Bragaglia Shakespeare in Italia.

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Leonardo Bragaglia

Shakespeare in Italia

Shakespeare in Italia

Leonardo Bragaglia

È disponibile della stessa collana il libro “Ermete Novelli Sublime Guitto” di Paolo Emilio Persiani

Leonardo Bragaglia celebra quest’anno, con “Shakesepare in Italia” i suoi polemici e battaglieri cinquant’anni di teatro, assolutamente indipendenti. Cinquant’’anni di teatro militante in qualità di attore, di regista teatrale e radiofonico, saggista e critico musicale, autore drammatico (“Figlio unico di madre vedova” e “Il terzo incomodo”). Cinquant’anni durante i quali ha avuto modo di fondare il Teatro del Conventino - primo teatro off Roma -, la Scuola di Teatro intitolata a “Ruggero Ruggeri” (con sedi ad Anzio, Fano e Frosinone) e il Premio Wanda Capodaglio fin dal 1981. Nipote, senza nepotismi, di Anton Giulio Bragaglia, era entrato, in arte nel lontano 1948 con lo zio paterno; l’anno successivo si iscriveva all’Accademia Nazionale d’Arte drammatica di Silvio D’Amico. Ne uscì subito, anche se era stato ammesso ex aequo con Gluaco Mauri (1949). Tornò alla “gavetta” recitando con Picasso, Benassi, Gandusio, Almirante e Tumiati, all’Ateneo di Roma e al Piccolo Teatro di Roma diretto da Orazio Costa. Trovandosi isolato - dopo i burrascosi litigi ideologici con lo zio, e con D’Amico- fece alcune piccole interpretazioni nei film di Totò diretti dallo zio Carlo Lodovico per poi passare a recitare nei Teatri viaggianti dei “Guitti”. Fu per sei anni aiuto regista ed attore al Teatro del Convegno di Milano diretto da Eligio Possenti; promosso sul campo, Regista da Riccardo Bacchelli per la sua novità: “Giorni di verità”. Diresse una dozzina di spettacoli per la Compagnia del Dramma Italiano di Giorgio Prosperi, per il suo Teatro del Conventino, per la Compagnia del Teatro dei Commedianti, per La Compagnia della Commedia, e moltissimi spettacoli per la RAI. Ha diretto attori quali Renzo Ricci e Paola Borboni, Wanda Capodaglio e Elena Zareschi, Elsa Merlini e Renzo Giovampietro, Carlo Ninchi e Franca Nuti, Cesarina Gheraldi ed Evi Maltagliati, Warner Bentivenga e Anna Miserocchi ecc. Ha fornito adattamento e regia per le “commedie in trenta minuti” (RAI), della Zareschi, e ha curato adattamento e regia per “La professione della signora Warren” di G.B. Shaw allestita allo Stabile di Roma, per la “Tancia” del Buonrroti ecc.

prezzo al pubblico € 18,00 - iva inclusa

Questo volume è stato inserito dall’editore nella collana “Teatro”

personaggi, interpreti e vita scenica del teatro shakespeariano in Italia

Leonardo Bragaglia ha pubblicato una quarantina di saggi, i più importanti su Ruggero Ruggeri, sulla storia del libretto teatrale e la prima biografia su Maria Callas. Ha lavorato inoltre per le riviste “Vita Italiana” della Presidenza del Consiglio, e per “Palcoscenico”per “Il Carabiniere”, per la “Rivista delle Nazioni”, ecc. Attualmente L.B. é ospite della Casa di Riposo per Artisti drammatici italiani “Villa Borelli” in Bologna, dove dirige il Premio Nazionale Wanda Capodaglio per attori debuttanti, e il Premio Ermete Novelli nel Comune di Bertinoro, ove é affiancato da Paolo Emilio Persiani. Sta rivedendo alcune opere giovanili, mentre promette delle interessanti “Memorie”, sue personali e della illustre famiglia, a cominciare dal Padre, il “pictor philosophous” Alberto Bragaglia, da Lui stesso riscoperto e divulgato.

Il libro esce grazie alla partecipazione del Comune di Bertinoro

ISBN 88-902003-0-8

www.persianieditore.com paoloemiliopersiani@libero.it

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LEONARDO BRAGAGLIA

SHAKESPEARE IN ITALIA PERSONAGGI ED INTERPRETI

FORTUNA SCENICA DEL TEATRO DI WILLIAM SHAKESPEARE IN ITALIA 1792 – 2005

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Presentazione del Sindaco di Bertinoro Ho conosciuto Leonardo Bragaglia quattro anni fa quando venne a trovarmi per sollecitarmi a promuovere una iniziativa in onore di Ermete Novelli e per promuovere il teatro, un’attività culturale purtroppo ancora poco considerata nel nostro Paese. Ciò che mi incuriosì di lui, fu la passione quasi ossessiva con cui si immedesima nelle cose che ama fare. D’altra parte credo che questo faccia parte dell’identità di chi conosce il valore della cultura e soprattutto della ricchezza che essa rappresenta per un Paese. Da allora abbiamo collaborato a tre edizioni del “Premio Ermete Novelli”. Per Bertinoro il Premio Novelli rappresenta un modo per amare colui che scelse di fissare qui la sua residenza estiva e di farla divenire luogo di incontri culturali, di confronti sull’arte, la politica. Di quel fervore culturale Bragaglia è un eccellente interprete. Ne sono testimonianza la sua attività teatrale e le sue ricerche. Questo testo ne è la conferma poiché è il tentativo di legare l’opera shakespeariana alla evoluzione del teatro in Italia passando per i più grandi attori di ieri e di oggi da Ermete Novelli a Mario Scaccia, da Vittorio Gassman a Roberto Herlitzka valorizzando le specifiche di ogni attore, come strumento di conoscenza del teatro italiano e ancora del valore dell’opera di Ermete Novelli. Quest’anno il “Premio Novelli” si terrà nell’ambito delle manifestazioni che celebrano l’ospitalità, tradizione e simbolo di Bertinoro, ma anche “cultura” e messaggio di solidarietà, di tolleranza, di interesse a scoprire, a comprendere e far dialogare tutte le culture, siano esse espressioni di tradizioni, di valori, siano esse espressione di talenti, di espressione dell’attività culturale. Per questo sono grata a Leonardo Bragaglia, per questo libro che diviene un contributo importante a favorire la crescita culturale di tutti.

Ariana Bocchini Bertinoro, luglio 2005

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PREMESSA Per gli storici del teatro scritto, tutta la materia incandescente del teatro di William Shakespeare si potrebbe assai comodamente e razionalmente dividere in quattro diversi generi. Genere tragico, con tragedie in cinque atti, a cominciare dai quattro “drammi umani” – “Amleto”, “Otello”, “Machbeth” e “Re Lear” - , e comprendente ancora “Romeo e Giulietta”, il grande affresco storico favolistico di “Troilo e Cressida”, “Timone d’Atene” e “Titus Andronicus” (anch’esse tragedie pseudo-storiche, più che veri e propri drammi storici), e “La Tempesta”, e le tragedie romane “Giulio Cesare” e “Coriolano”, e ancora “Antonio e Cleopatra”. Otto sarebbero le opere appartenenti al “dramma storico”, ispirate alle cronache inglesi dei grandi regnanti: “Riccardo II” e “Riccardo III”, “La tragedia di Re Giovanni”, “Enrico IV” (in quattro parti – due serate), “Enrico V” “Enrico VI” (tre parti), “Enrico VII”, e, chissà come e perché, il greco e mitico “Pericle”, vale a dire la meno conosciuta e la meno rappresentata delle tragedie di Shakespeare, e non soltanto al pubblico italiano. Al terzo genere, quello della “commedia italiana” – sempre seguendo lo strano sistema adottato da molti studiosi -, apparterrebbero, poi, cinque opere: “I due gentiluomini di Verona”, “Il mercante di Venezia”, “Molto rumore per nulla” (ambientata a Messina e rappresentante, quindi, l’unica opera “sudista” dello Shakespeare all’italiana). “La bisbetica domata” e “Misura per misura” o “Dente per dente”. Nove sarebbero le altre commedie, quelle “inglesi” – essendo in tutto trentaquattro le opere teatrali di William Shakespeare – e precisamente: “Le allegre comari di Windsor”, “Come vi garba (Rosalinda)”, “Cimbelino”, “Tutto è bene quel che finisce bene”, “Racconto d’inverno”, “Il sogno di una notte di mezza estate”, “La commedia degli equivoci”, “Pene d’amor perdute”, e “La notte dell’Epifanìa ovvero la dodicesima notte”. Quattro generi, scientificamente, non artisticamente, intesi. Quattro generi arbitrariamente inventati, e per esclusiva comodità dello “storico” teatrale. Ma non sarà così, qui, per noi, per una storia del teatro shakespeariano rappresentato, cioè “vivo”. La materia andrà assai più giustamente divisa in due grandi blocchi corrispondenti alle esigenze dello spettacolo e degli interpreti: il teatro tragico (tragico, drammatico e storico o pseudo-storico) da una parte; quello comico, e grottesco, dall’altra. Ventiquattro opere (comprese le due serate per l’ ”Enrico IV” e le tre dell’ “Enrico VI”) da una parte, nella prima parte del saggio, e con i rispettivi “grandi ruoli” e grandi interpreti tragici italiani; tredici invece, le commedie – italiane e non - contemplate nella seconda parte con i loro interpreti e registi.

