Pastiche versicontroversi
n. 44 | 06/2015 mensile gratuito
Pastiche Pastiche è uno spazio aperto dove sentirsi liberi di esprimersi con forza e passione.
Pensata e redatta da Paolo Battista
Pastiche sta dalla parte delle barricate perché le barricate esprimono cultura ed energia.
Grafica e impaginazione a cura di Eugenio Pozzilli
Pastiche è un grido nel gelido silenzio delle nostre vite assuefatte.
www.facebook.com/pasticherivista http://issuu.com/pasticherivista
www.eugeniopozzilli.it www.behance.net/pozzilli www.linkedin.com/in/pozzilli Collaboratori Chiara Fornesi I e IV di copertina di Luca Soncini e Massimo Valente
Pastiche è un percorso dove vacillare bruscamente e fanciullescamente insieme.
Chi collabora con Pastiche lo fa senza ricevere compensi. La proprietà intellettuale resta agli autori. Per abbonarsi scrivete a: pasticherivista@gmail.com, indicando nome e recapito; costo 15€. Per inviare il vostro materiale (poesie, disegni, fotografie in b/n, racconti con lunghezza da concordare, racconti per immagini) scrivete a pasticherivista@gmail.com, oppure a Paolo Battista, via Carducci 77, 83100 Avellino.
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Uh-uhuh-uhuhuhuhuh!, di Paolo Battista Quante volte ho lavorato sulle mie indecisioni, quante volte? [non sono perfetto e neanche voglio esserlo] Quante volte ho sognato il mio allunaggio personale? Quante volte di ululare come un lupo: uh-uhuh-uhuhuhuhuh! Lacrime dorate, fumo d’hashish, vento dirompente che ulula tra tronchi saldi alla terra salda, infinità di gialli sfocati come gole soffocate – Ho rivoluzionato i miei punti focali, quante volte? E quante volte ho assorbito vuoti e cataclismi dal vecchio mondo infame? Quante volte ho fiutato come un lupo pericoli: uh-uhuh-uhuhuhuhuh!, crimini, larve, paure, fondo di letti e bottiglie; quante volte sono resuscitato? quante volte sprofondato e riaffiorato? Il mio sangue ribolle, la mia carne freme, le mie ossa titinnano – La mia gola rigetta, il mio cuore contorce, il mio grido si vendica – Ho smesso di chiedermi quante volte ho fatto questo, quante volte ho fatto quello – non c’è storia se non sei tu a volerla, cenere smangiucchiata, camicie stirate, il volto bruciato della montagna, polvere d’Oriente, fallico arcobaleno, come un lupo mi struscio sulle cortecce dei faggeti ad alto fusto e ululo: uh-uhuh-uhuhuhuh! alle vette piroclastiche del vecchio mondo infame!
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Amara Giulia, di Alice Barbapapà Sto facendo qualcosa che faresti tu. Sto disegnando quello che disegneresti tu (in a shitty way). Non so perché… Non mi manchi, per niente. E quindi perché lo faccio? Penso che mi mancherai quando tornerò a casa. Eri luminosa nella tua autodistruzione. Sapevi sempre tirarmi su di morale, sapevi sempre farmi ridere. La nostra amicizia era qualcosa di assurdo. Non tutti possono avere amicizie così, ed uscirne vivi. Era un’amicizia malata. Il modo in cui ti aggrappavi a me e ti lasciavi cadere. Ho ancora in testa quella volta che ti sei tagliata e io ero seduta in camera tua. Avevamo appena finito di fumare un joint, e tu ti eri appena lasciata con Paolo. Ti sei tagliata nella stanza accanto. Ho sentito tutto, anche quella risata amara alla fine. Ridevi di te stessa. In quel momento ho sentito tutto il tuo odio per te stessa. Mi ha fatto paura. Mi ricordo quell’ altra volta, qualche mese dopo, che mi hai fatto toccare le tue cicatrici, lunghe e precise sulle gambe lisce. Ricordo quando mi hai detto che tagliarsi è sbagliato, ma è l’unica cosa che ti fa stare bene. Ti ho sentito morire in quel momento. In quel fottuto momento ho visto il tuo corpo inerme, chiuso a chiave in bagno, sanguinante. La lametta ancora in mano. In una stupenda, calda, notte