02/2014
n.28
smaschera l’arte e la poesia
PASTICHE versicontroversi
mensile gratuito
Daniele Aimasso - Vengeance
Pastiche
Mentre s’apre. Mentre lui lancia il suo
GRIDO Pastiche è sfida strada vento torri pendenti empatia calci in culo desolazione rimasugli d’angeli diavoli, allora picchiami Stronza di una F inverno notte strada gomitolo grande pisello parole piene urla fica dissenso provocazione, tutta colpa delle Sirene vene blu blues del blu blues della strada ossessione manicomio NeverminD danza sfrenata nella notte io e Caino nel mondo sasso vento terra acqua fuoco mondo poliapatico, pastiche è dentro e fuori e fumo, e allora segui il suono, tieni il passo, lancia il tuo grido…
|| Raymond Carver || Orientarsi con le stelle PASTICHE pensata e redatta da Paolo Battista. Grafica e impaginazione a cura di
Moodif www.facebook.com/pasticherivista http://issuu.com/pasticherivista
Collaboratori:
Chiara Fornesi, Fara Peluso. Per ricevere a casa Pastiche in abbonamento ( costo 12 euro ) scriveteci a: pasticherivista@gmail.com, indicando nome e recapito. Per inviare il vostro materiale ( poesie, racconti – lunghezza da concordare -, disegni, racconti per immagini, fotografie b/n, stencil e quant’altro ) scrivete a: pasticherivista@ gmail.com oppure all’indirizzo: Paolo Battista, via F. Laparelli n. 63 int.1 00176 Roma Chi collabora con Pastiche lo fa senza ricevere compensi. La proprietà intellettuale resta chiaramente agli autori.
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F Pastiche
stronza di una
Paolo Battista
Ti spiace se scrivo solo parole a caso nel vuoto silenzio delle diciottoezerotre dove strani stanchi luccichii m’infestano la mente e poi le tende capovolte e i cd sparsi sul parquet e i libri non letti e quelli inutili ma la differenza non esiste tutto si dissolve le pareti si scardano i tetti crollano e ancora mi rimetto al cospetto del vuoto silenzio delle diciottoezeronove datemi la F che s’inceppa sulla tastiera e poi la solita notte nera come un occhio nero ma quanto è dolorosa la notte? ma quanto è doloroso il dolore? e il solito cane guaisce e la delusione quando scopri che il tempo non ha regole tagliami le vene risucchiami via l’anima ficca un paio di S a caso e poi la F datemi la punta dell’iceberg datemi la F e la K e aria calda fredda poi ancora calde sfumature kafkiane fremiti farfalle anche se l’ultima volta che ho letto Kafka avevo un’altra donna un’altra vita un’altra gita non come adesso nella quiete dell’inverno irpino sul divano di odiosa pelle gialla e cuscini verdi bordò e freddo inverno supino col cardio che impazza nel vento ferino nella solita notte nera ma quanto è doloroso lasciarsi morire? e lasciarsi vivere? come animali che si leccano le ferite maledetta F ma non bastano dieci cento mille ipotesi per consolarmi fottuta sporca consolazione denigrami che ho bisogno di lasciarmi morire e ogni volta che decido di smettere semplicemente non succede fottuta F di cosa ho bisogno? di occhi di balli di capelli spettinati di sentirmi inadeguato per provarmi mettermi alla prova e poi mi penso in assoluto disordine nel vuoto silenzio delle diciottoetrentuno dove strani abissi mi accalappiano solo parole di mutazione e delirio ed echi distorti di grazia di gesta preziose di ghigni scomposti nel secco silenzio delle diciottoetrentotto ti spiace se continuo se scrivo parole dissolte nell’acido se mi fermo potrei cadere se mi fermo potrei uccidere sotto il tetto di cemento giallino che vorrei mi cascasse sulla testa e l’odio la fame la rabbia non passano l’odio la -ame stronza di una F fredda come l’inverno irpino c’è posta in arrivo e poi vino e lasciarsi morire come stagioni e i vicini sbarellano non voglio certezze se scrivo solo parole a caso piene di respiri indemoniati estatici come animali che si leccano per bisogno ma quanto è doloroso il bisogno? e la paura del bisogno? e lo sdegno e le ossa scricchiolanti nel vuoto silenzio delle diciottoecinquantuno da solo in assolo di conti in sospeso col tempo che svirgola e inganna ti nutre e ti scanna ricordo la furia il dolore non basta accoppiarsi! mi manca mi manca la mancanza e il delirio e la deriva quando capisci che tutto è finito andato sparito inculato e la furia si schianta con tutte le forze rimaste ed è tutta ispirazione devastazione pressione premi forte perché il tempo scorre nel vuoto silenzio delle diciannove, Caino: miassento!
