Edgardo MANNUCCI

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EDGARDO MANNUCCI edizioni roberto peccolo livorno n. 78

Galleria Peccolo I - 57123 livorno/italia piazza della repubblica, 12 tel./fax 0586 888509 e-mail: galleriapeccolo@libero.it http://mostre-e-dintorni.blogspot.it (orario 10-13 / 16-20, festivi e lunedĂŹ chiuso)

edgardo mannucci



edizioni roberto peccolo livorno

78

EDGARDO MANNUCCI sculture e dipinti 1951-1981

testi di

Flaminio Gualdoni - Antonello Rubini


EDGARDO MANNUCCI edizioni roberto peccolo livorno n. 78 ottobre 2015 Catalogo edito in occasione della mostra n. 380 Galleria Peccolo Piazza della Repubblica, 12 I - 57123 Livorno galleriapeccolo@libero.it www.mostre-e-dintorni.blogspot.it

photo credit Roberto Ruberti, Cervia (pagg. 10, 35) Marco Magherini, Livorno (pagg. 15, 18-34) Archivio Mannucci (pagg. 6, 11-14, 16, 17) Š Copyright Edizioni Peccolo e degli Autori Realizzazione e stampa: Debatte Editore - Livorno


Flaminio Gualdoni

EdGARDO MANNUCCI «Mi intestardisco a credere che Edgardo Mannucci sia uno dei grandi scultori d’Europa», scriveva Nello Ponente alla fine degli anni ‘60. Questa affermazione fa quasi da postilla a una sequenza cospicua di mostre che, a cominciare dalla sala personale alla Biennale veneziana del 1956, passa per occasioni in spazi primari come le personali all’Obelisco, 1957, alla Medusa, 1958, all’Attico, 1960, ancora alla Biennale, 1962, all’Odyssia, 1963, per giungere ai riconoscimenti pubblici alla Biennale del Metallo di Gubbio, 1967, alla Palazzina Vitelli di Città di Castello, 1968, e alla Rocca Malatestiana di Fano, 1970. L’epicentro è Roma, naturalmente, la Roma di un dibattito in cui, meglio che altrove, si può constatare la genericità dell’usuale definizione di “informale” a fronte del proliferare di tensioni concettuali, stilistiche, modali, di esplorazioni di vie diversissime e intrecciate in corsi spesso impreveduti, che la abitano. Mannucci vi impone la propria discreta ma fondante autorevolezza provenendo da lontano, forte di un corso d’opere radicato nelle aspirazioni al moderno delle stagioni entre deux guerres. È nato nel 1904 come Scipione, altro grande marchigiano, e la sua formazione non segue un curriculum accademico, ma si svolge dalla fine degli anni ’20 nel fervore delle botteghe in cui la saldezza del mestiere, il rispetto profondo e orgoglioso della sostanza alto-artigianale del fare, può aprirsi senza remore a un anti-accademismo non ideologico e non programmatico, che sa bene ciò che non vuole essere e si pone in cerca di un mood espressivo non debitore di sovrastrutture e di eteronomie. L’incontro decisivo è con il conterraneo Quirino Ruggeri, fiancheggiatore di Valori Plastici e frequentatore assiduo del Caffè Aragno, che introduce il giovane discepolo nella cerchia intellettuale più avveduta: nascerà in questo tempo, per Mannucci, un’amicizia storica con Corrado Cagli. Ruggeri espone nel 1931 alla Quadriennale romana nella sala di Mafai, Scipione, Donghi, Ziveri, Ceracchini, Di Cocco, portandovi la propria ritrattistica d’umore arcaico, in cui il gioco delle fattezze si rastrema guadagnando in ieraticità. Le prove giovanili di Mannucci dicono dell’influsso profondo che Ruggeri esercita su di lui, a cominciare da quel costruire inflessibile per riduzioni essenziali che lo porteranno, negli anni della maturità e dell’autonomia linguistica, a farsi comunque asciutto architetto della forma. Noterà Emilio Villa, decenni dopo, che «lo scultore Mannucci è spirito di arcaica ascendenza e di aspirazione escatologica: egli si presenta solo e unico in un territorio assiomatico, con poesia sottratta al vilipendio e all’usura del ‘greve’, del ‘plastico’, del ‘formato’»: le scaturigini di tutto ciò s’intuiscono già in quegli anni giovanili. 3


