Pastiche n° 12 - ottobre 2012

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10/2012

n.12

schizza l’arte e la poesia

PASTICHE versicontroversi mensile gratuito

Uf - Marco Cazzato


Pastiche PASTICHE pensata e redatta da Paolo Battista. Grafica e impaginazione a cura di

Moodif www.facebook.com/pasticherivista http://issuu.com/pasticherivista

Collaboratori:

Chiara Fornesi, Fara Peluso. Cari amici, precisamente un anno fa, nell’ottobre 2011 nasceva Pastiche Rivista. Grazie a voi che continuate a leggerci e agli artisti che continuano a collaborare senza ricevere alcun compenso, questo nostro piccolo spazio condiviso può festeggiare il suo primo compleanno. Certo non ci aspettavamo di rimanere in corsa tutto questo tempo, di solito le riviste indipendenti hanno vita breve ma ce l’abbiamo messa tutta, e pur tra mille difficoltà, siamo ancora qui, con la speranza di esserci ancora domani e dopo domani e domani l’altro e l’atro ancora e ancora fino a quando non avremmo più niente da dire: ma la vedo difficile, perché c’è sempre qualcosa da dire; quindi preparatevi per un altro anno pieno di arte e poesia, pieno di vita, di speranza, di ribellione, di purezza. E allora al solito SCENDETE A CERCARE PASTICHE,

Per ricevere a casa Pastiche in abbonamento ( costo 10 euro ) scriveteci a: pasticherivista@gmail.com, indicando nome e recapito. Per inviare il vostro materiale ( poesie, racconti – lunghezza da concordare -, disegni, racconti per immagini, fotografie b/n, stencil e quant’altro ) scrivete a: pasticherivista@gmail.com oppure all’indirizzo: Paolo Battista, via F. Laparelli n. 63 int.1 00176 Roma

O LEI TROVERA’ VOI!

Mi rivolto, dunque siamo. (Albert Camus – L’uomo in rivolta)

Chi collabora con Pastiche lo fa senza ricevere compensi. La proprietà intellettuale resta chiaramente agli autori.

Pastiche rivista compie un anno. festeggia caon noi a: La riunione del Condominio via dei Luceri, 13 (S.Lorenzo) Roma mercoledì 24 ottobre 2012

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Marco Cazzato Sergio Gilles Lacavalla Luca Galvani Mariella Soldo Daniele Casolino Luca Soncini Simone Troja Jessica liguori


Pastiche

Fottutissimo nuovo anno, tanto attesa fine del mondo, sperma divino, freddo boia e Umbertino mangiato dai sensi di colpa, con due occhiaie da brivido e le spalle curve, la cresta ossigenata e i denti gialli. Il verdetto è indiscutibile: Veronica s’è beccata la malattia, mi dice scolandosi la sua Peroni grande, è sicuro! ...e io me sento propio ‘na merda. Ma che voi fa, sputa Gianni, ce semo passati tutti, e poi saltando all’ennessimo pensiero in fuga attacca: ha capito pecchè l’hanno cacciata via a quella che ce dava le pensioni? Perchè, chiedo io intromettendomi come una lama nelle budella. Pecchè se rubbava nun so quanti euri da sopra li mensili, brutta stronza, facce magnà pure a noi...se vede che quarcheduno s’è fatto puzzà er culo e l’hanno cantata de brutto. Je sta bbene, blatera Olimpia con gli occhi schizzati. Je sta bbene sì, aggiunge il Biondo, dice che l’hanno radiata, l’hanno cacciata via, lei e quer culone grosso che c’aveva, lo dicevo io che de quella nun c’era da fidasse. Vestito di tutto punto il Biondo, con una camicia grigio verde e un jeans nuovo di zecca ci dice che forse ha trovato un mezzo lavoro dal tappezziere dietro via Antonio Tempesta. Er lavoro de la bonanima de mi padre, aggiunge, e freneticamente s’infila una mano nelle mutande per sistemarsi l’armamentario. Lisa invece si sfoga con Olimpia confessandole l’ennesimo litigio con Mario. Ormai nun lo sopporto più, ogni vorta che beve finisce che ce menamo, e poi sorella mia me lo ritrovo che me segue