di fine estate – l’ultima insieme – mi hai confessato di aver preso dell’eroina. Ti eri fatta in vena, cazzo. Ti ricordi la mia reazione? Certo che la ricordi, ovviamente. Non credo che qualcuno ti abbia mai schiaffeggiato tanto forte. Abbiamo mentito a noi stesse, dicendoci che era solo per provare – una volta e poi basta. Ora ti fai da mesi e continui a dire che è tutto sotto controllo, che puoi smettere quando vuoi. Fottuta bugiarda. Ma sappiamo esattamente cosa vuoi: morire. Bastarda senza coraggio. Ho sempre pensato che tu mi odiassi perché ti capivo. Voglio dire, sentivo la tua disperazione, e mi faceva un male fottuto. Ho sempre pensato che tu mi amassi, come uno che sta annegando ama lo scoglio su cui mette tutto il suo peso e si lascia morire di ipotermia. Effettivamente io non ti ho vista crescere. Ti ho vista morire. Piano piano, un passo alla volta, la disperazione negli occhi sotto il sorriso amaro. Tu vuoi solo che qualcuno assista alla tua disfatta, così sai che la chiesa sarà piena e che qualcuno piangerà – così ci sentiremo morire come te. Non hai mai provato a salvarti. Senti come se la gente abbia il dovere di salvarti, ti lasci andare su di loro (come su di me), come quel naufrago sulla roccia, e ti lasci morire, sperando che qualcuno capisca i tuoi segnali ermetici e ti salvi in tempo. Mi sembra di aver detto tutto ora. Mi sento libera, sai, senza di te. Però è una libertà un po’ triste – nessuno mi faceva ridere come te, nessuno mi faceva sentire così leggera. Ma nessuno mi faceva sentire tanto piccola e sbagliata. Nessuno. Non ero mai abbastanza per te. E ora sono libera. Non sei più sulle mie spalle e posso camminare più leggera. Non più tua Eva PS: Non so perché ho scritto questa cosa. Non ha senso terminarla come una cazzo di lettera. Non la leggerai mai. E io non ho intenzione di fartela leggere – saresti troppo arrabbiata perché ho portato alla luce la verità. Ti toglieresti la vita, forse. Si, lo so, mi sto prendendo un po’ troppo seriamente, ma so che ti farebbe male. Fa male anche a me. Ancora un po’. Ma quando tornerai, io mi prenderò ancora cura di te – di nuovo, come facevo una volta.
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Soldati di Adriano Petrucci
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Il fottuto testamento di un genio della poesia di Fabrizio Raccis Con le mani sporche d’asfalto anche oggi ha chiesto l’elemosina per le vie di Sant’Anna, ha strisciato i suoi piedi nudi sui gradoni del palazzetto tra le cicche e la carta straccia di quel lurido pavimento, ha strofinato la pianta del piede segnata e indurita dai calli. Sembra che cammini da secoli con quel suo passo zoppo che arranca ad ogni metro, addosso porta ancora quella camicia lercia, dei jeans strappati e consumati fino al sedere. I suoi capelli hanno preso un colore indefinito, si sono ridotti ad un groviglio di capelli lunghi e sporchi. Sarà alto almeno due metri, non avevo mai visto un negro finire nel fetido incavo del culo del mondo. Un barbone di colore nero, nero come la carta carbone, come la strada bagnata che l'ha cullato miriadi di volte iniettando il suo freddo gelido fin dentro le fibre di ogni suo osso. Qualche volta potevo osservarlo bere un barattolo di birra e poi imprecare con gli occhi verso il cielo, occhi chiari, sbiaditi dalla luce del sole, occhi provati dalla sua vita da martire che sembravano nascondere chissà quale dannato segreto. L’altra sera sono passato in una via ed ho intravisto una sagoma riversa sul marciapiede, ho fatto inversione e mi sono fermato a guardarlo con il motore acceso. Era lui, sdraiato su un lato del marciapiede aveva un’espressione strana, il collo teso e la bocca aperta dove pendeva una sigaretta spenta, le mosche sembravano pronte per un banchetto sulla sua lingua bruna. Poi ho guardato i suoi piedi, non portava le scarpe, era uno degli spettacoli più impressionanti, non avevo mai visto dei piedi così grandi e mal curati, di solito metteva due paia di calzini uno sopra l’altro a coprire quello scempio ma poi si consumavano al punto da lasciare metà del piede fuori, in principio