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E questo nostro metodo, non “sistema”, sarà osservato fino in fondo, a dispetto delle infallibili “tracce storico teatrali” del D’Amico, fedelmente seguite dal suo allievo prediletto, e pedissequo, Achille Fiocco e ancora dall’Apollonio, da Leon Moussignac, dal Pandolfi e…dagli altri. Fiocco, ad esempio illustre, divide sapientemente, ma “solitamente” la gigantesca materia in quattro grandi “classi” (e senza mai un riferimento agli interpreti, vale a dire ai risultati scenici dell’opera di teatro): 1) i quattro grandi drammi della umanità (Re Lear, Otello, Amleto e Macbeth); 2) i drammi dell’antichità (Giulio Cesare e tutti gli altri drammi storici e pseudo-storici romani e greci); 3) i drammi storici inglesi; 4) infine le tragedie di “Romeo e Giulietta” e del “Mercante di Venezia” – e addirittura “La tempesta”, messaggio estremo di Poesia di William Shakespeare – mischiate a “Rosalinda” e a “Falstaff” e a tutte le altre commedie, appunto sotto la denominazione quanto mai arbitraria di “commedie”. Ma il sinistro Shylock ed il suo dolorante antagonista Antonio, il “mercante di Venezia”, rappresentano il primo terrificante grottesco dell’umanità nell’éra moderna, (dopo il “Ciclope” euripideo); Romeo e Giulietta, sono fra i più tragici personaggi della storia del teatro, rappresentanti una volta per tutte il binomio amore-morte; e Prospero, ultimo, ma non ultimo fra i personaggi shakespeariani, è quello a cui è stato affidato l’estremo messaggio, il testamento spirituale del Poeta. Che fare, allora? Potremmo continuare a contestare. Ma ciò che, qui, ci preme, ora e sempre, è ben altro. Intanto, dichiareremo subito – a scanso di gravi equivoci – che non intendiamo affatto metterci in competizione con gli illustri storici del teatro libresco e letterario. Quello che qui ci preme è, al solito, il risultato scenico – o i risultati - delle opere teatrali. E questa volta restringiamo il discorso – o meglio, lo concentriamo – sulle opere di Shakespeare e soltanto per quel che riguarda le loro interpretazioni sui palcoscenici italiani, in lingua italiana, con interpreti italiani. Ma non possiamo tacere che quest’opera è nata – come già il saggio sugli “Interpreti pirandelliani” – come studio parziale, seconda tappa fondamentale di quella che potrà essere una nostra “Storia del teatro rappresentato” o “Storia delle rappresentazioni teatrali in Italia”. Vale a dire una storia del Teatro vivo. Una storia “viva” del teatro. Una storia della quale ogni personaggio shakespeariano, il più nobile come il più “volgare”, rivivrà qui per le testimonianze della sua vita scenica italiana

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attraverso cioè gli echi, i mille echi e le cento sfaccettature delle voci dei suoi interpreti coturnati ed introversi, classici e rivoluzionari, antichi e moderni. L’ambizione fatale di Lady Macbeth rivivrà nelle vicissitudini delle maggiori interpreti, da Adelaide Ristori e Irma Gramatica, giù giù fino alla Moriconi; l’esaltazione romantica della adolescente Giulietta attraverso il mito della Duse quindicenne e la splendente cornice scenica veronese, risalirà fino a noi attraverso il suo faticoso cammino; gli estri di Caterina, la bisbetica domata, rivivranno nel ricordo delle voci lontane della Reiter e della Marini, e nel più vicino ricordo dei cimenti della Morelli e della Adani. E così per gli altri personaggi femminili del teatro di Shakespeare: le cento Ofelie e Desdemone, Cordelie e Rosalinde. Lo stesso dicasi per le prove vittoriose, e le temerarie, degli interpreti maschili di questi duecento anni di storia del teatro shakespeariano in Italia. (Due secoli scarsi). La tragedia angosciosa della gelosìa del Moro, la tragica follìa di Re Lear, la perplessità e le folli esitazioni e i ripensamenti e i dubbi di Amleto, rivivranno in noi in cento modi diversi di essere sempre lo stesso granitico personaggio shakespeariano, sia attraverso l’arte del Rossi o del Salvini, di Ruggeri o di Moissi, di Benassi e di Scaccia, di Albertazzi e di Gassmann, di Mauri e di Buazzelli. E rivedremo, e riascolteremo, Novelli e Benassi con il sanguinante rancore per le ire impotenti di Shylock, e ancora Falconi e Pilotto, Cervi e Buazzelli con l’arguto cinismo di Sir John Falstaff. Questa, dunque, la singolare angolazione della nostra storia: la storia affascinante della vita scenica del teatro di William Shakespeare in Italia. Non più disquisizioni filosofiche, quindi, né valutazioni squisitamente poetiche, ma bensì una sola profilazione: quella della prova del fuoco della ribalta accesa, al cozzo con gli interpreti – dai più fantasticamente arbitrari ai più fedeli – nel testo rispettato alla “lettera”, o nel pretesto per le loro esibizioni personali. Questione di “parti”, dunque, questo iter delle opere shakespeariane. E questione delle difficoltà scenotecniche pressoché insormontabili, dopo il decadimento delle grandiose macchine melodrammatiche seicentesche, barocche e fantastiche di queste opere teatrali. E furono queste cose, tutte queste cose insieme, che fecero ritenere irrappresentabile questo “Teatro del Genio del Nord” (sic). Questo e non altro.

La nostra non è una storia letteraria, ma una vasta cronaca drammatica. Una cronaca drammatica di due secoli di storia del teatro: due secoli di vita scenica del teatro di William Shakespeare in Italia. Due secoli soltanto, domanderà il lettore? – Sì. Shakespeare è approdato con due secoli di ritardo ai lidi del “bel giardino d’Europa” da Lui più volte divinamente cantato.

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Se si pensa che le prime sue opere – e le conseguenti prime rappresentazioni nel Teatro del Globo – sono datate intorno al 1590, e che le prime recite italiane “sperimentali” sono del 1790, la gravità della nostra lacuna è veramente profonda. Molti, invece, gli studi e i saggi letterari e idealistici. Abbiamo detto, perciò, che, volutamente, trascureremo di parlare di quanto hanno – e con maggiore autorità – discorso gli studiosi di Shakespeare. Varrà la pena, allora, di ricordare che “Amleto” come “Re Lear”, “Macbeth” e “Otello” sono opere “nate in palcoscenico e per il palcoscenico”, per gli attori di Shakespeare (primo fra tutti il famoso Burbage), e sulle loro possibilità, costruite per l’eternità. E varrà anche la pena di sottolineare che le opere di Shakespeare sono le opere di un attore, di un professionista del palcoscenico – come quelle di Molière e di Eduardo – e non già d’un Poeta, sia pure grandissimo, ma totalmente digiuno di Teatro. Shakespeare arrivò col proprio lavoro (attore, direttore di compagnia, capocomico al 10% sugli incassi del Teatro del Globo, autore drammatico di compagnia, vale a dire “drammaturgo”) all’agiatezza, e soltanto allora poté concedersi una meritata “vacanza” dal tedioso mestiere e, finalmente, scrivere in pace, da Poeta, ciò che la illimitata fantasìa andava dettandogli dentro. Per il resto della sua vita Egli era stato un “drammaturgo di compagnia”, nel moderno significato dei Teatri di Stato della Germania. Per questo motivo, agli attori italiani dell’Ottocento fu facile scorgere nel teatro shakespeariano il teatro “dei grandi ruoli” invocato dalle loro personalità assetate di esibizionismo e di agonismo. Affascinati personalmente, egoisticamente, da quelle colossali figure sceniche, i grandi attori tragici dell’Ottocento non scorsero la Poesia o, comunque, si guardarono bene dal proporla al loro pubblico, al quale ammannirono una serie di grandi scene di teatro, di passione, d’amore e di morte. Anche per questo motivo, trovarono posto assai più timidamente, sui nostri palcoscenici di allora – ancora riecheggianti della “scandalosa” Commedia dell’Arte – le commedie giocose, di carattere, corali, del Teatro del Poeta di Stratford-on- Avon. A queste commedie venivano ancora preferite – a corte – quelle autenticamente italiane del Machiavelli e dell’Aretino, dell’Ariosto e del Cardinal Bibbiena, del Della Porta o del Buonarroti il giovine; così come, per un certo periodo, le tragedie di Alfieri, o addirittura quelle di Silvio Pellico, bloccarono il passo alle tragedie del grande William, in Italia. (C’è da aggiungere, poi, che – a parte il Goldoni – sulle scene italiane andava trionfando l’opera buffa, alla quale soltanto pareva riservarsi la grossa risata e il sottile umorismo settecentesco). Fatto sta che le prime autentiche affermazioni della tragedia di William Shakespeare in Italia risalgono a cinquant’anni più tardi dalle prime recite ombreggiate dal verso alfieriano (intorno al 1840-1865) da parte di Alamanno

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Morelli, di Ernesto Rossi e Salvini, Adelaide Ristori, la Cazzola ed altri giganti della scena, con “tagli” ed arbitrii di ogni genere. Ma lo scandalo è ancora maggiore di questo primo “ritardo”. Alcune commedie, e, vedi caso, particolarmente quelle “italiane”, arrivarono sulle nostre scene intorno agli anni Venti del ventesimo secolo, con tre secoli di ritardo! E ancora più gravi si fecero i torti dei nostri teatranti riguardo certe opere del più grande Poeta tragico del mondo moderno. Ancora oggi ci sono opere di Shakespeare da noi sconosciute scenicamente. Il che vuol dire più semplicemente “sconosciute”. Che più? La vita scenica del teatro di Shakespeare in Italia è, dunque, quella del teatro dei grandi ruoli, e, di conseguenza, è storia di interpretazione e di interpreti. La nostra angolazione appare, quindi, assai più che giustificata agli occhi dei dotti critici: è quella giusta. Parlare del Teatro di Shakespeare nella sua unica, vera dimensione: nella dimensione del palcoscenico, questo il nostro compito. Oro e orpello, vanità e studio appassionato, esibizionismo e fedele sacrificio, umiltà e superbia, mistificazione e dedizione assoluta, ambizione ed abnegazione: tutto questo, da parte dei teatranti italiani, per Shakespeare. Una storia, questa che “va ad incominciare”, scritta attraverso la voce degli attori-interpreti, e non della misteriosa “voce di foglio” del censore ignoto o del presuntuoso critico letterario.

