Casa di comunità

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CASA DI COMUNITA’ Parrocchia di san Giovanni Battista in Palazzago



LA CASA DI COMUNITA’ Scrivo questa introduzione allo speciale sulla Casa di Comunità, mentre il cantiere è in gran fermento. Conto nel campo dell’Oratorio i mezzi delle Ditte presenti: uno, due, tre, quattro, cinque, sei… e rac-conto anni di idee, progetti, permessi, incontri, persone, richieste… e dentro questo, attese e entusiasmi, fatiche e paure. Vedo i diversi passaggi che anche le foto testimoniano, ma che sono scritti soprattutto nei cuori che non si sono lasciati spaventare dall’impresa che in taluni momenti sembrava impossibile.

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Una casa è dono. E non sono solo le pareti. È l’aria che si respira. Allora quale è l’aria che si respira intorno a questa casa attesa per nove anni? Mi pare bello raccoglierla intorno ad alcuni elementi tipici di ogni casa che lasciamo impastare con la storia di Colui che ha fatto della carne dell’uomo la sua dimora tra noi. Sembrerà strano ma è così: ogni volta che raccontiamo qualcosa di noi, ogni volta che facciamo comunità, ogni volta che ci diciamo i significati della vita, non possiamo che parlare di Lui.


GESÙ DI NAZARET Da grande sembrò non avere casa se è vero che nei primi giorni della sua missione non gli parve vero scoraggiare uno scriba che gli si voleva associare, dicendogli: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Mt 8,20). Eppure cercò case, in preferenza case di pubblicani e di peccatori. Ma anche case di amici, per bisogno di comprensione, di vicinanza, di sostegno quando la sua ora, l’ora della croce, già si stagliava inquieta all’orizzonte. E fu bisogno della casa di Betania, bisogno di mani che accarezzassero e ungessero, di capelli che asciugassero. Lui che aveva declinato la nostra vita come “cura della casa” in attesa di un ritorno, il ritorno del Signore; lui che parlando del luogo dove andava volle assicurare i cuori turbati dei discepoli che non era già un fine corsa ma un’introduzione. A casa e dimore: «Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore» (Gv 14,2).

Abitò case o abitò tende Gesù, il Figlio dell’Altissimo? Certo non una casa reggia, se pur la promessa, dentro un volo d’angelo, parve alludervi: «Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine» (Lc 1,32-33). Non fu reggia. L’odore della casa era quello delle pietre dei semplici: vedeva la madre uscire di casa, andata e ritorno dal pozzo. L’anfora le faceva peso, pur se la donna era supercolmata di grazia. Lui, sì, da ragazzo stava in casa sottomesso a sua madre e suo padre, ma per lui era come se la sua non fosse casa ma tenda. Ai suoi lo diede a capire quando dopo tre giorni lo ritrovarono nel tempio e aveva solo dodici anni. A qualcuno parvero parole sfrontate: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc 2,49). La casa di Nazaret era casa o solo tenda verso altre dimore?

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E dimora all’infinito migrare una tenda: ombre segrete, parole dissepolte, luce che trema sui volti. Amò case o tende? Forse anche case, ma dove l’eccesso non trattenesse, dove la sobrietà garantisse il non sequestro, a protezione della profezia. Negli occhi e nel cuore di chi fa memoria del Primo Testamento forse è rimasto il volto e il gesto della

donna di Sunem, donna senza nome nelle scritture sacre, lei che accoglieva nella sua casa il profeta Eliseo ogni volta che passava per la sua città. Una ospitalità, la sua, suggerita da una tenerezza e da una dolcezza senza uguali: prima l’invito a tavola e poi la disponibilità della piccola camera in muratura, al piano di sopra. Dove non c’era lusso, ma non mancava nulla di ciò che occorreva: «Mettiamoci», dice, «un letto, una tavola, una sedia e una lampada ». Dove dunque è assicurata un’intimità: «così che, venendo da noi», dice, «vi si possa ritirare» (2Re 4,8-10). Quasi un piccolo eremo. Casa e non tana, casa a respiro di libertà.

LA PORTA Porte. A volte aperte, altre volte chiuse. Non una uguale all’altra. Anche Gesù parla di porte. Dice che c’è una porta stretta. È stretta perché ci si passa uno alla volta, non un battaglione. Non basta rivendicare

l’appartenenza alla comunità, al movimento, a chissà che cosa. Ci si passa uno alla volta e sei misurato, misurato tu, tu come persona. Se occupo troppo spazio non ci passo. Se occupo troppo spazio con la

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fantasticando in eccesso, ritorno ai tempi quando alle porte non si suonava, ma si bussava e forse dal suono delle nocche sul legno delle porte eri riconosciuto. Al bussare. «Sto alla porta e busso », è scritto nel libro dell’Apocalisse: « Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (3,20). Forse per troppo rumore non sento le nocche di un Dio appassionato a bussare, ma alieno dallo sfondare porte. Certo che aprire è vigilia. Di cena. Con Dio. Ma la porta non è solo soglia da oltrepassare per ingressi, ma pur anche soglia da attraversare per uscite. E Dio ha voglia non solo di entrare, ma anche di uscire. Lo ricorda, con la consueta limpidezza, Francesco, il vescovo di Roma: “Uscite fuori, uscite!”. Pensate anche a quello che dice l’Apocalisse. Dice una cosa bella: che Gesù è alla porta e chiama, chiama per entrare nel nostro cuore (cfr. Ap3,20). Questo è il senso dell’Apocalisse. Ma fatevi questa domanda: quante volte Gesù è dentro e bussa alla porta per uscire, per uscire fuori, e noi non lo lasciamo uscire, per le nostre sicurezze, perché tante volte siamo