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quei calzini di lana dovevano essere bianchi come i miei, ora erano ridotti a stracci fradici di ogni sfumatura d’asfalto. Girava voce che fosse un grande scrittore, che avesse tre lauree e diversi diplomi. A quanto pare s'innamorò pazzamente di una donna, l’amava alla follia, era disposto a tutto per lei. Dopo averla sposata lei lo mandò in rovina, lentamente, giorno dopo giorno cominciò a divorarlo come un cancro. Gli strappò via ogni bene e lui dal dolore, dalla delusione si lasciò andare perdendo tutto anche i suoi tre appartamenti al centro della città. Nessuno sa spiegare bene come divenne un clochard, un senza tetto che dimora nelle strade e nei viottoli sudici della periferia, un barbone! Un George Orwell d’ultima generazione senza un soldo e con la pelle molto più scura. Quando lo vidi impegnato a scrivere seduto su un gradino con lo sguardo sofferente non potei resistere e m’avvicinai, volevo vedere quello che stava scrivendo. Ero tremendamente curioso. Il sole era già basso, la mia ombra lo raggiunse ancora prima d’essere davanti a lui. Continuava a scrivere ma era come se mi guardasse in faccia, mi chiese con lo sguardo basso “cosa vuoi?” Gli chiesi senza nemmeno un saluto “voglio solo sapere cosa stai scrivendo...” Abbassò i suoi occhiali sporchi e mi guardò dritto. “Il mio è un canto, un lamento. L’anima è errante come i pensieri dell'uomo, l’amore ed il dolore mi hanno reso un uomo libero. Io non porto le scarpe trascino questi piedi come radici alla ricerca di un terreno fertile dove poter riposare per sempre sia il corpo che la mente.” Poi si sollevò, trascinò via lentamente con il passo zoppicante le sue gambe storte, il foglio con incise quelle parole scivolò sul pavimento, lo raccolsi, era il fottuto testamento di un genio della poesia, un poeta moribondo, il delirio di un veggente d’alto rango.
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Foto di David Fragale
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Così furiosamente zen (frammenti) di Carmine Mangone «Si fuma col culo, vecchio mio, quando si è poeti.» Louis Scutenaire
A che serve un libro quando possiamo inscrivere noi stessi dentro la vita? Il libro è solo un testimone, un rilancio, un memorandum per l’impossibile da ritoccare. Insieme. Accomunati dal tentativo. Aprire una parentesi e annotarvi le paure, la gioia, le sentenze di vita cui attendono gli uomini. Nonostante i confini tracciati dalla ragione, la vita resta un libro senza indice. Avrei voluto sfogliarti come una sorta di compendio sull’amore e sul possibile. Non è stato così. È stato meglio. Sei un libro che non finirò mai di leggere. Il mio amore è un ponte lanciato verso il supertesto. Il libro come volontà e delusione; ogni volta accudito, rilegato, e nondimeno aperto a relazioni sempre nuove con l’esistente. Divenire un bel pensante. Titillare i concetti. Far bagnare il pensiero degli altri in modo da creare affezioni tra teoria e tumescenze. Quando non incombe alcun aggettivo sulla tua esperienza del mondo, sei forse al limitare di un impossibile? La più grande fortuna, in punto di morte, sarebbe poter annusare per l’ultima volta il profumo del pane appena sfornato e cotto a legna. Uno dei ricordi più belli della mia infanzia futura. L’insurrezione che è già qui –e che non mi ha mancato– nonostante i vostri sforzi. Non