornare a casa, nel NOSTRO di oratorio. Abbiamo trovato ciò un po’ crudele ma
poi abbiamo capito: dovevamo tornare per forza, perché ciò che avevamo imparato non fosse perduto, ma trasmesso, perché ciò che avevamo vissuto fosse raccontato e condiviso. Ecco perché dovevamo tornare!
[Michail e Mauro]
“Dipende, da che dipende...”. A Settembre dell’anno scorso, con le parole di una canzone un po’ dimenticata, gli oratori della nostra unità pastorale proponevano ai genitori degli adolescenti, e poi anche agli adolescenti, una serie di incontri sul tema delle dipendenze. Ci eravamo fatti aiutare da don Chino Pezzoli, fondatore di Promozione Umana, l’associazione che gestisce – tra centri d’ascolto e centri terapeutici – più di venti strutture destinate alla cura e all’uscita dalle dipendenze. Alla fine ci eravamo promessi di “rendere la visita” e, un po’ in ritardo, il 26 Ottobre un gruppo di adolescenti, animatori e genitori da Palazzago e Gromlongo, guidati da don Lorenzo, ha potuto visitare la comunità di Villanterio (PV). Era una Domenica, e così l’abbiamo sentita: la Messa, il pranzo “delle belle occasioni” con tutti i prodotti della comunità, i nostri dolci, i canti, la partita di calcio. La comunità si trova in un cascinale nel mezzo della pianura. Da una parte lo spazio dell’abitare, dall’altra quello del lavoro, con un’azienda agricola che alleva maiali per la produzione di salu-
Villanterio: una Domenica mi. A Villanterio vivono trentotto persone (con qualche bambino). Uomini e donne formano due gruppi autonomi l’uno rispetto all’altro, ognuno con i suoi ambienti, ognuno con i suoi ruoli; l’impressione è che due comunità distinte convivano negli spazi di una sola. Unica eccezione è il refettorio, in cui si condivide il locale ma non il pasto, perché i due gruppi mangiano a tavoli diversi. Anche a noi è stato chiesto di osservare questa regola e, dopo la Messa, siamo rimasti divisi fino alla fine della giornata. Già, le regole. La vita della comunità ruota attorno ad esse, a scandire il tempo di chi la abita. I contatti, il lavoro, la televisione, una sigaretta: ogni momento è modulato, parte di un “programma e di una scommessa su se stessi”. Eppure il cancello della comunità è sempre aperto: accoglie chi ha bisogno di aiuto (tossicodipendenti, alcolizzati, ludopatici… sì, anche loro), lascia uscire chi non regge la fatica del percorso. Regole faticose e libertà di sfuggirle. Perché a volte le cose possono andarci al contrario: rincorriamo il piacere di una libertà sregolata.
Gloria e Chiara han vissuto così questa Domenica: Andare in comunità?? Ma che sarà mai?? Vedere quattro ragazzi drogati che per “fare i fighetti” si sono rovinati?? Ma non è così, siamo capaci tutti di criticate gli altri e i loro sbagli, ma se non conosci a fondo le persone, non puoi capire le loro storie e situazioni passate. Al primo impatto abbiamo trovato la comunità un luogo caloroso e accogliente, e le ragazze, conoscendole man mano, si sono dimostrate disponibili e aperte nei nostri confronti. E’ stata un’esperienza formativa e costruttiva perché ci hanno fatto capire i valori primari e fondamentali della vita (ad esempio l’amicizia perché senza non riesci ad uscire dal tunnel della droga.)
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Titolo Titolo Titolo Titolo Pillole
Tanti, proprio tanti i ragazzi che hanno partecipato al pranzo in fraternità che da alcuni anni caratterizza la Domenica di presentazione del nuovo anno catechistico. Numerosi anche i genitori nel Teatro, ai quali si è rivolto don Giuseppe illustrando tema, tappe, simbologie e sussidi per il cammino pastorale, insieme alle date dei molti appuntamenti in programma. Il G.A.S. (GruppoAnimazioneStabile) ha fatto il suo debutto, preparando l’animazione del pomeriggio, prima di gustare le caldarroste preparate dai Fanti Mazzoleni Caterina Piera, nata a Palazzago il 25 ottobre 1914, di anni 100. Cent’anni fa nasceva una stella speciale che ancora splende in questo lungo cammino, che con l’andare degli anni ha spesso asciugato lacrime, ha regalato sorrisi, valori, affetti e tanto amore a tutti i suoi cari. In questo giorno speciale, con tutto il cuore e con infinito rispetto, ti facciamo gli auguri più belli. I tuoi nipoti, pronipoti, sorella e parenti tutti. Gli auguri dei familiari si sono allargati con quelli comunitari: un nutrito gruppo di Palazzago ha partecipato alla concelebrazione fatta nella cappella della Casa di riposo di Ponte e alla festa seguita. In mattinata anche i Sindaci di Palazzago e Ponte San Pietro avevano portato auguri e omaggi.
