Il Minotauro Giugno 2017

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Il Minotauro Problemi e ricerche di psicologia del profondo

ISSN 2037-4216 Anno XLIV - n.1 Giugno 2017



Anno XLIV–Vol. n. 1 GIUGNO 2017

IL MINOTAURO PROBLEMI E RICERCHE DI PSICOLOGIA DEL PROFONDO

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IL MINOTAURO Rivista fondata in Roma nel 1973 da Francesco Paolo Ranzato

www.rivistailminotauro.it ORGANO UFFICIALE DELLA SCUOLA DI PSICOTERAPIA ANALITICA AIÓN Via Palestro, 6, 40123, Bologna Tel: 348.2683688

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Sommario Articoli: Editoriale di Luca Valerio Fabj ...............................................................................................5 In memoria di Gigliola Panzacchi di Luca Valerio Fabj .............................................................................................13 Il ruolo delle emozioni nell’arte della comunicazione. Un approccio psicologico di Javier Fiz Pérez e Andrea Ardia ......................................................................17 Psicoide e protomentale: Jung e Bion di Riccardo Gramantieri ed Erica Neri ...............................................................33 L’inserimento del disabile nel mondo del lavoro di Javier Fiz Pérez ed Eleonora Ginepri ..............................................................49 La crescita del disabile attraverso tre temi fondamentali di Javier Fiz Pérez ed Eleonora Ginepri ..............................................................63 Intervista a Mario Trevi. Conversazioni sull’ombra e la creatività nella poetica di Arthur Rimbaud di Alessandro Raggi e Marianna di Mezza ...........................................................77

Employer branding: le motivazioni delle risorse umane in chiave di sostenibilità e crescita del business di Javier Fiz Pérez e Chiara Greta De Filippo .....................................................85 Jung e Neumann. Il carteggio (1933-1959)... della delusione di Giuseppe Ierace .................................................................................................97 Sussidiarietà e Terzo Settore: i nuovi attori sociali. Dal ben essere al ben vivere di Javier Fiz Pérez e Michele Ferraro .................................................................111

Welfare aziendale. Il bene comune diventa motore per la crescita di Javier Fiz Pérez e Chiara Greta De Filippo ...................................................141 Recensioni ..........................................................................................................155



QUALE EFFICACIA NELLE PSICOTERAPIE PSICODINAMICHE

Editoriale di Luca Valerio Fabj

«La scienza (così come oggi è esercitata) è il tentativo di creare per tutti i fenomeni un linguaggio comune a base di segni, con cui potere più facilmente calcolare, e conseguentemente dominare la natura. Questo linguaggio di segni, che raccoglie tutte le “leggi” osservate, non spiega tuttavia nulla – è soltanto una specie di brevissima (abbreviatissima) descrizione dell’accadere» (Nietzsche, Frammenti postumi 1884, 26) Attualmente vi è un ampio interesse e dibattito scientifico sulla efficacia dei vari metodi di psicoterapia di cui la psicoanalisi con le sue metodiche terapeutiche psicodinamiche non può non interessarsi. Che la psicoterapia individuale psicodinamica sia efficace è un fatto che oggi è oramai accertato con prove schiaccianti (Luborsky et al., 1975; Smith et al., 1980; Shedler, 2010). Una metaanalisi sulla psicoterapia psicodinamica breve (Crits-Christoph, 1992) ha dimostrato che i pazienti sottoposti a tale trattamento avevano l’86% di miglioramento sui sintomi bersaglio rispetto ai pazienti in attesa di trattamento. Il metodo Kernberg noto come PDLab, che è metodica assolutamente psicodinamica, ha ottenuto persino il riconoscimento della Evidence Base in medicina, ed il Gabbard nella sua ultima edizione del noto Psichiatria Psicodinamica (2014), riporta, per ogni singolo disturbo psichiatrico classificato secondo il DSM-5 dati statistici, pressoché inoppugnabili, della efficacia della psicoterapia psicodinamica nel trattamento degli stessi. Anche nel confronto con altre psicoterapie considerate efficaci i risultati che si sono ottenuti sono estremamente confortanti. Infatti, la meta-analisi di Anderson e Lambert (1995) ha osservato che le terapie dinamiche brevi, risultavano più efficaci rispetto a terapie alternative in valutazioni di follow-up, sia utilizzando scale di personalità sia durante il trattamento, sia valutando i risultati dopo sei mesi o più dopo la fine del trattamento. Ma, ancora più importante, un’altra meta-analisi su studi pubblicati fra il 1970 e il 2004 non ha riscontrato alcuna differenza di efficacia fra psicoterapie psicodinamiche brevi e la tanto decantata psicoterapia cognitivo-