mia presunzione, con i miei meriti, con le mie sicurezze, non ci passo. Ci passa chi è stretto, come la porta! Ci passa l’umile: la misura grande non passa, passa la piccola. Perché - qui c’è un mistero da scoprire chi è quella porta? La porta è Gesù. Lui ha detto: «lo sono la porta!». Porta stretta? Anche lui è passato per la porta stretta della croce. L’amore si fa stretto per dar spazio all’altro. Se sei umile - stretto - esiste anche l’altro; se sei superbo - largo - esisti solo tu, occupi tu, non c’è spazio per nessuno, tranne che per te. Che cosa diventa una casa, una chiesa, il mondo politico, il mondo economico, il mondo delle nazioni se esistiamo solo noi? E che cosa diventano invece, se l’anelito che ci guida non è quello di chi ingombra o di chi occupa, ma di chi dà spazio? Oggi, a fianco delle porte trovo citofoni, a volte senza nomi. Numeri e un brivido. Che la nostra sia una società di innominati, che ci tocchi di essere identificati, come succede in certi ospedali, con un numero e non con un nome? Anche il citofono ha voce uguale, una sola voce, quando squilla, per tutti coloro che abitano la casa, un suono anonimo. In qualcosa mi riscopro all’antica e,

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chiusi in strutture caduche, che servono soltanto per farci schiavi, e non liberi figli di Dio? Si potrebbe raccontare a lungo di porte. Di porte attraverso le quali Dio viene e va. Magari con il suo angelo. Come accadde alla casa di Nazaret, dove una ragazza, di nome Maria, aprì a un angelo ed ebbe fede e coraggio di lasciare la porta della sua vita aperta per sempre. E Dio andava e veniva per quella porta, e non era, diciamocelo, sempre un andare e

venire senza problemi, lasciava anche problemi. Io non so se quest’ora della storia che noi stiamo vivendo possa essere raccontata con l’immagine di una porta aperta: una vita, cioè, dove Dio e i fratelli vengono e vanno. E tu resisti, resisti sempre alla tentazione di chiudere, di chiudere la porta. Forse quest’ora che insieme stiamo vivendo corre il pericolo di prendere l’immagine di una porta che si chiude.

LE FINESTRE Amo le finestre, sono lo sguardo delle case. A volte le vado comparando agli occhi. Se il cemento le annegasse sino a cancellarle, le case mi apparirebbero senza occhi, spente in cecità. Me le sogno come avamposti in avvistamento. In avvistamento di Dio. E non solo. Finestre da cui spiare. Finestre di case e finestre di chiese. Porto negli occhi tre esili finestre

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sorelle del silenzio nel grembo di un’abside, fessure dell’infinito: spiano nella notte l’intenerirsi del cielo, sognano ad occhi socchiusi il ritorno del Signore.


Senza finestre muori di asfissia. Muori nel tuo io, nel recinto. Sei a rischio di impoverimento sino a rimpicciolire la terra ai metri quadrati di una casa, la tua. Quasi non esistesse nulla al di là. Hai chiuso il mondo in un fazzoletto, il tuo. E non è nemmeno un nido. Un nido ha bisogno di aria per vivere. La casa senza avvistamenti, una chiesa senza finestre, è una casa malata. «Quando la Chiesa diventa chiusa, si ammala, si ammala. Pensate ad una stanza chiusa per un armo: quando tu vai, c’è odore di umidità, ci sono tante cose che non vanno. Una Chiesa chiusa è la stessa cosa: è una Chiesa ammalata.

Anche i vetri delle finestre corrono pericolo. Di opacità. Mi percorre desiderio di finestre illimpidite da mani di donna. E oggi sono a ringraziare la gentilezza delle loro mani. Quando mai ringraziamo una donna per aver pulito una delle finestre di casa? A questo patto le finestre sono specchio di ciò che vive fuori, a patto che godano di trasparenza e lucentezza. Non invece, se vi lasciamo depositare nel tempo opacità di polveri e di scorie infinite. Succede allora di filtrare la vita annebbiandola, di recitarla senza prima averla vista e ascoltata. Guardare e fantasticare dietro la luce delle finestre. E pregare.

LA LAMPADA rispetto anche a un minimo, che più piccolo non si può, di luce. Gli faceva tenerezza. Un giorno si era sorpreso a guardare con commozione lo sfrigolio di una fiammella in vigilia di soffocamento. Era come se per piccoli battiti supplicasse la compassione di un piccolo goccio di olio. Gli ripalpitò nel cuore il ricordo,

Tra le cose che la donna di Sunem radunò per il profeta, nella camera al piano superiore, una lampada (cfr. 2Re 4,10). Quasi a dire che la lampada era necessità, era tra le cose di cui non si può fare a meno. Non puoi fare a meno della luce. Devi rispetto alla luce come devi rispetto al pane. Per Gesù devi

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un giorno in cui voleva far capire a tutti per che cosa fosse venuto sulla terra, quale fosse la sua missione. Scovò l’immagine nel rotolo di Isaia: «Non spezzerà», stava scritto, «una canna già incrinata, non spegnerà una fiamma smorta» (Mt 12,20). Gli abitava gli occhi la compassione per il piccolo, per le cose piccole, per i frammenti, anche un frammento di fiamma. Un tempo - ai suoi tempi - della luce dovevi prenderti cura. Oggi basta fare un clic sul pulsante e la luce fuoriesce e dura finché un nuovo clic ritorni a spegnerla, o a mandarla in esilio. Un tempo non era tutto così facile, quasi banale. Allora era un rito. L’accensione aveva il sapore e la lentezza di una liturgia: la fiammella andava scovata, poi difesa, curata, innalzata. Custodita. Come succedeva per il fuoco nel camino. Un’arte. Ci è lecito, penso, immaginare quante volte Gesù si sia incantato al rito della luce nella sua casa, un rito che ancora oggi vede protagoniste, nelle case degli ebrei, le donne. Quante volte Maria, sua madre, è stata protagonista del rito, nella casa di Nazaret. A tal punto incantato che quando un giorno volle dire qualcosa di vivo riguardo ai suoi discepoli, gli venne di parlare della lampada, messa in alto: loro come la lampada che