LEONARDO BRAGAGLIA Roma, 1973

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PREMESSA AL NUOVO LIBRO “SHAKESPEARE IN ITALIA” EDIZIONE 2005 PER IL NUOVO EDITORE PAOLO EMILIO PERSIANI Avremmo potuto comodamente confermare qui quanto scritto e sottoscritto oltre trent’anni or sono, in occasione della prima edizione del saggio sulla fortuna scenica del Teatro di Shakespeare in Italia – traduttori o “traditori”, riduttori e registi, ma soprattutto Interpreti. Senonchè, dopo trent’anni, dobbiamo constatare una diversità profonda nella concezione teatrale: infatti, dopo le prove vittoriose di Gassmann e Randone e di Mario Scaccia, di Albertazzi e di Mauri e di Herlitzka, per quanto riguarda soprattutto il “teatro dei Grandi Ruoli”, è assolutamente cambiata la concezione degli allestimenti e l’orientamento registico sovrastante la “parola scenica”. Nessuna preoccupante considerazione qui ora per l’assoluta mancanza – o osservanza – delle tre unità aristoteliche, cosa che per circa due secoli aveva tenuto lontano dalle nostre scene il teatro del “Grande barbaro”, considerato nientemeno che irrappresentabile. Ma vizi segreti della pratica teatrale, anche per ragioni volgarmente “pratiche”, hanno preso il sopravvento. Adattamenti “su misura” per questo o quell’interprete, vistosissimi scandalosi tagli di intere scene e anche omissioni di molti personaggi, per riduzioni di comodo, atte cioé a far riscuotere i favolosi “diritti d’Autore” del grande William al neo-traduttore, molto spesso “traduttore dei traduttori” di….Shakespeare. Lui, direttore di se stesso, risolveva le cento difficoltà di rendere scenicamente plausibili i mutamenti con un semplice - ed efficacissimo- cartello descrivente il luogo dell’azione: “Sala nel castello di Elsinore”, oppure “La piazza delle erbe in Verona”, “Il porto di Messina”, e la fantasia dello spettatore risolveva la situazione. Gli scenografi, dal canto loro, avendo trovato troppo facilmente i mezzi necessari a rendere visibili le sublimi e magiche visioni del poeta di Stratford-onAvon, hanno sovente dovuto sopportare la situazione delle macchine e della grande macchina teatrale, e superare così difficoltà insormontabili per poi ritrovarsi a dover competere con le sfarzose messinscene operistiche (si pensi alle regìe di Max Reinhardt e alle rappresentazioni dell’”Otello” rossiniano con le lussureggianti scene e costumi firmati da Giorgio De Chirico, agli allestimenti viscontiani con scene e costumi di Salvator Dalì) e, oggi ancor di più, con le sfarzose e illimitate possibilità delle versioni cinematografiche del suo teatro. Si è pensato, allora, di tornare alla poetica essenzialità della parola scenica; alla nuda scenica realtà della Poesia drappeggiata di velluti e alle relative “Luci psicologiche” che riflettono una “visione interiore” del personaggio protagonista di questo o di quel dramma. Si è così arrivati a rinunciare quasi totalmente alla scenografia – ma si pensi ancora alla suggestione della versione scenica di Salvator Dalì per la tanto discussa edizione di “As you like” ribattezzata per l’occasione “Rosalinda” dal nome della

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protagonista nello spettacolo, criticatissimo cinquantasette anni or sono (ma chissà oggi….!), spettacolo firmato nientemeno che da Luchino Visconti, che stava per travolgere anche il malcapitato e sommo Ruggero Ruggeri, ed il bellissimo aitante Vittorio Gassmann -. E si ripensi alle messinscene “naturali” degli spettacoli ambientati nei luoghi stessi delle azioni shakespeariane, ideati e realizzati settant’anni or sono da Max Reinhardt e da Renato Simoni. Da Jacques Coupeau e da Guido Salvini. Si ripensi, e si torni a meditare sulle doviziose e raffinate messinscene di Franco Zeffirelli (il suo “Amleto” per Giorgio Albertazzi, la sua “Romeo e Giulietta” per Annamaria Guarnieri e Giancarlo Giannini). Niente, oggi, niente più scene. E allora forse si dovrebbe ricorrere nuovamente alle magie del grande attore, sublime giocoliere e profondo interprete della parola scenica. Sì, certissimamente. Ma questo è stato possibile soltanto in alcuni casi, e con attori oggi non più giovanissimi: Scaccia-Shylock, Mauri-Prospero, Herlitzka-Re Lear. E allora? Allora, torniamo a morderci la coda. Come sempre. Rinunciare all’invadenza registica e scenografica per approfondire lo studio interiore, attraverso la parola scenica magicamente giocata da un grande attore, sarebbe interessante. Ma dove trovare i nuovi grandi attori shakespeariani oggi in Italia, dopo il “Tramonto del Grande Attore” sempre più rari? E perché poi tornare all’antico? Perché dopo i nomi già più volte qui ricordati, da venti e trenta anni sempre più rari appaiono affacciarsi al povero orizzonte nuovi “grandi attori” degni dell’eredità - non diciamo di Tommaso Salvini, di Ernesto Rossi e di Adelaide Ristori e anche di Luigi Monti e di Alamanno Morelli – ma anche di Novelli e Ruggeri. E aggiungiamo ancora sull’eredità di Memo Benassi e di Alessandro Moissi, sull’eredità di Albertazzi, di Gassman, di Scaccia e Mauri, di Randone e Antonio Crast, di Herlitzka,…piomba un gelido silenzio. Ma, sull’altro versante, anche a proposito di “Registi” degni di questa singolare, strana – o estranea – parola, c’è, da sottolineare il fatto che dopo Simoni e Salvini, Costa e Strehler, Ferrero, Enriquez e Squarzina, il campo è deserto e dominato soltanto da Luca Ronconi. Ci si rifugerà, sembra proprio nuovamente, come agli albori delle impossibili messinscene shakespeariane in Italia, nella lettura di altre impossibili versioni, nella lettura. Ma il Teatro di William Shakespeare oltre la sua Poesia, al di là della sua profonda filosofia, è soprattutto Teatro. E cosa potrà accadere leggendo e rileggendo? Staremo a vedere.

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PARTE PRIMA SHAKESPEARE E IL TEATRO DEI GRANDI RUOLI AMLETO, OTELLO, JAGO, MACBETH E LADY MACBETH, ROMEO E GIULIETTA, SHYLOCK E PORZIA, RE LEAR E IL “MITO” DEL GRANDE ATTORE ROMANTICO ALL’ITALIANA.

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Le illustrazioni Shakespeariane. Shakespeare e le sue muse italiane: ispirazioni e aspirazioni.

A) Dalla clamorosa “scoperta” di Giuseppe Baretti alla prima rappresentazione italiana di “Amleto”. Antonio Morrocchesi – il primo interprete – le sue “Lezioni di declamazione d’arte teatrale” e gli intendimenti dei primi interpreti e primi “traditori”. Primi traduttori italiani di Shakespeare. Gli “eroici” tentativi e gli “approcci” di Gustavo Modena. B) Ernesto Rossi, Adelaide Ristori e Tommaso Salvini, Giovani Emanuel: loro interpretazioni, tagli, mutilazioni e traduzioni. C) Ermete Novelli, Ermete Zacconi, Ruggero Ruggeri e le assurde critiche rivolte loro da Silvio D’Amico. Amleto alla rovescia e “quell’altro Amleto”. D) I rari incontri di Eleonora Duse e di Ruggero Ruggeri – vale a dire dei due attori più moderni del teatro italiano – con Shakespeare. La polemica di Ruggeri con Diego Angeli. I riconoscimenti all’estero per i grandi attori tragici italiani. E) Epigoni (Benassi, Ricci, Randone, Scaccia, Mauri, Herlitzka) e pseudoinnovatori (Gassmann e Squarzina e gli spettacoli con i “tagli” aperti). La moderna regìa ancora condizionata dai “grandi ruoli”. F) Shakespeare tragico e lo spettacolo all’aperto in Italia. Shakespeare e il melodramma: Shakespeare come melodramma. G) La moderna regia, le interpretazioni moderne, sociali, impegnate e i nuovi tipi di “arbitrii”. Strehler e i drammi storici. Iter cronologico delle rappresentazioni shakespeariane. Metamorfosi. -

Cronologia del teatro tragico di Shakespeare.

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LE ILLUSTRAZIONI SHAKESPEARIANE Per quanto riguarda le rappresentazioni italiane del Teatro di Shakespeare in Italia, sarebbe stato naturalmente più facile reperire belle illustrazioni nostre contemporanee, e invece l’editore ed io abbiamo preferito privilegiare il passato e le prime belle immagini dei nostri tragici; le più rare e preziose stampe che ritraggono fin dal 1700 le espressioni di Antonio Morrocchesi (primo Amleto italiano) e di Adelaide Ristori marchesa Capranica del Grillo (famosa Lady Macbeth), di Salvini e di Ernesto Rossi, di Alamanno Morelli e di Emanuel. Ma anche di loro contemporanei quali Carlotta Marchionni, Modena, Cazzola, spesso tentati dallo studio di grandi personaggi shakespeariani, ma meno fortunati, per esempio, di Ermete Zaccconi, della Duse e di Ruggeri. La “modernità” si presenterà con immagini dei volti dei Registi – non tutti italiani, ma agenti sulle nostre scene – ed ecco allora Visconti e Strehler, Orazio Costa e Salvini, Enriquez e Zeffirelli, Ferrero e Ronconi. Di alcuni di loro – dei grandi maestri della scena européa - leggi Max Reinhardt e Jacques Copeau – anziché i volti abbiamo scelto foto di scena di indimenticabili loro spettacoli a eternarne la memoria. E poi c’è l’Opera, con abbondanti citazioni illustrative, e le innumerevoli variazioni cinematografiche internazionali. Ci sarebbe da fare un grosso volume solo con le numerosissime illustrazioni: una meraviglia per gli occhi e per la memoria.