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3.
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Poesie messe ad asciugare || Roberto Acerra
per cui sono sceso ripetendomi mentalmente la lista di cose da prendere: dentifricio sale grosso latte parzialmente scremato scottex un cavolo (nel senso dell'ortaggio) e cosĂŹ pensando ho raggiunto il buon edicolante ho infilato il giornale in tasca e sono entrato al bar e ho chiesto un latte macchiato, possibilmente tiepido mentre pensavo dentifricio sale macchiato latte grosso tovagliolini un cavolo (nel senso dell'ortaggio) e il latte macchiato era una meraviglia di cremositĂ chissĂ il barista come ci riesce, ho pensato che avrei dovuto chiedergli che latte usa e intanto ripassavo la lista a memoria dentifricio parzialmente cremoso latte macchiato il giornale un cavolo (nel senso dell'ortaggio) e sono entrato nel minimarket accanto mentre davanti a me entrava una ragazza a cui ho guardato le gambe i muscoli allenati allineati dentro i leggins neri mi sono detto non mi posso distrarre dunque ricapitolando biscotti interi un latte tiepido leggins neri un paio di gambe un dinosauro un cavolo (nel senso dell'ortaggio) mi sono trovato davanti allo scaffale del sale grosso, l'ho superato prendendo invece due enormi pezzi di pane e un barattolo di olive, mentre guardavo la ragazza alla cassa e mi sono ricordato del dentifricio, ecco, ecco cosa mancava ma quello lĂŹ che usiamo non c'era quindi ho pagato pane ed olive e sono uscito pensando il latte l'ho preso, il giornale anche, il dentifricio deve arrivare, manca un cavolo (nel senso dell'ortaggio) quindi mi sono messo in fila davanti al fruttivendolo c'era un consesso di vecchine che hanno svaligiato tutto arrivato il mio turno era rimasto un cavolo e un dinosauro (nel senso dell'animale) ho detto mi dia il dinosauro glielo incarto? ha chiesto il ragazzo va bene cosĂŹ, lo porto sulle spalle, ho risposto ed ho pagato e ora sono qui con un dinosauro in cucina che cerco una ricetta per cucinarlo prima che tu ritorni per pranzo
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Allora, picchiami. Veronica Falco
Siamo stati nella città del niente accartocciando i liquori. Le feste erano terribili così abbiamo inciso parole e macchie sopra ai muri. Siamo rimasti incastrati dentro strade. La macchina fucsia parcheggiata male. Il terremoto negli occhi che non vedono, le gambe penzolanti dagli alberi. Una mela in mano, il cristallo nelle orecchie. Signora dei gatti, cosa ci fai lì sul tetto? Sei una persona meravigliosa. Che ne sai se sono meravigliosa o no? Mi risponde lei. L’aiuto a scendere. Mi prende a schiaffi. Mi guarda negli occhi, profonda come il mare. La sabbia. Tutte le pietre come macerie, nazismo, dolcezza corpi ammassati. Odore putrido. Voglio dirti qualcosa di romantico, mi dice. Io allora l’ascolto mentre camminiamo. Togliti le scarpe mi dice. Qualcosa di romantico, dicevi. Mi tolgo il cappello. Mi tolgo le scarpe. Il cappello no, mi dice. Rimettilo. Cosa? le dico. Le scorgo il seno dalla camicia azzurro chiaro, rimango immobile. Cosa? Ripeto. Il cappello rimettitelo, idiota. Si sistema i capelli. Ha il rossetto sbavato. Cammino con le mie scarpe in mano. Lei mi dice le puoi anche buttare. Ma mi servono le dico. No. Buttale. Butto le scarpe. Sotto di noi le rane strillano come fossero
