# 46
PASTICHE VERSICONTROVERSI
MENSILE GRATUITO
editoriale editoriale pastiche
# 46
PASTICHE VERSICONTROVERSI
MENSILE GRATUITO
COPERTINA A CURA DI:
DAVID FRAGALE SONIA SECCHI PENSATA E REDATTA DA:
CREDO CHE LA LETTERATURA ABBIA UN ENORME VALORE TERAPEUTICO MA PROPRIO PER QUESTO DEBBA ESSERE PROVOCATORIA E SREGOLATA. SOLO TESTANDO LA NOSTRA CAPACITÀ D’EMOZIONARCI RIUSCIREMO A CAPIRE DI CHE PASTA È FATTA LA NOSTRA COSCIENZA. SCOPRIRE LA PARTE OSCURA DI NOI STESSI È UN GIOCO DURO MA VITALE PER CAPIRE QUAL È IL NOSTRO POSTO NELLA COMUNITÀ. LA LETTERATURA PUÒ AIUTARCI, CERTO, MA BISOGNA SPINGERSI OLTRE; ALLA FINE TUTTO AVRÀ UN SENSO, E SMETTEREMO DI VAGARE COME ANIME IN PENA IN UN MONDO TOTALMENTE MERCIFICATO E CONDANNATO ALLA PROSTITUZIONE.
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#AGOSTO 2015 #
PAOLO BATTISTA IMPAGINAZIONE DI:
ALESSANDRO VALENTINO COLLABORATORI
CHIARA FORNESI PER RICEVERE IN ABBONAMENTO PASTICHE (COSTO 15 EURO) SCRIVETICI A: pasticherivista @gmail.com PER INVIARE IL VOSTRO MATERIALE E PER AVERE INFO SULLE COLLABORAZIONI SCRIVETE A: pasticherivista @gmail.com
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al balcone la vista è magnifica e l’aria che si respira fresca come il canto degli uccelli. Le luci della città sono lontane e più lontane ancora le luci della metropoli. Il vento sbuffa di continuo piegando le cime flessuose dei lecci e dei ligustri. Restiamo in ascolto. Poi, ci stringiamo e restiamo intrappolati l’uno all’altro, minuscoli come formiche sotto la mastodontica purezza della montagna. Kiara dorme. Primo sabato di ottobre. Dai campi il solito ronzio della spaccalegna. Nel paese poche anime. Il signor G si appoggia al suo bastone color acero. La pelle squamata, lo sguardo vispo, calvo, tozzo; è forte come una corteccia,
più del solito “ sbuffo, e prendo una Camel, la squarcio. Accumulo il tabacco nel palmo della mia mano destra. Con l’altra prendo una canna dalla scatolina di ferro amaranto e l’appoggio sul filtro. Do fuoco, squaglio e mischio. Lecco e accendo, poi bevo un sorso di birra e cerco di acquietarmi. Devo abituarmi al silenzio. Devo abituarmi ai nuovi vicini. Devo abituarmi alla nuova casa. Devo abituarmi a me. A noi. Ho come l’impressione di vivere nel corpo di qualcun altro. Ho come l’impressione che non sia io a scegliere. Tutto è confuso, annebbiato, annichilito. Butto giù un altro sorso, do un’altra bel-
SILENZIO piccolo e ben messo. Il signor G è il mio vicino. I suoi vestiti odorano di terra. Odore di alberi e terra che impregna la casa di pigmenti autunnali, e silenzio! Siamo qui da poco più di un mese, ma ancora non ci siamo abituati al silenzio. Mi alzo, prendo una birra e accendo la tivvù. Una zanzara mi ronza sulla faccia. Kiara dorme sulla poltrona di pelle gialla. Un braccio, il destro, dietro la testa. L’altro, tatuato di ricordi, appoggiato lievemente sulla pancia. Una gamba, la sinistra, allungata e accavallata sulla destra. Il respiro tutt’altro che lento, inesorabile. I capelli arancioni e disordinati. La pelle bianca. “ Da quando ho smesso di fumare fumo
la boccata e cambio canale senza fare attenzione alle immagini che scorrono a strappi. Kiara dorme. Cerco di non svegliarla. Un’esplosione sbotta dalla tivvù. Abbasso il volume. Cambio canale. Dopo poco chiudo gli occhi, e quando li riapro sono quasi le nove di sera. Un buco enorme spicca al centro della maglietta, la canna tutta stropicciata è poggiata sul mio stomaco come un verme venuto allo scoperto. Mi alzo, la riaccendo, bevo un goccio, guardo Kiara che ancora dorme e la sveglio con un bacio sulla fronte. Lei mi guarda strizzando le palpebre. Pupille brillanti di verde. Occhi nostalgici e famelici.