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comportamentale rispetto ai miglioramenti riguardanti problemi specifici, sintomi psichiatrici generali e funzionamento sociale (Leichsenring, 2004). Questo insieme, non certo esaustivo, di dati che ho riportato potrebbe indicare una delle “nuove sfide” della psicoanalisi: quella di affrontare l’annoso problema non solo della sua scientificità ed efficacia, ma anche di una corretta distribuzione di questa informazione che spesso viene artatamente occultata per favorire metodi di psicoterapia diversi da quelli psicodinamici. Affrontare questa sfida sarebbe un lavoro di notevole mole e che richiederebbe molta dedizione, tuttavia, i dati già raccolti sono molti e andrebbero solo approfonditi per vincere questa sfida. Ma affrontare una iniziativa simile presenta due grandi ostacoli. Il primo è dato dalla mentalità di quell’ancora vasto gruppo di psicoanalisti che potremmo definire “autoreferenziali” che sono, in realtà, ben poco interessati a questo problema. Questo tipo di concezione assolutamente irrealistica della analisi non meriterebbe neppure di venire discussa se non fosse che è numericamente alquanto diffusa nel mondo della psicologia del profondo. Infatti, molti analisti, ancora oggi, non sono né medici, né psicologi, ma persone laureate nel novero delle scienze umanistiche che non hanno una visione clinica della psicoterapia, i quali sanati in base al principio di non retroattività della legge italiana non hanno mai frequentato un reparto psichiatrico neppure un giorno della loro vita professionale e non sono molto spesso in possesso di alcun diploma di specializzazione riconosciuto dal 1 MIUR e molto spesso non sono neppure in grado di fare una diagnosi tipo DSM del disagio psichico dei pazienti che a loro si rivolgono. Ovviamente con una impostazione di questo tipo che non necessita di conferme pratiche oggettive a ciò che si compie è molto facile che l’unico riferimento che venga preso come dato di validità dei propri metodi terapeutici sia la propria autoreferenzialità. Tuttavia, questo vasto gruppo di professionisti appare in sé molto variegato e per nulla omogeneo nelle sue inclinazioni di gusto intellettuale personale con cui colorano la loro visione della psicodinamica. Alcuni, fermi alla Vienna del primo ‘900 credono che aver letto e studiato Freud e/o Jung più o meno condito di qualche filosofo contemporaneo sia più che sufficiente per affrontare la professione di psicoterapeuta. Altri credono che si sia ancora negli anni ‘70 ai tempi dell’antipsichiatria e stanno ancora aspettando la rivoluzione del proletariato non solo per risolvere i problemi dei loro pazienti, ma anche quelli della umanità intera. Un altro gruppo ancora, sin troppo diffusi nel mondo junghiano, hanno una visione magica dell’uomo e sono molto più interessati alla astrologia, ai miti e alle pratiche esoteriche che ai meccanismi di difesa dell’Io o alla tecnica di interpretazione del transfert per cercare di codificare in un metodo le loro pratiche 1 I quali sanati in base al principio di non retroattività della legge italiana non hanno mai frequentato un reparto psichiatrico neppure un giorno della loro vita professionale e non sono molto spesso in possesso di alcun diploma di specializzazione riconosciuto dal MIUR.

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professionali. Infine vi sono quelli che devono amplificare in senso culturale ogni problematica psichica spaziando dalla filosofia alla letteratura passando per la antropologia creando in realtà solo una grande confusione che spesso sfocia in manifestazioni scritte o dialettiche di pensieri che per evitare di essere banali divengono talmente complessi che sono incomprensibili praticamente a tutti. Tutto questo insieme di narcisismo molto grave mai curato e neppure visto da parte di questi analisti che, come ho asserito sono alquanto numerosi, renderebbe pressoché impossibile un lavoro di raccolta dei dati secondo i parametri accettati dalla comunità scientifica per una loro validazione e, soprattutto, una impossibilità di usare un lessico condiviso non solo con il mondo scientifico, ma anche fra questi stessi analisti che hanno nel loro vocabolario solo la parola “IO”. Naturalmente tutto questo si potrebbe bypassare escludendo questo gruppo di professionisti da una ricerca volta al raccogliere dati utili ai fini della validazione di un metodo di psicoterapia rispetto alla sua efficacia. Tale esclusione tuttavia, non sarebbe priva di difficoltà perché appunto non è facile escludere da un gruppo persone che hanno un ego così espanso, nel momento in cui si rendessero conto che quel gruppo potrebbe portargli quella visibilità che genera quella “gloria” gratificante per la quale vivono. Ma non dubito che ricercatori seri sarebbero in grado di eliminare persone siffatte da qualsiasi studio randomizzato si ponesse in essere per validare una psicoterapia. Ma il secondo punto che si oppone ad intraprendere questa sfida è veramente un altro e di sostanziale importanza: accettare questa sfida e vincerla, davvero porterebbe un sostanziale vantaggio alla psicologia del profondo? Personalmente non ne sono affatto convinto e cercherò di spiegarne le ragioni, che a mio avviso dovrebbero essere condivise dall’altro gruppo di analisti, a cui anche chi scrive ritiene di appartenere, e che si potrebbero definire “ortodossi” rispetto alla essenza delle concezioni che, a prescindere dai paradigmi specifici con cui la si esprime, formano l’impalcatura della psicologia del profondo. Premesso che oggi non ha alcun senso arroccarsi su posizioni concettuali di un secolo fa e che se parliamo solo di psicoterapia essa altro non è che “la cura con mezzi non somatici del disagio psichico” (Canestrari-Godino, 2007) e che quindi ad essa non si possono che applicare i criteri di valutazione medico-scientifica di qualsiasi altro trattamento terapeutico; il punto nodale da considerare è se le psicoterapie analitiche siano solo ed unicamente questa forma di cura delle malattie mentali. A mio parere non è così, la analisi non si limita a curare i sintomi bersaglio di un disagio psichico, anzi, si potrebbe dire che tutto ciò sia più un effetto collaterale che lo scopo principale che essa si prefigge. Fino dai tempi di Freud, senza il quale non vi sarebbe alcuna forma di psicoterapia analitica, è sempre stato chiaro che la psicoanalisi è anche, ma di sicuro non solo, una psicoterapia delle

