Pastiche versicontroversi
n. 42 | 04/2015 mensile gratuito
Pastiche
La poesia è rock & roll!!!
Pensata e redatta da Paolo Battista
Tutto quello che pubblichiamo sulle pagine di Pastiche è rock & roll.
www.facebook.com/pasticherivista http://issuu.com/pasticherivista Grafica e impaginazione a cura di Eugenio Pozzilli www.eugeniopozzilli.it www.behance.net/pozzilli www.linkedin.com/in/pozzilli
Tutti noi lo siamo; morire per la poesia è la cosa più bella che possa capitarti!
Collaboratori Chiara Fornesi I e IV di copertina di Fabiano Leone
Augurati un giorno di morire per qualcosa di puro come la Poesia, e tutta la tua misera vita avrà avuto un senso! 02
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CORNO D'AFRICA di Luca Ispani Gronda il corno riverso a terra perde sangue, linfa, vita. È ancora troppo crudo deve cuocersi bene i grandi sono pronti per la fetta migliore. Africa mi senti? dove sono le urla di Biko? Le parole di Mandela? Soffocano forse anche loro per il sangue a fiotti? Africa urla, scalpita, in nome di un Dio qualsiasi, svegliati! Boko Haram rapisce i bambini dai giochi li riempie di esplosivo saltano in aria nei mercati, nelle piazze, nelle feste ovunque lacrime, ovunque follia omicida. I palazzi del potere tacciono portano una pace provvisoria, dicono, ma non urlano. L'Europa dormiente non urla L'America potente non urla Non urla L'Asia né l'Islam solo qualcuno si incazza e diventa incandescente se si parla di Allah non si può sfottere, a malapena nominare. Con Krishna non succede con Gesù neppure niente soldati, niente guerra per difendere i negri senza colpa niente arabeschi nelle belle capanne orlate dal nero del fumo niente di niente solo morte e fuoco. Chissà quanti ancora taceranno, lamentandosi del superfluo i bimbi con la pancia che scoppia non possono il nemico è forte troppo troppo forte li elimina ad uno ad uno nel nome del padre indifferente assente inesistente a morte, vita e pace. Piscia un ragazzo nero al limite della strada deserta scende una lacrima, una preghiera. 03
A love supreme di Paolo Battista
Come ti amo.
Silenzio. Occhi chiusi per evitare il suo sguardo. John Coltrane in sottofondo.
Ti amo, ti amo, ti amo, mi dice. Ma sei sicura? E chi te lo fa fare? Sei uno stronzo. Sì, spesso, ma l’amore è anche questo: sopportare gli stronzi come me. Sei un superstronzo. Hai ragione piccola, scusa… sono un superstronzo, più o meno come sempre!
Risate. Occhi lucidi dove concentrata l’ironia spezza una lancia a mio favore.
Se mi lasci ti ammazzo, tirandomi i capelli pieni di cera lucida. No piccola, cosa te lo fa pensare? Non lo so, ti conosco. Lo so che prima o poi ti stancherai di me. Maa… maaa… maaa per chi mi hai preso? Per lo stronzo che amo purtroppo. Maa… maaa… maaa magari sarai tu a lasciare me per un cantante rock biondo pieno di soldi. A me quelli biondi non sono mai piaciuti. Però i cantanti rock si eh? Magari cantanti ma non biondi. A me invece le bionde mi piacciono eccome. Sei un superstronzo, mordendomi il naso con il suo sorriso sconnesso. Cazzo dovevo darmi alla musica, alzando col telecomando A Love supreme di
Coltrane.
Se avessi fatto il cantante rock, mi dice, saresti stato ancora più stronzo di quello che sei. Ho capito, va bene… sono uno stronzo! Ma sei il mio stronzo, e ti amo da morire. Vedi di non restarci, eheheheh!
Risate. Labbra che si avvicinano e si mordono ancora e ancora e ancora. Il sassofono che geme.
Vieni qui piccola, dammi tutto il tuo amore. Uhhh, ahhhh, uhhhh, ahhhhh! Ti amo anch’io piccola.
…………………………………………. Silenzio. Corpi appiccicati e lingue svolazzanti. L’amore è anche questo: sopportare gli stronzi come me sul divano ascoltando A Love Supreme appiccicati l’uno all’altro.