ovunque come ‘n gatto cor topo, l’ammazzerebbi! Vojo fa ‘na canna d’erba prima d’annà dar tappezzaro, strimpella er Biondo, dateme ‘na sigaretta, e nel giro di due leccate l’odore di maria si spande sul marciapiede pieno di sputi e bottiglie vuote. Mi siedo sullo scalino e aspetto che la canna arrivi a destinazione ma quello che becco sono solo fumo di scarico e lamenti. Aoooo, ma nun c’avemo ‘na lira pe pija ‘na bira?, mi chiede Gianni che inizia a spulciarsi nelle tasche come farebbe un barbone che sa di non avere un soldo. Li ha spesi già tutti per la sua prima pera mattutina e adesso come al solito si lamenta perchè tutto è come sempre. Tiro fuori un euro e glielo passo. Grida qualcosa ad Olimpia che aggiunge i restanti venti centesimi bestemmiando per la pretesa ossessiva del suo uomo. L’artra notte è arivato, continua Lisa chiusa in un giubbino amaranto, e ha iniziato a strillà che l’avevo tradito, che lui m’aveva visto co ‘n marocchino, che stavamo a parlà, a ride, e allora ‘mbriaco fracico m’ha presa pe le gambe e m’ha trascinata fori da la tenda. Te dico nun c’ho visto più, ma lui ha iniziato a daje de matto e la mattina me so’ ritrovata du’ lividi sopra le costole. Li soliti bastardi, frigna Olimpia solidale, te dico che pure io ‘na vorta, quanno ancora stavo su la strada, ce stava ‘n pezzo demmerda che me seguiva dappertutto, me pedinava, me minacciava, fino a quanno ‘na notte me lo so’ ritrovato de dietro che voleva menamme...e fortuna che c’erano ‘n par de amiche mie, sennò finiva propio

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Pastiche cografia. La cinica infermiera ci da il numeretto e c’invita ad accomodarci nella sala d’aspetto. Silvia è visibilmente preoccupata, cerco di farla sorridere con qualche stupida battutina e un poco funziona. Sono sicuro che non è niente, le dico mollandole un bacio sulle labbra dipinte. Poi ce ne stiamo seduti in silenzio per un pò con i pensieri che sbattono da una parta all’altra dei cervelli, guardandoci intorno, rendendoci conto del dolore che ci circonda, cercando di non pensarci, stringendoci la mano con la speranza di uscire al più presto da ‘sto posto del cazzo. Quando l’infermiera, truccata come una battona, chiama il nostro numero Silvia la raggiunge seguendola nella stanza della verità ed io mi alzo e vado al cesso, inizio a sudare, ho voglia di farmi, ci metto un pò a trovarlo, poi da lontano vedo la scritta W.C. appicata alla parete. Entro guardandomi intorno come un sovversivo, c’è puzza di piscio ma è normale, preparo tutto rapido come un prestigiatore, strappo un pezzetto di carta igienica, sfilo la cinta dal jeans nero e la stringo al bicipite, la solita vena è andata, ne cerco un’altra tastandomi con calma, piccoli colpettini con le dita, viene fuori la cefalica, continuo a colpirla per vederla in tutto il suo splendore violablu, alzo l’ago e lo punto come fosse un diamante, per un secondo mi tornano in mente le parole del Biondo che dice: statev’attenti! ma subito mi passano dalla testa non appena l’ago mi trapassa la vena, schizzo di sangue, tiro lo stantuffo leggermente indietro e come un virus la macchia rossa si spande nell’insulina tiepida, smetto di sudare, il tempo si ferma, tiro giù lo stantuffo, il tempo si ferma...vuoto...faccio per alzarmi ma scivolo...vuoto, nero, fine, vuoto, a terra, nero, cado, vuoto... fottuta fineFottuta fine del mondo.