L’11 novembre, l’estate di San Martino non c’è stata, ma non è mancata la raccolta di San Martino il sabato precedente, illuminato da un bel sole che ha permesso di passare di casa in casa per la raccolta viveri, destinati alle povertà del Vicariato. Quasi 8 quintali di alimenti scrupolosamente controllati nell’integrità e nelle scadenze, inscatolati e portati al magazzino. Non poteva mancare in serata la pizzata. Piccolo grazie per chi ha messo a disposizione mezzi, tempo e cuore per la raccolta. La Lettera
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Giornata del Seminario per seguire le tracce del Signore. Davide (Inve) e Damiano hanno portato testimonianze e riflessioni nelle diverse celebrazioni. A quando l’ordinazione? Nel fatidico 2017. Cominciamo a pensarci… I seminaristi hanno anche incontrato a livello vicariali chierichetti ad Almenno San Bartolomeo (c’eravamo), gli adolescenti (c’eravamo) e i giovani (c’eravamo) a Curno.
19 novembre: Porte aperte in Seminario per un gruppo di ragazzi di 5 elementare e 1 media di Palazzago e Burligo. Dopo aver condiviso il pomeriggio e la cena con i seminaristi delle medie, sacerdoti e Suore, abbiamo lasciato il Seminario con un po’ di malinconia. Capita sempre così: bisogna spingere per andare e poi… Cambio di Parroco a Barzana, Parrocchia limitrofa, anzi, incastonata (come una perla…) in quella di Palazzago. Don Umberto, dopo 12 anni, è stato destinato dal Vescovo alla Parrocchia del Sacro Cuore in Bergamo. A lui il grazie per tutto ciò che abbiamo condiviso in questi anni e per la disponibilità anche verso di noi. E’ arrivato don Fabrizio Polini (classe - di ordinazione - 2004), lasciando l’incarico di curato d’Oratorio in quel di Bottanuco e iniziando l’avventura come Parroco. Attraversando Barzana - tra dossi e rilevatori di velocità - nel mese di settembre, abbiamo visto la gioia dell’accoglienza con catene, fiori e festoni e poi con la bella celebrazione in Piazza San… Rocco (non è ancora San Pietro). A lui l’augurio di un fecondo ministero a Barzana e nella zona pastorale.
Una giornata ventosa che sconquassava la permanente delle signore accorse numerose, ci ha riuniti prima in chiesa per la celebrazione e la preghiera per i mariti defunti, poi in Oratorio per una abbondante e variegata colazione con tanto di omaggio finale. Tutto sotto la protezione di Santa Francesca Romana, patrona delle Vedove e con la regia di Antonietta e alcune fanciulle.
Chi vincerà la sfida tra le generazioni: le nonne o i nipoti?
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Fine settimana con trippa fumante, ma anche con griglia e caldarroste: l’appuntamento d’autunno proposto dai Fanti che hanno vissuto anche alcune date anniversarie significative.
Sezione del Fante di Palazzago: 50° di fondazione e 10° inaugurazione monumento Domenica 14 settembre 2014, la Sezione del Fante di Palazzago ha celebrato il 50° anniversario della fondazione e il 10° anno dell’inaugurazione del Monumento al Fante. La presenza del Presidente Nazionale dei Fanti Cavaliere Antonio Beretta unitamente al Medagliere Nazionale ed al Gonfalone Provinciale, nonché la presenza delle autorità civili, militari, religiose e la folta partecipazione delle varie Associazioni locali e dei paesi della provincia ha fatto si che la manifestazione assumesse un elevato senso di unità e suscitasse orgoglio e un forte spirito
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di appartenenza alla patria. Numerosa è stata la partecipazione degli associati e delle Patronesse che con costanza e spirito di appartenenza hanno sempre sostenuto moralmente e materialmente le scelte del Direttivo di Sezione. La splendida giornata ha favorito la sfilata lungo la via principale del paese durante la quale sono stati deposti fiori a ricordo dei Caduti ai monumenti dei Carabinieri, degli Alpini, degli Artiglieri, dei Caduti delle due guerre e da ultimo a quello del Fante; il tutto allietato dalle note dei Corpi Bandistici di Palazzago e di Ma-
pello. Centrale alle celebrazioni, è stata la Santa Messa presso la Chiesa Parrocchiale nonché il toccante e doveroso pensiero riservato allo scomparso Presidente Cavalier Pietro Cimadoro, il quale per decenni è stato il faro dell’Associazione (Associazione in precedenza fondata e diretta dal Signor Giovanni Mazzoleni). L’impegno e la costanza profusa negli anni di Presidenza del Signor Cimadoro ha fatto in modo che nel 2004 venisse inaugurato il monumento in ricordo dei Fanti di Palazzago. Il Presidente Benedetti Andrea