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È tutta colpa di Saviano “Mi voglio fa brò, è che non tocco situazione da mesi ma porcoddio oggi me ne fotto, tengo pure i sordi, partimmo…ia’…“ Io guardo Mario stranito, sono mesi che non mi faccio, precisamente quindici mesi e tre giorni, ma appena lui solo accenna ai soldi e alla base lo carico in macchina e partiamo per Secondigliano. “L’ultima vota che so’ venuto era ‘no casino e pazzi“ mi dice contando banconote come un benzinaio, “ci stevino ‘uardie dappertutto, l’esercito coi mitra appostato davanti alle basi e ‘na puzza e mmerda che non se ne poteva proprio.” Dopo venti minuti siamo al casello Napoli sud, pago la tipina bionda, secca come un manico di scopa, e mi dirigo verso Scampia: direzione Forno. “‘E cose so’ cagnate qua, tenimmo l’uocchi apierti!” “Vabbuono” gli dico, e dopo aver trovato parcheggio scendiamo entrambi dall’auto e ci dirigiamo verso i portici. “È meglio che vieni pure tu, in macchina non è cosa che se passa la madama e ti vede, finisce che ti ferma! Ramm’ o telefono che chiamo o tipo…” “Marò, so’ proprio cambiate le cose qua, eh? Fino a pochi mesi fa si faceva tutto alla luce del sole, e mmò non si vere n’anima viva, manco cchiù i tuossici ci stanno.“ “È che ormai tenino paura, passa ‘na volante ogni poco e hann’arrestato no sacco e gente!“ “È tutta colpa di Saviano“ sbotto io guardandomi intorno preoccupato. Poi Mario chiama, il tipo ci dice di salire all’ultimo piano della palazzina di mezzo, scala G, che ci raggiunge subito; ma una volta dentro si fa avanti un soggetto minaccioso, con la faccia incarognita e i capelli imbrillantinati tirati all’indietro. “Chi cercat’?” “Ehhmmm veramente ammà pijà ri piezzi…” “Ehhh?“ grugnisce il tipo, “ma chi t’ha ‘itto che ccà ce sta a robba?“ “Linuccio… l’abbiamo chiamato e dice che dobbiamo salire“ farfuglia Marco cercando di non mostrarsi troppo indeciso. “Ahhhh…vabbuò…tutt’apposto…saji sa’…”, ma mentre c’intrufoliamo da dietro blocca prima Marco e poi me per una sorta di perquisa, “ arapr’ sta giacca compà…” “Tutt’apposto frat’mo, amma sulo pijà ‘a robba “ gli dico, “ mica simmo ‘uardie.“ “Vabbuò vabbuò, però saji sulo tu“ mi fa, “l’amico tuo aspetta qua.“ Così mi ficco nell’ascensore e salgo all’ultimo piano. Nelle scale si sente movimento, madri che urlano, creature che frignano, porte che sbattono. Mi affaccio dalla grande finestra nelle scale e, come un mare di cemento, Scampia è tutta lì, come un museo a cielo aperto dove Le vele sono l’attrazione principale. Dopo dieci minuti arriva Linuccio, un ragazzino di sedic’anni con la barba e il cappellino da rapper. Cazzo sono proprio cambiate le cose, mi dico. “Ueeee bello tutt’apposto “ mi fa, “ l’amico tuo nun ce sta?“ “M’aspetta abbasci’ che c’hanno fatto storie.“ “Vabbuò vabbuò… ch’avè?“ “Rammi ri piezzi che ce ne ammo“ gli dico, e una volta ricevuto il materiale mi rificco in ascensore e torno al piano terra dove Mario se ne sta ansioso poggiato ad uno del pilastri del Forno aspettando di spalmare due belle strisce di polvere marroncina sul cd dei Verdena che stavamo ascoltando in macchina prima di venire. È tutta colpa di Saviano, mi ripeto guardandomi intorno nel parcheggio; poi saliamo in auto e schizziamo via verso l’autostrada. Per oggi ci è andata bene; niente polizia a romperci le palle; per oggi non ci possiamo lamentare!
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Dulcamara K. R. - Nebulosa Vivo nel futuro baciata dalla spleenetica esfoliazione di ferro e sconforto, dalle biancastre meduse di psiche e coscienza che ingoiano pensieri trasparenti sempre più invisibili. Vivo nell’interstizio eterno ed invalicabile tra il detto e non udito, in un affollato bistrot di voci unilaterali che si scindono nella molteplicità del silenzio e si scontrano in ingorghi di assiomi e locuste. Vivo nella verosimile possibilità di una combinazione di arsenico e caffè latte al bar anonimo su Oxford High Street eretto dai pilastri dell’alta scienza, stesa su brodaglie di liquido amniotico regalato al fido cliente della paranoia e ai devoti del delirio. Vivo in eclissi frequenti e bellezze provvisorie sfiorate da baci affilati come lame da macello, in un cielo spiovente dove ogni stella è l’ennesima bomba che esplode. Vivo sulle sponde di una sostanza vorticante e surreale e in disseminate paludi ontologiche dove non sono altro che vedova di una percezione; nomade in un singhiozzo sincronizzato che sparge cancri ed indifferenza sulla nebulosa in(de)finita di chi ha rotto il cazzo all’esistenza.