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E’ questo lo sguardo che amo! Qualcuno vuole rubarci la nostalgia! Mi siedo al suo fianco, la bacio sulle labbra: “ come stai? “, le dico. “ Che ore sono? “, mi chiede. “ E’ tardi “ le rispondo. “ Quant’ho dormito? “ mi chiede meccanica. “ Quasi tre ore “ le dico, “ ed anch’io “. Poi vado al cesso, lei mi segue come un pulcino spellacchiato. “ Ho fame “ sogghigna, e si siede sul water per pisciare. Io butto a terra i vestiti e m’infilo sotto la doccia. Kiara fa lo stesso, le lavo la schiena con perizia da dermatologo, lei si rilassa, sorride, poi la prendo da dietro mentre l’acqua scorre sulle nostre teste bagnate. Sono il primo ad uscire e a vestirmi. Kiara resta ancora qualche minuto ma quando esce canticchia: “ cazzohofamehofamehopropriofame… “ e con l’accappatoio e l’asciugamano blu in testa schizza ai fornelli come una cuoca di Masterchef. “ Anch’io “ le dico abbottonandomi la camicia verdeacqua e stappo una bottiglia di Dolcetto d’Asti vecchia di trent’anni rubata domenica scorsa a casa di mia madre. Quando mi siedo al portatile qualcosa frigge in padella, ho una vecchia bottiglia di vino tra le mani, e le parole vengono fuori da sole. Scrivo un po’ di frasi sul sesso, sulla noia, sull’acqua della doccia, sulle scelte e sul silenzio, e poi mi siedo a tavola. Verso il vino per Kiara che mette su un’ottima insa-
lata di pollo. I suoi occhi mi cercano e faccio appena in tempo a incrociarli prima di vederli puntare altro; precisamente il vino. Agita il bicchiere, ne annusa il contenuto e con grazia ne assaggia un sorso. “ Non so “ mi dice interrogativa, “ non riesco a capirne il gusto, a te piace? “. “ Hai ragione “ le rispondo, “ non si capisce, però non è propio ‘na schifezza! “. Dopo cena quando sto per versare l’ultimo goccio stiamo ancora cercando di capire le qualità nascoste del Dolcetto. “ Cazzo hai ragione “ fa lei ridacchiando, “ questo vino è una vera schifezza! “ “ Però!! “ scherzo agitando la bottiglia vuota, “ figurati se ci piaceva da morire! “. Kiara lancia un gridolino divertito, brillo, afferra il bicchiere e fa per scolarselo tutto. “ Vacci piano “ le dico sorridendo, ma faccio lo stesso, e sedendomi sul divano racimolo l’occorente per un’altra canna. Passiamo la serata guardando vecchi video di Melies, poi andiamo a letto stanchi e disfatti chiudendo fuori gli ululati vicini e lontani dei cani. La notte è piombata tra i monti del Partenio fin dentro la nostra nuova casa, c’è odore di terra e ombre giganti e silenzio, quel silenzio a cui non siamo più abituati, quel silenzio al quale per forza di cose dovremo abituarci.