240 i catechisti del vicariato iscritti alla formazione, nei mesi di ottobre e novembre e 7 i corsi: 1. Teologia fondamentale: La memoria pasquale, centro della fede in Gesù Cristo (Gusmini don Giovanni); 2. Percorso di Morale: Coscienza, norma, peccato (Testa don Lorenzo); 3. Percorso di Liturgia: Liturgia, linguaggio fragile per dire “Dio” (Zanchi padre Luca); 4. Percorso biblico: Vangelo di Marco (Maffeis don Alberto); 5. Percorso di spiritualità: Mariologia (Vanalli Gemma); 6. Primi passi: Percorso per i catechisti nuovi: indicazioni per incominciare (Carlessi don Alex, Colombo don Massimo, Bettazzoli don Matteo); 7. Percorso artistico: le immagini nella catechesi (Mazzoleni Andrea). Questa nuova proposta sembra rispondere al desiderio e alla necessità di una formazione seria per coloro che portano ai fratelli e alle sorelle la bella notizia di Gesù di Nazaret. Chi ben incomincia… Don Paolo Mazzoleni ha presieduto la celebrazione e la processione della Madonna della Beita, attingendo anche ad alcuni ricordi personali e familiari, soprattutto riguardanti la mamma che per anni saliva a piedi per l’insegnamento. Nel cammino con la statua di Maria e di Massimino e Melania, le note della Banda si sono alternate alla preghiera proposta dal seminarista Davide, riprendendo il messaggio delle apparizioni alla Salette. Sempre numerosa la partecipazione nei fine settimana, presso la struttura della festa dove il lavoro di tanti volontari assicura un servizio culinario di tutto rispetto e dove risuonano la voce e il battito di mani di mani dei fratelli Colleoni. Del resto l’abbiamo imparato: generosi, generosi…
Qualcuno li sta collezionando ogni Natale: sono “I presepi del Parroco”, piccoli - perché si possano posare in casa senza problemi, originali - ogni anno diversi: dai calici di vetro, alle cortecce e ora ai cocci-fatti a mano con amore uno a uno, nelle lunghe serate quando piove e tira vento. Il banco sarà il 7 dicembre. Sono… numerati. La Lettera dicembre ‘14
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...uno sguardo su un tratto di strada e di tempo condiviso... Quando si comincia a “salire con gli anni” si ha continuamente la tentazione di guardare indietro e leggere le vicende vissute, anche in un arco di tempo non breve, nell’ottica del “mi sembra ieri e invece sono già passati anni”. Accade un po’ anche a me, in questo breve saluto alla comunità cristiana di Palazzago che mi ha ospitato come “prete festivo” per quasi vent’anni. Ma, al di là del fatto che gli anni siano stati tanti o pochi o che il tempo lungo appaia breve, la cosa più importante è la ricchezza di quello che si è vissuto. E allora mi sento di dire semplicemente grazie per aver condiviso spazi ed esperienze del tempo liturgico con la comunità di Palazzago, soprattutto in due delle sue numerose chiese. Ero venuto infatti, su invito del mio compagno di seminario, don Mario, per dargli un aiuto nella celebrazione delle messe festive. Abitando in seminario ed essendo impegnato soprattutto nell’insegnamento era per me momento prezioso avere anche solo, nella mattinata della domenica, la possibilità di presiedere l’eucaristia con e per la gente di una comunità. E anche solo attraverso il momento della messa domenicale, che sintetizza e orienta la vita di una comunità, potevo un po’ “spiare” i cammini e i volti delle persone che si sforzano di custodire il Vangelo. Laici che fanno il tessuto della vita comunitaria e preti che hanno presieduto (come don Mario e don Elio) e ora, nella persona di don Giuseppe , presiedono la comunità di Palazzago. Il contatto con le persone infatti è sempre la mediazione necessaria per l’accesso alla verità della fede
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e per la testimonianza del Vangelo. Sentire raccontare i percorsi pastorali, guardare il cammino di una comunità anche nelle sue vicende non sempre corrispondenti ai propri desideri e progetti, immaginare i vissuti che abitano i volti di coloro che partecipavano alla messa, era un esercizio che dava tono e direzione anche al mio modo di pensare e immaginare la Chiesa ed essere prete. E’ da tutto questo che scaturisce il sentimento di gratitudine verso la comunità e i suoi pastori (più recentemente don Giuseppe in questo ultimo tratto di strada costellato di entusiasmo e di dedizione creativa). Nella vita della comunità ho apprezzato lo sforzo, senza mortificare la varietà e la ricchezza delle tradizioni e dei luoghi distribuiti nell’ampio spazio della comunità, di dare unità e dimensione fraterna alle varie attività, iniziative e esperienze. Sforzo questo, iniziato anni fa e che ora prosegue con gesti significativi. Un cammino verso una chiesa segnata dalla fraternità è da pensare infatti non solo come un buon rapporto fra le persone che compongono la singola comunità ma anche come disponibilità a collaborare e realizzare momenti unitari fra gruppi e fra frazioni che costituiscono il territorio. Questo stile pastorale è il presente, ma soprattutto rappresenta il futuro dei cammini di Chiesa ed è quello che porta alla preparazione e formazione di quelle Unità Pastorali sulle quali si sta incamminando la nostra Chiesa di Bergamo. “Da come vi amerete (anche fra comunità e fra gruppi impegnati potremmo aggiungere noi) vi riconosceran-
no che siete miei discepoli” così dice il Signore. Sempre, quando finisce un cammino, c’è un po’ di nostalgia che però può diventare feconda: vedere, in ciò che continua in altro modo e in altri luoghi e incontrando altre persone, la promessa di fedeltà del Dio di Gesù. Per me questa passa ora attraverso l’impegno nella formazione del clero, nell’accompagnamento delle varie forme di Unità Pastorali e nella comunità di Città Alta. L’augurio che faccio a Palazzago è quello di vivere in pienezza l’eucaristia che è memoria dell’ evento pasquale, nella ricerca continua di modi adeguati per ridire la fede e il Vangelo nell’oggi, vissuta come segno ed esperienza di unità nella diversità dei doni e dei ministeri, segno di comunione fraterna. don Lino