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la madre metteva in alto nella sua casa. Con quanta cura sua madre accendeva la lampada e la poneva in alto! E le pareti povere della sua casa d’un tratto si accendevano. Come fossero vive. Palpitavano. Come fossero sorprese da sussulti di vita. Così erano chiamati ad essere per il mondo i suoi discepoli: «Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il maggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,14-15). Forse è ciò che ognuno di noi potrebbe portarsi dentro come sogno: che nel suo andare e venire volti e case ardano sia pure di un minimo per il chiarore della sua lampada. Ma va subito aggiunto, a richiamo, che la lampada non si accende da sé. Ma per contagio, da una fonte. A richiamo una verità: che non siamo noi la sorgente della luce. Siamo luminosi di riflesso, riflettiamo la luce di un altro, la luce vera che illumina ogni donna e ogni uomo, ogni cosa, il Signore Gesù. Il Vangelo ci ricorda che Gesù, una notte in cui sulle


mura della città si andavano accendendo fuochi per la grande festa e la illuminavano a giorno, esclamò a gran voce: «Sono io la luce del mondo. Chi segue me non va nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8,12). «Guardate a lui», dice il Salmo, « e sarete raggianti, non saranno confusi i vostri volti» (Sal 34,6). Se a volte ce ne andiamo con il volto confuso, senza più sapere chi siamo né dove andiamo non sarà anche per questo? Dobbiamo prendere luce

da lui. Stare in ascolto di lui, che è il racconto, in assoluto il racconto più trasparente, di Dio. Di Mosè è detto che il suo volto diveniva luminoso per il suo conversare con Dio sul monte. Di rimando, sembra di capire che senza questo conversare con Gesù, senza questa interiorità, diventiamo tutti parolai, affabulatori, venditori di dogmi e del nulla, poco o niente luminosi.

IL TAVOLO E LE SEDIE Il tavolo. Mi piace grande, mi piace di legno. Profumano i tavoli, a patto che non ne abbiamo scolorite le striature a onde che sgusciano dai tronchi di legno di cui sono composti, fanno arabeschi. Mi sorprendono invece, mi fanno per lo più tristezza, i mini tavoli di oggi, quelli rialzati, e a corona sgabelli alti, quasi non fosse concesso sedere, come se si fosse sempre sul punto o nell’ossessione di partire. Anche il tavolo racconta, racconta un indugio: tavolo e sedie non sono solo

in funzione del cibo, ma anche di una sosta, a volte prima, a volte dopo aver mangiato. Sono il racconto di una convocazione. Convocati intorno al tavolo sono i volti. Quasi che la fattura della mensa fosse stata ideata per guardarsi. Quasi che, se a tavola non ci si guardasse, il tavolo rimarrebbe con una ferita, depauperato della bellezza della sua natura profonda, la natura del convenire. Anche il Salmo racconta la bellezza della convocazione, per una delle tante famiglie.

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Beato chi teme il Signore e cammina nelle sue vie. Della fatica delle tue mani ti nutrirai, sarai felice e avrai ogni bene. La tua sposa come vite feconda nell’intimità della tua casa; i tuoi figli come virgulti d’ulivo intorno alla tua mensa. Ecco com’è benedetto l’uomo che teme il Signore. Ti benedica il Signore da Sion. Possa tu vedere il bene di Gerusalemme tutti i giorni della tua vita! Colpisce questo sguardo dalla mensa, lo sguardo dell’uomo alla sposa e ai figli radunati intorno a un tavolo, una attenzione alle persone, come favorita dalla tavola. L’uomo, nelle parole del Salmo 128, non solo osserva, ma diventa in qualche misura poeta, in cuor suo dà immagini di vite e di virgulti d’ulivo alla sua donna e ai suoi figli. Una tavola e sedie anche per contemplare, per contemplare la bellezza di amarsi. Succede quando a tavola ci si guarda, anche

in assenza di parole. Una festa negli occhi. Ci sono i silenzi, pause di silenzio intorno alla tavola, ma anche parole, un indugio in parole che potrebbero diventare racconto. Tra i sogni di tanti di noi rimane un tavolo intorno al quale ci si possa raccontare. Accadeva una volta, oggi è un desiderio in qualche misura negato, tanto è diventato un miraggio sedere a tavola insieme, un miraggio che, riuniti a mensa, ci si possa raccontare, genitori e figli. E anche le donne - come non sperarlo? - non più confinate nel ruolo di chi cucina e serve in tavola. Raramente oggi, sempre più a fatica coincidono i tempi dell’uno e dell’altro e, quando per grazia accade, duro è resistere all’invasione, alla fascinazione prepotente dei mezzi di comunicazione. Accade che a parlare, mentre si pranza o si cena, sia il televisore, a parlare siano i cellulari, iPad e tablet compresi. Spento è il racconto. Una perdita incalcolabile per la nostra società, per noi che abitiamo case e città, il venir meno oggi del racconto. Se non recuperiamo l’arte del raccontare, con occhi dolenti assisteremo alla deriva triste di case e città impoverite di senso, luoghi del consumare. Per fare prediche spesso si esigono titoli e autorizzazioni