- Profeta. Ti ho vista incastrare aliti inappagati in latitudini di cartilaginei aspetti, sostare sulle grottesche vanità del rimpianto e incastonare le calve argille dei tuoi seni ammaccati nel madido cristallo delle paludi scabre e disgi(unte). Il caso straripa nell’innato assedio della pulce sbaragliato da chili di fuochi premeditati, lustri e detersi giusto per non durare. Ti ho vista allestire le tue croste apotropaiche, le tue euritmiche corti di spaventi e le tue lucerne di noia gratificata dall’equinozio dei marmi; ma non preoccuparti, questa è solo la moina instabile rivestita di gesso di una luna smorzata, il castello estemporaneo di un re sconfitto dall’assurdo, l’improvvisazione rugginosa e meschina di un profeta abbozzato.
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- Ruggine e cobalto.
- L’aritmia della crisalide.
Sono all’angolo tra ruggini e cobalto; il salto ergonomico vezzeggia su fessure di fanatiche dimestichezze che guerreggiano in poitìn imbevuti di alcoliche credenze, [crack, lembi di sintomatici silenzi, e stà zitto, non ascoltare; pungola la sbornia irregolare degli amori epilettici] escrescenze di temporali fatali, e i lamenti che graffiano immaginazione, la palude sterile della sensazione e la marmorea briciola della nostra scienza che scivola via. L’angolo si è smussato e l’oroscopo della «retta via» si ingoia tra pillole di insicurezza sotto la coltre immobile di sincopate ed artificiali coscienze.
L’aritmia della crisalide ci avvolge in titaniche emulsioni di vuoto; s’increspano deliri stropicciati tra i calvi pensieri dell’irreparabile, annegati in cartilaginei rancori che s’allungano come lucidi allori sfoggiati ai funerali di un eroismo ubriaco. Una noia rapace si sveste di polverose paludi inappagate dall’entropia della coscienza; la sentenza è la rassicurante danza dell’inutile, la bomba dolciastra del meteorico olocausto di Nessuno, la discrepanza di una mantide che ci saluta nella culla.
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“Hands II” di Ivana Pistorozzi 09
Yami Il fast food indiano dove mangio la sera è frequentato soprattutto da poveri. alcolizzati. contrabbandieri. venditori di souvenir assurdi. gente in fuga. l'agnello al curry di solito me lo serve Yami. Yami ha sedici anni. Yami è un fiore affilato dall'inferno. Yami ha due occhi che quando li incroci vanno subito a cercare qualcosa di grandioso e irripetibile dietro di te. dovresti vederli gli occhi di Yami
ti smerdano sempre sono stupefacenti sono SPERANZA sono il Gange a Varanasi sono la vita quando ancora è incontaminata. l'altra sera Yami impazziva. impazziva perché il suo ragazzo è volato via. con un messaggio sul telefono. così. semplice. una storia come tante altre. una storia da adolescenti. così. si dice. intanto però lei 10
di Dietrich Lassalle impazziva lanciava forchette e diceva che il suo amore era nulla. a un certo punto quando ho finito di mangiare mi ha chiesto dell'hashish. le ho regalato due grammi e una poesia di Ricardo Reis. non potevo fare altro per lei. di certo non potevo darle dei consigli. che ne so io dell'amore? io dell'amore conosco solo la voce di Claudia conficcata in mezzo alle mie costole.
quindi sono andato via. sono andato a fare quelle cosette stupide del cazzo che tutti facciamo ogni giorno. i clienti del fast food sembravano MORTI. lo erano. e Yami impazziva. non riusciva a spiegarsi gli squarci che la liturgia del dolore posava sulla sua pelle. impazziva e diceva che il suo amore era nulla. di nulla. cosĂŹ.