Un saluto alle Comunità di Palazzago e Burligo Eccomi qua: sono don Giampaolo Tironi, nato il 21 marzo 1966. Sono originario di Sedrina, sono brembano. Mio papà, Francesco, mi ha raccontato che le radici più lontane nel tempo della nostra famiglia avevano un luogo geografico non lontano dai vostri paesi: la frazione di Albenza. Mia mamma, Adele, invece è nata dall’altra parte della montagna dove i vostri paesi stanno, a Caprino Bergamasco, in Val San Martino. I miei genitori sono morti, la mamma nel 2006 e il papà nel 2012. Ho due fratelli, Maddalena e Pierfrancesco, che hanno famiglia, e ho tre nipoti, ancora bambini. Questa è la famiglia da cui provengo. In essa hanno avuto e hanno ancora un ruolo importante zii e zie. Ma non mi dilungo. Adesso vi parlo anche dell’altra famiglia, quella della Chiesa di Bergamo. Sono entrato in seminario nel 1977 e diventato prete l’8 giugno 1991. Ho condiviso tutto questo cammino con don Giuseppe, mio compagno di classe e di ordinazione. Sono molto contento di condividere ora con lui un po’ dell’impegno pastorale. Appena ordinato sono stato mandato all’oratorio di Verdello, per nove anni: si è trattato di un’esperienza bellissima nella quale ho imparato a sentirmi educatore e, permettetemi questa parola, padre di tanti bambini, ragazzi, giovani. Non sempre tutto è stato facile ma ho sperimentato come davvero la provvidenza c’è: ho avuto il dono di tante persone che mi hanno dimostrato sincero affetto e mi hanno aiutato a maturare,
a diventare un uomo, a porre la mia vita sempre più radicata nella scelta di fede. Nel 2000 il vescovo Roberto mi ha dato un incarico doppio: parroco a Pognano e responsabile della formazione del clero giovane nell’ISSA (Istituto Sacerdotale Sant’Alessandro). Pognano è il paese di don Giuseppe: dunque sono stato il suo parroco per undici anni. Poi il vescovo Francesco mi ha chiesto di impegnarmi a tempo pieno nella formazione dei giovani preti. Dunque ho vissuto vent’anni della mia vita nell’impegno di pastorale diretta in parrocchia e adesso, da tre anni, sono impegnato in un ruolo un po’ diverso. L’esperienza di undici anni da parroco mi ha riempito il cuore. Mi ha fatto sperimentare la bellezza di essere prete in una comunità: mi ha appassionato ad amare la Chiesa e le persone che compongono la comunità, mi ha portato a gustare la Parola di Dio come realtà capace di interpretare la vita delle singole persone e di intere comunità, mi ha fatto desiderare una Chiesa più testimoniante il Vangelo nell’oggi. Oggi sono anche padre spirituale della piccola comunità della SVG, la Scuola Vocazioni Giovanili: è la comunità formata da giovani che si stanno interrogando sulla possibilità di entrare in seminario e si chiedono se il Signore li chiama a diventare preti. Infine, sono anche Consigliere Spirituale di un équipe del movimento di spiritualità matrimoniale, l’ Èquipe de Notre-Dame (END): si tratta di un gruppo formato da cinque coppie di sposi che si incontrano una volta al mese per approfondire il loro
essere laici cristiani sposati nella Chiesa. Forse vi avrà fatto sorridere la serie di “sigle” che da tre anni caratterizzano il mio ministero: ISSA, SVG, END... Vi assicuro che ciò a cui tengo di più sono le persone: i giovani preti, i giovani seminaristi, gli sposi. E adesso ci siete anche voi. E anche voi no, non siete una sigla! Mi sento di promettervi, compatibilmente con gli altri servizi a cui sono chiamato, di potervi dare il servizio che ci si aspetta da un prete: quello della Parola e dell’Eucaristia, soprattutto, ma anche di un’accoglienza amichevole di uno che ha desiderio di condividere il cammino della sequela di Gesù e dell’annuncio umile e gioioso del suo Vangelo con le persone che incontra. Che tipo sono? Beh, vi scrivo di alcune cose che mi piacciono: leggere, guardare l’arte, soprattutto la pittura (in questo sento molta sintonia con il vostro don Giuseppe), ogni tanto un buon film. Dal punto di vista sportivo, amo la pallacanestro. Tifo Juve, fin da piccolo. Ma non sono uno sfegatato... Mi piace moltissimo gustare l’amicizia: ho amici preti di cui sono molto grato al Signore e amici con cui ho intrecciato il mio percorso da quando ero ragazzo e altri che ho conosciuto nelle comunità dove sono stato inviato. Per il resto... avremo occasione di conoscerci! Dei piccoli ‘assaggi’ che ho potuto avere di voi, vi posso dire che, il sabato sera o la domenica verso il mezzogiorno, mi sento contento mentre percorro la strada che mi riporta a Bergamo. E di questo vi dico già grazie. don Giampaolo
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Dalla Bolivia... Roberto, Grissel, Maria, Emanuele e Alex sono partiti per la Bolivia. Hanno lasciato Palazzago, dove da alcuni anni vivono e con un bagaglio di storie, persone, incontri, valori, fede…sono partiti. Ci resteranno un po’ (1/2 anni?) Attraverso queste pagine ci raccontano qualcosa di loro. Il resto in un’altra puntata, perchè la lettera è molto, molto lunga…