mi son mai sentito spaesato dentro le mie parole. Ho sempre detto ciò che veniva taciuto dal generico potere di dire. Il che non significa che io debba per forza qualcosa alle mie parole; insieme a me, restano pur sempre libere di contraddire tutte le mie mancanze. Nel rincorrere l’ultima parola, veniamo proscritti dalle nostre stesse scritture. Ognuno ha le mancanze che decide di meritare strappandosi al mondo. Il nostro dire assume sempre un’estensione. La parola costituisce un territorio, è tendenzialmente “statalista”, pone confini, si fonda invariabilmente su leggi e regole. Lungo i territori discorsivi, l’eventuale anarchia è portata invece dai vettori, dalle velocità, dal tipo di andamento che ridefinisce i luoghi comuni. L’anarchia arma i ritornelli. 10
All’interno del discorso amoroso, bisogna danzare sulla soglia che separa transitivo e intransitivo: dire il liminare senza porsi alcun limite. Io ho sempre scritto al di sopra del mio destino. Ho sempre ospitato l’Altro nella mia volontà di parola –talvolta anche suo malgrado– e l’ho fatto ogni volta per muovere mondi, stanze, amicizie. Far rumore con le parole. Scartavetrare aggettivi, bestemmiare verbi. Le destin, c’est moi. Ciò che sembra una semplificazione – ad esempio coltivare il rumoreggiare del cuore, l’aforisma, il furore finalizzato all’amore – è in realtà un modo (un andamento) per procedere nettamente verso la riappropriazione dell’essenziale e l’abbattimento delle separazioni tra i viventi. Si pensi all’oscenità gratuita che si afferma fuori dall’ambito della pornografia istituzionalizzata, ai riots metropolitani fini a se stessi, alla fisicità del pogo (il “ballo” dei punk) o ai poeti-teppisti che delegittimano i letterati ad ogni piè di pagina del mondo. «L’avanguardia lavora sovvertendo grammatica e sintassi. Ma l’unica cosa che muove il mondo e le persone, in realtà, è la chiarezza», Edmond Jabès. Quando mi tocca tollerare qualche improvvisato letterato del piffero, più o meno asservito alle logiche culturali o ai cliché adolescenziali della negazione codificata, mi vien sempre da pensare a Rimbaud e a Verlaine che s’inculano a vicenda (e alla revolverata che il secondo –somma checca isterica– spara al primo il 10 luglio 1873 a Bruxelles). I poeti che partecipano alla gestione dell’esistente, facendo politica per Stato e partiti, non hanno niente a che vedere con la poesia. Sono solo degli improvvidi kapò della propria e dell’altrui volontà di parola. Per sopportare il buio degli altri bisogna dar fuoco ai loro giorni e a tutte quelle parole diurne che potrebbero abituarci alle nostre contraddizioni. Di notte, ogni parola pretende un giaciglio, un nido di eventualità, e non necessariamente una comprensione. Resto fedele anche a ciò che non sei. Ne va del mio sorriso più tuo. C’è una passeggiata sempre possibile tra i corpi che assumi o che ami nel mentre. Una passeggiata chiamata divenire. Ci si ritrova in una delusione divenuta parola. Ci si fa spazio tra gli istanti, così da ordinare una presenza. La soddisfazione è figlia del dirupo e del ristoro. Non mi sottraggo alle interrogazioni del tempo. Mi sottraggo al tempo.
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Meglio giocare, di Francesco Alfarano Milioni di sedicenti artisti che si rincoglioniscono in arte su arte sognando di immortalarsi in un peccato d’eternità che non sarebbe male elevare a reato.
galleggeranno per tutte le vie lattee dell'universo assieme a scontrini e ingiunzioni di sfratto. Madre Teresa e Hitler saranno finalmente lo stesso vuoto. La stessa dimenticanza. La stessa assenza.
Ora sicchè dal temporale non se ne esce asciutti per essere coerenti col tempo bisognerebbe invece temporeggiare. Rimandare a domani. Fermarsi a giocare.