brutta. Poi improvvisamente vediamo un camion dei pompieri che strimpella da matti con la sua sirena stonata, si ferma cento metri prima del Ser.T dove un mucchietto di persone sta guardando verso l’alto. Io, il Biondo e Umbertino ci spingiamo per capire cosa succede e scorgiamo un cane nero e grosso in bilico sul cornicione di uno dei palazzi di via Casilina. Il cane continua ad abbaiare impaurito, qualcuno dal basso urla: sta buono Zeus, buono; poi la scala si allunga, un pompiere sale e recupera l’animale stordito da tanto casino. Tutto finisce per il meglio, almeno per una volta! Ha capito che storia!, chissà come c’è arivato lassù, frigna Umbertino che poi però s’attacca al telefono per sentire lo spaccia. Comunque statev’attenti, sputa il Biondo, che ‘n giro ce sta ‘na robba demmerda, ho sentito che l’hanno tajata co quarche strana sostanza e quarcheduno ce stava a rischià la pelle. Dopo questo macabro avvertimento Angelo svanisce per il suo appuntamento di lavoro e Umbertino s’invola sotto al Supermercato per buttarsi nelle vene questa brutta giornata del cazzo. Io invece tengo il mio per dopo, vado in farmacia per comprare fiala e spada e aspetto Silvia che arriva dopo pochi minuti con un grosso sciarpone di lana verde e una sigaretta tra le labbra. Mi chiede d’accompagnarla in ospedale per un’ecografia al seno. E’ nervosa, e spaventata. Palpandosi il seno si è accorta di un ospite sgradito alla base del capezzolo e adesso non vede l’ora di sapere cos’ha. Vedrai che non è niente, le dico e chiedo a Bruno e Chiara che intanto sono comparsi più sconvolti del solito di prestarmi il loro Scarabeo bianco e in venti minuti arriviamo a destinazione. Il Policlinico è incasinato come al solito, camici ambulanti, facce pallide, bambini impauriti, mamme incinte, vecchietti in sedia a rotelle, e puzzo di morte. Ci accingiamo nel labirinto di corridoi e scale che rendono gli ospedali dei luoghi stranianti e affascinanti, chiaramente sbagliamo porta un paio di volte ma alla fine troviamo il reparto giusto per l’e-

( FINE )

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Pastiche

atellite of love L’aria, strana e dolce di nuvole d’acciaio riflesse sul tavolo, dice che non basterà la pioggia imminente per bagnare Laura. L’aveva letto anche lei sul libretto accluso al nuovo disco di Ani DiFranco. Ani dice che non ha bisogno di nessuno per sentire la pioggia. Anche se lei ha qualcuno. Un marito e un’amica da amare il pomeriggio. Laura è in piedi, poggiata con la schiena alla parete vicino alla finestra che dà sul pomeriggio scuro senza una temperatura in particolare. L’unica è quella dei loro corpi (in)difesi. Addosso ha una canottiera bianca corta che le lascia scoperto l’addome muscoloso. Il pube è nudo. Sul pavimento i suoi slip. Il basso ventre è depilato sopra un piccolo tatuaggio a forma di cuore con due iniziali (L K) incrociate come un abbraccio, per il resto, il suo pube, rigonfio con evidenza rispetto alla pancia piatta da ballerina, conserva la peluria bionda che copre a malapena le labbra vaginali, che in tal modo risultano sfrontatamente esibite. Kristen è inginocchiata davanti a lei sul pavimento lucido che duplica, alterandoli di un film di fantascienza, i palazzi oltre la finestra. È in mutande e reggiseno grigi come il cielo e quegli edifici e accarezza la pelle tatuata di Laura con la sua mano fasciata da cui traspare sul palmo del sangue. Sangue della notte scorsa che si è provocata per non sentire: non sentire più niente. Come sempre, ormai. Laura, abbassando il viso su Kristen davanti al suo sesso con l’odore già di eccitazione, quell’odore amaro e pungente che potrebbe anche nausearla, se solo lo sentisse fino in fondo come lei, ma adesso la sua amica respira leggera senza avvertire tutto, ogni sfumatura d’aroma, ogni variazione con la temperatura corporea e la sua umidità, ora, senza voler sentire la voglia del suo amore, dopo aver guardato fuori della stanza la città plumbea, dice: «L’ho fatto solo per te. Quando i peli saranno ricresciuti, potrai vederlo soltanto tu.» Si bagna il labbro superiore con la lingua. I peli della fica sono folti e chiari: un ciuffo biondo-castano, dove il castano è visibile solo in certi riflessi: si potrebbe dire chiarissimo, se non fosse che adesso le nuvole rendono tutto il suo corpo, pube compreso, quindi, come in un film in bianco e nero che fa predominare, soprattutto nei punti che ben assorbono le ombre, i toni scuri. Ma, a contrasto con la pelle bianca, quel biondo sporco la rende ancora più sexy. In fondo Laura avrebbe voluto essere come Kristen, con gli stessi colori – a volte: più che altro nel sesso. Kristen lecca il disegnino sull’epidermide pallida della sua amica e le dà un piccolo bacio. Il tocco delle labbra le provoca il primo tenue brivido, sollevando i pori della pelle. Quindi va di qualche centimetro più giù e le apre le labbra della vagina con le dita tirando delicatamente il piercing che le trapassa. Le labbra si gonfiano appena, scurendosi un po’, e un filo trasparente di secrezione le segue spezzandosi e scivolando sul labbro sinistro, solo un sottile filo, una scia appena percettibile di bava su una vagina altrimenti quasi asciutta. Come se quel filo preludesse a un piacere che sembra interrompersi subito, quando le labbra fermano il loro rigonfiamento e la clitoride rimane inerte, seppur del tutto scoperta. Laura la guarda con un sorriso accennato e porta il ventre più in avanti: «La mia clitoride e l’anellino di luce. Si dice che così si provi più piacere. Fino a perdersi dentro di sé e nel proprio amore. Anche questo è solo per te. Amore mio.» Kristen guarda ancora il sesso di Laura proteso sul suo viso, le strofina la clitoride per pochi secondi con