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e luoghi deputati, per il racconto no. Raccontare lo può fare chiunque, a qualunque età. Per raccontare basta semplicemente essere un uomo, una donna, come si è in una casa. Il racconto mette in moto la vita. Anche l’eucaristia vede un tempo per il racconto e poi un tempo per la consumazione del pane. Immaginiamo il prato verde del Vangelo, diventato grande tavola per i cinquemila. Fu tavola all’aperto, per merito di cinque pani d’orzo e due pesci, regalati da un ragazzo. E messi in condivisione da Gesù. E immagino Gesù che quella scena se la beve con gli occhi. Lui a incantarsi alla fine per un prato diventato racconto, tutto un bisbiglio, che andava al cielo. E magari i suoi occhi sono andati lontano, a immaginare l’ultima tavolata, quella raccontata nel rotolo di Isaia (25,6-7):

Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati. Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre distesa su tutte le nazioni. L’aldilà come tavola. La tavola per tutti. Senza esclusioni. La tavola senza discriminazioni, prefigurata e anticipata da altre tavole che Gesù onorò di una sua preferenza durante la sua vita, quelle dei peccatori, al punto da legarsi addosso l’accusa, da parte dei suoi oppositori, di farsela con pubblicani e peccatori per via di quelle frequentazioni di case e tavole per nulla ortodosse.

IL PANE Osservo il pane, sulla tavola. E ascolto il racconto. Racconto di un viaggio, il viaggio del grano che

viene dalla terra, diventa farina; impastato di acqua e di fuoco, diventa pane. A volte mi sembra che il pane racconti una tristezza o un lamento, tristezza

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e lamento per la perdita del profumo. Quasi gli avessero rubato il profumo. Mi rimane il ricordo del profumo di pane che mi inebriava da bambino, d’improvviso, all’angolo di una strada, nell’aria quasi stupita del mattino. Ti raggiungeva da un panificio nascosto: odore, profumo di pane. Tu, il pane nemmeno lo vedevi. Ma il sapore buono era nell’aria. Ti investiva, ti dava un senso di freschezza, di benessere. Profumo buono, perché il pane è semplice, non si esibisce. Sta senza parlare su una tavola. Penso di non essere lontano dal vero immaginando che si senta male il pane - e se parlasse lo direbbe! quando lo mettono nelle vetrine, in esposizione. La sua esposizione, quella vera, è nella casa, sulla tavola. L’unica esposizione che sopporta. L’unica che ha sopportato Gesù, che si è definito pane disceso dal cielo (Gv 6,41), e non ha sopportato esposizioni. Appena odorava nell’aria tentativi di farlo re, lui si eclissava. Non pane in esposizione, da vetrina, ma umile pane della tavola. Succedeva allora, succede anche oggi, fra noi e nella Chiesa, l’eclissi di Dio, di Gesù, quando siamo in presenza di esibizioni più o

meno mondane. Il pane racconta. Mi racconta una necessità. Gesù ha sempre dato valore al pane. Sino a racchiudere la sua memoria, quella della sua vita, in un piccolo umile pezzo di pane, l’eucaristia. Gesù non distoglie dall’attesa e dalla cura del pane, distoglie da una ricerca che contrae l’orizzonte, quasi esistesse solo il pane materiale: «Non di solo pane vive l’uomo» (Mt 4,4). Ma senza sminuirne di un grumo l’importanza. Gesù mette in guardia dall’affanno, ma non dalla bellezza e dalla necessità del pane. Non ci ha forse insegnato a pregare: «Dacci il pane, quello che ci serve oggi» (Mt 6,11)? Non ha forse difeso i suoi discepoli che in giorno di sabato si erano nutriti di spighe di grano (cfr. Mt 12,1-8)? Forse che non ha provato compassione per la folla affamata sino a desiderare che fossero condivisi tra i cinquemila i cinque pani d’orzo di un ragazzo (cfr. Mt 14,15-21)? E, una delle ultime sue icone, non è forse quella del pane sul litorale del lago di Tiberiade? Gli undici a fatica hanno trascinato a terra il frutto di una pesca miracolosa. E che cosa trovano? Che il maestro ha acceso sulla sabbia un fuoco con dei rovi e ha preparato del pesce e del pane

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arrostiti e invita i discepoli a portare il loro pesce (cfr. Gv 21,4-14). Quel fuoco racconta la sensibilità del maestro. Nel profumo di quei pani e di quei pesci sulle sabbie estasiate del litorale c’è il profumo di un’attenzione a chi ritorna stanco, stanco dalla vita. Quanti ritornano stanchi dalla vita! Dona pane, fatti pane per chi porta segni di stanchezza, a volte mortali. Osservo il pane, lo ascolto, mi sembra quasi di capire che dal pane, pena lo svuotamento del suo significato, venga un appello alla solidarietà e alla custodia. La solidarietà. Natura del pane è che le mani di qualcuno lo spezzino. E non, a te sì e a te no. Il nutrire ha come destinazione non i pochi, ma, direbbe la Bibbia, la moltitudine. «Date loro voi stessi da mangiare» (Mt 14,16). Il regno di Dio accade quando il prato verde dei cinquemila diventa uno spezzare il pane fra tutti, nutrire non i pochi, ma il pianeta. Con invito alla custodia. Proprio in questo racconto si dice che Gesù, a pranzo ultimato, diede un ultimo ordine: «Raccogliete i frammenti». Il rispetto per il pane,