prese dalla bufera. Sento la luna abbassarsi e abbassarsi. Sediamoci qui, mi dice. Noto un filo penderle dalla gonna. Il bottone è saltato via. Fai la vita? Le chiedo. Lei ride e ride e ride talmente forte che mi viene un gran mal di testa. E’ bella, eppure c’è qualcosa nello spazio tra un suo occhio e l’altro, che mi spaventa. Ansimo come un cane. Sento il bisogno d’un bastone. Il bisogno di perdermi. Brancolare. Lei mi fissa indiscreta. Non ho mai fatto la vita. La bellezza si paga, caro mio. Ti sembra vita questa? Si sbottona la camicia. Intorno a noi nessuno. Una nuvola gigante copre la luna. Mi sento solo, sperduto. Il cappello poggiato su un muretto. Lei rimane parzialmente nuda. Vedo i suoi capezzoli arrossarsi nel semibuio. Posso fare l’amore con te? Le chiedo. Le mi fissa un po’, mi dice che è bagnata, che qualcosa dentro le trema. Però poi aggiunge, no. No, non posso. Ma io ti pago bene, le dico. Sì ma non posso. Vedi. Stasera mi sento così reale. Come se niente mi sfuggisse. La prendo dalle braccia e la attiro verso di me, prima per sentire i suoi seni sopra al mio petto sudato, agitato. Poi per coglierne la realtà. Lei si toglie gli orecchini. Me li mette in tasca. Poi mi guarda, ora in modo torvo. Mi
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Pastiche sussurra qualcosa nell’orecchio che non riesco a carpire pienamente. Hai da fumare? Mi chiede. Intanto s’abbassa la gonna e rimane in mutande. Posso vedere qualcosa colarle leggermente sulla coscia bianca, fino al ginocchio. Poi s’abbassa anche le mutande. Sono stupefatto dalla bellezza del suo corpo. E’ qualcosa di levigato e appiattito verso l’oceano. Inizio a piangere. Le porgo una sigaretta. Perché piangi? Mi chiede, mentre tira e tira. Le narici le si allargano. Posso pagarti, credimi. Posso pagarti bene. Permettimi solo di toccarti. Ho fame, mi dice. Ho fame ed ho sete. Conosci un posto nei paraggi? Vuoi farmi impazzire? Le chiedo. Lei mi prende una mano, la fa scorrere sui suoi fianchi. Sono così reale, riesci a capire? Così reale o santo dio. Così reale. Io a quel punto non ce la faccio. Sento un’erezione sviolinare liquido lucido sotto l’ombelico. E’ come se dovessi urinare oppure morire. Lei si tocca i capelli, poi l’interno delle cosce. E continua a dirmi d’essere reale. D’essere troppo. Troppo sì, ma soprattutto reale. Così io sto diventando pazzo. Pazzo come mai prima. Che cosa vuoi da me? Le chiedo. Lei mi costringe a sedermi su di un muretto. Mi si siede addosso. Non le chiedo niente. Inizio a baciarle tutte le parti più spigolose, rimanendo col fiato sospeso, lì dove lei non si copre. Lì dove non posso arrivare. Il magnetismo della sua schiena che respira goffa sul mio torace mi avvolge. Mi manca tutta la forza. Ne prendo un po’ dal suo viso. Ne squadro l’immagine. Le occhiaie. Allora inizio a rendermi conto di qualcosa che sta per svanire intorno a lei. Qualcosa di aleggiante. Mistico. Terribile. La abbraccio, sudo freddo. Cerco di tenerla qui con me, perché sta per andarsene. Divento uno specchio rotto, m’infrango sopra la sua lingua e non riesco più a parlare. Alfabeto. Divento il suo alfabeto.