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Pastiche Solleva la bocca dal sesso di Laura, si leva il reggiseno, lasciando scendere i seni e facendo trasalire Laura in un attimo di sospensione del respiro alterato, e si porta sopra il suo corpo – Laura la guarda fissa con gli occhi ancora più lucidi. La bacia di nuovo sulla bocca, con foga, senza smettere di penetrarla, ora più forte. Le sta quasi facendo male. Le dita adesso sono due. «Tra donne si può scopare tutto il giorno, senza stancarsi... senza esaurirsi in un momento.» Le toglie piano le dita dalla vagina e comincia a strofinare il proprio sesso dalla peluria nera e ordinata su quello della sua amica, mischiando i suoi peli con quelli del suo amore che si aprono in alcuni punti al contatto per far toccare la pelle e le labbra vaginali; è quel contatto che cerca: le sue labbra vaginali bagnate su quelle appena umide di Laura. Inarca indietro la schiena, sollevando il busto dal suo corpo poggiando le mani sul letto ai lati delle sue spalle. Stringendo i glutei morbidi. «Poi, fare l’amore con un’altra donna è in un certo senso come fare l’amore con se stessi.» «Solo che a volte non ci si sopporta più, vero Kristen?» «Piantala Laura... siamo qui oggi, no?» «E per quanto ancora?» Kristen esita. Poi si riabbassa sul corpo di Laura, aderendo il suo seno su quello di lei, le loro pance respirano insieme, gli aliti si mischiano, la bacia ancora sulla bocca, ora con più delicatezza. Le accarezza un seno indugiando sul capezzolo per farlo inturgidire di più. Si toglie da lei e si lascia andare giù con la schiena sul lenzuolo, guarda il soffitto più scuro nel pomeriggio e fuori dalla finestra col cielo nuvoloso e umido. «E che importa tesoro, dai... cerchiamo adesso solo di stare bene... noi due, sole.» Laura si gira di lato poggiandosi sul gomito, si abbassa sul seno di Kristen e le lecca per qualche secondo il capezzolo che s’indurisce ancora. Le accarezza il sesso. Lo penetra piano con due dita piegandole alla fine sulla parte alta della parete vaginale bagnata. Toglie le dita e si abbassa con la bocca sul suo pube leccandolo tra la peluria nerissima e sulle labbra gonfie e scurite, sulla clitoride eccitata ed eretta, dentro la vagina sempre più bagnata, con la lingua che la penetra mentre le dita le tengono le labbra spalancate, per alcuni secondi. L’odore è più forte e Laura vorrebbe berlo, berlo tanto, ma non è ancora il momento, anche se dalla vagina già comincia a uscire una leggera e incerta eiaculazione. Kristen apre la bocca e chiude gli occhi. La spalanca, la bocca, arrivando a farsi male alle mascelle e