Il secondo dopoguerra lo vede partecipe della scelta di diversa modernità all’insegna dell’astrazione, vissuta come un bagno lustrale rispetto al ventennio trascorso, che è di molti, da Capogrossi ad Afro e Mirko Basaldella, da Nino Franchina a Berto Lardera, per stare alla generazione matura. Modello certo è il Prampolini dai biomorfismi astratti ridotti a tensioni lineari curvilinee, e riferimenti vicini i totemismi vagamente surreali di un Mirko, con il quale Mannucci condivide la scelta di prosciugare la volumetria del corpo plastico sino a farne una sagoma spaziale complessa in totale dominio degli andamenti grafici dei profili. Ciò che più conta, in questo tempo, è il rapporto profondo di corrispondenza con Alberto Burri, del quale si fa interlocutore privilegiato in quegli anni di esplorazioni, e per altro verso con Ettore Colla, che con Burri è tra i firmatari del manifesto del Gruppo Origine, 1951. La compagine identifica la propria posizione «nella rinunzia stessa ad una forma scopertamente tridimensionale; nella riduzione del colore alla sua funzione espressiva più semplice, ma perentoria ed incisiva; nella evocazione di nuclei grafici, linearismi e immagini pure ed elementari» in nome «di una visione rigorosa, coerente, ricca di energia»: tutti elementi, a ben vedere, facilmente reperibili nell’evoluzione definitiva di Mannucci, che del gruppo è amichevole interlocutore e prezioso contributore intellettuale. L’artista assetta in quei primi anni ’50 alcune modalità tipiche. La messa in mora della volumetria non presuppone un indirizzo de-materiante, e anzi l’assunzione della materia come materia, spesso come scoria patetica del residuare d’una lavorazione che è, in se stessa, scultura, che l’autore ausculta sino a intuirne l’autonomo potenziale formale, le energie imprigionate e fissate che l’ostensione brusca del lacerto fanno risonare nello sguardo. La ruvida presenza quantitativa del metallo si filtra, nel clima mentale dello studio, riemerge per trame di qualità proprie (rugosità, colore, opacità e lucentezza, gravità, durezza, forza, ...) e di comportamenti (nodo, incastro, spigolo, tarsia, sovrapporsi, accumularsi, ...). Il processo che Mannucci congegna è attivare queste suggestioni fisiche inglobandole in un costruire fortemente dinamizzato il cui il filo d’ottone materializza andamenti che sarebbero altrimenti disegnativi, in una sorta di conflagrazione della dinamica futurista che si coagula in presenza spaziosa, d’uno spazio peraltro implicato e irrelato, e in una fisicità che tende a contraddire il proprio stesso peso. Brutale, impura, anestetica è la presenza concreta delle materie: «scolature di fonderia, frammenti caotici, materiali come epidermidi mineralizzate, o come piaghe; fortuiti splendori dell’oro, argento, bronzo, smalti», per evocare ancora le parole di Villa. Ma esse sono come memorie fisiche che si trascrivono in fisiologia della scultura: senza esibirsi ma senza tradirsi. Senza volume, senza spazio, senza tempo. Lì. Per avvertimenti e rapporti minimi, venati d’accenti squisitamente lirici e magari d’ironia visionaria, ma sempre netti, emblematici, echeggianti ancora suggestioni totemiche d’un primitivo non più citato, ma rivissuto. «Invece di chiamarle sculture vorrei tentare definizioni più pertinenti, dirle ‘composizioni spaziali’ o delle ‘spazialità’ o ‘spazialismi’ o ‘figurazioni spaziali’ o delle ‘fantasie spaziali’»: 4


la memoria delle parole spese nel 1955 da Gio’ Ponti per gli esordienti Arnaldo e Giò Pomodoro, altri grandi marchigiani, dice d’un clima di cui Mannucci è, da subito, padre nobile (e proprio all’Obelisco, in quello stesso anno, i Pomodoro debuttano a Roma in una mostra a tre con Giorgio Perfetti; Arnaldo vi terrà una personale anche nel 1957). L’agire di Mannucci è quello di chi costruisce per decantazioni meditative, da un canto non esaltando l’atipicità tecnica e modale come valore in sé e d’altronde non dismettendo il bagaglio di perfetta padronanza fabbrile appresa negli anni di formazione: anzi, par trapelare qua e là, nelle sue opere, una sorta di operosa civetteria da metallurgo antico, da portatore di una sapienza vagamente esoterica, capace davvero di decifrare il cosmo. In taluni momenti altri inserti materiali dicono che egli neppure fa retorica del relitto e del materiale privo di aulicità scultorea, perché nuclei lucenti di vetro e di pietre dure ricordano che la materia è non necessariamente opacità fisica, ma anche possibile autonomo, concreto splendore, come suggeriscono il ricorrere all’argento, alle patinature dorate del bronzo, alle coloriture sontuose degli acidi, assunzioni d’un decorativo all’epoca reietto da ogni posizione d’arte che ambisca all’autorevolezza, e a passaggi tecnici attinti con souplesse dal mondo dell’oreficeria più che dal repertorio della scultura paludata. Va d’altronde ricordato che la vicenda complessa e vivida, non ancora debitamente studiata, dell’oreficeria artistica del secolo scorso ha avuto proprio in lui uno degli interpreti più estroversi e fertili. Altro nucleo essenziale d’indagine e d’invenzione di Mannucci è, in quegli stessi anni, l’esplorazione degli interstizi ambigui tra i canoni della bidimensionalità e quelli della tridimensionalità, allora assai praticata a diverso titolo da molti dei migliori protagonisti della ricerca plastica italiana d’umore autre, da Colla a Burri, da Umberto Milani a Consagra e ai Pomodoro, perché avvertita come possibile plastico sottratto a ogni aspettativa di volumetria, laterale rispetto alla stessa idée reçue della scultura come forma pienamente tridimensionale. Mannucci lavora sulla reificazione del segno nel corpo di una superficie di cui assume parimenti tutta la concretezza, per stratificazioni e collisioni, in una frontalità che nulla toglie alla pienezza della lettura fisica dell’opera. In più d’un caso, d’altronde, le sue stesse sculture self-standing si offrono esplicitamente a una visione frontale, disegnando con chiarezza i propri meccanismi costitutivi, le linee-forza che attivano energeticamente l’idea stessa di sagoma. Nascono, in questi ricercari, costruzioni che hanno l’aroma della metallurgia barbarica, tra fierezza e desolazione della materia, tra oscura captazione sensibile e andamento schiarito di equilibri, simmetrie interne, deviazioni sottili d’assetto. I decenni successivi non hanno, all’apparenza, dato ragione al convincimento di Ponente. La posizione assegnata a Mannucci è stata piuttosto quella del minore di qualità, dell’artista troppo legato a un luogo – Roma, come le sue Marche – e riottoso alle astuzie mondane e alle ribalte dell’ufficializzazione artistica, per poter ambire alla definizione di maestro grande. Straordinario didatta, questo sì, ma artista, s’è detto troppo spesso, più che altro climatico. Credo, anche, che abbia nociuto al suo riconoscimento quell’amore tenace per la manualità, 5