per i frammenti, pensate alle sporte di pane avanzato, pane avanzato, sbocconcellato, su cui Gesù mette l’attenzione, «raccogliete il pane avanzato, i frammenti». Gesù guarda i frammenti del pane. E non solo del pane. Quasi una educazione a rispettare tutto ciò che sa di frammento, l’orfano, la vedova, lo straniero, i bambini, gli anziani. Non sconsacrare: il pensiero corre d’istinto al cibo sprecato. La custodia come cultura da riapprendere. Dopo la stagione dell’«io sono», un «io sono» arrogante: «Lei non sa chi sono io! », grazia sarebbe riaprire una stagione dei volti, una liturgia dei volti, oso la parola « liturgia»: il volto di ogni donna e di ogni uomo, il volto di ogni cosa. «Un volto da guardare, da rispettare, da accarezzare». Il volto degli umani, il volto della terra e del pane, il più piccolo volto, il più indifeso, da guardare, da rispettare, da accarezzare, lontani da ogni forma di dominio arrogante che usa e abusa dell’umano e della creazione.

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IL VINO Giusto, il pane. Ma anche il vino. Sulla tavola il vino fa compagnia, chiacchiera con il pane. L’uno e l’altro, pur così diversi, da buoni compagnoni insieme. Il pane racconta la necessità, il vino racconta la festa, l’allegria, l’ebbrezza. Forse anche un tratto di follia. Anche quella dell’amore. Senza pane non c’è vita: necessità, a volte dura, procurarselo. Altrimenti muori di fame. Senza vino non muori, ma è come se la vita si scolorisse. E una vita scolorita che vita è? Non sarà anche per questo che i giorni della venuta del Messia nella tradizione dei padri erano evocati come i giorni del vino, del vino per tutti? È allegria! E la festa fosse finalmente non per pochi ma per tutti. Non sarà forse anche per questo che l’evangelista Giovanni racconta come primo dei segni operati da Gesù quello del vino alle nozze di Cana in Galilea? «Che bisogno c’era?», obbietterebbe una certa razza di critici spiritualisti. Un segno sprecato, sprecato per una bevuta generale, quando qualcuno degli invitati già forse dava segno

di eccessi di entusiasmo! Succedeva anche ai tempi di Gesù quando la festa per un matrimonio durava giorni e per la povera gente di un piccolo villaggio rurale era, a volte, un evento atteso da anni. Che non mancasse vino! Che a Cana stesse per mancare, se ne accorse la madre, una donna. Forse perché questa cura dei dettagli di ciò che è impalpabile, come l’allegria e altro, sembra appartenere in modo particolare alle donne. Si lasciò convincere il Signore, si lasciò convincere per il vino. A un matrimonio infatti si fa festa per l’amore con il vino, il vino che dice ebbrezza. E la parola ebbrezza, ebbro, dice anche uno star fuori, un residuo di pazzia. Un residuo di pazzia che ti percorre ancora le vene quando sei preso dall’amore, sangue nelle tue vene. Se non c’è un grumo di pazzia, di ebbrezza, tutto si fa gelo, magari un gelo sacro, ma gelo. E il pensiero mi corre a un particolare del racconto di Cana, al comando di Gesù di riempire di acqua le anfore, le grandi anfore poste nella casa,

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là in un angolo, immobili, vuote. Chissà che si voglia sottolineare il pericolo sempre soggiacente di una ritualità vuota, vuota di ebbrezza. E lo si sottolinea con il paradosso delle sei anfore di pietra: potevano contenere qualcosa come seicento litri di acqua, erano là per la purificazione. Una esagerazione, diremmo, una esagerazione di purificazione. Quasi a dire che, quando manca nella religione l’ebbrezza dell’amore, ci si rifugia nelle purificazioni, legate alla legge. E succede il gelo delle anfore di pietra. Vuote. Non stava già scritto nel rotolo del profeta Ezechiele: «Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne»? (Ez 36,26). Se la vita non la investi di tanto in tanto con la follia della gratuità, dell’eccesso, tutto si corrompe, la vita si corrompe, l’amore si corrompe. Un amore troppo misurato muore. Ricordo che alcuni ragazzi anni fa scrissero su un loro invito di matrimonio una frase di Eduardo Galeano: «Beati gli ubriachi, perché vedranno Dio due volte». La frase può sembrare all’apparenza dissacrante. Ma forse sta a dire che c’è un oltre da sognare. Invito ad andare oltre, oltre ciò che è dovuto, oltre ciò che è prescritto, oltre

ciò che è programmato. E tutti noi a chiederei se nella nostra vita c’è ancora un margine di follia, di fantasia, di gratuità. Non è vero forse che tra le cose che Dio fa crescere sulla terra, per le quali preghiamo nel Salmo, troviamo evocato poeticamente anche il vino? vino che allieta il cuore dell’uomo, olio che fa brillare il suo volto e pane che sostiene il suo cuore. (Sal 104,15) E non è forse vero che il profeta annuncia i giorni futuri con immagini di uve pigiate e di vino nuovo? Ecco, verranno giorni - oracolo del Signore in cui chi ara s’incontrerà con chi miete e chi pigia l’uva con chi getta il seme; i monti stilleranno il vino nuovo e le colline si scioglieranno. Muterò le sorti del mio popolo Israele, ricostruiranno le città devastate e vi abiteranno, pianteranno vigne e ne berranno il vino, coltiveranno giardini e ne mangeranno il frutto. (Am 9,13-14) Anche Gesù nell’ultima sua cena, quando passò il

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calice del vino ai suoi discepoli, parlò loro di vino nuovo: «Poi prese il calice, rese grazie e lo diede loro, dicendo: “Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti

per il perdono dei peccati. Io vi dico che d’ora in poi non berrò di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi, nel regno del Padre mio”» (Mt 26,27-30).

