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Anna Maria Melloni

QUANDO L’AZIONE DI UN SINGOLO VA A BENEFICIO DELLA COMUNITÀ

di Anna Maria Melloni

Folti capelli bianchi, il dorso nudo, nelle mani una torcia con la quale darà fuoco al sottobosco. Così è stato ripreso Conrad Maralngurra, un anziano di Nawarddeken, mentre brucia l’erba della sua terra per proteg Con questo scatto - Saving forests - Matthew Abbott vince il premio “World Press Photo Story of Year 2022”. Non solo. Con questa immagine il fotografo trentottenne apre - seppure ne. Gli anziani, dell’altra parte del mondo e di casa nostra, compiono azioni destinate a diventare buone pratiche, perché non si impegnano solo per interessi personali, ma allargano il campo d’azione e raggiungono la collettività. La foto dell’anziano indigeno australiano mostra come la comunità Mamadawerre, in Australia, difende la foresta da incendi altrimenti incontrollati che potrebbero distruggerla, con una tecnica detta “combustione a freddo”. Nell’immagine il fuoco, e l’impegno di un uomo. Ma anche il racconto di una conoscenza fondata sull’esperienza: quella che si ottiene con uno sguardo diverso sulle cose. L’anziano sa che l’incendio della foresta potrebbe essere ancora più devastante se l’area fosse piena di detriti e li brucia per evitarlo. Il suo gesto è un atto di responsabilità in funzione degli altri, dell’ambiente e della comunità in cui vive. Gli anziani, dell’altra parte del mondo e di casa nostra, compiono o possono compiere azioni capaci di contribuire al benessere della comunità, o a proteggerla. E a dirlo non sono solo le storie in cui ci imbattiamo ogni giorno ma anche i numeri. Qualche anno fa, prima che la pandemia resettasse molti aspetti sociali, un rapporto del Censis, Gli anziani una risorsa per il Paese, aveva evidenziato come in Italia circa un milione di anziani fosse impegnato in attività munità. Anche qui in Italia, a Roma e in al no lavori di manutenzione e decoro perché le aree verdi urbane - spesso abbandonate e senza gestione alcu possano essere messe in sicurezza no. Si occupano di arare prati, riparare giostre, svuotare cestini. Sono gesti che rendono fruibili luoghi di aggregazione e scambio intergenerazionale. Mettersi al servizio della comunità con azioni anche quotidiane è possibile, diventano “buone pratiche” da emulare. E se appaiono in controtendenza rispetto alle regole stabilite forse è un buon segno, perché il cambiamento inevitabilmente tende a scardinare le logiche esistenti.

IL SUCCESSO È FIGLIO ANCHE DEL DESTINO

di

La retorica del successo ottenuto solo grazie ai propri realtà. Spesso, infatti, non c’è relazione tra lavoro duro e talento; contano anche la famiglia di appartenenza, il contesto sociale e, non ultimo, il caso

Quando Bill Gates aveva dodici anni la sua scuola, un istituto privato nei sobborghi di Seattle, comprò un computer. Era il 1968: a quel tempo non se ne trovavano molti nemmeno nelle università. Il dodicenne fu conquistato da quella nuova costosissima tecnologia, e iniziò a passare tutto il tempo libero nel laboratorio di informatica. Più avanti, quando la scuola esaurì i soldi per mandare avanti il laboratorio, Gates, che era ancora alle superiori, trovò lavoro in un’azienda di computer tramite il padre di un suo compa neanche questo fermò la sua passione. Con un suo amico scoprì che nel di Washington c’erano computer che in certi orari non venivano utilizzati, e i due amici presero l’abitudine di entrare di nascosto per esercitarsi. un programmatore esperto, in un momento storico in cui ce n’erano pochissimi. Bill Gates si era trovato al posto giusto al momento giusto. Era andato a scuola in un istituto all’avanguardia. Il padre di un suo compagno l’aveva aiutato a trovare un lavoro nel campo che lo appassionava. Era cresciuto in una grande città americana e aveva avuto la fortuna di essere un adolescente nel momento in cui l’industria dei computer stava per esplodere. Se fosse nato dieci anni dopo, forse sa o il fondatore di un’azienda di successo, ma non necessariamente un pioniere. Era un giovane dalle capacità straordinarie e aveva un impellente desiderio di imparare, ma fu quella serie di incroci fortuiti a far sbocciare il suo talento. Siamo ossessionati dalle storie di individui eccezionali che hanno raggiunto il successo solo grazie al talento e al duro lavoro. È una narrazione che però ignora il ruolo importantissimo che hanno, nel nostro destino individuale, la famiglia e il luogo in cui nasciamo, il contesto storico e sociale, a volte anche il caso. È re diseguaglianze inaccettabili. Nel suo libro La tirannia del merito, il chiama “retorica dell’ascesa”: la promessa inesaudita per cui chi si sforza, rispetta le regole del gioco e lavora porterà il suo impegno. La merito tanto diverso dall’ideale aristocratico dello status che si eredita alla nascita. In Italia, solo un individuo su dieci fra quelli che crescono in una famiglia a basso reddito riesce ad arrivare da adulto nella fascia di reddito più alta. La convinzione per cui chi

arriva in cima ci riesce solo grazie mento comprensibile tra chi non ce l’ha fatta. Quella convinzione, infatti, nella sua enfasi autocelebrativa, non tiene conto delle condizioni favorevoli che hanno portato a quel successo. Chi sta in vetta diventa incapace di vedere la propria fortuna per quello giovani privi di ambizione e voglia di lavorare, che torna particolarmente in voga all’inizio di ogni stagione turistica. Ha detto di recente un famoso me nessuno ha mai regalato nulla. Mi sono spaccato la schiena, questo ne. Invece oggi i ragazzi preferiscono tenersi stretto il weekend con gli amici. E quando decidono di provarci, lo fanno con l’arroganza di chi si sente arrivato e la pretesa di ricevere compensi importanti da subito». così. I trentenni di oggi sono entrati nel mondo del lavoro durante una crisi economica devastante, mentre i ventenni hanno mosso i primi passi durante una pandemia che ha tolto il lavoro a un giovane su sei. A dispetto di chi addossa la responsabilità della loro carenza di prospettive al mancato desiderio di impegnarsi e lavorare sodo, i dati puntano a un problema sistemico. Anche tra i trentenni che un reddito tra gli 8mila e i 16mila euro all’anno. Incolpare le persone di presunti fallimenti personali riduce il supporto a misure di welfare e impedisce di portare avanti un progetto di benessere collettivo. Equivale ad assolvere l’organizzazione sociale dalle proprie colpe, a spostare sull’individuo quelle che spesso sono distorsioni del sistema. La retorica della responsabilità personale non cattura la realtà di relazione tra lavorare duro e il successo, o anche solo la sicurezza economica. dizioni di rampante disuguaglianza e di mobilità bloccata, ripetere il messaggio che siamo responsabili della nostra sorte e meritiamo quel che abbiamo erode la solidarietà e demoralizza i lasciati indietro dalla globalizzazione». In una società meritocratica la competitività diventa valore assoluto, a discapito di qualità come la gentilezza, l’immaginazione, il coraggio, la cooperazione. Doti indispensabili per essere buoni cittadini.

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