per l’implicazione da artifex del suo intendere la pratica, che oggi ci viene ben restituita, almeno, dalle fotografie che lo ritraggono in basco e parannanza al tavolo da lavoro, concentrato sull’unica cosa che gli importa, far sgorgare poesia, bellezza, dalla materia. Nulla a che fare con la vulgata avanguardistica dell’artista ormai coagulata in stereotipo. Eppure Mannucci un grande è stato davvero. Dentro a queste sue opere anti-monumentali ma intimamente visionarie abita un’idea della scultura autenticamente outrée, capace di perdersi per poter ritrovarsi in una ragione sorgiva, essenziale, necessaria, oltre le soglie stesse di ciò che vogliamo sia l’estetico.

1970, Termoli, Antologica, Castello Svevo (con Luciano Marziano)

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Antonello Rubini

Il percorso di Mannucci e le opere della mostra, in breve Nel 2005 si tiene a Fabriano (e dintorni, suddivisa in varie sedi), sua città natale, l’ultima grande mostra dedicata a Mannucci, Mannucci e il Novecento. L’immaginario atomico e cosmico. Una vasta antologica in prossimità del centenario della sua nascita curata da Enrico Crispolti con la collaborazione del sottoscritto, che ne offre l’opera affiancata da lavori di altri artisti, «riconfigurata anche entro un’opportuna contestualizzazione del suo percorso creativo, relativamente almeno a rapporti e riferimenti entro la scena artistica italiana, ambito naturalmente del confronto più immediato» afferma Crispolti nel relativo catalogo. Tale esposizione segmenta, negli spazi della Galleria del Seminario Vecchio (sede principale), la sessantennale attività artistica di Mannucci in tre sezioni: I precedenti: dal primordio al postcubismo, L’Informale, Il grande stile. La prima riguarda l’operato tra anni Trenta e Quaranta, d’ordine figurativo, dall’imitazione del vero (venata ora più ora meno di classicismo, avendo come riferimento il lavoro del suo maestro Quirino Ruggeri, scultore che condivide le idee di “Valori Plastici”, anch’egli di origini fabrianesi e suo futuro suocero) al primitivismo, al ritorno all’imitazione del vero e infine al rinnovamento postcubista, che lo porta via via sempre di più ad articolare la figura nello spazio e ad adombrarla in forme più schiettamente geometriche, spingendosi sulla medesima linea di qui a poco a creare le sue prime opere aniconiche. Un’“impennata” linguistica che così Mannucci motiva a Manuela Crescentini nell’importante intervista del 1977, a cui vanno ricondotte anche le altre dichiarazioni a seguire: «Durante la guerra sono stato in Albania, in Grecia, e sono poi finito a Creta. […] Quando sono ritornato a casa, mi sono subito messo a lavorare, ho fatto un ritratto a mia moglie, un ritratto a mia figlia, ma tutto questo non mi diceva ormai più niente, non era più una “verità”. Pensai che se questa roba l’avesse trovata un critico fra cinquecento anni, l’avrebbe presa per un lavoro dell’Ottocento, non avrebbe potuto essere di quest’epoca». Nella seconda sezione è raccolta la produzione tra anni Cinquanta e primi Sessanta, si potrebbe dire quella, almeno storicamente, più importante, che è espressione, altissima, dell’Informale europeo, di cui egli è uno dei protagonisti (seppur muovendosi per una strada “vitalistica”, discosto dall’espressione del disagio esistenziale tipica degli artisti informali), dove si dichiara e si sviluppa appunto il suo “immaginario atomico e cosmico”, a cui perviene tra il 1951 e 1952. Passando rapidamente dalla realizzazione per fusione, a cui comunque ricorrerà ancora, a quella per saldatura diretta, servendosi di scorie, lamine e fili, con l’avvio con fermezza di quella straordinaria avventura incentrata sull’aspetto energetico della materia che lo accompagnerà per tutto il resto della vita («Dopo Hiroshima 7