E lei ride, mentre svanisce. O forse è la mia immaginazione. Lei ride. E continua a ripetere. Sono troppo reale. E io le grido che non ci credo. No. Io non posso crederci. Tu stai svanendo. Io non ci credo! Non sei reale! Lei continua a ridere, vedo la sua gola muoversi. Le immagini si sdoppiano. Tu mi vuoi far diventare pazzo. E’ il tuo unico scopo. Maledetta visione agnostica di niente. Di non conoscenza. Di non dio e non demonio. Tu mi vuoi far diventar pazzo. Pazzo. Lei apre le gambe, le immagini continuano a tremolare, a dividersi. Il suo sesso è sopra i miei pantaloni, ma non ne sento l’umidità, l’abbraccio. Lei sta venendo, lo so. Lo percepisco dal non odore. Dalle piume invisibili che stordiscono il mio cervello. La mia sagoma. Le case tutt’intorno. Inizia a muoversi. Ma non la sento, non ne posso toccare i contorni. E’ come impazzire piano, voler esplodere e battere i pugni contro qualcosa. Lei non c’è. Sopra di me. Lei non c’è. Non sei reale, allora le dico in un sussurro. Rendendo drammatiche tutte le porte sbattute e aperte e traslucide e portate via dal vento freddo come vipere e ovaie. Chiudo gli occhi, sperando che il fracasso mi si spezzi dentro. Che qualcosa si ricongiunga alla ragione. A qualche paradiso costruito da qualche parte. Io sono reale. Sono la realtà. Sono qui sopra di te. Continua a muoversi. Geme. Geme come un fantasma, geme incutendo timore. Paura. Freddo. Geme coi capelli che si diramano nell’aria. Io sono reale. T’ho detto che non ti credo. Lei si ferma. Mi guarda in volto, in un punto preciso, forse il naso. La vedo a tratti svanire, rievocare immagini consumate, e poi tornare. La sua voce è metallica però fine. Mi distrugge l’anima. Crea il tempo. Non mi credi? Mi domanda. Allora, picchiami.
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Pastiche La vita torna sui suoi passi – occhi bassi e niente da dire a nessuno, soltanto pensieri in testa al corteo di pretesti precari: comprare un regalo, del fumo, andare in giro, incontrare qualcuno che non incontreremo. Fogli come colombe si alzano da terra; piroettano in aria; lambiscono i rami; restano impigliati nelle reti arancioni per i lavori stradali. Il moto di cose inanimate predice il vuoto che appare nascosto dalle lamiere. C'è una forza che ci spinge e porta – Caritas Christi urget nos? No –: è solo il vento. Un Dio remoto dorme in cima ai campanili, sulle guglie, dove si annidano nembi; non risponde; si contempla nello specchio del cielo. L’assenza ha il colore di un ferro ossidato. L’assassino ha dimenticato il coltello in cucina. Sta per piovere, o forse no, e nessuna sorpresa ti attende all’angolo. Il terzo segreto è stato rivelato un po’ di anni fa, adesso bisogna camminare nella verità e non cercare sul volto i segni del morbo, dei sogni, delle pulsioni abnormi che tendono i nervi facciali in smorfie di contenimento. Bisogna fare i conti, e devi farli bene, con tutto quello che ha smesso di aspettarti, con tutti gli appuntamenti mancati – la strada è piena di fantasmi. Il mondo è crudele senza riti e il tempo scade senza sorpresa, ma a te non dà nessun preavviso. Perciò cammini, e ad ogni passo perdi qualcosa: si comincia quasi sempre da una matita, e poi ci si ritrova nudi, e forse mutilati, sul bordo di un pontile, dove vorresti ci fossero i suoi occhi a guardarti e non solo l’azzurro.