Francesco Hayez “L’ultimo bacio dato da Giulietta a Romeo”

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SHAKESPEARE E LE SUE MUSE ITALIANE: ISPIRAZIONI E ASPIRAZIONI Matteo Bandello, il Giraldi-Cinthio, e lo stesso filosofo italiano residente a Londra, Giovanni Bacone, furono indiscusse fonti letterarie per molte opere “italiane” - vale a dire non unicamente quelle ambientate in Italia - di William Shakespeare. Per buona parte del secolo ventesimo questa origine italiana di certa drammaturgia shakespeariana,venne chiaramente sollecitata anche da parte di autorevoli storici. Venezia,Verona, Mantova, Messina, e diverse altre citate o storicamente accertate (Roma), sono luoghi ricorrenti. Anche se William Shakespeare, esponente del cosiddetto "rinascimento inglese" é indubbiamente vissuto tra il 23 aprile dell'anno 1564 ed il 23 aprile 1616 (suggestiva coincidenza di date) tutto é stato posto in dubbio di Lui. Può Egli aver prodotto, da solo, l'immensa sua produzione teatrale e poetica? I "sonetti" - datati 1609 - lievemente autobiografici anche se provocatori e rifacentesi ai lirici greci, furono l'unica sua opera non contestata. Ma, per almeno due secoli, furono condannati, messi all' ''indice''. La sua immensa fama, però, é legata alla sua vasta produzione teatrale (di circa quaranta opere rappresentate e tradotte in tutto il mondo civile): drammi, drammi storici o pseudo-storici, tragedie, commedie. Divulgate il più delle volte dai Grandi Attori Tragici Italiani, sia pure in brutte e sciatte ed arbitrarie versioni, sempre approssimative, che prevedevano grandi tagli (intere scene ed anche atti interi omessi) e altri personali arbitrii d'ogni genere, esaltanti però sempre i Protagonisti. Ma l'Attore Italiano, anche il meno colto e raffinato, con il suo 'istinto' amò tanto questo o quel personaggio, alcuni dei quali furono dipinti da Lui una volta per sempre. La Compagnia del Ciambellano, e lo stesso glorioso Globe Theater non avevano fatto nulla (il Bourbage e lo stesso Shakespeare non risulta siano stati attori eccezionali) in confronto alle magie elargite da Tommaso Salvini (Otello) e da Ernesto Rossi (Amleto e Re Lear), da Adelaide Ristori (Lady Macbeth) e da Ermete Novelli (Shylock), da Eleonora Duse e da Ruggero Ruggeri... Quest'ultimo aveva letteralmente 'cantato' il ruolo del dolore “Prence di Danimarca” - contemporaneamente a Irving - , così come continueranno a fare e per tutto il ventesimo secolo Renzo Ricci e Vittorio Gassman e Giorgio Albertazzi e anche il giovane Lavia. L' ''Otello'' di Tommaso Salvini aveva tuonato dalle ribalte di tutto il mondo, fino ad influenzare addirittura “il lavoro dell'attore sopra se stesso” di Costantino Stanislawskj - e tutti gli altri lirici, ivi compresi Francesco Tamagno (primo Otello verdiano) e Ramon Vinay, Francesco Merli, Mario Del Monaco. 15


Lauri Volpi tornò alla poesia immaginando cosa sarebbe stato un Otello ripensato liricamente da Ruggeri. Ma qualche traccia affiorò nei nuovi interpreti che avevano studiato sui suoi dischi. E la divulgazione di uno Shakespeare italiano, o all'italiana, continua.

William Shakespeare, incisione dal ritratto di John Taylor NOTE

Dunque Shakespeare, che firmava senza la prima 'e': Shakspeare che significherebbe "Scuoti la lancia!",aveva scritto già qualche 'Sonetto' proibito da giovinetto. Aveva iniziato a sperimentarsi con il grande Marlowe, a soli vent'anni, nel 1584. "Il ratto e lo stupro di Lucrezia" gli crearono non poche difficoltà e persecuzioni. La prima, vera, grande affermazione arriverà soltanto dieci anni più tardi, quando divenne socio della Compagnia del Ciambellano ("Chamberlain’s Men") e dà subito alla luce le sue commedie più fantasiose e fantastiche: "Sogno di una notte di mezza estate", "Molto rumore per nulla", "La dodicesima notte", "Come vi garba” (Rosalinda ), e tragedie sublimi quali "Romeo e Giulietta" e "Giulio Cesare". Soltanto dopo altri tre lustri (intorno al 1600, quindi) Egli realizza in pieno il proprio Genio, creando una dopo l'altra le tragedie più celebri, assai presto popolari: "Amleto, principe di Danimarca", "Antonio e Cleopatra", "Macbeth", "Otello il Moro di Venezia", "Re Lear" e "La Tempesta". Queste tragedie, furono, poi, quelle che particolarmente infiammarono i grandi tragici italiani, non tanto per il loro valore poetico e drammatico, quanto per i grandi ruoli che proponevano a loro, alle loro ambizioni , personaggi quali Otello e Jago, Romeo e Mercuzio, Amleto, Macbeth e Lady Macbeth, Re Lear e Prospero. E, infatti, le attenzioni dei nostri grandi attori furono subito rivolte a OTELLO, AMLETO, SHYLOCK, ROMEO. Tanto é vero che molti degli altri ruoli 'minori' scomparvero, condensando l'attenzione sui protagonisti.

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-ADalla clamorosa “scoperta” di Giuseppe Baretti alla prima rappresentazione italiana di “Amleto”. Antonio Morrocchesi – il primo interprete – le sue “Lezioni di declamazione d’arte teatrale” e gli intendimenti dei primi interpreti e primi “traditori”. Primi traduttori italiani di Shakespeare. Gli “eroici” tentativi e gli “approcci” di Gustavo Modena. Giuseppe Baretti (Torino, 1719 + Londra, 1789), l’autore del polemico saggio “Discours sur Shakespeare et sur Monsieur de Voltaire” – saggio scritto in lingua francese e pubblicato a Londra nell’anno 1777 – è il primo severo critico italiano che si sia seriamente occupato, sia pure in lingua francese ed in Inghilterra, del teatro di William Shakespeare. Sul sottile giuoco della polemica pungente, rivolta all’indirizzo del vano filosofare di un Voltaire accanito detrattore del genio di Shakespeare, il Baretti costruì con una tenacia – Aracne, paziente dea della sua seducente dialettica – un discorso, un suo nuovo discorso sul Genio di Stratford-on-Avon, atto a conquistare, ammaliare, e poi, a poco a poco, ad interessare seriamente la distratta critica italiana e ad attirare verso quel grande teatro di poesia gli artisti drammatici italiani, costantemente protési verso i grandi ruoli del teatro di Vittorio Alfieri. E, in questa difficoltosa operazione, il Baretti riuscì – se non altro – ad interessarli verso gli altrettanto “grandi ruoli” del teatro shakespeariano. L’equivoco, probabilmente, nacque proprio da questi buoni propositi divulgativi del critico torinese. Comunque, il risultato della vivace polemica che fece seguito all’appello del Baretti fu davvero clamoroso. Bisogna, del resto, tener conto del fatto che durante quasi tutto il secolo diciottesimo, Shakespeare fu ignorato e considerato “irrappresentabile” nella maggior parte dei paesi d’Europa, e che il primo uomo di talento e di prestigio internazionale che si era occupato di lui era stato il dispettoso ed invidioso Voltaire, che lo aveva definito “un uomo di poco conto” e un “barbaro privo di qualsiasi gusto”. Di contro il Baretti, italianizzando gustosamente ed ironicamente i nomi francesi, aveva risposto che “lo Shakespeare era un Poeta nel tragico e nel comico, tale da stare a fronte solo soletto, a tutti i Corneilli, a tutti i Racini e a tutti i Molieri di tutte quante le Gallie!”. Non fu per causa di queste strombazzate polemiche, comunque, - o almeno non soltanto per questo motivo – che gli attori italiani cominciarono ad interessarsi al “Barbaro poeta del Nord”: si trattava, al solito, dei grandi ruoli particolarmente invitanti e stimolanti. Non per nulla, il primissimo interprete italiano di Amleto – prima opera di Shakespeare tradotta e rappresentata in lingua italiana – fu quello stesso Antonio

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Morrocchesi, autore delle rinomate “Lezioni” (“Lezioni di declamazione d’Arte teatrale”, Firenze, 1832) e maggiore interprete del teatro alfieriano. E, fatto singolare nella vicenda del nostro teatro, questo avvenimento fondamentale della fortuna italiana del teatro di Shakespeare, e della sua storia singolarissima, provocò un insolito pudore da parte del giovine tragico, il quale volle celare il proprio nome, per questa unica occasione, sotto lo pseudonimo di Alessio Zaccagnini. Ma questo insolito pudore del giovane mattatore non potrebbe essere interpretato come un dubbio inquietante nei riguardi della tragedia shakespeariana, piuttosto che come “timore reverenziale”? Pensiamo proprio di sì. Correva l’anno 1783, ed il Morrocchesi contava appena i venticinque anni di età (essendo nato a San Casciano in Val di Pesa, il 15 maggio 1768), ma recitava da dieci almeno e aveva già raccolto successi notevolissimi. “Amleto, principe di Danimarca”, fu rappresentato per la prima volta in Italia, nel Teatro Borgognissanti a Firenze, fra una replica della “Mirra” alfieriana ed una serata d’onore del giovine “divo” Morrocchesi (Zaccagnini soltanto per Amleto) nell’ “Oreste”. Risultato prevedibile: la tragedia “nuovissima”, mal tradotta e mal ridotta negli zoppicanti versi di Alessandro Verri (già pubblicata nel 1769), passò inosservata nel confronto diretto con le mille seduzioni del verso alfieriano “originale” e sostenuto dall’entusiasmo dell’interprete. Ci fu allora, anche in Italia, qualcuno che, sia pure timidamente, cercò di intervenire in difesa dell’opera shakespeariana. Invano. E, per colmo di sventura, il Baretti (deceduto da circa quattro anni), non poteva più intervenire col peso determinante della sua violenta polemica all’acido nitrico, nemmeno sotto l’eloquente pseudonimo di Aristarco Scannabue, con il quale per decenni aveva attaccato i letterati italiani con la sua scudisciante “Frusta letteraria”. Questo primo incontro italiano, del pubblico italiano, con il teatro di Shakespeare fu dunque compromesso dalla traduzione del Verri, dai “tagli” arditissimi del giovane mattatore e dall’incongruenza della melodrammatica ed incomprensibile messinscena, del tutto contraria alle tradizionali leggi aristoteliche, cui il nostro pubblico sembrava non saper rinunciare. Di conseguenza, il disorientamento generale. Il Paradisi, altro esempio illustre in fatto di papere colossali della nostra critica letteraria e teatrale, in una lettera ad un comico fiorentino che gli chiedeva notizie del teatro di Shakespeare, rispondeva con una certa ostentata sicurezza: “Vi sono bellezze, lo vedo. Ma i difetti sono troppi e troppo frequenti e troppo grossolani”.