è avvenuto un cambiamento radicale della nostra sensibilità… prima si pensava alla natura morta, oggi c’è tanta energia da far sparire l’Italia dalla carta geografica»). Inizia in questo periodo a realizzare anche opere oscillanti, a volte su un perno, talune di notevoli dimensioni, pervenendo dunque al movimento reale oltre che virtuale. L’ultima sezione (in realtà la prima, perché l’esposizione si apre con Il grande stile, continua con I precedenti: dal primordio al postcubismo e si chiude con L’Informale) è dedicata agli ultimi vent’anni d’attività, in cui il suo discorso giunge alla massima affermazione, che lo vedono permeare le sue personalissime aggregazioni metalliche di una vera e propria esuberanza in chiave cosmica, che coincide con un rafforzamento del concetto di espansione della materia, pure in termini di suggestione emotiva, affascinato dalle conquiste astronautiche dello spazio («io sulla luna non ci andrò mai, perché ormai sono liquidato, però mentre prima Verne era semplicemente una fantasia, oggi è una realtà. Io posso andare su Marte, e allora da una parte vedo la Terra come fatto espressivo. Questo stato d’animo, questa nuova forma di poesia che nasce in me, mi fa esprimere diversamente…»). Parallelamente a ritorni di una vaga figurazione con le “maschere”, agendo perlopiù in una direzione di marcato preziosismo, con affondi baroccheggianti, amplificando l’impiego di fascinose pietre vitree. Rapportandosi a tale suddivisione, evidentemente in questa mostra livornese si saltano a piè pari “i precedenti”, entrando direttamente nei decenni che riguardano la sua nota ricerca personalissima e caratterizzante, oltreché naturalmente di estrema innovazione, che fa di Mannucci uno dei più grandi scultori del secondo Novecento. Partendo dal periodo informale, in un andamento cronologico lineare senza soluzione di continuità, l’esposizione si apre con un’opera davvero capitale, nel tempo esposta e pubblicata numerosissime volte, Idea n. 1 del 1951-1952, peraltro già “stata” a Livorno nel lontano 1963 in occasione del memorabile 7° Premio Modigliani, L’Informale in Italia fino al 1957. Si tratta di un grumo di materia irregolare issato su un gambo attorno al quale rotea un filo con andamento spiraliforme. Capitale certo per la sua storia e per la sua storicità, essendo anche la prima opera ad incarnare compiutamente nei modi che poi diverranno suoi tipici la visione “postatomica” matericodinamica mannucciana, ma soprattutto per la sua straordinaria intensità e sintesi. A seguire, temporalmente, vengono gli “strappi” e i “rilievi”, che per la maggior parte appartengono ai centrali anni Cinquanta, quando l’artista appunto, contemporaneamente alla scultura, pratica per un periodo (contrariamente al disegno, qui non testimoniato, che pratica con costanza per tutta la sua parabola creativa) la pittura. Essa ha senza dubbio a che fare con le coeve esperienze scultoree (i “rilievi” in verità già essi stessi sono un po’ sculture), specie con le costruzioni reticolari, tuttavia mantenendo comunque una certa autonomia, rispondendo ad una propria dimensione espressiva, in cui l’informale di Mannucci passa attraverso lo spettro cromatico, la possibilità di immediata gestualità, di trasparenze, insomma attraverso peculiarità della pittura, ma anche scelte diverse sul piano stilistico. Particolarmente interessanti sul piano della realizzazione sono gli “strappi”, la cui tecnica si basa sul ricorso a 8