IL LETTO Un letto normale è già dono. E raramente ne ringrazio. Un letto a soccorso di stanchezze, quelle fisiche ma anche quelle che ti consumano dentro. «Fatti una bella dormita», ti dicono: un invito, un augurio. Ma non sempre per tutti funziona così. Un letto è testimone del sonno, ma anche dell’insonnia, quando ti giri e ti rigiri e non riesci ad addormentarti. Allora è compagno, ma triste. E il pensiero corre a tutti coloro che non si danno pace, non riescono per malattia o pena o altro a darsi pace nella notte. Al loro girarsi e rigirarsi nell’avventura a volte drammatica della vita. Mi capita a volte di pensare al sonno di Gesù. Quel giorno camminavano per la strada, un tale gli disse:

«Ti seguirò dovunque tu vada». E Gesù gli rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Lc 9,57-58). Nei Vangeli non fa comparsa un suo letto per l’ora del sonno. Passava notti in preghiera sui monti e soffitto era una convocazione di stelle. O forse sì, possiamo evocare come suo letto, strano improbabile letto, il fondo di una barca in una notte in cui successe di tutto sul lago e si imbarcava acqua e vento da tutte le parti, e lui, Gesù - doveva essere così sfinito! - nonostante la furia del mare in tempesta, «se ne stava a poppa sul cuscino e dormiva» (Mc 4,38). Lo svegliarono, minacciò il vento, comandò al

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mare e fu grande bonaccia. Diceva anche: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura» (Mc 4,26-29). Un invito a dormire, quasi una pedagogia del sonno, per noi che abbiamo dilatato a tal misura le ore del lavoro sino a riempire anche le notti. Per noi che le crescite le vorremmo nello spazio di un giorno. Quasi che il miracolo delle crescite stesse nelle nostre mani. Al cuore ritornano le parole del Salmo: Se il Signore non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori. Se il Signore non vigila sulla città, invano veglia la sentinella. Invano vi alzate di buon mattino e tardi andate a riposare, voi che mangiate un pane di fatica: al suo prediletto egli lo darà nel sonno.

Ecco, eredità del Signore sono i figli, è sua ricompensa il frutto del grembo. (Sal 127, 1-3). Il letto dice anche abbandono, non sono più io a operare e a vegliare, opera e veglia un altro. Posso passargli la mano e dargli fiducia. È lui che porta a compimento l’opera delle mie mani mentre riposo nel profondo. Io sono semplicemente un servo, arrivo a tanto e non di più, lascio vuoti. Ora dormo, riempili tu, Signore. Non sono più io a vegliare, la sicurezza mi viene da un altro. Prego con il Salmo: In pace mi corico e subito mi addormento, perché tu solo, Signore, fiducioso mi fai riposare. (Sal 4,9) Il letto testimone di sonno, di veglie, ma anche di risvegli. Filtrano dalle finestre socchiuse fessure di luce. O forse non è ancora luce, ma a invocare risveglio è il pulsare del suono di una sveglia. Ora il letto diventa grembo da cui uscire. Come per nuova nascita, quella di un nuovo giorno. Sei messo alla luce, quella che oggi ti attende. Sbucare dalle coperte di un letto forse costa, come fossimo segnati da rimpianto per il calore di un grembo, ma è vedere la luce: « ci visiterà un sole che sorge dall’alto» (Lc 1,78).

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IL FIORE Pane e vino. Ma anche un fiore. Un fiore nell’aria ovattata intima di una casa o all’aria aperta splendente di un balcone, un fiore nello spazio ampio di un terrazzo o in quello risicato del davanzale di una finestra. Ho letto - forse appartiene a un antico proverbio cinese: «Se hai due soldi, compra con il primo un pezzo di pane e con il secondo un fiore: il pane ti farà vivere, il fiore ti darà una ragione per vivere». Ho concluso che una ragione per vivere ce la dà la bellezza. Anche quella di un fiore. Nella casa. Un fiore per incantarsi. E da bellezza essere sedotti ad altra bellezza. Capitava a Gesù, che non era di quelli che passano e vedono senza vedere. Lui si incantava ai fiori, ai gigli del campo. E invitava all’indugio: « osservate ». Che è più di un invito a vedere, è invito a indugiare, indugio a guardare, è incantarsi. «Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria,

vestiva come uno di loro. Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede?» (Mt 6,28-30). Un fiore, venature di colore, grafie della bellezza di Dio. E gli occhi di Gesù incantati a una bellezza che Salomone con tutta la sua gloria se la sognava. Fragile il fiore, quasi nulla uno stelo dell’erba del campo, eppure impigliato è lo sguardo di Dio che lo veste e raccontata è la sua custodia. E beati gli occhi che vedono! «Osservate come crescono ...». Come cresce il seme? Cresce per attesa, insegnamento per noi che siamo donne e uomini consumati dalla fretta, con pretese di nascite senza il tempo nascosto nella terra. Osservarlo, come chiede Gesù, porta pensieri luminosi di tenerezza anche in giornate stanche di fatica, germoglio porta germoglio. Nelle case. Il germoglio, che fa stupito il davanzale, parla di altri germogli.