Paolo Battista
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foto di:
CHIARA FORNESI
La donna socchiude gli occhi; i ragazzini adesso non sono che macchie sfocate; rosso; altre macchie; grigio; il grigio del marciapiede. La donna chiude gli occhi. Un sospiro. La lingua dell'uomo tra le sue dita; la saliva sulle ferite; l'uomo ai suoi piedi; la camicia macchiata di sangue; il bagliore delle stoviglie appena lavate; il sole si specchia sui frammenti di vetro. «Ma cosa è successo?» Il corpo dell'uomo sopra il suo; le prime volte non sembrava così pesante; oltre la veranda un panorama campestre di maniera: un bosco di pini, un declivio erboso, una piccola casa. «Ti sporcherai tutto». A vent'anni l'idea di un cielo bianco. Labbra a labbra. Quando la donna riapre gli occhi la scena svanisce. Lo squillo del telefonino. Moglie e madre. L'uomo risponde al cellulare, si alza dalla poltrona e va di là. Torna poco dopo. Moglie e madre e la figlia di sua figlia e tutte le figlie di mogli e madri al mondo che a loro volta diventeranno poi mogli e madri, mogli e madri, mogli e madri, mogli e madri, mogli e madri. L'uomo tossisce. Sulla serranda chiusa – la donna nota soltanto ora questo particolare – la scritta CREDI A ME, O SIGNORE, accompagnata da una buffa caricatura di Gesù Cristo crocefisso. La testa è quella di Donald Duck e il corpo quello di Scwharzenegger ai tempi d'oro. Al posto dell'aureola un profilattico rotto dalla cui sommità partono raggi neri in tutte le direzioni. Il proprietario del negozio negozio di alimentari venne trovato morto lo scorso anno sui binari della stazione Magliana. La gola tagliata da parte a parte e l'occhio destro fuori dall'orbita.
Simulo orgasmi da circa dieci minuti. Ho la gola secca. Sandro ha penetrato Giulia senza preservativo mentre Claudio se lo faceva succhiare da lei. Ora, in un momento di distensione, i tre stanno facendo un gioco. Giulia, tenendo sempre gli occhi chiusi, deve indovinare di chi è il cazzo che la colpisce sulla faccia. «Di chi era?» domanda Claudio dopo il suo turno. «Du-u-u» mugola Giulia. «Di chi?» ripete Claudio. «Du-u-o». Claudio la colpisce di nuovo sul naso. Sandro domanda a Claudio com'è possibile che una minorata mentale abbia queste conoscenze sessuali. «Voglio dire», continua lui; «come ha fatto a non scambiare il tuo cazzo per qualcosa... uhm, da masticare?» Claudio ride: «Forse perch....» La scorsa estate ho sognato Umberto Eco che mi spiegava la semiotica dei graffi sulle auto. Innanzitutto, diceva, bisogna evitare i graffi semplici. Meglio qualche figura più elaborata. Aumenta lo sfregio morale e rende l'atto intellettualmente onesto. Perché sul pube di Giulia non ci sono tracce di peli?
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Alla televisione una presentatrice dallo sguardo ipocritamente triste sta parlando con la madre di una delle vittime del “mostro”. Il volume basso costringe l'uomo ad avvicinarsi. Non sa dov'è il telecomando. Sua moglie è tornata in cucina. La presentatrice ha gli occhi lucidi e fa domande come:
Primissimo piano della madre della vittima. Dettaglio dei suoi occhi pieni di lacrime. Il pubblico ha un'espressione triste. Scorrono alcune foto della vittima. Con il fidanzato - al mare - in montagna - a casa - da bambina - con il suo peluche preferito - con il papà morto qualche anno fa - con gli amici - a casa - sulle gambe del nonno. Ancora primissimo piano della madre. Altre foto della vittima. Mezzobusto della presentatrice.