colature di colla vinilica o organica che una volta essiccate vengono appunto “strappate” dalla superficie, lasciando previ interventi pittorici la loro traccia. Idea n. 15 e Idea n. 17, entrambe del 1955, sono due costruzioni reticolari a parete dove diviene chiaro l’interesse dell’artista per il diverso trattamento delle materie, che nel caso di Idea n. 17 si disegnano nello spazio già implicando nuclei vetrosi, in un contrappunto tra pieni e vuoti e tra densità e qualità materiche. Prossima ma più articolata è l’“idea” del 1956-1957, in estensione spaziale e in ricercatezza segnico-materica. La piastra del 1960-1961 è una scultura a mo’ di quadro, nella quale da un nodo vitreo ha origine una propagazione energetica che sfocia in uno stato di magma informe estremamente forte. Diversamente, nelle due successive piastre del 1966-1967 c’è un’attenzione particolare per il disegno compositivo, e la materia è più che altro segno dipanato con rigore quasi geometrizzante. Piastre, queste ultime due, che ci introducono nell’ultimo periodo, il “grande stile”, come chiamato appunto nella mostra di Fabriano. L’“idea” del 1968 ci riporta in qualche modo alla soluzione formale dell’Idea n. 1 del 1951-1952, ma da questa diversificata soprattutto dall’impiego del nastro zigzagante, del “fulmine”, come lo definisce l’artista nell’intervista del 1977. Mentre in Idea n. 12 del 1969, una sorta di ostensorio tra il magico e il sacrale, il simbolismo dell’energia della materia diviene più intenso, e viene accresciuto il gusto per il barocco, come anche nell’“idea” del 1972-1973, che per la sua vigorosa preziosità si mostra quasi come un grande gioiello (peraltro Mannucci si dedica molto alla produzione di gioielli), con un vago ritorno di figurazione, che da alcuni anni di tanto in tanto sembra riemergere. Figurazione che in Idea n. 10, Idea n. 12, Idea n. 15 e Idea n. 16, tutte del 1980, affiora proprio come volontà deliberata di recupero dell’immagine iconica, che passa però ora attraverso la poetica materico-spaziale portata avanti negli ultimi trent’anni, che determina anche una percezione nuova della figura umana, sintetizzata anzitutto. Costruite da lastre geometriche laminate, queste forme accolgono il grumo materico metallico-vetroso nella misura principale di dispositivo vitale e dunque, ancora, energetico, tuttavia limitandone la presenza e perlopiù usandolo originalmente come “occhio”, come parte corporea costitutiva. Questa mostra alla Galleria Peccolo si chiude con l’“idea” del 1980-1981, uno dei “cerchi” degli anni Ottanta, quando l’artista sembra muoversi con spiccate intenzioni di ricapitolazione del suo immaginario contenendo spesso la scultura in uno spazio definito, simbolo di perfezione e completezza quale è appunto il cerchio.

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1977, Arcevia, Mannucci nel suo studio

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Idea n. 1 1951-1952

scorie di bronzo fuso e filo di ottone, saldati, cm. 50 x 40 x 30

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Idea n. 15 1955 lamina di ottone, scorie di bronzo fuso, filo di ottone, saldati, e lampada, cm. 42 x 62 x 11

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Idea n. 17 1955

lamina di ottone, scorie di bronzo fuso, filo di ottone, saldati, e vetro, cm. 42 x 62 x 11

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(Idea) 1956-1957 c.

lamina di ottone, scorie di bronzo fuso, filo di ottone, saldati, e vetro, cm. 35 x 45 x 20

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(Idea) 1960-1961 c.

lastra di ottone, scorie di bronzo e rame fusi, saldati, e vetro, cm. 68 x 60 x 5

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(Idea) 1966-1967

lamina di ottone, scorie e fili di rame fuso, saldati, e ametista, cm. 27 x 67 x 6


(Idea) 1966-1967

lamina di ottone, scorie e fili di rame fuso, saldati, e vetro, cm. 27 x 67 x 4

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Idea 1968 c.

piattina di ottone e di rame, scorie di rame e bronzo fuso e fili di ottone, saldati, cm. 47 x 53 x 38

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Idea n. 12 1969

scorie di bronzo fuso, piattina e filo di ottone, saldati, e vetro, cm. 90 x 63 x 12

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(Idea) 1972-1973

lamine di ottone e di rame, scorie di rame fuso e fili di ottone, saldati, e malachite, cm. 32 x 45 x 5

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Idea 1980-1981 c.

canna di ottone, scorie di bronzo fuso e rame, saldati, e vetro, cm. 64 x 64 x 15

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Idea n. 10 1980

lamine di ottone e rame, scorie di rame fuso, saldati, e vetro, cm. 34 x 25 x 3


Idea n. 12 1980

lamine di ottone e rame, scorie di rame fuso, saldati, e vetro, cm. 42 x 26 x 3

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Idea n. 15 1980

lamine di ottone e rame, scorie di rame fuso, e fili di ottone, saldati, e vetro, cm. 35 x 30 x 11


Strappo 1953 c.

tecnica mista su tavola, cm. 25 x 35

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Strappo 1953-1954 c.

tecnica mista su carta su tela, cm. 33 x 48

Strappo 1953-1954 c.

tecnica mista su carta su tela, cm. 33 x 48

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Strappo 1953-1954 c. tecnica mista su carta su tela, cm. 33 x 48

Strappo 1954-1955 c.

tecnica mista su tela, cm. 40 x 50

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Strappo 1954-1955 c.

tecnica mista su tela di juta, cm. 60 x 90

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Strappo 1954-1955 c.

tecnica mista su tela, cm. 70 x 100

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Rilievo 1954-1955 c.

tecnica mista su tavola, cm. 34 x 41

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Rilievo 1954-1955 c.

tecnica mista su tavola, cm. 39 x 47

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Rilievo anni ’60

tecnica mista su tavola, cm. 35 x 78

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Rilievo anni ’60

tecnica mista su tavola, cm. 33 x 46

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Rilievo anni ’60

tecnica mista su tavola, cm. 33 x 46

Rilievo anni ’60

tecnica mista su tavola, cm. 32 x 47

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1977, Arcevia, Mannucci nel suo studio