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Anche noi siamo terreno seminato. Giovanni nel suo Vangelo ci ricorda che proprio non c’è niente, nessuno in cui non sia stato seminato il Verbo, come germoglio di vita, germoglio di futuro. Di Dio ho trovato scritto, nei Salmi, che «Germoglio è il suo nome». Così nel Salmo 72: «Il suo nome durerà in eterno. Da prima del sole “Germoglio” è il suo nome» (Sal 72,17). Bellissimo, non ce l’ha mai detto nessuno che questo è un nome di Dio. «Osservate come crescono... », invitava Gesù. Come cresce un fiore nella casa o sul davanzale se non per spinte di luce, per fluire silenzioso di luce? Il segreto di questo miracolo e di questo mistero è lo Spirito di Dio, presenza nascosta nel cuore di tutte le cose. La luce abita segreta il germoglio, lo dimora sino a farlo fiorire. È per questo che foglie e fiori sono come noi d’altronde - in sete di luce. Sono come edera in sete di luce. Ne sorprendo le prime più tenere foglie in avvistamento,

sul muro, di un oltre dove pulsa l’oriente. Osservo il fiore, mi nutro di bellezza. E sconfino perché fiore è anche l’amicizia, necessaria come il pane, come il grano. Necessario il grano, ma anche il fiordaliso, scrive in una sua poesia dal carcere Dietrich Bonhoeffer, pastore e teologo protestante, vittima dei campi di sterminio nazisti, grano e fiordaliso. A fianco del campo di grano che dà nutrimento che gli uomini rispettosamente coltivano e lavorano cui il sudore del loro lavoro e, se bisogna, il sangue dei loro corpi sacrificano, a fianco del campo del pane quotidiano lasciano però gli uomini. fiorire il bel fiordaliso. Nessuno lo ha piantato, nessuno lo ha innaffiato, indifeso cresce in libertà

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e con serena fiducia che la vita sotto il vasto cielo gli si lasci. A fianco di ciò che è necessario, formato dalla grave materia terrena, a fianco del matrimonio, del lavoro, della spada, anche ciò che è libero vuol vivere e crescere in faccia al sole.

Non solo i frutti maturi anche i fiori sono belli. Se i fiori ai frutti o i frutti servano ai fiori chi lo sa? E però sono dati ambedue. Il più prezioso, il più raro fiore - nato in un’ora felice dalla libertà dello spirito che gioca, che osa, che confida – è all’amico l’amico.

Porta, finestre, lampada, tavolo e sedie, pane e vino, letto e fiore: la casa è pronta. Abitiamola così. E ancora... avanti, forza e coraggio!

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CENNI STORICI “La casa parrocchiale di Palazzago fino all’inizio del XX secolo si trovava ove oggi è situato il Bar Sport, al mappale 52. Con il passare del tempo era però diventata inadeguata. In occasione della Visita Pastorale del 25 marzo 1907 monsignor Giacomo Maria dei conti Radini Tedeschi, vescovo di Bergamo dal 1905 al 1914, sollecitò don Giovanni Battista Todeschini (1869-1945), prevosto di Palazzago dal 1906 al 1945, a realizzare una nuova casa parrocchiale. Don Todeschini definì questo invito un quasi comando. Il prevosto si mise all’opera, acquistò il terreno, mappale 114b, e con l’aiuto della popolazione nel 1908 ideò, iniziò e finì la nuova casa, come egli annotò nel Cronicon parrocchiale. Il popolo si prestò in vari modi e soprattutto per il trasporto del materiale. La spesa fu di circa 25.000 lire, compreso l’acquisto del fondo, posto a pochi metri dalla chiesa prepositurale. A fine anno Don Todeschini entrò nella nuova casa, che era a lui intestata. Sulla chiave di volta della porta d’ingresso principale si trova incisa la data 1909, probabilmente anno delle ultime finiture. La casa prese il mappale 3567. Tutta la spesa venne sostenuta con denaro preso a prestito ed il debito venne estinto solamente nel 1918. Don Todeschini, sollevato, annotò: così si incomincia a respirare. Con atto di permuta numero 8426 del 12 aprile 1929 rogato dal notaio dottor Angelo Mazzoleni di Bergamo, ivi registrato il 19 aprile 1929 al numero 1440 del volume 16 la nuova casa parrocchiale di Palazzago con l’orto adiacente, mappale 3567, passò al -22-


Beneficio parrocchiale di Palazzago, mentre la vecchia casa, mappale 52, pure con l’orto, passò a Don Todeschini. Questi con atto numero 10578 del 13 maggio 1937, rogato dal notaio Personeni di Albino, registrato a Bergamo il 25 maggio 1937 al numero 2231, donò la casa vecchia alla chiesa di Palazzago. Nel 1963 e 1967 ci furono alcune scosse telluriche e la casa parrocchiale ne risentì. Particolarmente grave fu quella del 1967. Si staccò un pezzo di soffitto che, sfondando il pavimento, causò il cedimento della soffittatura della soletta sottostante con gravi danni al mobilio. Si rese quindi necessaria un’opera di ristrutturazione di ampie dimensioni con il rifacimento totale dei soffitti e dei pavimenti per quasi tutta l’ala destra dell’edificio, cioè quella verso est. Fece un sopralluogo l’ingegner Don Giuseppe Beretta dell’Ufficio Amministrativo diocesano che autorizzò ad addebitare alla cassa della chiesa tutte le opere e suggerì di procedere al più presto con un rafforzamento dell’angolo della casa che dava la chiara impressione di aver ceduto e, con un programma graduale, di rifare anche gli altri soffitti. Poco dopo Don Giovanni Migliorini (1915-1975), prevosto dal 1953 al 1975, fece iniziare i lavori di riparazione. Vennero quindi rifatti i pavimenti dell’ala danneggiata, che sono in piastrelle di graniglia, mentre quelli dell’ala verso la chiesa sono in cotto. Fu pure realizzato il contrafforte nell’angolo nord-est, verso il campo sportivo. Nel 1974-1975 furono eseguiti i lavori per dotare la casa di un impianto di riscaldamento. Ulteriori riparazioni vennero effettuate dai successivi prevosti. Ora la casa parrocchiale è prossima ad una generale ristrutturazione.” Articolo del sig. Medolago Gabriele pubblicato sul bollettino parrocchiale di marzo 2009. -23-