E che grasse risate. Che dolore. Meglio giocare.
Meglio giocare.
Meglio fare l’elemosina alle auto ferme al semaforo. Citofonare ai testimoni di Geova. Tagliare la strada ai gatti neri. Cadere esaudendo i desideri segreti delle stelle cadenti. Lanciare statuette di Berlusconi contro il Duomo di Milano.
A innamorarsi magari. E in questo mattino color dell’oro ti amo come amo ogni Marlboro. Nelle luci di Natale ti amo come amo pane olio e sale.
Meglio giocare. E in questo giorno lugubre e tristo ti amo come amo il fritto misto.
E blablabla. Mentre milioni di medicenti idioti attraversano le mattine e continuano a perdersi nella proporzione. Nel metro. Nel ritmo. Nello studio. Nel flusso di coscienza che è traduzione artistica dell’ego. Dirsi per autocelebrarsi. Ancora immortalarsi. Ma un giorno salterà tutto per aria. Un giorno chiudendo gli occhi finirà il mondo. Nessun turista attraverserà infoiato e sudato la Cappella Sistina. Nessuna lezione su Dante ucciderà l'anima inesistente dei ragazzi. Nessun padre si preoccuperà per i propri figli. Milioni di libri di filosofia decrepiti
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Nel freddo del basso costo ti amo come amo l’arrosto. E blablabla. Prima che venga un cancro alla gola o al colon. Prima che sia tardi. Quanto è stupido dare nome e peso a ciò che non ha nè nome nè peso. Ti amo alla follia ma se ogni tuo desiderio è un ordine l’unico mio desiderio è disordine. Temo dunque non possa funzionare. Meglio giocare.
“Giovanna D’arco” F. De Gregori 12
L’estate del furetto di Lisa Biggi
O principessa, mio gingin d’amore no, non venir quest’oggi a Montericco: nei grandi vasi il mosto or va in bollore e fonde l’uva in vin, chicco su chicco; Tu potresti scivolar dentro un tino e trasformarti in soave liquore! Così, centellinandoti io un mattino, mi morirei di veleno d’amore! Mi morirei d’infinita tristessa… No, non venire a Monte, Principessa. 19.IX.1982
Era un’estate infinitamente calma, quando la mia famiglia decise di trascorrere alcune settimane nella dolce campagna emiliana. Io ero l’unica nipote di una famiglia accogliente e affettuosa. Ero quindi molto amata e spesso sola. Così la mia fantasia vagava, in quel tempo dilatato che la noia rende eterno ed immutato, così lontano dalla frenesia di oggi, dal divenire. C’era solo l’essere, umano e bambino. Finestre spalancate, echi, trilli, lenzuola e grilli. Scale conquistate dai gatti, gattacci a dire il vero, che ogni giorno salivano un gradino e il più furbo stava in cima. Il verde tappeto, ricoperto di minuscoli fiorellini azzurri. Una camminata rapida verso il frutteto - ora la chiamerei una corsa - come ad assicurarmi che tanta meraviglia ci fosse ancora tutta insieme. Il grande fico lattiginoso, l’albero delle renette, piccole e saporite, le susine, l’albicocco, il filare di amarene e il 13
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Millworker di J. Taylor
ciliegio, il mio re storto. Infine un’occhiata speciale all’albero di marasche, l’ultimo sopravvissuto in tutto il mondo e stava proprio lì! Le tane dei grilli neri, la terra riversa prima di arrivare alla vigna, carica di grappoli e di brindisi. E in lontananza le mucche. Pur non avendo una personalità tassonomica, imparai a distinguere i merli dai fringuelli, i ciuffolotti dai pettirossi, le gazze, i verdoni, le upupe e i chiù. E le giornate trascorrevano dolci e dorate, mentre io imparavo ad addomesticare la noia tra i crescioni e le margherite. L’infanzia sembrava non dovesse finire mai. Sotto l’ombra certa della magnolia lasciavo passare le prime ore del pomeriggio, stordita dalla digestione e dall’immobilità della siesta, in cui le cose sono talmente se stesse. Osservavo il