29/10/14 h.20.45 Cari amici, sono in una stanza del “Parvulario”, della casa con 6 bambini dai 2 ai 4 anni, a fare la “supplente” in attesa che arrivi la nuova educatrice. Il letto ha un materasso che ricorda più che altro la curva di un’amaca, però è morbido. Sottofondo qualcosa di rilassante e per nulla al mondo impegnativo, Einaudi. Da dove inizio? Purtroppo non riesco a scrivervi singolarmente sempre, vi scriverò una lettera comunitaria e spero di riuscire a superare la mia pigrizia e ogni tanto scrivervi almeno due righe singolarmente, magari per posta, cosa che preferisco... l’impugnare la biro, lo scorrere La Lettera
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della sfera sulla carta, la grafìa che segue il mio stato d’animo,... Poi i bambini e Roberto hanno aggiunto, confermato, aggiustato alcuni pezzi della lettera che perciò alla fine sarà a 5 mani. Chiedo scusa se per i compagni di classe e amici dei nostri tre alcune parti saranno più difficili o meno interessanti, così come per gli adulti, magari alcuni dettagli sono un di più noioso che però serve a rendere più concreto ciò che è diveso qui, ai più piccoli in Italia. Bene, iniziamo. Qualcuno di voi mi ha chiesto di scrivere della nostra vita quotidiana... Di solito la sveglia del mio cellulare suona alle 6:11. Quando riesco a ricordarmi, subito un buon segno di Croce per mettere tutta la mia debolezza nelle mani del Signore, in primis la superbia. Spesso tardo un attimo prima di riuscire a buttarmi giù dal letto che si trova su un soppalco. Tiro le tende di awayo gialle (tela tipica boliviana, può essere tessuta a mano su telaio con colori scuri, o della fabbrica con colori accesi) e apro i 2 piccoli finistrini quadrati sopra il mio letto per far arieggiare, mentre nella stanza sotto apro la mezzaluna superiore della finestra. Alle 6:30 Roberto e io condividiamo le lodi con il Padre Gianluca (come ai vecchi tempi, a Santiago de Huata) nella cappella in stile essenziale: 4 tappeti in mezzo e panche di mezzi tronchi di legno verniciati intorno, il Crocifisso e... Questo sì, il Crocifisso è totalmente diverso
[Roberto, Grissel, Maria, Emanuele e Alex]
dal nostro, molto più scandaloso e realistico... vedi proprio un uomo, non un mistico o chessoio, direi più un “poveretto” pieno di lividi e sangue secco e scuro... che, spogliato di tutto, senza più nulla da perdere, alza il suo sgurado sofferente e con affetto a Suo Padre... Nel frattempo la sveglia rossa di Alex, ricordo della maestra Bianca, suona per i tre rimasti al caldo del letto: a castello, Emanuele in alto e Alex sotto, e per Maria nel letto sul soppalco. In bagno la cartegenica di carta riciclata fuxia si mette in un cestino,perchè le fognature sono troppo strette.Si mettono l’uniforme obbligatoria, ogni scuola ha la sua, però tendenzialmente simili sul blu scuro e bianco. Il lunedì c’è l’alza bandiera con inno nazionale, perciò sui pantaloni, o gonna, blu scuro, va la camicia bianca; nei giorni successivi alla camicia si sostituisce la maglietta bianca o bluscuro;invece il giorno in cui hanno motoria, pantaloncino blu scuro e maglietta bianca di educazione fisica. All’inizio un po’ complicato... e costoso... anche se ai bambini è piaciuta molto. Cambiamo musica va, se no dormo... vai con la Flaca & co (il Padre Leo ci ha svelato chi è la Flaca... Cuba! Chisseloimmaginava... era più bello se rimaneva la canzone per una donna...). Alle 6:50 ci raggiungono e a turno uno di noi cinque guida le preghiere del mattino: si strappa il giorno passato dal calendarietto, si legge la frase
presa da una delle letture del giorno, segue una breve riflessione scritta appunto da chi gli tocca quel giorno, insomma, come tutte le mattine a casa a Palazzago. Segue colazione: l’acqua calda del thermos è pronta per un “mate”, cioè una tisana: anice, the, camomilla, coca o trimate, cioè miscela di anice, camomilla e coca. Quest’ultima è la preferita di Emanuele. (per chi nonlo sa, le foglie di coca in sè, non trattate chimicamente, non fanno male, anzi, aiutano la digestione e altro). Segue il pane prodotto dalla panetteria interna alla Ciudad del Niño (= CdN), rotondo e mollicoso, leggermente dolce, tipico made in Bolivia. Un poco ci manca il pane italiano, anche se poi qui ci sono altre cose (windowsmediaplayer “Le strade di Francia”, mmhh...) Sopra marmellata di ananas tipo artigianale. La domenica e il lunedì invece il latte di mucca fresco e la panna che si rapprende la usiamo come strato di burro al mattino sul pane. Nel frattempo si svegliano i 4 ragazzi che vivono nelle stanze vicino alle nostre nel “chiostro” oppure i bambini iniziano a scampanare una campana affinchè si sveglino! I 4 stanno lavorando tipo stage della scuola appena prima di diplomarsi. Poi i nostri tre piccoli eroi, con il loro zainetto, s’incamminano giù per la discesa, costeggiando il posto molto grande degli animali (galline, tre tacchini e tre lama) e le altre casette. Le case sono 8 e accolgono circa 125 bambini e ragazzi. Appena fuori dal can-