"Si ricorda in che posizione l'hanno trovata?" "E qual è stata la sua prima reazione?" - "In che condizioni era il corpo?" - "Sua figlia è stata anche violentata?" - "Sì? Terribile. Con cosa?" - "Con una bottiglia... anche dietro o soltanto davanti?" L'intervista fa venire in mente all'uomo gli anni '90. Cosa ha fatto negli anni '90? Riflette. Sua figlia nacque nel '97. Il primo capodanno del decennio lo trascorse in uno chalet di montagna con alcuni amici di cui non ricorda più il nome. Nel '94 conobbe la madre di Giulia. Nel '96 la sposò. Nel '97 lui se ne andò di casa per tre settimane. Non disse mai a sua moglie cosa fece in quei giorni; lei non glielo chiese mai.
Lo sguardo dell'uomo si sposta dal grembo della presentatrice alle tende della finestra. Sono logore. Presto dovranno essere cambiate. Campo lungo. Il pubblico batte le mani Giulia sta fissando il poster di Topolino e sente qualcosa muoversi nella sua pancia, poco sotto lo stomaco. Ma è un’impressione. Sandro mi fa cenno di uscire dall’armadio. Giulia sta tentando senza successo di infilarsi il reggiseno. Le sue tette, esageratamente grandi per quella che suppongo sia la sua età, le arrivano fin quasi all’ombelico. Claudio scoppia a ridere e soltanto dopo aver scattato alcune foto con il cellulare si decide ad aiutarla. «Andato tutto bene?» do-
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mando. Sandro si accende una canna. «Hai visto tu stesso, no?» dice dopo aver buttato fuori il fumo. Poco dopo Claudio riaccompagna Giulia a casa e io resto solo con Sandro. Le ventidue e dieci. La luce gelida del vecchio lampadario. C’è puzza di sudore, di liquidi seminali. Sandro sembra più vecchio mentre mi spiega come hanno fatto a convincere i genitori di Giulia a farla uscire. Vorrei quasi domandargli “perché” ma so bene che il “perché”, in fondo, non mi interessa. E la domanda cadrebbe inevitabil mente nel vuoto. A nessuno interessano i “perché”. Mai. Sandro mi passa la canna e faccio un tiro. Tossisco. «Sembra plastica», gli dico. Lui alza le spalle. La televisione trasmette un gioco a premi. La donna passa all’uomo la caraffa piena d’acqua e gli rivolge uno sguardo di cui nemmeno lei riesce a capire la natura. Gli occhi di Giulia sono fissi su una vecchia foto di famiglia attaccata alla parete con il nastro adesivo. Non ricorda nulla. Nessuno ricorda. A breve tramonterà il sole; le ombre si allungano; è questa l’ora; la vita sembra rarefarsi.
ANDREA CARENZI
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FINE
Posacene, re,, pesi, , Proust, , sonno sano . 10
Si comunica che In città tireranno su un nuovo centro commerciale. Prati che si mettono fuoco, alcolizzati che espatriano, puttane che sventolano bandiera bianca, ragazza esperta in friggitoria ringrazia, robin hood si suicida, gli ufo minacciano, i fiori giacciono sulle staccionate di un’ estate sbavante di bianchezza, ai confini di quel cadaverico color d’ erba la striscia sonora di un post rock nordico si abbarbica incondizionatamente nel glaciale e arioso eden ancora per poco incontaminato e il richiamo della terra non è stato abbastanza origliato, perché qui il vento si strascica corposamente nel mio ventre e brucio con violenza e senza accorgermene con rapidità sono schiava del 2015, un altro anno di aborti rivoluzionari e di circhi appoggiati su un pacifismo maltrattato. Ho sognato di essere la gente, tutta, profumavo di borotalco alla vaniglia, poeti ripieni di autogestione che costruivano illegalmente dio in una piccola mansarda di legno scuro, una parte del luogo in cui ci sentivamo pazzi nel ruotarci accanto. Posacenere, pesi, Proust, sonno sano ci guarivano la miopia dei cuori. Ci mescoliamo in tutto questo ancora oggi, inciampiamo nei panni rotolati sul pavimento, cadiamo nelle mutande, nel bidone dell’immondizia, dalle scale del palazzo. Non ricordiamo più gli appuntamenti, gli orari delle partenze, la lista della spesa, Amare. Come se ci fossimo amalgamati in quel sogno, appollaiandoci sulla realtà a cazzo di cane. Cominciamo a distaccarci sempre più dal tutto, l’anarchia del tempo appare passionale quanto pericolosa, rientriamo in un meccanismo di noncuranza dei fatti del giorno, egoisticamente scriviamo, studiosi, suonatori, leggiamo, ruttiamo politica, non rispondiamo al telefono, esistiamo