due dita, l’accarezza morbidamente con la lingua, poi toglie la bocca dal suo sesso e lascia andare le labbra vaginali. Le copre il pube con la mano. Laura si sfila la canottiera buttandola a terra e solleva le braccia toccando con le mani la parete dietro. Kristen le guarda il corpo nudo per intero, con i fianchi stretti che lasciano partire i muscoli dorsali che si allargano armoniosamente fino alle ascelle, le braccia muscolose, come l’addome. «Così potresti essere un ragazzo» le fa. Allunga l’altra mano sul piccolo seno della sua amica reso inesistente da quella posizione. Solo i capezzoli, estremamente grandi, dicono che è il seno di una donna. «Senza seno. Con l’addome muscoloso.» Le accarezza la pancia, soffermandosi sui solchi disegnati dai muscoli addominali, le tira l’anellino sull’ombelico teso. Apre la mano e lascia uscire alcuni peli tra le dita, il contatto lieve di quei peli sulle dita le piace. Poi le segue le linee muscolose della coscia. Il polpaccio durissimo – come i muscoli delle gambe. La caviglia forte, seppur snella, il piede con un cerotto vecchio di qualche giorno sull’alluce. Sporco. Sale di nuovo e le accarezza i glutei tondi e sporgenti che Laura contrae indurendoli di più mentre si sposta ancora un po’ dal muro per permettere alla sua amica di accarezzarla meglio. Kristen le entra con la mano tra le natiche dischiudendone il solco per penetrarle l’ano con un dito, che, serrato forte, si lascia andare in un attimo rendendo la zona di una morbidezza in contrasto con quel culo di marmo. Un piccolo antro tenero e accogliente in una statua di muscoli. Laura la guarda con gli occhi ora appena lucidi che le illuminano le pupille verdi che riflettono il suo amore. Kristen si alza in piedi, toglie la mano dal sedere di Laura, senza levare l’altra dal suo sesso, la guarda in faccia e le tira indietro e su i capelli. «Un maschietto... un ragazzo con i capelli corti.» «Se fossi un ragazzo, ti piacerei di più?» Kristen la bacia sulla bocca, avendo cura di lasciarle un poco di saliva sulle labbra e il mento, si toglie gli slip e la fa sdraiare sul letto. Le apre le cosce e riprende ad accarezzarle il sesso piegata sulle ginocchia. «No, mi piaci femmina. Con la tua fica.» Le lecca ancora il sesso, più a lungo sulla clitoride, lenta e poi a piccoli colpi con la punta della lingua, le penetra la vagina con un dito. «In una donna puoi entrare dentro. Puoi frugarla in fondo. In un uomo non si può: è tutto in superficie. In una donna, è tutto dentro... puoi penetrarla fino all’anima.»

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Pastiche inibire qualunque parola. Gli occhi li serra come per cancellare ogni immagine e ridurre tutto solo a quel piacere. «Sei così bagnata Kristen. Il tuo odore, è così forte. Buono.» Kristen riapre lentamente gli occhi lucidi e porta la mano su quella della sua amica. Le dita s’incrociano e si stringono. La stanza si oscura ancora mentre comincia debolmente a piovere. Ora è di nuovo Kristen sopra Laura, e lascia scendere un filo di saliva sul sesso della sua amica tenuto aperto. Lo strofina bagnato di sé con le dita – bagnate anch’esse per essersele portate in bocca; e nella bocca della sua amica. Dentro e sulla clitoride. Lo lecca ancora. Tutto. Odore di sudore e saliva. Sapore dolciastro. I peli, in alcuni punti, attaccati tra loro e sulla pelle. «Anche tu adesso sei bagnata.» Laura accenna un sorriso triste guardando il soffitto con le ombre di fuori e della pioggia e comincia ad accarezzare i capelli di Kristen tra le sue cosce che continua a leccarle il sesso senza bagnarlo, se non della propria saliva e di quel poco di sudore tra le gambe. «Quando lei mi lasciò» dice Laura. «Per andare con un’altra ballerina, mi sembrava di impazzire. Piangevo sempre. E mi masturbavo di continuo. Fino a farmi male. Non riuscivo più a fare niente. Sono stata malissimo.» Kristen solleva il viso e guarda Laura che non la guarda e seguita a fissare il soffitto, con la faccia più triste che avesse mai visto, poi riprende a leccarle il pube. «Avevo resistito anche a tutte quelle botte che mi aveva dato mio padre quando mi aveva sorpresa a baciarmi per strada con lei. Mi diede tante di quelle botte, da tutte le parti, che non capivo più niente, neanche da dove arrivavano. Per più di una settimana mi sono sentita dolorante in ogni centimetro del corpo. Questa me l’ha fatta lui» (Laura si passa un dito sul sopracciglio sopra una piccola cicatrice). «E anche questa» (si sfiora un altro segno sul ginocchio). «Mica la danza.» ( FINE PRIMA PARTE - Continua )

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ergio illes acavalla


Pastiche

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Pastiche

Luca Galvani - Chewing Gum parte 3 e 4

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Da “ Monologo metropolitano “

Abitare molti cuori e, in certi giorni, non sentire affinità, neanche con la propria pelle. Redimersi nel tempo, nelle sue vite che verranno, senza nome, prive di volto, con un profumo che resterà, nostalgico e gentile.