La vita torna sui
suoi passi
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Antonio Vittorio Guarino
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Ape Mitologica /\/ Fulvio Risuleo
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TUTTA
«Mamma, sono state le sirene?» «Amore mio, cosa dici? Và fuori da tuo padre, non è un posto per bambini questo. Non lo vedi che sono tutti grandi e tristi?» «Ma io…» «Ti ho detto di andare.». Mio nonno voleva un nipote. Avrebbe voluto un bel maschio, forte e robusto. “Buono per lo strascico!” come dicevano i vecchi di barche e di uomini, che erano vita allo stesso modo. Gli avrebbe insegnato ad ammorbidire i calli delle mani con i suoi unguenti preziosi e chissà quali segreti del vento e del sale gli avrebbe bisbigliato all’orecchio, con gli occhi in lacrime nel Libeccio delle uscite notturne. Del suo desiderio non ne aveva mai fatto segreto. E lo ribadiva assai spesso, anche guardandomi da testa a piedi, quando volevo seguirlo durante gli anni preziosi dei “perché?”. Lo vedevo, però, l’amore che provava mentre faceva smorfie strane davanti alle mie guance un po’ rosse di sole, le trecce spettinate e la piccola gonna capricciosa che svolazzava con la corrente. E molto prima dell’esperienza e del trascorrere della vita, seppi capire che dietro il ruvido di quella pelle batteva la sconfinatezza del cuore di un uomo semplice, rude e anche buono. Sosteneva fossi come la lattuga di mare, fastidiosa e d’intralcio alle paranze, ma lo faceva con quel sorriso incagliato tra le rughe che sapeva
illuminarmi le mattine assonnate di una rimpianta curiosità infantile. Così, quando seppi tacere e aspettare il consenso del mio capitano, cominciai a imbarcarmi fantasticando su avventure, pirati e balene. Prima di arrivare al largo, dove in silenzio andavamo a fermare il tempo, guardavo scorrere la pellicola del cielo mettendomi distesa e comoda nel groviglio del filo di canapa annodato a mano. E quando finivano le nuvole da contare, ero pronta a chiudere gli occhi per ascoltare il rumore della prua che strappava la tela del mare, per farsi strada. Dolcemente. Mio nonno viveva di mare. Andava per mare, spesso a supplicare Nettuno, e cercava di non rimettere piede a riva senza le reti colme di quello che il mercato poco distante aspettava, e senza aver dato un prezzo e una paga a quel sudore che per tanti anni ha distillato, siero di pazienza e fatica. Il pescato era la salvezza e la dannazione di tutto il nostro paese, e di chi vi sapeva resistere senza cercare la rinascita nell’aria inquinata della città. E tutti, da secoli, grazie a quello sopravvivevano. Perché invece per “vivere”, alla gente di mare, bastavano il caldo dello Scirocco di Marzo e il sorriso della primavera a venire. A ogni battuta di pesca corrispondeva un’attesa. Le donne aspettavano al davanzale di casa la salvezza delle proprie famiglie; i ragazzini attendevano a riva per aiutare ad attraccare e sentirsi un po’ più grandi; i
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il commercio aspettava il guadagno. Ma capitava anche che quegli uomini riaffiorassero dal riflesso dell’acqua carichi solo dei loro occhi stanchi, e con le mani vuote: la tragedia del magro pescato e della perdita dopo tanta fatica consumata nella marea. Successe spesso, e uno di quei giorni tornammo a terra accompagnati da un tremendo silenzio. Gli uomini ci misero poco a riporre tutto con cura, e ad abbandonare il peschereccio. Non mi accorsi di quanto si fossero ingrigiti gli animi finché non mi voltai a metà strada e vidi che il nonno era rimasto seduto su uno scoglio, con i piedi penzoloni tra le onde leggere e