cello grande e giallo, aperto e richiuso da “don (=signore sposato!) Videl” il portiere, all’angolo attendono il trufi 119. E’ una linea di pullmini pubblici che vengono comprati usati dal Giappone, che vanno in città. Emanuele, Alex e Maria si turnano all’inizio di ogni settimana: uno dice all’autista “a la esquina me quedo” ( si legge “a la eschina me chedo”) che vuol dire “all’angolo mi fermo”, ovvero non esistono le fermate ne tanto meno gli orari. All’incrocio dello stadio scendono e l’altro incaricato paga dal finestrino 80 centesimi di boliviani per uno (è il prezzo “escolar”, da alunno, se no sarebbe 1 boliviano e 90 centesimi. (Un euro è cambiato con 8,60 boliviani circa). (Ora scrive l’Ema) Una volta un signore ha detto “un escolar 0,50 bs e se ne ébandato, e gli altri passeggeri mormoravano: ”perqè (ah ah ah, no, non ci credo, no! Guarda come l’ho scritto, no! Ah, ah, ah, no! Perqè, mischiato allo spagnolo, ah ah ah) “perchè 50 centesimi?, que tramposo!” temine che di solito si usa nei giochi per dire “barone”. Camminano due o tre “cuadre” (le strade della città
formano più o meno dei quadrati intersecandosi ra loro. Se
chiedi informazioni per arrivare da qualche parte, ti diranno sicuramente il numero di “cuadre” da percorrere a destra o a sinistra) e arrivano alla scuola tutta bianca con i bordi bluette “Isaac Attie”. E’ la scuola privata che più o meno ha un rapporto qualità prezzo abbastanza ragionevole rispetto a tutte. La qualità di quelle statali ovviamente è bassissima, imparano a copiare in bella calligrafìa, ma molti non sanno molto scrivere... Una volta arrivati, il terzo incaricato mi scrive un sms peravvisarmi che sono arrivati a destinazione. Orario d’inizio: 8:00, di fine 12:45. Nel frattempo il mercole, giove, vener e sabato alle 7 inizio nel parvulario con un’altra educatrice, con il bagnetto. Uno è arrivato che aveva 5 mesi. E’ dura pensare che quei due occhietti neri probabilmente non proveranno cosa significa avere due o almeno un genitore come lo si intende solitamente, una persona che avrà un legame per sempre con te, indiendentemente che sia più o meno buono, più o meno semlice o complicato. Mai scadere però nel semplicistico “poverino” che gli toglierebbe la dignità. La vita provvederà, non chiude mai una porta per aprirne altre, qualcosa di buono sarà passato, passa e passerà, e forse un giorno “La pietra scartata diventerà la testata d’angolo, la pietra angolare”... io ci credo con tutto il cuore, io ne sono testimone, a ognuno di noi capita, “ma questa è un’altra storia e la si dovrà raccontare un’altra volta” (by MiLa Lettera dicembre ‘14
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chael Ende). Sono le 22.55 e sulle note di “In un giorno di pioggia” vi saluto, riprenderò un altro giorno. Capperi freschi! (come suole esclamare l’Emanuele), oggi è il 7 novembre... di cose ne sono passate e fatico a star dietro al narrare... Dunque, eravamo rimasti alla descrizione della mattinata. Roberto, dopo aver dato da mangiare alle galline, conigli, tacchini, e fatto uscire i lama dal recinto, va alla casa dei ragazzi delle medie e prima e seconda superiore a ripitturare l’esterno della casa. Ormai ha quasi finito. Io sostituivo nel parvulario, mentre da questa settimana è arrivata la nuova eductarice, perciò lì ho finito. In realtà ogni giorno c’è qualcosa, ancora non abbiamo orari e attività ben definite. Per esempio questa settimana un’educatrice è in ospedale per un piccolo intervento, dunque Roberto sostituisce le notti dalle 19.00 di sera più colazione e li manda a scuola. (Roberto) Entrare in una casa di giovani e adolescenti non è facile, soprattutto se bisogna porre regole; all’inizio mi sono un pò spaventato perchè mi sembravano tante le cose che non funzionavano, ognuno cenavava per i fatti suoi, tv sempre accesa, nessun compito, igiene e pulizia poca, zero orari per andare a dormire... poi ho pensato di dedicarmi a piccole cose come cena insieme, spegnere la tv, un gioco insieme e almeno una volta in una settimana fare i compiti (su suggerimento di Grissel). Non so se funzionerà, due ragazzi x qualche giorno non mi ha guardato perchè gli ho spento la tv... la cosa che mi La Lettera
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colpisce di più è di vederli piuttosto fragili e poco pronti alla fatica e sofferenza della vita... ma vedremo. Al martedì mattino c’è la riunione fissa degli educatori a cui anche noi partecipiamo. Si pianifica la settimana, si accettano proposte di attività extra, se c’è qualche problema si parla,... Un’ora del mattino la dedico alternando a due ragazzi nel nei compiti, nell’ascoltarli e cercare di aiutarli un poco perchè sono quelli che magari hanno qualche fatica in più a livello comportamentale. Capita anche che saltano e non vengono, ma questa attitudine è diffusa. In generale i ragazzi si perdono molto, sono molto svogliati, pare quasi che il sogno, il desiderio sia solo un piccolo granello... Spero di riuscire a contribuire un poco a risvegliarglielo, che lo custodiscano nel cuore, che lascino che gli incontri, gli eventi, le correnti calde e fredde della vita, glielo levighino affinchè possa un giorno risplendere quale piccola perla preziosa. E’ bello esser circondati da tanta gioventù. E’ molto impegnativo, richiede un sacco di energie perchè bisogna star dietro loro molto, continuare a richiamarli, riportarli al qui ed ora, a far le loro cose,... ma anche ti ringiovanisce. Alle 12.00 bisogna andare a ritirare le pentole del pranzo nella cucina che si trova nella prima