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ANTONIO MORROCCHESI Incomprensione della critica e degli attori, dunque. Luigi Rasi, nei suoi due preziosissimi volumi sui “Comici italiani”, definisce il Morrocchesi “grandissimo artista di maniera”. E questo “artista di maniera”, tutto compenetrato dalle bellezze e dai “tuoni” delle bellezze esteriori del verso alfieriano, doveva essere il meno adatto ad intendere e a far intendere la profondità di un personaggio come il principe Amleto. Attore di impeto e non di meditazione. Racconta il Rasi, a proposito del Morrocchesi, nel suo libro illustre: “Io mando lo studioso alla lettura di quel saporitissimo libretto di Jarro, ove della prima recita del “Saul”, e della quinta alla presenza dell’autore, è riferita la cronaca del Morrocchesi: qui basterà dire che il nostro attore dové ripetere alcun brano subito la prima sera fra le acclamazioni del pubblico, e che la quinta, al cospetto di Alfieri, si abbandonò con tale violenza sulla spada nel proferire l’ultimo verso “Me troverai, ma almen da Re , qui morto”, che feritosi gravemente, cadde alienato di sensi, e, quando rinvenne, si trovò nel suo letto circondato di amici, tra i quali, da quel punto, si poté contar il grande astigiano”. Dall’opera pedagogica del Morrocchesi, possiamo oggi intendere ancora e ancor più chiaramente il suo metodo interpretativo e le sue attenzioni rivolte esclusivamente alla dizione, alla vocalità e alla tecnica – “mestiere” – artigianale . “Molt’arte, molt’attenzione – diceva il primo interprete di Amleto in lingua italiana – ricercarsi per usare le tante differenze che trovansi nei tuoni della voce, e tutto ciò che l’arte stessa aggiunge ai detti tuoni, contribuir dee ad accrescer il senso, e a rendere l’espressione di quelli più gagliarda, più viva ed energica, come nell’atto pratico in miglior guisa che in teorica, secondo le opportune circostanze, mi farò partitamente a dimostrare”. Nozioni tra le più elementari, impartite con la retorica delle grandi imprese belliche. Divertentissimo eppure, se vogliamo, lapalissiano, l’esempio – dallo stesso Morrocchesi illustrato con dieci disegnini d’attore gesticolante – per mezzo del quale l’attore alfieriano cerca di spiegare ai suoi allievi il significato dell’accento per l’enfasi e per l’intelligibilità di una battuta teatrale. “Se Caio dimandasse a Tizio : “Vieni TU, oggi a desinare da me?”, Tizio gli potrebbe convenientemente rispondere: “No, mando mio fratello!” . “Se: vieni tu QUEST’ OGGI a desinare da me?”, risponderebbe: “No, verrò domani”. “Se: Vieni tu quest’oggi a DESINARE da me?, la risposta potrebbe essere: “No, verrò a cena!”.

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Inteso il “sistema”, si comprenderà il risultato “artistico” e si può anche azzardare di ricostruire le “intonazioni” piene, cariche di “appoggiature”. Tutto ciò non impediva al Morrocchesi di raccomandare al malcapitato suo allievo che : “Tutto ciò che sa di studiato, ha un’aria di falsità, d’artifizio; e quel che è timido, indica debolezza o diffidenza. Franchezza, adunque, facilità e giusto ardimento mostrar si dee dal recitante: e tutte queste cose per entro il vero, suddivisato si racchiudono”. Chiaro? Possiamo senza esitazione credere che fu, soprattutto come conseguenza di questo incontro “disgraziatissimo” col Morrocchesi se il “dolce prence di Danimarca” venne ancora accantonato, ritenuto “poco teatrale” dalla maggior parte dei comici italiani dell’epoca e dai seguenti, per la maggior parte allievi del Morrocchesi o del suo metodo. Egli infatti, divenuto “idropico” e toltosi dalle scene, si dedicò totalmente, ahinoi, all’insegnamento, fino alla fine dei suoi giorni (Firenze, 1838). Previsioni nere, quindi. Di male in peggio. Non ci meraviglierà il fatto che Shakespeare torni ad essere relegato ancora in biblioteca. Nel migliore dei casi.

I TRADUTTORI

Nel secolo diciottesimo, in Italia, le traduzioni del teatro di Shakespeare si potevano contare sulle dita di una sola mano: oltre al Verri (autore anche di una versione italiana di “Otello” in versi, datata ufficialmente 1777), si poteva leggere, ma leggere soltanto, una molto letteraria, ma comunque interessante traduzione del “Giulio Cesare” ad opera di Domenico Valentini (scritta già nel 1756, ma pubblicata molto più tardi) e quella “anonima” di “Romeo e Giulietta”, - anzi “ Giulietta e Romeo” - che ci appare oggi molto più simile ad un “rifacimento” che non ad una vera e propria traduzione italiana della tragedia originale. Trovare poi (qualora qualche grande attore tragico e qualche eminente critico drammatico o letterario si fossero voluti “incomodare”) le edizioni originali inglesi del teatro di Shakespeare non era davvero facile, nel povero mercato librario italiano. Di questo “Gigante del Nord” si parlava molto nei salotti letterari italiani, ma con la ferma convinzione, pare, che si trattasse di un Autore assolutamente irrappresentabile ed antiteatrale. Convinzione erratissima, ma purtroppo confermata dalla recita del Morrocchesi e dalle sparute rappresentazioni seguenti, come vedremo.

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Intanto però, i più scaltri librettisti d’opera attingevano a piene mani dal ricco patrimonio shakespeariano, soltanto per “sentito dire” e fingendo di attingere direttamente per proprio conto dalla novellistica del Bandello o del Giraldi-Cinthio. Fu in questo modo che nacquero - “di contrabbando” - la prima “Giulietta e Romeo” dello Zingarelli, quella del Vaccai e, poco più tardi, il celebrato “Otello” rossiniano. Quest’ultima opera, fra l’altro, sgomentò grandemente Stendhal, nonostante la splendida aria “Assisa ai pié d’un salice” cantata dalla Malibran, tanto da far nascere la leggenda degli arbitrii arrecati dagli italiani ai danni delle tragedie del grande William. (tra parentesi ci sarebbe da notare e sottolineare come ancora mezzo secolo più tardi Tommaso Salvini reciterà una “Giulietta e Romeo” firmata dal Duca di Ventignano come sua opera originale e non come traduzione shakespeariana!). Nacquero così le prime diffidenze da parte di un pubblico quanto mai disorientato che aveva conosciuto i grandi personaggi shakespeariani attraverso la parola scenica cantata e dei quali non aveva potuto apprezzare altro che il vasto respiro lirico e drammatico. Queste diffidenze furono spazzate via soltanto più tardi, da quegli intrepidi ambasciatori d’italianità che nel secolo diciannovesimo saranno i grandi attori tragici italiani. Ma in realtà, anche allora bisognerà ancora attendere affinché le opere teatrali di Shakespeare vengano conosciute veramente nella loro totalità e complessità. Attenzione alle date: si pensi che “Otello” è del 1610 e che sulle scene italiane apparve solo intorno al 1820 e che “Amleto” era stato scritto fin dal 1602 e in Italia venne pubblicato solamente nel 1756. In altri casi, per altre opere, il “ritardo” sarà di due e persino tre secoli! A questo punto, anche uno studioso appassionato come Mario Còrsi deve riconoscere che è “impossibile rintracciare soltanto scarse notizie” su recite e traduzioni di Shakespeare in Italia e ricorda che gli scrittori italiani a cavallo fra il XVIII ed il XIX secolo, parlando dello Shakespeare, non possono mai alludere a rappresentazioni italiane dei suoi drammi. Nel famoso dizionario “Notizie storiche dé comici italiani che fiorirono intorno all’anno MDC fino a’ giorni presenti” (Padova, 1781), dizionario redatto in un pittoresco linguaggio di gergo teatrale da Francesco Bertoli, l’autore non prevede né registra, nelle ampie e documentate schede biografiche dei suoi attori, alcuna interpretazione shakespeariana. Dopo le pochissime recite del Morrocchesi (anzi, pardon, di Alessio Zaccagnini, come soleva chiamarsi, col cognome materno, in questa rischiosa operazione teatrale, l’autore delle “Lezioni d’arte declamatoria”) fu il silenzio per una trentina di anni ancora.

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Eppure la eco delle grandi interpretazioni “moderne” dell’attore inglese David Garrick (1740, con “Amleto”; 1742, con “Otello”) era arrivata, e clamorosamente, fino a noi. Garrick fu il primo a far vestire il suo Amleto in abiti contemporanei ed ebbe tale successo e tanti seguaci che soltanto nel 1814, con il grande Edmund Kean (“genio e sregolatezza”) si tornò per quest’opera, almeno in Inghilterra, ai costumi elisabettiani. C’era già stata, e fin dal 1777, addirittura una prima interprete femminile, un’intrepida “prima attrice” che volle indossare gli abiti maschili del Principe di Danimarca, coprendosi, misteriosamente, soltanto il volto con un fitto velo. Anche il ruolo di Otello poteva vantare, in Inghilterra, una sua tradizione, dopo il Burbage (Riccardo Burbage, socio di Shakespeare e primo assoluto interprete di Otello, accanto all’autore). Garrick, Kean e Broocke avevano già dato appassionanti eppur diverse versioni del Moro di Venezia. In Italia, invece, ad oltre un secolo dalla morte di Shakespeare, era stato rappresentato soltanto un “Amleto”, ed in una sola timida edizione.

Fu intorno al 1820 che Francesco Lombardi (Bergamo, 1792 – Milano, giugno 1845), attore singolare quanto altri mai, “intollerante al giogo” – come ebbe a scrivere il Rasi di questo violento ed irruento allievo di Luigi Vestri e di Gustavo Modena – si cimenta coraggiosamente con la tragedia “Otello, il Moro di Venezia”. Francesco Rigetti, nel suo bel volume sul “Teatro italiano”, testimonia del valore di questo attore istintivo – all’opposto dell’amico Morrocchesi – in questo modo inconfondibile: “Il solo Francesco Lombardi s’alza gigante in mezzo a tanti suoi confratelli che, o giacciono nell’oscurità, o appena toccano la mediocrità!”. Un sonetto dedicato all’arte del Lombardi – opera di Tommaso Locatelli – inizia con questi versi: “Sei tu, Lombardi, o il furibondo Emone / d’Antigone svenato al crudo aspetto che col barbaro padre in ria tenzone / d’ira trabocca e disperato affetto?”. Il Lombardi, è evidente, trovò il suo ruolo di Otello assolutamente congeniale con il suo violento carattere (Egli infatti morì ucciso da un cuoco armato di coltello in una rissa furibonda in una bettola). Il Lombardi fu anche più costante del Morrocchesi nell’amore per il suo personaggio shakespeariano: recitò Otello per una decina d’anni, ferendosi puntualmente nella scena dell’epilessìa recitata realisticamente, pare, in maniera “estremamente impressionante”.