il capo troppo chino per quell’uomo che da sempre amava sbeffeggiare l’ardore del sole e guardare fisso e coraggioso la luce. «Per vedere lontano» diceva. Senza pensare alla violenza della mia intrusione in quella triste intimità, spinta da ingenua leggerezza, lo raggiunsi con i passi rumorosi. Zittita dallo sconforto del suo sguardo, mi sedetti con la piccola schiena adagiata alla sua e le gambe raccolte in un abbraccio. Restammo ad ascoltare le parole consolatorie delle onde. Poi fu lui a cominciare: «Ricorda che non devi mai avere paura del mare. Io sono triste, molto triste, ma non è colpa sua. Sono state le sirene. Le hai mai sentite le sirene quando andiamo a pescare? Sono belle. Sono le più belle voci del mondo. Loro non si vedono in giro perché hanno vergogna della coda squamosa che si ritrovano,
poverette. E per questo stanno sempre a cantare, e a parlare, e a dire cose ai vecchi marinai. Hanno la voce bellissima e lunghi capelli dorati, sciolti, che quando muovono l’aria portano i venti alle vele. Però i pescatori non hanno il tempo di ascoltarle, devono tirare le reti con i pesci. Devono portare da mangiare al paese… E allora, alle volte, loro si arrabbiano e fanno dispetti. E i pescatori sanno che quando le sirene non cantano e il mare è troppo silenzioso allora qualcosa andrà male. Portano via con loro tutti i pesci fino al giorno dopo. Vogliono che tutti diventino tristi per colpa loro. Ed io le accontento, così domani ritorneranno i pesci. Ed il mio sorriso. Ma tu non avere paura del mare, lui è sempre buono. E le sirene ascoltale e lasciale cantare.» Per la potenza di questo ricordo, aggrappato con infinito affetto alla mia memoria, pochi anni dopo lasciai la mano di mio padre per tornare di corsa all’ingresso della camera ardente. E facendo voltare verso di me tutti coloro che lasciavano l’ultimo fiore a mio nonno, gridai con un convinto sorriso: «Tanto io non ho paura. È tutta colpa delle sirene!».
Carmen De Sario
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Pastiche Io sono l'errore. Il verbo mancato,l'anomalia,il mancino. La frattura d'anima che rende il reale purulento. Sono colui che affoga ogni verità e la rende sterile (sotto la mentita regola). Lo sgomitare spavaldo e prepotente del violento. Sono lingua biforcuta,mani di sangue,assenza di dubbio,inaccettabile prevaricazione,osservanza all'onore e silenzio,scempio della vita. Tutto si fa materico e senza ritorno. Nell'abbraccio letale di ogni segreto,taccia l'umana parte che urla e si dimena,avvizzisce e scema. Io sono l'errore,l'ingiusto. Sono colui che non trema,la ferita,il male,il livido,la bocca che divora,la mano che uccide. E tu immane bene schiacci di me solo una stupida ombra,tu che sei generatrice e dardo. IO SONO CAINO. Daniela Bisin
IO E CAINO
(Elogio dell'ombra)
DIO è BUGIARDO,FALSO,MENTITORE, PEGGIORE DI OGNI UOMO. NON HA MAI DETTO CHI O COSA NOI SIAMO. SIAMO PEZZI SFUSI DI UN'IGNOMINIA SENZA FINE. E NEL MOMENTO Io DECIDO COS'E’ GIUSTO E COS'E’ SBAGLIATO NELL'ASSOLO DELLA MIA ANIMA,IO DIVENTO DIO,PIù FALSO PIù MENTITORE,SENZA TREGUA,SENZA FINE. SE FOSSI UN UOMO IO SAPREI CHE QUESTA VITA NON HA UN LIMITE CHE SIA UMANo,UN BISOGNO CHE SIA REALE,CIRCONCIDIAMO OGNI GIORNO COSì I NOSTRI DUBBI DISARTICOLATI,INFINITI,SENZA AVER BISOGNO MAI DI FERMARCI,DI GUARDARCI DENTRO. E' UN BASTARDO E CI GUARDA CON OCCHI TORVI E CI SPIEGA L'OMBRA E CI NEGA LA LUCE,NIENTE è COME SEMBRA,NIENTE. m
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Smascheramento Post(an)atomico /\/ Paolo Battista
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IL BO ///\///