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Da “ Monologo metropolitano “

Nessun filo umano reggerà quest’impossibile sospensione. Amare nell’invisibile, in un silenzio tattile e fugace. Solo gli occhi vibrano, in questo freddo invernale, tra visi sconosciuti. Il mondo è per nessuno.

Dopo aver visto arrampicatori morire in alto, ho deciso che la mia vita doveva essere un festino. Scrittori che pensano di finire tra le colline di Hollywood, mentre sui loro quaderni scarni si perdono in frasi prive di sintassi. In questi anni senza cifre, la poesia appare come un errore.

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Mariella Soldo


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Pastiche

MIMO

Appena arrivato in paese e posteggiato il carro proprio dove la sua lunga esperienza vagabonda gli aveva insegnato avrebbe raccolto più pubblico, legate le asine al fontanile per il giusto ristoro, tirò indietro le braccia a scricchiolare una per una le proprie vertebre e allargandole a mo’ d’uccello guardò la luna e sorrise. Domani sarebbe stato plenilunio e avrebbe avuto la luce e la magia necessarie a quattro giorni di repliche. La stagione stava volgendo al termine ma l’autunno clemente non dava ancora traccia di sè. Si guardò ancora un pò intorno soddisfatto nel riconoscere i primi sguardi curiosi affacciarsi timidi dagli usci e dalle finestre delle casette che lo circondavano. Aveva scelto bene, così a vista d’occhio poteva ben aspettarsi un pubblico di almeno quaranta o cinquanta bambini per il giorno dopo. Accese il fuoco e si addormentò serenamente. Alla mattina si svegliò di buon’ora, sapeva che aveva poco tempo prima che i bimbi scendessero in strada e quella era l’ora perfetta per attirare la loro attenzione e assicurarsene la presenza alla sera. Con il gesto di un mago tirava via dal carro il telo bianco che lo rivestiva e lo stesso telo avrebbe vestito di bianco il terreno brullo, nella magia che rende ogni teatro un teatro. Le sue scenografie, le sue macchine di scena, le sue tele, venivano con calma preparate, quasi a disvelare in un’improvvisa e concentrata primavera le corolle colorate di mirabolanti fiori. La prima parte del gioco era già fatta e prima del tramonto erano accorsi in centinaia dalle campagne vicine e in prima fila, con gli occhi sgranati e le orecchie aperte, i bambini. Le orecchie si sarebbero riempite solo del suono della notte, perché la più forte magia di Arturo era la sua voce, l’assenza della sua voce. Eppure il suo corpo raccontava con una forza capace di catturare il più svogliato e indolente ubriacone dell’osteria e il suo silenzio sapeva zittire anche le sue molestie alcoliche. I racconti si seguivano uno ad uno senza soluzione di continuità. Sapeva che aveva pochi giorni, quindi Arturo concentrava tutta la sua opera a raccontare il più possibile, a far conoscere il più possibile le sue storie. Le storie di Everyone, la storia del mondo. Il primo giorno era dedicato ai miti, a dar forza al senso di magia e di destino che magistralmente lui rappresentava. Zeus crudele e volubile, Gea materna e gelosa, Venere ed Eros a raccontar dei mille intrecci di ogni letteratura possibile. Lui non raccontava delle divinità, lui diventava divinità esso stesso, Pan, cantore senza suono di ogni conoscenza del mondo. Tutti, come al solito erano conquistati, avevano sentito cose di cui non conoscevano