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Attratti dai giganteschi ruoli di Amleto e Otello – più che dalle complesse opere integrali di Shakespeare e dal loro autentico valore e profondo significato – il Morrocchesi ed il Lombardi avevano “osato” l’impossibile e, soprattutto per questo, ci sono cari. Osare, qualche volta, conta molto per noi. E per loro. A questo fatto essi devono la loro “immortalità”. Tutti gli altri attori loro contemporanei erano rimasti fedeli al loro prediletto Alfieri e non si erano nemmeno curati di Shakespeare. Scarseggiarono anche i traduttori, delusi anch’essi da queste prime realizzazioni sceniche e dallo scarso interesse del pubblico e della critica per questa prima fatica. Per leggere il teatro di Skakespeare, tutto il suo teatro, si dovette ricorrere a “incetta” clandestina delle edizioni inglesi. Ma neppure queste era facile rintracciare. In Italia, ben presto, il conoscere Shakespeare divenne un rarissimo privilegio, consentito solo ai pochi veri conoscitori della lingua inglese. Fu l’opera “Works of Shakespeare in eight volumes, with a comment and notes by Mr. Pope and Mr. Warburton” (London, 1747) a diffondersi più rapidamente delle altre similari edizioni originali del suo teatro in Italia. E in seguito, la fortuna italiana dell’Autore di “Amleto”, proprio per merito della divulgazione di questi libri, crebbe notevolmente durante il secolo diciannovesimo. Giustina Reiner Michiel pubblicò a Genova tre tragedie di Shakespeare: “Otello”, “Macbeth” e “Coriolano” e destò sensazione. “Otello” venne tradotto anche da Michele Leoni (Parma, 1814) – e fu questa la versione adottata dal Lombardi per il primo cimento scenico – e, poi, da Ignazio Valletta a Firenze, su “commissione” di un ignoto “grande tragico” del tempo il quale, in seguito, spaventato dal personaggio del Moro, rinunciava per sempre all’ardua impresa. Correva l’anno 1830. In quello stesso tempo Ippolito Pindemonte e Vincenzo Monti, Ranieri de’ Calzabigi (l’anziano riformatore dell’opera gluckiana) e poi lo stesso Vittorio Alfieri si interessarono fattivamente al teatro del “Grande barbaro del Nord” (sic). In seguito, anche Ugo Foscolo ed Alessandro Manzoni - il quale “osò” per primo scrivere apertamente che chiunque avesse voluto scrivere poesìa avrebbe dovuto leggere e studiare Shakespeare, il quale “conosce tutti i sentimenti umani” (e questo fatto dovette impressionare fortemente il giovine e manzoniano per la pelle Giuseppe Verdi) -, dedicarono ampi studi al teatro del Poeta del Nord.

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ALAMANNO MORELLI Nel 1850, finalmente, il grande Alamanno Morelli (Brescia, 12 giugno 1812 + Scandicci, 11 gennaio 1903) fu il primo a riprendere l’ “Amleto, Principe di Danimarca” – tragedia in cinque atti – in un proprio adattamento dalla nuova versione del Rusconi, consigliatagli da Gustavo Modena, del quale era stato allievo prediletto. Modena, come vedremo, sarà il Maestro di tutti i futuri grandi interpreti italiani del teatro tragico di Shakespeare. Primo, almeno in ordine di tempo, Alamanno Morelli. Attore straordinariamente moderno, risulta il Morelli da una recensione del fiorentino “Yorick”, Pietro Coccoluto Ferrigni, riferentesi a una serata d’onore dell’attore in “Amleto, Principe di Danimarca”, ricordata a distanza di anni: “Amleto rivestiva con lui tutta la maestà della sventura, e nei momenti del delirio e dell’allucinazione rivelava con lo sguardo, col gesto, col tono della voce l’interna lotta fra la paura di scoprire il vero ed il disgusto di vedersi circondato dal falso”. Già soltanto da queste illuminanti parole del severo critico si potrebbe scorgere in quella del Morelli la prima interpretazione nevropatica, esistenzialista, della scena drammatica italiana, e non soltanto italiana. Alamanno Morelli manterrà costantemente la tragedia shakespeariana nel suo repertorio fino a tarda età. Rivaleggerà, in questo personaggio, con Rossi e con Salvini. E non è cosa da poco.

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Difficile questa sua posizione di “terza forza” della scena drammatica italiana. Il Morelli si cimenterà, in seguito, ma soltanto per poche recite straordinarie, nel “Macbeth”, in una versione del Butani da lui stesso “ridotta per le scene drammatiche italiane” e adattata nei ruoli alla propria compagnia. Ebbe al suo fianco la maggiore tragica e la più grande interprete in senso assoluto del personaggio terribile di Lady Macbeth: Adelaide Ristori. Comunque, il Morelli fu il primo a realizzare sulla scena quanto gli era andato inculcando da anni il suo grande Maestro: Gustavo Modena.

GUSTAVO MODENA

Gustavo Modena (Venezia, 13 febbraio 1803 + Torino, 30 febbraio 1861), figlio dell’illustre attore Giacomo Modena e di Luigia Bernaroli Lancetti, aveva amato svisceratamente il teatro shakespeariano, fin dall’adolescenza. Ma aveva dovuto dolorosamente rinunciare a rappresentare il suo autore prediletto, avendo seguito da vicino gli insuccessi italiani delle prime rappresentazioni di Amleto e Otello. E pensare che egli sarebbe stato, a detta di tutti i testimoni, l’attore più idoneo, ed il più autorevole del suo tempo, per riportare sulla scena gli eroi shakespeariani. Fu inutilmente perseguitato da questo pensiero costante per tutta la sua breve vita terrena e per quella scenica, ancora più breve. Per una recita straordinaria di beneficenza al Teatro Carignano di Torino, il Modena, vinto dallo sconforto e dalla trepidazione interna, acutissima in lui, dovette – dopo notti insonni di studio e prove massacranti – sostituire all’ultimo momento l’annunciato “Amleto” con la tragedia di Voltaire “Maometto, ovvero del fanatismo”. Quanto alla mezza rappresentazione di “Otello” fatta dal Modena al Teatro Re di Milano (1843: sette anni prima della “ripresa” del Morelli), ci rifaremo anche noi al fantastico racconto – immaginato da Celso Salvini nella biografia di Tommaso Salvini da lui redatta con scrupolo – che ne “avrebbe potuto fare” lo stesso Modena al giovine Maso, altro suo allievo prediletto o, meglio ancora, con Ernesto Rossi. “ Immaginiamoci di ascoltare, a proposito di questo storico fiasco – dice Celso Salvini – un colloquio avuto dal Maestro col giovanissimo Rossi, nel suo studio di Venezia. - L’allievo entra in casa del Maestro e trova su un tavolo due vecchi copioni che dimostrano lo studio costante: Amleto e Otello.

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“Sì, le ho studiate, ma recitate…”, risponde il Modena all’allievo che aveva chiesto: “Ma lei ha recitato queste tragedie?” - E il Modena, prendendo in mano il manoscritto dell’ “Otello” ed indicando la prima scena: “Da qui, fin qui…”. - “Non capisco”, dice Salvini, “Venne male a qualcuno?”. “Dovettero sospendere la rappresentazione?”. - “Sì, venne male al pubblico, e fummo obbligati a calare il sipario…” Poi il Modena continua amareggiato: - “Io mi ero dato con amore a studiare la parte del protagonista, ma, a dirla con schiettezza, dubitavo molto dell’esito…”. - “E perché? …Shakespeare…lei mi canzona!”. - “Caro el mì vecio, tu dici bene… Ma non sai che “Shakespeare” è già di per se stessa una parola troppo difficile per le nostre mascelle!!”. Il racconto vero della famigerata serata è poi raccontato da Ernesto Rossi in una delle sue lettere autobiografiche indirizzate al signor De Gubernatis e da quest’ultimo accuratamente raccolte: “Alzato il sipario - racconta Modena – alla scena fra Jago e Rodrigo, quando questo si mette a gridare…il pubblico cominciò a bisbigliare, poi dal bisbiglio passò al riso e allo zittire. Avevano letto sul cartellone “tragedia” e credettero di assistere ad una scena goldoniana o a una fiaba del Gozzi. Basta, basta!…Urla, fischi!”. La conclusione amarissima del Modena è questa: “Presi il signor Shakespeare sotto il braccio e lo misi a dormire”. Ancora più amara è la sua riflessione: “L’ideale dell’Arte non si può conseguire in Italia: non autori, non pubblico, non corona di buoni attori”. Fu amareggiatissimo e da allora i suoi rapporti con il pubblico italiano non furono più buoni. Eppure questo attore era stato l’idolo del pubblico colto e raffinato della capitale del Piemonte. Salito rapidissimamente a grande fama, Modena aveva esordito accanto a Salvatore Fabbrichesi come “David” nel “Saul” alfieriano, sostituendo all’improvviso Alessandro Lombardi, il fratello del primo interprete italiano di “Otello”. Aveva, in seguito, elettrizzato letteralmente le platee d’Italia recitando nella “Virginia” dell’Alfieri e nella “Francesca da Rimini” del Pellico, ed era persino riuscito a trasfigurare il mediocre drammone del Delavigne “Luigi XI”, facendo dimenticare, per questo ruolo, Talma a Parigi e Garrick a Londra.