ma non lo feci. Aspettai la fine della partita. Dopo lo fecero loro. I giorni seguenti dovetti improvvisarmi la loro Bodyguard, per quasi una settimana avevo il citofono preso d’assalto da orde fameliche di amici miei, che sapevano con chi abitavo, e non volevano farsi scappare l’occasione di prenderli per il culo), tornando a noi. Tralasciando i vari personaggi, ho sempre pensato, spiegavo a loro, che il pensiero umano dovesse essere misurato in volume. Questo vale anche per la politica ovviamente. Dopo Galileo o Copernico, non ricordo chi fu il primo, pensavo si fossero fatti passi avanti. La visione piatta della realtà in un certo qual modo poteva essere riconducibile a una visione bidimensionale del pensiero. Quindi in un modo o nell’altro ad una visone chiusa del pensiero, dell’uomo. Non a caso si parlò in seguito di umanesimo. Riuscire a vedere la politica ancora suddivisa in sinistra-centro-destra mi portava a quell’idea, tipo asse cartesiano x,y (con il centro ovviamente a fare lo 0 trovandosi su entrambi gli assi). Dico l’idea di una visione bidimensionale piatta. Forse più alla portata di tutti, o appositamente così per non dar modo alla gente di pensare. La mia visione invece era quella di avere di fronte una sfera, o comunque uno spazio tridimensionale dove muoversi, perché il pensiero a due dimensioni non ha senso né futuro. Si muove sempre sullo stesso piano senza la possibilità di esprimersi a pieno. Facili quindi anche i cambiamenti, gli scostamenti da una parte all’altra. Immaginare invece un terzo asse z dove muoversi. Avere la possibilità quindi di spostare il pensiero in uno spazio volumetrico, che ti apra la mente e non chiuda in schemi dettati e prestabiliti. Riuscendo ad appagare gli ideali di alcuni con quelli di molti, o viceversa in altri punti del solido con nuove coordinate e diversi posizionamenti. Forse questo creerebbe disagio e disordine. Invece di essere tutto deciso, organizzato e circoscritto. Forse si penserebbe di più, ognuno a modo suo. Forse gli assi cesserebbero a quel punto di avere importanza e ritornerebbe a essere l’Uomo il centro di tutto. Rimango convinto, allora, del fatto che il problema della politica è il volume. La politica non ha volume perché è una continua visione bidimensionale della realtà, che non ci appartiene più dai tempi di Galileo. Poi dopo tutto ciò, e mentre cercavo di raggiungere il bagno per vomitare, ho lasciato che il peggiore dei miei amici entrasse in casa e cominciasse a prenderli per il culo.
Politapatico
Ho sempre avuto una dimensione sferica della politica (questo lo spiegavo nel 2006, quando ancora a Roma condividevo lo stesso appartamento con due ragazzi francesi. E alla sera, sbronzi, visto che avevano l’esigenza di parlare in italiano per allenarsi con la lingua, discutevamo di tutto un po’. Diciamo che nonostante, nel loro paese avessero Sarkozy e Carla Bruni, secondo il mio pensiero di allora, una che lo avrebbe lasciato di sicuro dopo la carica di Presidente, per loro era inammissibile che esistesse in un paese civile come l’italia, un personaggio del calibro di B. In questo era difficile riuscire a dargli torto. Certo è che quell’anno poi si trasformò comunque in una grassa e grossa caricatura quando vincemmo la finale dei campionati del mondo di calcio. Mi ricordo che il pomeriggio prima della finale, tornando a casa per prendere il telefono che avevo dimenticato e poi andare a vedere la partita, mi trovai invaso da bandiere francesi appese ovunque. Le lasciai esattamente tutte al loro posto. Ero solo in casa, potevo strapparle, o