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La devota di Andrea Fabiani E’ bellissima, ritta davanti a me, forte, sicura. Mi ipnotizza l’eleganza dei suoi gesti, l’armonia con cui, mentre mi parla, le sue mani disegnano dei semicerchi nell’aria; la profondità invitante dei suoi occhi neri mi rapisce, ma più di ogni altra cosa mi incantano le sue orecchie, dietro le quali ogni tanto si sistema una ciocca dei capelli neri che poi disubbidiente rifugge in avanti. Si, più di ogni altra cosa mi piacciono le sue orecchie, piccole, delicate, piene di linee ricurve, di ombre: sembrano due conchiglie. Mi piacciono così tanto che ad ogni frenata che mi proietta leggermente verso di lei devo trattenermi dall’allungare una mano e toccarle. Avrei voglia di far scivolare le dita lungo il loro profilo dedicato, sentirne la consistenza, percorrerne il contorno, davanti e dietro. Avrei voglia di tenermi alle sue orecchie, stringerne un lobo tra l’indice e il pollice, fino a sentirlo allargarsi tra i miei polpastrelli. Ma ancor più d’ogni particolare fisico, mi affascinano le sue parole, così intelligenti, precise e aderenti alle mie. Non è la solita conversazione spenta e inutile da autobus, la nostra. Nessun accenno al troppo caldo, al troppo traffico, alla troppa corruzione della classe politica, questa ragazza dalla bellezza splendente che ho appena conosciuto, Veronica, così ha detto di chiamarsi, mi parla di tutt’altro, delle contraddizioni insite nei fondamenti stessi della società capitalistica, dell’ingiustizia d’una felicità costruita sulla sofferenza altrui, della sua difficoltà di trovare un equilibrio tra la propria coscienza e la propria insopprimibile necessità di vivere ed essere giovane e felice. E di tutte queste cose Veronica mi parla senza nessuna paura. E non perché abbia capito chissà come che io la penso esattamente come lei (cosa per altro vera), ma perché, fenomeno sempre più raro, non ha nessun timore di esporre le sue idee, nessun timore che qualcuno possa giudicarla. Così mi offre esattamente quello che pensa, quello che è, senza nessuna dissimulazione. E, mentre lo fa, io mi innamoro di lei. E non centra niente il suo aspetto fisico, che pure, come ho detto, è notevolmente piacevole, se mi innamoro di lei è per la sua forza, per il senso di protezione che nonostante l’abbia conosciuta da pochi minuti riesce a farmi provare, per come starle vicino, guardarla negli occhi mentre mi guarda negli occhi, faccia sì che tutte le persone intorno a noi sembrino improvvisamente distanti. Sto assaporando tutta la pienezza di questo raro momento quando improvvisamente i suoi occhi sgusciano di lato, sul paesaggio che ci
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“Giovanna D’arco” F. De Gregori 12
scorre veloce accanto, sfocato oltre il finestrino, un paesaggio di cui io, mi rendo conto in quel momento, avevo dimenticato perfino l’esistenza. Poi il suo braccio destro ha uno scatto: inesorabile come il componente meccanico di un orologio; compie tre precisi movimenti e torna al suo posto. Mi sembra quasi di sentirne il rumore. STUM, STUM, STUM. Padre, figlio e Spirito Santo. Compie quel gesto senza smettere di parlare, come se neppure lei se ne accorgesse, come fosse un riflesso pavloviano. Io davanti a quell’azione repentina mi ritraggo. La osservo da più lontano, diffidente, capace ancora di afferrare il suono, ma non più il senso delle parole che sta pronunciando. Più della sua ormai conclamata fede cattolica, cose verso la quale, in conseguenza di un’ educazione fieramente laica, per non dire apertamente anticlericale, nutro da sempre istintiva diffidenza, quello che mi sconvolge e mi fa fare un passo indietro è l’inaspettata crepa nella cupola di perfezione che le avevo calato addosso. Qualunque altro particolare stonato (stonato dal mio punto di vista, s’intende) avrebbe probabilmente sortito lo stesso effetto. Non siamo più solo io e lei, siamo di nuovo in mezzo a tutti gli altri passeggeri del Quarantadue, siamo di nuovo parte di un mondo difettoso. Osservo ancora Veronica, come se dovessi rimetterla a fuoco, ma anche dalla nuova distanza che questo inconveniente ha messo tra noi i suoi occhi restano ipnotici, le sue mani restano perfette, le sue orecchie continuano ad essere la più dolci tra le tentazioni a cui io mi sia mai ritrovato esposto. Allora mi dico che forse è il momento di fare un passo avanti come persona e accantonare tutti i miei pregiudizi nei confronti dell’altrui spiritualità, di smetterla di farmi condizionare dagli insegnamenti dei miei genitori e iniziare finalmente a decidere da me cosa mi piace e cosa no, cosa sia bene e cosa no. In fondo, mi dico, cosa ho pensato solo pochi minuti fa? Che questa ragazza non si vergogna di mostrare le proprie idee. L’ho detto e ho detto anche che questo atteggiamento mi ha fatto innamorare di lei. Ed è così, non importa quali siano queste idee. Sono sue, le appartengono e lei non le nasconde, le mostra con naturalezza, quasi a dire: ecco, questa sono io. Questa, mi dico ancora, è devozione. Si, ecco cos’è: devozione. E non è per niente una brutta cosa, non è un difetto, anzi tutt’altro, è una qualità. 13