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Biografia

1904-1926 Edgardo Mannucci nasce il 10 giugno 1904 a Fabriano da Giuseppe Maria Mannucci e Giovanna Battista Perfetti. Da bambino, oltre a frequentare le scuole elementari, lavora nel laboratorio di marmista del padre; successivamente a Matelica frequenta la Scuola Professionale per la Lavorazione del Cemento, sezione scultura. 1927-1928 Terminato il servizio militare decide di lasciare Fabriano per trasferirsi a Roma, città nella quale inizialmente lavora, in qualità di aiutante, presso lo studio dello scultore Raffaele Zaccagnini. 1929-1930 Va a vivere nello studio dello scultore Quirino Ruggeri, anch’egli di Fabriano, del quale diventa allievo. Si trasferisce di lì a poco in un altro spazio che divide con Enrico Castelli e in seguito, per un paio d’anni, con Franco Gentilini. Nel frattempo, per qualche mese, frequenta l’Accademia di Belle Arti della capitale. Al Museo Artistico Industriale di Roma, diretto da Giovanni Prini, si diploma nella sezione Decorazione Plastica, in cui insegnano, fra gli altri, lo stesso Prini, Roberto Papini, Ferruccio Ferrazzi, Giovanni Michelucci, Cipriano Efisio Oppo, Giulio Rosso, Luigi Bartolini. 1931 Conosce Giacomo Balla all’inizio degli anni Trenta e incomincia a frequentare la sua casa dove successivamente entra in contatto con Filippo Tommaso Marinetti e altri artisti del gruppo futurista, che influenzeranno le sue opere del periodo postbellico. In particolare sarà vicino a Enrico Prampolini, con il quale collaborerà alla fine dei medesimi anni Trenta. 1932 Stringe amicizia con Corrado Cagli, e insieme partecipano alla fondazione del gruppo degli “Orientalisti”, caldeggiato da Massimo Bontempelli, e che si riunisce al Caffè Castellino. Conosce inoltre allora Mirko e Afro Basaldella, il giovane Pericle Fazzini, Libero de Libero ed Ezio Sclavi.

1935 Il fraterno rapporto con Cagli lo porta a frequentare l’ambiente della Galleria della Cometa, senza tuttavia mai esporvi. Partecipa alla II Quadriennale di Roma con dei disegni. 1937 Apre un nuovo studio in via Margutta. 1938 Sposa Altea Minelli, figlia di Ruggeri.

1939 Espone delle sculture alla III Quadriennale di Roma.

1940 Richiamato già da un anno alle armi, viene inviato a combattere sul fronte albanese.

1941 Progetta una balaustra istoriata con La storia della civiltà italiana nel mondo, in porfido, per il Palazzo della Civiltà per l’Esposizione Universale del 1942, a Roma, che non verrà mai realizzata. 1943 Distaccato sul fronte greco, viene ferito, e poi, dopo l’8 settembre, fatto prigioniero a Creta dall’esercito tedesco.

1944 Terminata la prigionia torna in Italia, stabilendosi nuovamente a Roma, pur mantenendo, come del resto prima del conflitto mondiale, intensi rapporti con l’ambiente marchigiano.

1945 Nello studio di Fazzini conosce Alberto Burri, che per un periodo di tempo ospiterà nel suo studio. 1951 È vicino, pur non facendone parte, al gruppo romano “Origine”, formato da Ballocco, Burri, Capogrossi, Colla. Partecipa alla VI Quadriennale di Roma con diverse sculture. 1952 Il 14 febbraio è chiamato dal Comitato Direttivo dell’Art Club a far parte della Commissione di Collocamento della VI Mostra Annuale Art Club, presieduta da Prampolini. 36


1954 È presente alla XXVII Biennale di Venezia con due “medaglie”. 1955 Partecipa alla VII Quadriennale di Roma. 1956 Esegue un complesso per l’altare della cappella dell’Istituto delle Suore del Don Orione di Montesacro a Roma. È nella commissione, insieme a Giuliano Briganti, per la mostra retrospettiva dedicata a Ruggeri nell’ambito della XXXVIII Biennale di Venezia, ove ha una sala personale rispondendo a un invito come “medaglista”. 1957 Tiene una personale alla Galleria dell’Obelisco, a Roma, presentato in catalogo da Emilio Villa, che è il critico che in questi anni è il più attento al suo lavoro. 1958 Realizza a Solferino il Monumento alla Croce Rossa Internazionale. 1960 Tiene una personale alla Galleria L’Attico, a Roma, presentato in catalogo da Enrico Crispolti, che sollecita da allora con particolare impegno una riflessione storico-critica sul suo lavoro. Il Rijksmuseurn Kröller-Müller di Otterlo acquista Idea n. 3, 1951, rifatta nel 1957. 1961 Viene pubblicata a Roma la prima monografia di Crispolti sul suo lavoro. 1962 Ha una sala personale nella XXXI Biennale di Venezia, presentata in catalogo da Gordon Bailey Washburn.