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Al garrote! Sto aspettando.Nella mia testa non credo ci sia un limite per definire la pressione cui sono sottoposto. La pressione delle ultime stupide mie ventiquattrore. Ogni ora che è passata sono rimasto sveglio, ho cercato di dare importanza ad ogni minuto che passava, fuggiva via. Ma come potevo riuscirci qui dentro. Come avrei potuto definire importante ogni istante senza usare la fantasia. Il pensiero. Eppure non sono riuscito a pensare che a niente. Ho passato la notte a graffiare il muro con le unghie fino a quando non vedevo uscire il sangue. Ho passato quest’ultimo giorno, ogni ora, ogni secondo a provocarmi volontariamente dolore. Quel dolore che mi ha fatto sentire vivo, ancora una volta, per un intero giorno. Ho provato quella sensazione per ore, come un brivido lungo tutto il corpo. Che mi dicesse di essere vivo, senza sforzarmi troppo di abituarmi al dolore, ma anzi graffiando ancora più forte sul muro per vedere consumate le dita. Per arrivare al massimo surplus di dolore. Le mani, a cosa mi serviranno poi queste mani. Il dolore invece mi tiene ancora in vita, mi dice che esisto, che sono qui e in nessun altro posto. Me lo mostrano le impronte sul muro. Lascerò che la storia racconti la mia vita nel ‘68. Io non sono stato capace di farlo, ho scritto il resoconto di tutto su questi muri con i grumi di liquido che escono dalle estremità del mio corpo. Io quando non ci sarò più, sarò quei grumi. Spero solo che rimanga attaccato un po’ del mio dolore. Quei segni lascino i graffi nell’anima di chi li starà vedendo. Saprà così dove sarà finito il mio dolore. È stato bello andare in giro per i cortei, protestare, ribellarsi prima della lotta armata e dei movimenti di liberazione. Prima i grandi movimenti
culturali, movimenti d’azione operaia e studentesca ma soprattutto movimenti liberi del corpo. Poi le missioni. Quanto poco ci sentivamo in colpa per autofinanziarci. Non ci pensavamo. Cosa significasse essere liberi, in un Paese dove non c’è libertà e il fine giustifica i mezzi. Se derubavi, rapinavi. C’era sempre qualcosa di più importante sotto e c’era chi non lo capiva, chi faceva fatica ad accettarlo, chi lo combatteva. Noi ci giustificavamo perché eravamo migliori. Così invece pensavamo. Adesso invece ho paura, anzi mi sto cagando proprio addosso. Per questo continuo a flagellarmi, sono le ultime volte che potrò ancora dire di essere vivo. E voglio godermele fino alla fine, voglio sentire il dolore scorrere piano, a lungo. Non tutto in una volta, ma godere fino all’ultimo della mia vita. E questo è l’unico modo che ho per farlo. Mi hanno tolto tutto. Le lenzuola, i lacci delle scarpe, pentolini e posate. Qualsiasi tipo di oggetto nella mia stanza, non c’è. Ci sono solo io, mezzo nudo in pochi metri quadrati. Non lascerò ancora una volta che m’impediscano di essere vivo. Prima di portarmi via. Devo continuare. Con forza, con le dita dei piedi. Con i gomiti. Con la faccia. Voglio strofinare tutta questa vecchia pelle di dosso. Continuare a vivere ogni secondo. Solo il dolore mi hanno permesso di tenere, voglio sfruttarlo fino alla fine. Prima di sedermi definitivamente. È ora. Tocca a me, mi stanno chiamando. “Al garrote!”. Stanno andando a prendere la sedia. Mi strangoleranno. Fino in fondo. Sono pronto, sono preparato. Non credo che sentirò molto dolore visto che mi sanguina tutto. È un peccato. Per loro. Non riusciranno a godere dei miei ultimi sospiri. Il dolore l’ho lasciato tutto lì dentro, appeso al muro. Non me lo porterò dietro questa volta. Ho paura. Non avevo calcolato gli ultimi minuti senza dolore, senza sentire di essere vivo. Mi hanno tolto anche quello alla fine.
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Maura Esposito Helbones Artist