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Nonostante questi successi strepitosi, Modena fu tremendamente amareggiato dal fatto di non poter portare sulla scena i personaggi del teatro di Shakespeare, da lui studiati a fondo e profondamente amati. Soltanto una volta, dopo il mancato appuntamento con Amleto e dopo il fallimento di Otello, il Modena riuscirà ad impersonare, per una sola sera, a Venezia, nel 1848, il personaggio di “Macbeth” accanto ad Adelaide Ristori. Una sola sera e per una recita “privata”, per giunta! Eppure gli parrà di “toccare il cielo con un dito!”. “Grande e bella figura, quella del Modena – scrive Luigi Rasi – di cui non sappiamo bene se più e meglio valesse la modestia sincera, l’arte potente o il patriottismo caldissimo”. E Vito Pandolfi sull’ “Enciclopedia dello Spettacolo”, alla voce “Modena”: “Nella storia del teatro italiano, la figura di Modena resta unica per la coerenza del suo atteggiamento nell’Arte, nella vita, nella storia, viste in un’unità inseparabile”. E lo stesso artista è illuminante e trasparente nei suoi candidi e fermi “credo” artistici: “L’arte per l’arte sola è cosa vuota di senso; e precipuo scopo del teatro è di aprire gli occhi ai ciechi estirpando pregiudizi e superstizioni”. Infine Angelo Brofferio aveva esclamato per il Modena e per la sua Arte irraggiungibile ed irripetibile: “In nulla gli altri somigliante, messe in disparte le note convenzioni teatrali, spogliandosi del gesto, della declamazione, della movenza, del contegno del commediante. Modena poneva sulla scena l’Uomo…senza lustro, senza belletti, ma come lo fece Alfieri, Corneille, Shakespeare, o, per dir meglio, come lo fece Iddio”. Proseguendo per questo faticosissimo e lentissimo iter cronologico delle rappresentazioni shakespeariane in Italia, potremmo dire che “correva l’anno di grazia 1848” e la città di Venezia aveva potuto dare, privatamente, questa grande gioia a chi da anni era andato studiando e vagheggiando la messinscena delle opere del Genio di Stratford-on-Avon. Eppure il terreno appariva sgombro. Un capitolo del già citato libro del nipote di Salvini si intitola appunto: “Decadenza della Tragedia e crisi del repertorio dopo il 1850, in Italia”. E nel 1850, Alamanno Morelli, intuendo e risentendo per primo di questa “crisi del repertorio”, era riuscito a riproporre – sia pur deplorevolmente mutilato – l’ “Amleto”. E la Ristori impersona superbamente Lady Macbeth, ombreggiando per sempre il protagonista della tragedia. Con tutto ciò, per il teatro di Shakespeare possiamo dire che in Italia “era ancora notte fonda”. Intendo parlare, naturalmente, e come sempre, delle rappresentazioni teatrali, ché, per quanto riguarda le versioni e le relative pubblicazioni, il Carcano e il

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Rusconi erano andati lentamente, ma con impegno, colmando le gravi lacune della cultura, o , meglio, dell’incultura.

TRADUTTORI: CARCANO E RUSCONI

Il milanese Giulio Carcano (1812-1884) tradusse quasi tutto il teatro di William Shakespeare, in versi per la maggior parte molto discussi, ma felici ed estremamente intelligibili. La loro validità si riferisce alla disponibilità di una versione scritta non tanto per essere letta, quanto per essere declamata. Carlo Rusconi (Bologna, 1819-1889) invece, scrisse dei versi attraverso i quali – in maniera assai più libera, ma tanto più teatrale – lo spirito e la poesia del Poeta non uscirono del tutto oscure. Il Carcano si era creato una certa fama con le belle ottave scritte per la sua novella “Ida della Torre” e non andò mai oltre questo formale vagheggiamento di una letteratura romantica lombarda. Un certo piglio, che nonostante tutto gli appartiene, gli deriva dallo spirito patriottardo e anche patriottico (partecipò alle Cinque Giornate). Sarebbe stato un ottimo librettista. Peccato! Un’occasione perduta. Il Rusconi, invece, con molto più garbo e “politica” (fu Ministro degli Esteri per la Repubblica Romana) non trascurò la forma, eccellendo nelle sue versioni per Lord Byron. L’eredità scenica shakespeariana dal Modena – rifiutate una volta per sempre le pessime traduzioni del Leoni – cadrà tutta sulle poderose spalle del Rossi e di Tommaso Salvini, i quali sapranno riscattarsi individualmente per la loro grande opera di divulgazione del teatro shakespeariano nel mondo intero. E questo a dispetto delle critiche rivolte loro per il fatto che queste mirabolanti rappresentazioni virtuosistiche accadevano mediante le deformazioni e le variazioni che gli stessi grandi attori erano andati operando sulle versioni “grossolane” del Carcano e del Rusconi, amici del Modena e loro “compatrioti” ardentissimi. Ma, in definitiva, queste versioni e questi adattamenti appaiono non tanto gravi – obbligati dalle esigenze della lingua italiana, – se si considerano i tagli, le mutilazioni, gli arbitrii – non giustificati da necessità di traduzione – operati in Inghilterra da parte dei grandi attori inglesi.

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Le interpolazioni, le aggiunte di Garrick e di Cibber, divennero leggendarie, e, nonostante le aspre critiche, rimasero in repertorio per quattro o cinque generazioni, fino a Sir Laurence Olivier (1950!) Ma la lunga teoria, la trafila di rifiuti, tagli, cesure sulle opere di Shakespeare ha una data più antica. Nella sua stessa patria, il genio di Shakespeare fu sempre discusso: dai “rivali” Fletcher e Ben Johnson fino alla tarda rivalutazione di alcuni illustri “stranieri”, da Goethe a Puskin, da Stendhal a Hugo. Hume, per esempio, gli rimproverava la “completa ignoranza delle regole teatrali” ed il grande attore Garrick tagliò il brutto finale del “Re Lear” (sic) e soppresse per intero la scena del cimitero nel terzo atto di “Amleto”. Nel 1731, Carlo II d’Inghilterra aveva concesso una “Lettera-patente” ai due maggiori teatri londinesi – il “Drury Lane” ed il “Royal Covent Garden” – per rappresentarvi anche lavori d’impegno “quali quelli del signor Shakespeare”. Ma la tragedia storica di “Antonio e Cleopatra”, per esempio, ebbe scarsa fortuna, essendo il dramma anti-borghese per eccellenza, con problemi d’amore passionale in urto con i “doveri di stato”; di conseguenza, il dramma venne adattato da un certo Broocke con un’intenzione assai più familiare. Nel 1813, la grande Sarah Siddons si rifiutò di essere Cleopatra per non rischiare di diventare “antipatica” al proprio devoto pubblico. Per le stesse ragioni di “simpatia”, dei “lieti finali” furono adottati per le rappresentazioni di “Giulietta e Romeo”, “Amleto” e persino di “Otello”. Questo sulle scene inglesi. Da noi, qui sui palcoscenici polverosi dell’Italia da “fare”, ancora peggio. Non resta che dire: “Povero Shakespeare”.

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PRINCIPALI FILMS ISPIRATI DA OPERE DI GUGLIELMO SHAKESPEARE

I - «AMLETO» 1) «AMLETO» film muto - Italia - (1915) protagonista Ruggero Ruggeri. 2) - idem - film sonoro in bianco e nero - Inghilterra (1947) diretto ed interpretato da Sir Laurence Olivier con Jean Simmons. 3) - idem - film sonoro in bianco e nero - Russia - 1964. 4) - idem - edizione della TV Gran Bretagna 1970. 5) - idem- diretto da Franco Zeffirelli, protagonista Mel Gibson. II - «OTELLO» l) “OTELLO” - trasposizione cinematografica della tragedia-soggetto, regia e interpretazione di ORSON WELLES, prodotto da O. Welles nel 1951 con Suzanne Cloutier e Michael Mac Liammoir. 2) - idem - A colori - produzione URSS 1956, Mosfilm, diretto da Sergei Yutkevic - musiche originali di Nram Kathaciuriam. III - «MACBETH» 1) «MACBETH» - trasposizione cinematografica della tragedia con musiche originali di Jacques Ibert-Mercury films, USA, 1948 diretto e interpretato da ORSON WELLES, con Jeannette Nolan, Dan O'Herlinhy, Roddy Mc Dowall. 2) - idem - trasposizione cinematografica giapponese 1961: “ Un Trono di sangue” di A. Kurosawa

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IV - «RICCARDO III» l) «RICCARDO III» - trasposizione della tragedia o dramma storico-soggetto, regista e interprete: Sir LAURENCE OLIVIER con Ralph RICHARDSON, John GIELGUD, CLAIRE BLOOM e Sir Cedric Hardwicke. Prodotto in Gran Bretagna, 1956 a colori, dalla London film. 2) «RICCARDO III – UN UOMO, UN RE» di AL PACINO, U.S.A 1996 V - «ENRICO V» l) «ENRICO V» - trasposizione diretta ed interpretata da LAURENCE OLIVIER, per la Ranck film, Londra, 1945, a colori. Con la partecipazione di Renée Acherson, Leslei Bancks, Robert Newton ecc.

VI - «GIULlO CESARE» l) «GIULIO CESARE» - trasposizione cinematografica integrale o quasi - regista: Joseph L. Manckiewicz, musiche di Miklos Rozsa prodotto nell'anno 1953, negli USA, per la Metro Goldwyn Mayer, ed interpretato da MARLON BRANDO (Marc'Antonio), James MASON (Bruto), Louis CALHERN (Giulio Cesare) e John GIELGUD (Casca), Edmund O'BRIEN, Greer GARSON, Deborah KERR ecc. VII - «GIULlETTA E ROMEO» 1) «GIULIETTA E ROMEO» - trasposizione cinematografica inglese 1936 diretta da George CUKOR con Leslei HOWARD e John BARRYMORE e Norma SHEARER. 2) «GIULIETTA E ROMEO» - trasposizione cinematografica italiana 1954 a colori, della Jenni film - regista: Renato Castellani, musiche di Roman Vlad. Interpreti principali: Laurence HARWEY, Suzanne SHENTALL, Flora ROBSON. 3) «GLI AMANTI DI VERONA» - trasposizione in chiave moderna francese con Michael Auclair, Serge Reggiani ecc. (Bianco e nero, 1950). 4) «ROMEO E GIULlETTA» - diretto da FRANCO ZEFFIRELLI, produzione italo-inglese, 1967. 5) «ROMEO + GIULIETTA» di Baz Luhrmann, con Leonardo di Caprio, U.S.A 1996.