in noi. Gli anni tritano lentamente ogni processo delle cose con una sensibilità a volte anche agghiacciante che sembra di star seduti nel nostro sempre in prima fila davanti al mondo nuovo di Huxley, imprigionati nella nostra stessa consapevolezza, a sfogliare, a spogliarci di inquietudini Pessoane. All’improvviso sappiamo e subito dopo non sappiamo, i bla bla bla ai tavolini dei bar scarseggiano agli occhi rossi di un’allergia ai semi di un pomodoro fuori controllo, ci manca il gusto di assaporare i nostri io dentro ai fra, di scrostare il pensiero in mezzo alla carnalità del mondo, su una strada terrena e su un amore mortale, con una macchina e un percorso che ritaglia i dettagli della vita superflui, segretamente imploriamo un’esplosione di teste che ci governano le tasche, e non solo, imploriamo un funerale dell’universo per poter avere ancora una possibilità di rinascere sognanti con un universo dentro altrettanto sognante. Caffè d’orzo e stipsi : sul teschio del sole c’è scritto: “non c’è nessun dio marxista che passa di qua, piantatela di guardarmi, siate la fiaccola di voi stessi”. E così non più alberi nella futura estate quaggiù in città. Bisognerà con la Nientità inventare un’ altra luce d’esistenza, Nina Simone è già partita con mood indigo e con lei i granelli di tabacco dispersi tutti in una tossica e maligna gioia terrestre. Macchine, semafori, ippopotami, cacche, scarpe scontrose che sbadigliano un sorriso, giganti in giacca seduti seri dentro a grossi vassoi di aperitivi pomeridiani a divorare le pagine dei giornali. C’è chi spera in un attentato al palazzo del governo e chi si spettina sull’ oroscopo del giorno. Siamo tutti divoratori e spettinati, gli starnuti rumorosi sopra un fottuto strato di coscienza.
FRANCESCA DE MICHELE 11
Lo trovarono con la vita Chiusa in un angolo Lui boccheggiava Poco più in là Nemmeno un angelo in affitto A confortare La tragedia come un distintivo Attaccato sul petto Dal lato del cuore Pendeva sbilenca Sbavava tutto intorno Un flusso opaco e molle Sgorgava direttamente dalla pelle Una lumaca umana In procinto di terminarsi Per eccesso di mancanza di vita Qualcuno si voltò In direzione della scia Notò la solitudine e il silenzio Appostati dietro l'angolo Disse qualcosa dentro la bocca chiusa Strinse i pugni nelle tasche Sputò Vo l t a n d o i p i e d i Nella direzione opposta pensando Oramai è spacciato La bava zampillava ora Davanti a occhi di vuoto E cemento
Incipit (Ballata che mai scriverò)
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la mia citta’ Quella che puzza di piscio all’alba Quando tutti gli stronzi ancora dormono Quella che odora di mare in cloaca Che brucia nei cassonetti Che frigge a tutte le ore Che urla per avere ragione Colletti bianchi misti a nullatenenti Accomunati da un cellulare portato all’orecchio la mano poggiata sul fianco gomito in alto Il sorriso ebete della comunicazione Wi-Fi La danza della conversazione in movimento
Fagocitati da nuovi e lussuriosi compra, spendi e torna presto Oggi ho rivisto il mostro Stava lì circondato dai suoi gatti neri Gigantesco eunuco con sguardo indifferente Che con la sua sola bruttezza Riesce a imbrogliare tutti Gli ho chiesto: come va? Il suo sguardo insospettabilmente limpido Si è specchiato nel mio E snudando uno dei tanti futuri ha sussurrato: pelle e carne e ossa Io vedo quello che tu nascondi Il tuo prezioso presente di pietà e di riscatto I tuoi pensieri di carta straccia I tuoi occhi che vedono troppo. Non c’è redenzione su questo suolo Se non nel petto dei suoi sciagurati figli La culla dell’arte e della civiltà è ormai vuota Più nulla ci si aspetta da queste sterili mura.