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Pastiche

neanche l’esistenza e nessuno quella notte, come ogni Prima di Arturo, riuscì a chiudere gli occhi invaso dai sogni che Arturo aveva disvelato. Il secondo giorno diventava terreno e cominciava a raccontar di storia, di re malvagi e tiranni, di eroi virtuosi, di paladini fuor di senno a conquistar giustizia, fino ai martiri di ogni ora. Giocoliere quasi crudele con l’incendio finale della seconda sera, a dar fuoco all’eroe, sconfitto e vincitore ad un tempo, vedeva negli occhi dei bambini nascere la fiammella per troppo tempo soffocata della giustizia. E il terzo giorno allora passava a innamorarli: era la volta della commedia, da quella degli amanti perduti, a quelli riuniti; in mille Romeo e Giulietta il suo corpo si trasformava, stravolto delle sue danze arcane che sapevano dire più forte di qualsia voce mai udita, mute. L’amore si univa in quella notte al senso di giustizia della precedente e il fuoco giustiziere del giorno prima si trasformava, in quei visi astanti e incantati, nella fiamma della passione. Arturo il più grande mimo del mondo era famoso per accender passioni e coscenze, e la sua leggenda correva molto più veloce delle sue asine. Quella notte tutti si fermarono accanto ad Arturo, in un baglior di lucciole e di silenzio; silenzio che sapeva. Alla quarta sera Arturo fu quasi costretto dalla folla a cominciare prima, quel popolo di cui aveva acceso sogni, coscienza, senso di giustizia e passione lo reclamava indomito, agitato, quasi a essersi risvegliato da un lungo sonno. Raccontaci, raccontaci ancora, tutti gridavano e i bambini più forte degli altri: STO-RIE STO-RIE Arturo aprì a ventaglio il tableau per le Rane di Aristofane, se avesse avuto voce avrebbe gridato “Siore e siori, siate pronti a ridere e indignarvi, stasera….LA SATTTIRRAAAAAA”. Si girò verso il pubblico e il suo sorriso più grande di ogni sorriso di clown si spense improvviso. Quattro cavalieri svettavano alle spalle del pubblico che rimase ammutolito. Si sentiva solo lo sbuffare nervoso dei cavalli. Un quinto Cavaliere con un pennacchio altissimo ed in mano una pergamena, si fece avanti mentre le due coppie si spostarono di lato come le calate di un sipario per l’entrata in scena. L’uomo guardò negli occhi con un sorriso agghiacciante il mimo immobile. “Arturo de Flamboise, marchese di Peigeon, principe scomunicato e figlio bastardo, non ti è bastato il taglio della lingua per farti imparare la lezione, eh?” Arturo era immobile, impassibile, nessuna rabbia nessuna violenza dal suo sguardo di risposta, solo una monumentale, eroica inamobilità. Il cavaliere ciuffato srotolò la pergamena. Si schiarì la voce e come istrione d’opera buffa cominciò a declamare con voce stridula “In nome dell’Eccellentissima Maestà, Re e Padrone di queste terre e queste genti, dignitario diretto per stirpe divina della Sapienza e della Coscienza, si condanna a morte per impiccaggione immediata il qui presente Arturo de Flamboise, marchese di Peigeon per violazione inammissibile alle leggi per la diffusione culturale alle genti” Quella notte stessa il corpo di cinque cavalieri venne dilaniato dalla folla inferocita.

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DANIELE CASOLINO


Pastiche

Luca Soncini

Spazio ridotto

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Pastiche

Carriera Ed è una cosa triste. Qui, al centoquindici della follia abbiamo bisogno di altri quattrocentottantacinque palloncini per prendere il volo. Ed era una cosa triste. Era una cosa triste quando ce ne stavamo ai bordi delle strade con le mani spellate. Una lacrima di gelo sulla guancia, il cane a scaldarci le palle. Qualcuno di noi aveva anche perso una gamba, un orecchio, quelli più fortunati un occhio, fa sempre impressione vedere uno senza occhio. Ed era una cosa triste. Ma a nessuno interessavano le nostre perdite. Noi non eravamo altro che una cosa triste, un ingombro nella strada. Una puzza di piscio da scansare, un piede mutilato da cui spostare lo sguardo. Un giorno un uomo passa e dice che gli dispiace. Di che cazzo parli? Gli dico io, e quello dice che non è giusto. Allora gli chiedo come cazzo si permette di venirmi a dire cosa è giusto e cosa non lo è. E lui mi guarda male, con lo sguardo di chi voleva solo essere buono e gentile, e dolce e caritatevole, e smielato e falso e vaffanculo. Che altro vuoi, gli chiedo. Mi alzo, aiutandomi con la stampella. Se vuoi proprio fare qualcosa per noi allora dacci un lavoro, gli dico. E lui si allontana di un passo, forse per evitare il mio fiato che minaccia il suo respiro. Vacci piano amico, dice lui facendo un altro passo indietro. Gli faccio notare che è un bel pezzo di merda, e che era stato lui a dire che gli dispiaceva e tutte quelle stronzate. Gli faccio notare che è un ipocrita del cazzo come tutti gli altri, noi compresi. Se non ci trova un lavoro, delle sue parole non ce ne facciamo niente, che