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IX - «FALSTAFF» 1) «FALSTAFF» - dalle «Allegre comari di Windsor» e da altri brani tratti dai drammi storici ("Enrico IV") diretto ed interpretato da ORSON WELLES prodotto in USA, 1965, a colori. X - « SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE» l) «Il sogno di una notte di mezza estate» trasposizione cinematografica del famoso spettacolo diretto da MAX REINHARDT, Germania, produzione 1935. XI - «TITUS ANDRONICUS» 1) «TITUS» di Julie Taymor con Anthony Hopkins e Jessica Lange, Gran Bretagna-U.S.A 1998. XII - « IL MERCANTE DI VENEZIA» 1) «IL MERCANTE DI VENEZIA» diretto da G. Lo Savio, con Ermete Novelli e Francesca Bertini, Italia 1911. 2) «IL MERCANTE DI VENEZIA» di Michael Radford con Al Pacino, Jeremy Irons, Joseph Fiennes e Lynn Collins, U.S.A 2004

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BIBLIOGRAFIA Antonio Morrocchesi: «Lezioni di declamazione d’arte teatrale» - Firenze, 1832. Enrico Montasio: «Luigi Bellotti-Bon, cenni biografici» - Firenze, 1865. Luigi Bonazzi: «Gustavo Modena e l'arte sua» - Città di Castello, 1884. Giuseppe De Abate: «Bellotti-Bon e la Reale Sarda» - Nuova Accademia, Roma, 1903. Eduardo Boutet: «Adelaide Ristori» - Roma, 1902. Cesare Scoccio: «Adelaide Ristori e Rachel» - Genova, 1886. Carlo Guetta: «Ernesto Rossi, appunti e ricordi» - Livorno,1906. Luigi Rasi: «I Comici Italiani» due volumi - Firenze, 1899. Luigi Rasi: «Tommaso Salvini» estratto di "Lettura" - Milano, 1904. Ernesto Rossi: «Riflessioni sul Teatro Drammatico Italiano» Livorno, 1893. Ernesto Rossi: «Quarant'anni di vita artistica» - Livorno, 1894. Stanislao Manca: «Impressioni e ricordi di Giacinta Pezzana» Palermo 1903. J. Sylveine «Novelli, giro artistico nell'America del Sud» Buenos Aires, 1894. Filippo Tommaso Marinetti: «Irma Gramatica» - Roma, D'A. 1902. Antonio Cervi: “ Tre Artisti” - Bologna, 1900. Luigi Rasi: «Senza Maschera» - Milano, 1919. Adelaide Ristori: «Ricordi e studi artistici» - Roma, 1905. Adelaide Ristori: «Ricordi e studi artistici» - Torino-Napoli, 1887. Cesare Levi: «Profili di attori» - Palermo, 1909. B. Marciano: «L'Amleto» - articolo del quotidiano "L'Italia" diretto da F. De Sanctis (4 maggio 1887). F. Montefredini: «L'Otello» - idem (7 luglio 1887). Tommaso Salvini: «Ricordi, aneddoti e impressioni» - Firenze, 1895. Tommaso Salvini: «In memoria di Alamanno Morelli» - Firenze, 1890. Tommaso Salvini: «Discorso in commemorazione di Adelaide Ristori» - Roma, ottobre 1906. Tommaso Salvini: «Sulla nazionalità dell’Arte Drammatica» - 1883. Camillo Antona Traversi: «Duse, sua vita, sua gloria, suo martirio» - Pisa, 1926. Camillo Antona Traversi: «Le grandi attrici del tempo passato» Milano, 1929. Gino Monaldi: «Ricordi viventi di artisti scomparsi» - Campobasso, 1927. Silvio D'Amico: «Maschere» Silvio D'Amico: «Tramonto del Grande Attore» Silvio D'Amico: «Cronache del teatro» due volumi a cura di Sandro D'Amico – Laterza, Bari, 1964. Silvio D'Amico: «Storia del Teatro Drammatico» - 4 volumi - Garzanti, 1940. Renato Simoni: «Teatro di ieri - Ritratti e ricordi» - Milano, 1938. Ermete Novelli: «Foglietti sparsi narranti la mia vita» - Roma, 1919. Virgilio Talli: «La mia vita in teatro» - Milano, 1927. Roberto Bracco: «Tra le arti e gli artisti» - Napoli, 1919.

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Aurelio Zanco: «Ernesto Rossi, interprete e critico shakespeariano» - “Il Dramma”, 1939. Gina Rocca: «Teatro del mio tempo» - Osimo, 1935. Don Marzio: «Il capolavoro di Ferruccio Garavaglia» - Domenica del Corriere, Milano, 1943. Olga Signorelli Resnevic: «La Duse» - Milano, 1938. Alberto Cecchi: «La parete di cristallo» - Milano, 1943. Mario Corsi: «Chi è di scena?» - Ceschina, Milano, 1942. Nardo Leonelli: «Attori italiani» - Roma, 1940. Ermete Zacconi: «Ricordi e battaglie» - Milano, 1946. Eduardo Boutet: «La regina della tragedia, A. Ristori, nella sua parola e nei ricordi» - Roma, 1907. Enciclopedia dello Spettacolo - casa editrice "Le Maschere" fondata da Silvio D'Amico, Roma 1960-70. Achille Fiocco: «Storia del Teatro drammatico» - Cappelli, Bologna, 1966. Mario Apollonio: «Storia del teatro» - .Milano, 1933. Giovanni Calendoli: «L'Attore» - Roma, 1967. Vito Pandolfi: «Storia del Teatro» - Utet, 1970. Mario Còrsi: «Shakespeare all'italiana», 1950. Segantini e Mendhelson: «Duse, Bildnisse und Worte» Vienna, 1926. Antonio Gramsci: "Letteratura e vita nazionale" - Torino 1950. Piero Gobetti: "La frusta teatrale" - Torino, 1910 - 1920. Renato Simoni: « Cronache teatrali» - ILTE, Milano, 1960. Marco Praga: «Cronache drammatiche »- Milano, 1923. Domenico Oliva: «Cronache teatrali »- Roma, 1921. Rivista teatrale “Sipario” - Bompiani, 1946 - 1970. Rivista teatrale “Il Dramma” - Ilte, Torino, 1920 - 1970. Rivista teatrale “Commedia” - 1900 - 1925. Leonardo Bragaglia: «Ruggero Ruggeri in 65 anni di storia del Teatro», Trevi, 1967. Leonardo Bragaglia: «Ermete Zacconi e il naturalismo scenico», Il Torchio, Roma 1973. Leonardo Bragaglia: «Adelaide Ristori» Edizione del Comune di Cividale del Friuli 1972. Leonardo Bragaglia: «Gustavo Modena» in “Il Carabiniere” 1973. Paolo Emilio Persiani: “Ermete Novelli Sublime guitto”, Cesena, 2002.

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Leonardo Bragaglia

Shakespeare in Italia

Shakespeare in Italia

Leonardo Bragaglia

È disponibile della stessa collana il libro “Ermete Novelli Sublime Guitto” di Paolo Emilio Persiani

Leonardo Bragaglia celebra quest’anno, con “Shakesepare in Italia” i suoi polemici e battaglieri cinquant’anni di teatro, assolutamente indipendenti. Cinquant’’anni di teatro militante in qualità di attore, di regista teatrale e radiofonico, saggista e critico musicale, autore drammatico (“Figlio unico di madre vedova” e “Il terzo incomodo”). Cinquant’anni durante i quali ha avuto modo di fondare il Teatro del Conventino - primo teatro off Roma -, la Scuola di Teatro intitolata a “Ruggero Ruggeri” (con sedi ad Anzio, Fano e Frosinone) e il Premio Wanda Capodaglio fin dal 1981. Nipote, senza nepotismi, di Anton Giulio Bragaglia, era entrato, in arte nel lontano 1948 con lo zio paterno; l’anno successivo si iscriveva all’Accademia Nazionale d’Arte drammatica di Silvio D’Amico. Ne uscì subito, anche se era stato ammesso ex aequo con Gluaco Mauri (1949). Tornò alla “gavetta” recitando con Picasso, Benassi, Gandusio, Almirante e Tumiati, all’Ateneo di Roma e al Piccolo Teatro di Roma diretto da Orazio Costa. Trovandosi isolato - dopo i burrascosi litigi ideologici con lo zio, e con D’Amico- fece alcune piccole interpretazioni nei film di Totò diretti dallo zio Carlo Lodovico per poi passare a recitare nei Teatri viaggianti dei “Guitti”. Fu per sei anni aiuto regista ed attore al Teatro del Convegno di Milano diretto da Eligio Possenti; promosso sul campo, Regista da Riccardo Bacchelli per la sua novità: “Giorni di verità”. Diresse una dozzina di spettacoli per la Compagnia del Dramma Italiano di Giorgio Prosperi, per il suo Teatro del Conventino, per la Compagnia del Teatro dei Commedianti, per La Compagnia della Commedia, e moltissimi spettacoli per la RAI. Ha diretto attori quali Renzo Ricci e Paola Borboni, Wanda Capodaglio e Elena Zareschi, Elsa Merlini e Renzo Giovampietro, Carlo Ninchi e Franca Nuti, Cesarina Gheraldi ed Evi Maltagliati, Warner Bentivenga e Anna Miserocchi ecc. Ha fornito adattamento e regia per le “commedie in trenta minuti” (RAI), della Zareschi, e ha curato adattamento e regia per “La professione della signora Warren” di G.B. Shaw allestita allo Stabile di Roma, per la “Tancia” del Buonrroti ecc.

prezzo al pubblico € 18,00 - iva inclusa

Questo volume è stato inserito dall’editore nella collana “Teatro”

personaggi, interpreti e vita scenica del teatro shakespeariano in Italia

Leonardo Bragaglia ha pubblicato una quarantina di saggi, i più importanti su Ruggero Ruggeri, sulla storia del libretto teatrale e la prima biografia su Maria Callas. Ha lavorato inoltre per le riviste “Vita Italiana” della Presidenza del Consiglio, e per “Palcoscenico”per “Il Carabiniere”, per la “Rivista delle Nazioni”, ecc. Attualmente L.B. é ospite della Casa di Riposo per Artisti drammatici italiani “Villa Borelli” in Bologna, dove dirige il Premio Nazionale Wanda Capodaglio per attori debuttanti, e il Premio Ermete Novelli nel Comune di Bertinoro, ove é affiancato da Paolo Emilio Persiani. Sta rivedendo alcune opere giovanili, mentre promette delle interessanti “Memorie”, sue personali e della illustre famiglia, a cominciare dal Padre, il “pictor philosophous” Alberto Bragaglia, da Lui stesso riscoperto e divulgato.

Il libro esce grazie alla partecipazione del Comune di Bertinoro

ISBN 88-902003-0-8

www.persianieditore.com paoloemiliopersiani@libero.it

shakespeare copertinacolor.indd 2

24-07-2005 18:07:28


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