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Millworker di J. Taylor
Vorrei poterlo dire di me stesso, mi dico, che sono devoto alle mie idee, a quello in cui credo. E vorrei poterlo dire senza dubbio della persona che ho accanto. Mentre elaboro le mie conclusioni Veronica lo fa un’altra volta. STUM-STUM-STUM Il braccio meccanico scatta all’improvviso, mentre un campanile ci sfila accanto e si perde poi all’orizzonte, oltre il finestrone posteriore del mezzo pubblico. Questa volta però seguo passo passo il percorso disegnato dalla sua mano e ne apprezzo la precisione quasi chirurgica. Questa volta mi abbandono all’ammirazione del senso di sicurezza e al tempo stesso della naturalezza di un gesto che fa parte della sua stessa identità, che le appartiene così tanto che può farlo indipendentemente da qualunque altra attività stia compiendo. Benedetto sia il giorno in cui potrò dire anche io di aver fatto mia in maniera così totale un’idea. Qualunque essa sia. Probabilmente non questa, un’altra, magari su argomenti e posizioni completamente differenti, ma che importa? La capacità di farlo è quello che conta. Essere le proprie idee, questo conta. Sì, ecco che cosa vorrei, vorrei vivere con una donna che abbia il dono della devozione, non importa a cosa. Possibilmente a me, ma non è fondamentale. Sì, mi piace quello che ho visto fare a Veronica, questa meravigliosa ragazza. Mi piace chi crede in qualcosa. Mi piace la devozione. Mi avvicino di un passo, ristabilisco la distanza che avevamo all’inizio, e le sorrido. E anche lei mi sorride, smette di parlare e mi sorride, guardandomi. Sono quasi del tutto convinto di volerla sposare, quando Veronica volta leggermente la testa verso destra, offrendomi la visione celestiale della geometria del suo delizioso orecchio. Pronuncio il suo nome, facendo in modo che il suono esca dalla mia bocca e voli dritto verso di lei. Veronica ha un brivido, i muscoli del suo collo hanno un fremito, lei si volta di nuovo, mi fissa. Io voglio baciarla, qui, ora. Poi passiamo accanto a un’altra chiesa e il suo braccio scatta di nuovo – STUM, STUM, STUM – in automatico, mentre siamo occhi negli occhi. Allora faccio un altro passo indietro e mi ritrovo alla giusta distanza per capire. Capisco e faccio ancora un altro passo all’indietro e precipito nello sconforto. E smetto di guardare Veronica, perché, ora lo vedo chiaramente, mi stavo completamente sbagliando, ho commesso un terribile errore, un errore di definizione. Quella che ho appena visto non è devozione. È telepass. 14
di valerio piga Scariche: Sono scariche di gas mitragliatrici del nero sono stantuffi e imbottigliamenti e sfiati colori opachi sotto le lame rotanti in fila per il tuffo in fila per la risalita tutti stipati codice e sottocodice ferraglia negli appartamenti ruggine dagli occhi vitrei sui divani a riposo meritato oliati e ingrassati secchi e mangiati pronti e sfiniti per il mattino dopo.
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Schiacciati: Schiacciati dalla pressa di un format da una storia OGM detta in serie tv da un'immobile mobilitĂ santitĂ dei governi fabbricabombe alito fresco, mani sporche pettinano bambole di Dexter elisir di lunga vita su scala industriale produzione di stimoli a comando vocale promozione di stimoli al centro commerciale apparente morte apparentemente sorte indirettamente pilotata il piĂš delle volte. Schiacciati dalle file di ombrelloni le nevrosi i condizionatori la tendinite da testiera il cancro nei polmoni lavoravo anche per 12 ore e poi donne scomposte una ogni tre giorni sul tavolo del professore. Pasticche per la testa e pasticche per lo stomaco pasticche per la festa e pasticche per il vomito pasticche per la siesta e pasticche per il coito. Schiacciati come pasticche in laboratorio
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