“casa central” che si trova sotto. Per il momento siamo nella casa che invece si trova più in alto. Bisogna poi far rientrare i lama nel recinto altrimenti mangiano le verze piantate. Alle 12.30 circa, arrivano a pranzo anche Guillermo, l’economo e Carlos, il coordinatore degli educatori. Il primo è stato in un orfanotrofio pure lui tra i 6 e i 12 anni, poi è tornato con i suoi. Dice che nella sua famiglia viveva una vita disordinata, senza regole. I suoi bevevano e lui e i loro fratelli si arrangiavano in qualche modo. Nell’orfanotrofio aveva di tutto, “perfino il comodino, cosa da signori”, dice, ma per lui rimaneva una “prigione” e quando all’età di 12 anni, uscì, ritrovò la “libertà”... Inizio anche a studiare da diacono, ma gli amici e le feste, le ragazze soprattutto... non riusciva a mollarli. Conobbe sua moglie, tutt’altro tipo, seria, che ancora non sa come si sono messi insieme e come lei l’abbia sopportato e a poco poco reso davvero marito e padre. Scherza e parla un sacco, è un tipo. Ora ha due figlie già grandicelle... ma questa è un’altra storia e la si dovrà raccontare un’altra volta. Roberto, Grissel, Maria, Emanuele e Alex Come Comunità vogliamo assicurare la nostra preghiera e il nostro ricordo, ringraziando questa famiglia per la bella testimonianza.
Battesimi
Domenica 21 settembre ore 11.30 Giulia Brembilla di Maurizio e Greco Fabienne, nata il 26 marzo 2014 Lucrezia Rota di Alessio e Carminati Loredana, nata il 18 marzo 2014 Melissa Rota di Mauro e Villa Alexia Claudia, nata il 27 febbraio 2014 Elisa Quarenghi di Giordano e Corna Laura, nata il 1 aprile 2014
Elisa
Giulia
Lucrezia
Melissa
Domenica 26 ottobre 2014 ore 10.30 Alessandro Agazzi di Matteo e Maestroni Manuela, nato il 21 luglio 2014 Nicole Rota di Marco e Panza Stefania, nata il 2 giugno 2014
Alessandro
Nicole
Domenica 16 novembre ore 15.00 Leonardo Gregna di Paolo e Gotti Elisa, nato il 12 aprile 2014
Leonardo
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Matrimoni
Vezzoli Massimiliano e Gallo Ingrao Daniela Fontana, Bergamo, 20 settembre 2014 Manzoni Nicola e Gandolfi Clara Santuario Ambivere, 5 settembre 2014
Buon Compleanno Auguri alla nonna “garibaldina” per i 90 anni tondi tondi... nipoti e familiari MAZZOLENI CATERINA PIERA festeggia i 100 ANNI
FESTA DI COMUNITÀ 2014:
Cosa sarebbe senza tutti questi volontari?
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Defunti
PANZA EMMA in SANA di anni 60, deceduta il 27 settembre 2014 ROTINI FIORENTINO (Sandrino) di anni 95, deceduto il 3 settembre 2014
Ciao nonno Fiorentino, Tanto tempo abbiamo trascorso insieme, ogni tuo gesto era pieno d’amore, un semplice sorriso o un bacio, mai ti dimenticavi di noi. Il bacio che tu volevi sempre te lo eri conquistato in cambio di una caramella che nelle tue tasche non mancava mai. Ti porteremo per sempre nei nostri cuori. I tuoi nipoti, pronipoti e tutti i tuoi cari
MAZZOLENI SERGIO di anni 77, deceduto il 7 settembre 2014 Il tuo dolce ricordo è racchiuso in noi e nel cuore di tutti coloro che ti hanno conosciuto e stimato. I tuoi cari
DONGHI LORENZO di anni 79, deceduto il 19 settembre 2014 La tua vita semplice e i tuoi piccoli gesti restano sempre nel nostro cuore. I tuoi cari
Grazie mamma per l’appoggio, i consigli e i rimproveri che ci hai dato. Veglia dal cielo su di noi, sui tuoi amati nipotini e sul papà Sostienici sempre nel cammino della nostra vita Ti vogliamo bene. I tuoi cari MAGGIONI ELISA ved. FARINA di anni 88, deceduta il 2 ottobre 2014 Sei e per sempre resterai una presenza viva e una guida sicura nel nostro cammino di vita. I tuoi cari
GAVAZZENI GIOVANNI di anni 76, deceduto il 19 ottobre 2014 Ora vedrai i volti dei tuoi cari e veglierai su di noi. I tuoi cari
SIGISMONDI LUIGI di anni 69 deceduto il 19 novembre 2014 Papà, nonno, amico: una vita per gli altri. I tuoi cari e gli amici del Brembo
Anniversari GAVAZZENI GIUSEPPE (5/11/1993 5/11/2014) Quando non sarai più parte di me ritaglierò dal tuo ricordo tante piccole stelle e il cielo sarà così bello che tutti si innamoreranno della notte I tuoi cari Valter Magri
Luca Mangili
ONORANZE FUNEBRI DELL’ISOLA s.r.l. Serviziodiurno, diurno, notturno notturno ee festivo festivo •• Trasporti tutta Servizio Trasporti in tutta inItalia Italia Vestizione salme • Disbrigo pratiche Addobbi funerari • Cremazioni 24030 BREMBATE DI SOPRA (BG) - Via XXV Aprile 32 - Tel. 035.620916 - Fax 035.6220326 Cell. Valter 335 6923809 - Cell. Luca 335 6904124
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AMBROGIO ZONCA (9/2/2008 – 1/5/2014)
PREVITALI GIUSEPPE (12/10/2012 – 12/10/2014)
Riempi e guida la nostra quotidianità, continua a dirigere e a sostenere i nostri passi alla luce del tuo affetto, del tuo esempio e del tuo cuore grande. Ci manchi. I tuoi cari
Ci sono cose che il tempo non cambia, tu c’eri, ci sei e sempre ci sarai. Con infinito amore la tua famiglia.