Chiese e pedofili sorridenti Troppi figli scalzi Orfani dei servizi sociali Picciotti vestiti firmati sempre attenti Il ras che non ti perde mai con gli occhi Davvero ti fa impressione la CIA? I vicoli riabilitati a bistrot per turisti Cibo esposto come gioielli commestibili Attento a non guardare troppo bene Potresti provare voglia di vomitare I mercati di Guttuso
Un gabbiano stride in alto Altre grida si aggiungono alle sue Apro gli occhi …. C’è ancora quell’odore di piscio E’ l’alba ….
SILVANA DI GIROLAMO 13
nel silenzio
poche cose, dicevo, vorrei regalarti, amore, poche, che non esistono da sole e se le guardi, un poco, e se le cerchi, ci trovi dentro il nome, amore, il tuo e il mio: ti regalo il vuoto d'aria che è dentro una poesia -non la poesia, che quella è di tutti e si perde e lo sai -l'ossigeno nella bottiglia e quella nave che gira e gira e gira dentro l'occhio; la farfalla che sono quando ti entro nel piede e dico è un bell'andare da me a te nella corrente: se solo salissi da un odore_se solo spostassi ancora di un metro la mia voce mi portassi coi denti nella pioggia dove risiede la parola ignara e l'eco di tutti i tuoi capelli- e quello sono io che colgo un'intenzione e nuoto come un pesce o forse come un cane ti regalo il tempo dell'amore che non ha voce e non è mai capace e tace e tiene addosso il corpo di una luce e sulla schiena un liquido lunare il rumore dei miei aeroplani che soffiano presagi e fanno tremare le finestre agli occhi_le tue vetrate egotiche la quiete immane dei laghi nella voce di un figlio che ti dice: papà stasera me la leggi una poesia? e ti regalo l'attimo prima dove non c'è dolore e noi non esistiamo ancora eppure ci sentiamo come se fossimo davvero nel tempo di dirci col silenzio che cos'è l'amore
FOTOGRAFIE E C C O T I A L Q U A RT O S O R R I S O AL TERZO RIMPIANTO A L L A S E C O N D A C A RTA D A PA R AT I , E C C O T I D E N T R O U N VA S O A P P E N A R O T T O N E L L A PRIMA VERSIONE DI UN PIANTO G I O C AT T O L O I N V E N TAT O, R A G A Z Z I N O L U P O U LT I M O I N P I E D I D A S I N I S T R A I L P I U ’ D I S T R AT T O, E C C O T I U N S O G N O A L Q U I N T O P I A N O, P R O T E T T O I N V I S I B I L E PA D R E C H E T I P O RTA U N A CHITARRA DA SUONARE, T E R Z O A L L A G A R A D I N U O T O, I N C E RT O S E C A N TA R L A O S C R I V E R L A , OPPURE SOLAMENTE VOCE A GRANELLI DI QUARZO QUANDO NOMINI IL CUORE, ED È UNA GIOSTRA DENTRO UNA CONCHIGLIA, ECCOTI STUDIO E AMORE TAMBURO NEGLI OCCHI E NOTTOLE DANZANTI A SCALPITARE IL MARE, IN PIEDI SU UNA SCALA DIRETTORE D'ORCHESTRA E N I N N O L O A N C O R A D ' A RT E R A G N AT E L A Q U A N D O T R A M E E F R A M M E N T I D I P O E S I A FA N N O NELL'OCCHIO UNA STRADINA A VOLARE E MARZO PRILLA SEMPRE IN BICICLETTE DI PIOGGIA
GIOVANNI PERRI 14
DEBORA PASCALE
VITTORIA BURASCHI