1963 Tiene una personale alla Galleria Odyssia, a Roma, in maggio, presentato in catalogo da Denys Chevalier. Sempre in primavera la sua opera è presentata in L’Informale in Italia fino al 1957, proposta da Dario Durbé e Maurizio Calvesi nell’ambito del 7 Premio Modigliani, a Livorno. 1964 Realizza fra il 1964 e il 1965 una transenna in ottone e bronzo saldati e vetro per il Salone di 1ª classe della Motonave Raffaello. 1965 È presente alla IX Quadriennale di Roma.

1967 Un’antologica ha luogo a Gubbio, nell’ambito della IV Biennale d’arte del metallo, a cura di Crispolti. 1969 Presenta le sculture più recenti in una personale alla Galleria Piattelli, a Roma.

1970 Un’antologica è proposta nella Rocca Malatestiana di Fano, e un Omaggio nell’ambito della XV Rassegna Nazionale d’Arte di Termoli. Tiene a Roma una personale alla Galleria “AL2”. 1972 Tiene una personale nel Palazzetto Comunale Baviera, a Senigallia, ed espone diverse sculture nella mostra di scultura organizzata da Giuseppe Marchiori nella XXXVI Biennale di Venezia. 1973 Espone diverse opere recenti nella X Quadriennale di Roma.

1974 Tiene una personale a Milano nella Galleria Blu, presentato in catalogo da Guido Ballo. Progetto per la Chiesa Ecumenica nella Comunità Esistenziale, Palazzo di Arcevia, nell’ambito dell’Operazione Arcevia promossa dall’architetto Ico Parisi. Un omaggio ha luogo nell’ambito della XXIV Rassegna G.B. Salvi e Piccola Europa Rassegna d’Arte di Sassoferrato. A febbraio gli viene affidato l’incarico di Delegato Onorario della Fiera del Levante di Bari. 1975 Tiene una personale di sculture recenti nella Galleria Vittoria, a Roma. 1976 Partecipa alla Biennale di Venezia nella sezione italiana L’ambiente come sociale, ove, nell’ambito di Documentazione aperta, è presentata l’Operazione Palazzo di Arcevia. Intervengono, tra gli altri, Alberto Burri, Nicola Carrino, Mario Ceroli, Corneille, Francesco Somaini, Mauro Staccioli. 37


1978 A luglio si inaugura la prima Scuola Superiore Internazionale di Scultura Siderurgica. La scuola, articolata in corsi di specializzazione, ha sede nella ex chiesa di San Francesco di Paola ad Arcevia; il direttore artistico è Mannucci. 1979 Un’antologica ha luogo nella Chiesa di San Paolo a Macerata. Vede la luce la monografia con fotografie di Roberto Ruberti e un nuovo testo di Villa. 1981 L’Artindustria Editrice, Pollenza-Macerata, pubblica la monografia di Crispolti, Materia, Energia, Spazio: Edgardo Mannucci, uno scultore “postatomico”. Ad Acquaviva Picena, Mannucci è nella giuria della 2ª Rassegna nazionale di pittura, scultura e grafica, Scuola Elementare Ten. Rossi Panelli. A Fabriano si fonda a settembre l’Associazione Scuola Internazionale Siderurgica Culturale e Artistica, già esistente di fatto, ma ora costituita legalmente. Il Presidente è Mannucci. 1982 In gennaio si inaugura a Fabriano la chiesa della Sacra Famiglia, ove Mannucci ha realizzato l’altare, il ciborio, il leggio e il candelabro. Sempre a Fabriano ha luogo in settembre nel chiostro del Buon Gesù un’antologica, introdotta in catalogo da Valerio Volpini. 1983 La sua opera è rappresentata in L’Informale in Italia, a cura di Renato Barilli e Franco Solmi, nella Galleria d’Arte Moderna di Bologna. 1984 A maggio, presso l’Accademia di Belle Arti di Perugia, tiene una conferenza dal titolo Edgardo Mannucci: materia-energia-spazio. 1985 A giugno gli viene rinnovato l’incarico di ispettore onorario per i Beni ambientali, architettonici, archeologici, artistici e storici dei Comuni di Fabriano e Arcevia. Tiene un seminario all’Accademia di Belle Arti di Macerata, e un’antologica nel Centro culturale polivalente di Chiaravalle. 1986 Nell’aprile-giugno tiene una personale di opere recenti nella Galleria Anna D’Ascanio, a Roma, mentre poco dopo altre sue opere e gioielli sono esposti in Palazzo Collicola a Spoleto, ed è presente in Roma 1934, nella Galleria Civica di Modena e in Palazzo Braschi a Roma, nonché, sempre a Roma, nella XI Quadriennale. Il 21 novembre Mannucci muore nella sua abitazione di Arcevia.