PER UN SORRISO Il cantiere della casa è durato un po’ e, non dobbiamo nasconderlo, come per ogni cosa sotto il sole, è stato anche motivo di commenti. Ma cosa succede quando i pensionati bergamaschi stanno davanti ai cantieri? Ecco dieci frasi che van per la maggiore

1. L’È MIA A BÓLA Non servono strumenti a chi ha passato la vita verificando la perfetta planarità dei muri: basta un occhio esercitato. E una bocca che si fa fatica a tenere chiusa. [Trad. Non è a bolla]

2. I È MIA BÙ DE TÈGN IN MÀ ‘L BADÉL Bastano pochi secondi a un esperto di cantiere, per capire se il lavoratore oggetto del suo interesse è in possesso delle capacità necessarie. E basta ancora meno per decidere che non lo è. [Trad. Non sono capaci di tenere in mano il badile]

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3. NÓTER M’INDÀA VIÀ DE PÌCH E PALA Troppo facile erigere case con l’aiuto della tecnologia di oggi. Chi ha trasportato l’acqua a secchi e aveva come strumento principale le proprie mani, scuote la testa di fronte a queste facilitazioni, giudicate eccessive e quasi frivole. [Trad. Noi andavamo di piccone e pala]

4. I ME SÖMÈA LÖMAGHE Gli anziani osservatori giudicano severamente il ritmo blando dei loro colleghi di oggi. Ma rimane il dubbio che si tratti di una considerazione nata dal precario stato della loro memoria. [Trad. Sembrano lumache]

5. OL LAURÀ A L’M’À MAI FÀCC PURA Non mancano, in una delle poche pause permesse dall’osservazione indefessa, le orgogliose affermazioni della propria indole laboriosa. Oggi però il primo problema è trovare il modo d’applicarla, l’indole. [Trad. Il lavoro non mi ha mai fatto paura] 6. ‘MPIENÉSS CHÈL SIDÈL! Esortazione rivolta a voce alta a chi dà l’impressione di non impegnarsi davvero a fondo, per evitare un sovraccarico di lavoro che, per i nostri anziani, sarebbe stato un gioco da ragazzi. [Trad. Riempi quel secchio!]

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7. I È DRÉ A CARGÀ MAL Non si parlerà mai abbastanza dell’importanza di assicurare un carico nel modo giusto. Un’arte che si tramanda di generazione in generazione, ed è inevitabilmente soggetta alla decadenza dei nostri tempi. [Trad. Stanno caricando male]

8. SÈNSA ‘L CAPOCANTÉR I FA DÉT GIONDINA In assenza di chi garantisce i modi e i tempi del lavoro, c’è spazio per le attività improduttive. Ma la scorrettezza non sfugge agli implacabili analisti edili. [Trad. Senza il capocantiere fanno festa]

9. L’È TRÒP MAGRA CHÈLA MÓLTA LÉ La corretta miscela della malta è un concetto esoterico, un calcolo alchemico per iniziati di cui, dicono i nostri pensionati, si è smarrita la conoscenza. Fosse per loro, non si dovrebbe costruire più niente. [Trad. È troppo “magra” quella malta lì]

10. CHÈL GEOMETRA LÉ A L’CAPÉSS NEGÓT Non si tratta dell’ingiustificato accanimento contro uno sconosciuto, ma della genetica avversione verso chi parla senza sporcarsi davvero le mani. Che non vale, ovviamente, per i geometri in pensione. [Trad. Quel geometra non capisce niente]

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IL MOSAICO DEI GRAZIE A tutti i parrocchiani che hanno dato volto al sogno. Al Consiglio Affari Economici Parrocchiale (A. Fabrizio, A. Fulvio, B. Andrea, B. Franco, C. Mariangela, C. Angelo, M. Vittorio, R.M. Alessandro) Allo Studio Ingegnere e Architetto Associati Locatelli Ivan e Rizzuto Cinzia Alla Curia Vescovile di Bergamo e al Direttore Ufficio Beni Culturali Rigamonti don Fabrizio Alla Conferenza Episcopale Italiana Alla Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggio Arch. Gaetano Puglielli A Mons. Daniele Rota A Matteo Vitali (pubblicazioni) All’Italcementi S.p.A. Ing. Carlo Pesenti Alle Ditte: Ripamonti Meccanica S.r.L.- Officina Meccanica Ripamonti GianMario & F.lli S.n.C. A Vivai Piante e Fiori Colleoni Angelo con Beita All’Amministrazione Comunale di Palazzago Alle Associazioni e Gruppi: Alpini - Aido - Anmil - Artiglieri - Cisl - Corpo Musicale G. Rossini - Fanti Parapendio - Polisportiva - Pro-Loco - Protezione Civile Alle Imprese:

A.R.CO S.n.C. F.lli Virotta Stuccatore Arte del Serramento S.a.S. Benedetti Riccardo idraulico Bonfanti Mario & C S.n.C. Brivio Angelo cartongessista Cucine Polaris S.r.L. Ernani Fondi S.n.C. G.M. S.n.C. di Ghezzi Fabio & C. Labriola Andrea fabbro Kone Ascensori S.p.A. Pressiani S.p.A. Arredo Bagni Rotaplast S.r.l. Rota Sperti Emilio cartongessista Service di Caglioni Giovanni e Marco S.n.C. Styl Vetro S.a.S. Vanoncini Claudio restauratore

A tutti i benefattori e i volontari che sono il volto della Provvidenza. -27-



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