tronco avvitato del grande glicine, le sue doppie fila di formiche che salivano e scendevano, salivano e scendevano, salivano e scendevano, mentre io non riuscivo a decidermi per chi parteggiare. La neclensia, ripeteva mia nonna, non è un fiore ma una noia capricciosa, e così in un pomeriggio di questi, seguendo una mappa di radici e di altri minuscoli indizi di cellulosa, passai dietro all’acetaia, superai lo stagno con i suoi putridi segreti e raggiunsi il piccolo roseto. Era vietato e naturalmente ci entrai. In quel luogo segreto, nascosto tra due fila di siepi, potevo starmene al riparo dalla calura di agosto e dagli sguardi di tutti. Il roseto nascondeva incredibili meraviglie: libellule dalle ali iridate, lucertole cangianti, l’odore pungente della terra bagnata, le chioccioline bianche e nere, i bruchi mollaccioni e mille sassi brulicanti di insetti, forbicine e vermicelli isterici. E di tante altre cose vicine alla gioia. Insetti ronzanti, a volte erano fatine mascherate, altre piccole spie insidiose, altre ancora semplicemente le api vellutate di mio nonno. Con questi e altri stati di trasognamento seguivo il viavai frenetico delle operaie, instancabili e fidate, e le mie fantasie volavano come insetti, avevo pensieri con le ali. L’ultimo giorno di vacanza il nonno, che sapeva dei miei passatempi che alimentava spesso con storie fantastiche, come quella della principessa caduta nel tino, mi mostrò una cosa che aveva trovato la mattina nell’orto. Si trattava di un giovane furetto, dal manto bianco e fulvo, morto da poco senza turbamenti, morbidissimo. Lo mise in un barattolo di vetro e promise solennemente di lasciarlo nel roseto fino al mio ritorno, sotto la rosa più bella. Era una sera di fine estate e la pace regnava nell’aria pregna d’odor di miele. La domenica successiva tornammo in campagna, come promesso. Il nonno mi aspettava vicino al portone, per non tradire il nostro segreto, con le gote rosse come il lambrusco che versava di nascosto nel mio bicchiere, per farmi ridere e farsi amare di più di tutti. Così corsi subito nel roseto dal mio piccolo amico, mentre le cicale –assordanti– si erano come ammutolite, arrestate per un attimo tetro, non adatto al loro umore. Mi sembrò strano, ma a volte non vogliamo vedere. Non ero affascinata dalla morte, ma dalla trasformazione. Non capivo come potessero essere entrati tanti vermi dentro al barattolo, affamati e bianchi. Il barattolo era ben chiuso e il nonno non lo avrebbe mai aperto. Non riuscivo a capacitarmi che venissero da lui, che era bellissimo e soffice. Parevano golosi e insaziabili. Fu una scoperta sconvolgente, a dispetto di tutte le volte in cui mi ero lavata bene i denti. Il furetto era magnifico ora e pieno di fascino. Così, in quel piccolo perimetro di libertà, mi avvicinai all’incredibile e tormentato mistero della vita. 14
Inno all’autunno di Stefano Colucci Sono il risveglio di un supermercato sull'orlo della bancarotta; sono l'Ulisse, quello di Joyce; io sono, lo dicono gli altri, lo dite voi. Ma lasciatemi solo, per cortesia, a contemplare l'incontemplabile: la meraviglia, le più avanzate tecnologie, le poesie che mi stanno accadendo. Lasciatemi essere un inno all'autunno suonato senza sosta da sassofonisti sbronzi sotto il ponte di Brooklyn all’alba.
Mosca d'Amore E la chiamano poesia, questa vergognosa moda dell'esistere a vuoto come una mosca d'amore che muore di fame in un cuore disabitato ormai da anni. Come lei, che non volle saperne di fermarsi un altro po’ in questa vecchia e logora scatola cardiaca ammuffita. Ci saremmo crepati bene qui dentro, come barboni ubriachi della dolcissima insensatezza dell'amore. Due insetti inutili e felici. 15
Keith di Massimo Valente