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MOSTRE PERSONALI

1931 Edgardo Mannucci, Circolo Gentile da Fabriano, Fabriano

1983 Edgardo Mannucci. Sculture-grafica, Sala Comunale A. da Sangallo, Loreto

1956 XXVIII Biennale di Venezia (sala personale)

1984 L’oro delle Marche, con un omaggio a Mannucci, Chiesa di San Domenico, Fano

1957 Edgardo Mannucci, Galleria dell’Obelisco, Roma 1960 Edgardo Mannucci, Galleria L’Attico, Roma 1962 XXXI Biennale di Venezia (sala personale) 1963 Mannucci, Galleria Odyssia, Roma 1967 IV Biennale d’arte del metallo. XII Premio Gubbio Mastro Giorgio. Mannucci mostra antologica, Convento di San Francesco, Gubbio (antologica) 1968 Edgardo Mannucci, Palazzina Vitelli, Città di Castello Mannucci, Galleria “Corso 29”, Macerata 1969 Edgardo Mannucci, Galleria Piattelli, Roma III Triennale dell’Adriatico, Palazzo delle Esposizioni, Civitanova Marche (sala personale) Marche Presenze Arte, Ascoli Piceno (antologica) 1970 Edgardo Mannucci, Rocca Malatestiana, Fano (antologica) XV Rassegna Nazionale d’Arte Termoli. Omaggio allo scultore Edgardo Mannucci, Castello Svevo, Termoli Mannucci, Galleria d’Arte “AL2”, Roma 1972 Edgardo Mannucci, Palazzetto Comunale Baviera, Senigallia 1973 Mannucci. Sculture e disegni, Agency d’Ars 818, Pescara 1974 Edgardo Mannucci, Galleria Blu, Milano XXIV Rassegna G.B. Salvi e Piccola Europa Rassegna d’Arte. Sala omaggio a Edgardo Mannucci, Palazzo Oliva, Sassoferrato 1975 Edgardo Mannucci, Galleria Vittoria, Roma 1977 Edgardo Mannucci, Galleria La Virgola, Fabriano 1979 Materia e spazio: la “poetica” di Mannucci, Pinacoteca e Musei Comunali, Macerata (antologica) Edgardo Mannucci, Galleria Il Segno, Cosenza 1980 Edgardo Mannucci, Galleria “Schema”, Roma 1981 Omaggio ad Edgardo Mannucci, Montefiore Conca 1982 Mannucci, Chiostro del Buon Gesù, Fabriano

1985 Mannucci. Grafica e Scultura, Centro Culturale Polivalente, Chiaravalle (antologica) 1986 Mannucci. Idee Nuove, Galleria Anna D’Ascanio, Roma Edgardo Mannucci. Ori e sculture, Palazzo Collicola, Spoleto 1987 VIII Rassegna. Omaggio a Edgardo Mannucci, Chiesa di San Rocco, Acquaviva Picena 1988 Edgardo Mannucci. Poesia-Spirito-Spazio, Biblioteca Comunale, Serra de’ Conti 1990 Edgardo Mannucci, Atelier Arco Amoroso, Ancona Omaggio a Edgardo Mannucci (1904-1986). Sculture, Galleria di Franca Mancini, Pesaro 1991 Edgardo Mannucci. Anni Trenta/Ottanta, Palazzo Braschi, Roma (antologica) 1996 Omaggio a Edgardo Mannucci. Opere dal 1951 al 1986, Istituto Statale d’Arte, Fabriano 1999 Edgardo Mannucci. Preziosità e corrosioni della materia, Museo Omero, Ancona 2000 Uno scatto per l’Arte. Edgardo Mannucci nell’obbiettivo di Roberto Ruberti, Foyer del Teatro Gentile, Fabriano 2002 XLVII Mostra Nazionale d’Arte Contemporanea. Iperluoghi. Omaggio ad Edgardo Mannucci, Galleria Civica d’Arte Contemporanea, Termoli 2004 Edgardo Mannucci. Protagonista e precursore nell’arte del XX secolo, Mole Vanvitelliana, Ancona (antologica) 2005 Mannucci e il Novecento. L’immaginario atomico e cosmico, sede principale Galleria del Seminario Vecchio, Fabriano (antologica) Edgardo Mannucci. Vent’anni dalla scomparsa, Galleria Arte e Pensieri, Roma 2007 Mannucci. Sculture tra anni Cinquanta e Ottanta, Galleria Anna D’Ascanio, Roma 2013 Mannucci. Poesia dell’universo, Città Sotterranea, Camerano 2015 Mannucci. Sculture e dipinti. 1951-1981, Galleria Peccolo, Livorno 39


Finito di stampare nel mese di ottobre 2015 presso Debatte Editore, Livorno



EDGARDO MANNUCCI edizioni roberto peccolo livorno n. 78

Galleria Peccolo I - 57123 livorno/italia piazza della repubblica, 12 tel./fax 0586 888509 e-mail: galleriapeccolo@libero.it http://mostre-e-dintorni.blogspot.it (orario 10-13 / 16-20, festivi e lunedĂŹ chiuso)

edgardo mannucci


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