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Pastiche se le ficchi nel culo e che si fotta. Ma non è certo colpa sua poveraccio, pensa quello. Lui fa il cameriere, e quegli stronzi se proprio volessero se lo potrebbero trovare un lavoro. Visto che lui, quello, si spacca il culo otto ore al giorno e quelli, noi, non fanno niente dalla mattina alla sera, due euro non glieli da neanche da morto. E invece quegli stronzi non se lo possono trovare un lavoro. E non se lo possono trovare perché non vogliono leccare il culo al cliente del cazzo, o abbassare la testa agli insulti del capo, che sembra sia l’unica persona che sappia lavorare. Non lo possono trovare perché non vogliono sollevare i pesi con le braccia, lo vogliono fare con il pensiero. Quegli stronzi, sono gli stessi stronzi che tre anni fa andavano a sbattersi per aprire il bar alle sei di mattina e rifornire il catering di tutto il cibo di cui aveva bisogno. Quegli stronzi, sono gli stessi stronzi che si caricavano sulle spalle pacchi e pacchi per le scale interne al bar, che portano alla pasticceria sotterranea, dove non c’erano neanche le finestre. Quegli stronzi, erano gli stessi stronzi che si prendevano gli insulti al telefono, lavorando per il call center di merda, gli stessi che pulivano i cessi della biblioteca o che andavano a disinfettare la palestra alle dieci di sera, due volte alla settimana, per cinquanta euro al mese. Gli stessi che pulivano la merda di cavallo, in nero, sottopagati, per dieci ore di lavoro giornaliere. Quindi guardo il cameriere dritto in faccia e gli dico che se li può tenere i suoi soldi del cazzo. Che anche se non ha detto niente lo so benissimo cosa pensa, e che nessuno di noi vuole tornare a vendere il proprio culo. E non gli faccio aprire bocca perché avanzo un altro paio di passi, con scarpa da ginnastica e stampella, e gli agito un dito contro, e gli dico che il lavoro di merda lo abbiamo tutti lasciato perché ci eravamo rotti le palle di succhiare il cazzo per due lire. La sua espressione

la dice lunga e non gli basterebbero neanche quattrocentottantacinque palloncini per volare. E così se ne va lungo la strada, con la camicia dentro la plastica, appena presa dalla lavanderia, appoggiata sulla schiena. Lo sapevo che era un cameriere. E allora mi rimetto seduto e apro il libro, con un malumore nell’anima talmente nero che neanche dopo tre giorni di trincea. Faccio un gesto di saluto a quelli dall’altra parte della strada, quelli del centoquattordici, i laureati in legge. Loro mi urlano che succede, ed io rispondo niente, sto rileggendo la tesi di merda su “ontologia e opera d’arte”, ma quelli mi chiedono cosa è successo con il tipo di prima, ed io rispondo che non è successo un cazzo di niente. Allora mi dicono che al Centodiciotto quelli di economia hanno finito di intagliare la scacchiera, e se voglio c’è un torneo questa sera. Gli dico no grazie e mi rimetto a leggere. E così, qui al centoquindici della follia fa veramente freddo, e ce ne stiamo con le mani in mano. Ma non senza far niente, cerchiamo di scaldarle. Al centoquindici abbiamo già lavorato, già sudato e già leccato culi. Ma non faceva per noi. Così abbiamo deciso di far carriera qua, per la strada. Era una cosa triste perché non eravamo folli schizzati, che tirano fuori un coltello e ti minacciano con la bava alla bocca. Non eravamo neanche quelli che urlano e sbraitano, ma quelli che non fanno nulla. Una depressione come cura della personalità, ecco cosa avevamo ereditato. Noi al centoquindici della follia abbiamo smesso di lottare, e ce ne stiamo giorni e giorni a pensare come sarebbe stato se. È una cosa triste perché se qualcuno chiede come stiamo, noi lo mandiamo affanculo.


Donnabionica - Jessica Liguori


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