GEROLAMO MEDOLAGO (2005 – 2014) Il tempo non cancellerà il grande vuoto che hai lasciato in noi. I tuoi cari CATERINA BENEDETTI In MAZZOLENI (4/12/1999 – 4/12/2014)
FACHERIS RINALDO (2/91920 1/12/1986) CATERINA ROTA ved. FACHERIS (12/9/1926 20/1/2005)
EMANUELLA CASTAGNETO In MAZZOLENI (19/12/2013 – 19/12/2014)
Ad ognuno di noi avete lasciato un ricordo di voi… a chi un sorriso, a chi la vostra allegria, a chi la voglia di vivere, a chi la forza di volontà; ma a tutti avete lasciato la speranza che prima o poi vi rincontreremo. Ci mancate, i vostri cari.
CAPELLI ANGELA FELICE (1989 – 2014)
MAZZOLENI LUIGI (1969 – 2014)
Nel 45° e 25° i vostri figli nipoti pronipoti e parenti tutti, vi ricordano con tanto affetto e riconoscenza per tutto quello che avete fatto per loro e continuerete a fare dal cielo. I vostri cari. ZANETTI CLAUDIA (2009 – 2014)
DOTT.BENIGNO COLOMBI (1986 – 2014)
La comunità di Palazzago ricorda sempre con affetto e riconoscenza il Dott.Colombi e la moglie Claudia.
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SOLENNITÀ DI CRISTO RE E SIGNORE DELL’UNIVERSO.
Uni-verso, verso l’uno, l’Uno che è sorgente e compimento. In questa festa che chiude l’anno liturgico, abbiamo ricordato la patrona della musica sacra, Santa Cecilia. Questo anno è stata particolarmente partecipata, con la presenza del Corpo Musicale G. Rossini disposto nel coro ligneo della chiesa parrocchiale e le corali di Burligo e Palazzago all’interno dell’assemblea, con la concelebrazione di don Paolo, don Giampaolo e don Giuseppe. Questa celebrazione è l’occasione per significare il grazie a tutti coloro che con la musica e il canto animano i tempi della festa, della liturgia e dei momenti significativi di una comunità. Il mettersi insieme poi, pur nel rispetto della peculiarità di ciascuno, è espressione importante del desiderio di uni-verso…Continuiamo così.
Indice
Orari Sante Messe
[03] Dov’è Abele tuo fratello?» [04] “Un cuor solo e un’anima sola...” nell’unica casa [06] Tra indissolubilità e misericordia [08] Riscoprire un volto del beato Paolo VI [10] I tempi del dolore [16] Celebrare [20] Nuovi sherpa del web [23] Qualcuno tira, qualcuno molla… [24] Vado a Mezzoldo [25] Villanterio: una Domenica [26] Pillole [30] Saluto don Lino Casati [32] Dalla Bolivia... [35] Battesimi [36] Matrimoni [36] Defunti [37] Anniversari
Sabato
Segreteria Parrocchiale (Via Maggiore 108) da martedì a venerdì, dalle 10.00 alle 12.00. Ci si può rivolgere ai volontari per certificati, pratiche, richieste, fotocopie, ritiro materiale,...
ore 17.00 Beita ore 19.00 Chiesa Parrocchiale
Domenica ore ore ore ore
08.00 Montebello 09.00 Beita 10.30 Chiesa Parrocchiale 18.00 Chiesa Parrocchiale
Giorni Feriali Lunedì Martedì Mercoledì Giovedì Venerdì
ore 16.30 ore 16.30 ore 16.30 ore 09.00 ore 16.30
Brocchione Precornelli Beita Chiesa Parrocchiale Ca’ Rosso
Recapiti Don Giuseppe Don Lorenzo Don Giampaolo Oratorio e Sagrestia
035.550336-347.1133405 035.540059-339.4581382 338.1107970 035.551005
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