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nevrosi (Freud, nella sua definizione nella undicesima edizione della Encyclopedia

Britannica del 1910, ampliata nell’articolo Psicoanalisi del 1926).

Come più che giustamente sottolinea la Professoressa Rutto2 la psicoanalisi presenta in se stessa più aspetti che sono fra loro complementari: «La psicoanalisi è:

a) un metodo di indagine della mente che cerca innanzi tutto di esplicitare il

significato inconscio di parole, azioni, sogni e fantasie. Teoricamente, si basa su alcuni concetti fondamentali: l’inconscio, l’angoscia, le resistenze, le difese, il transfert;

b) un metodo psicoterapeutico che utilizza l’interpretazione, le associazioni libere, l’analisi del transfert e del controtransfert. Per comprendere il funzionamento della mente, si avvale della metodologia clinica dell’osservazione;

c) un complesso di teorie psicologiche e psicopatologiche in cui sono sistematizzati

i dati forniti dal metodo psicoanalitico di ricerca e di cura. Una particolarità della psicoanalisi, come sosteneva Freud, è di essere un orientamento che lega strettamente la componente di ricerca e di conoscenza psicologica a quella operativa di intervento trasformativo e terapeutico. La psicoanalisi, quindi, è innanzi tutto un processo di conoscenza» (Rutto, 2001, pp. 11-12. Il grassetto è da me aggiunto al testo). Pertanto, la conoscenza di se stessi, ovvero la consapevolezza data dalla presa di coscienza del proprio mondo interiore inconscio, è il vero e principale scopo della psicoanalisi. Da tale conoscenza, ovviamente, può derivare anche la risoluzione dei conflitti psichici inconsci che sono alla base dei disagi psichici, e, grazie a ciò, vi può essere un miglioramento degli stessi. Ma, nonostante questo, resta la presa di coscienza dei propri contenuti inconsci lo scopo principale di un trattamento analitico. Da esso ne dovrebbe discendere un ampliamento del campo della coscienza con una vera e propria ristrutturazione della propria personalità se lo definiamo in senso freudiano, oppure, in senso junghiano, una individuazione che, come dice la parola stessa, porta alla formazione di una personalità non divisa in se stessa, ma unica: per l’appunto, un “individuo”, un “non diviso”. Tale presa di coscienza non può altro che basarsi su un processo psichico di paziente e analista che non può altro che “basarsi sulla esperienza” la quale molto difficilmente può corrispondere a validazioni “basate sulla evidenza” che come sostiene il Britton: «È una locuzione non priva di valore, ma in noi (analisti ortodossi) evoca forse più la voce del giurista che quella del medico o dello psicoanalista. Evoca più un’aula di tribunale che una stanza di analisi, e un brivido di paura ne accompagna l’uso in ambito clinico» (Britton, 2003, p. 7). 2 Piera Brusilla Rutto è Docente di Psicologia Dinamica presso la Facoltà di Psicologia della Università di Torino.

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Il brivido di paura evocato dal Collega anglosassone è una sensazione più che giustificata. Attualmente, infatti, stiamo assistendo al propagarsi di una sorta di Pensiero Unico Scientifico che ha delle caratteristiche dogmatiche degne di un’idea fascista alle quale ci si deve uniformare per forza, pena l’essere eliminati dalla professione e denunciati ad una Magistratura, sia degli Ordini professionali sia Ordinaria, che deve fungere da “boia” di questo regime scientista che toglie di mezzo chiunque si opponga alla “Verità” assoluta che il suo Pensiero Unico possiederebbe. Da ciò, le validazioni di efficacia, i vari manuali a cui attenersi nelle procedure pratiche terapeutiche e persino nelle opinioni che il medico può esprimere. Il messaggio che passa è il seguente: «Il mio metodo terapeutico ha ottenuto prova di efficacia per cui se non ti attieni ad esso sei antiscientifico e come tale sei un terapeuta che deve essere messo nella condizione di non nuocere». Tutti i fascismi hanno usato questa impostazione di pensiero per eliminare i propri oppositori siano essi stati il nazifascismo italo-tedesco o lo stalinismo sovietico. Non è assolutamente dignitoso per un metodo di cura che ha rivoluzionato il mondo persino nei termini usati dalla lingua parlata – basti pensare al termine “complesso” e “complessato”, oppure “inibito” che senza Jung e Freud non si sarebbero neppure pronunciati – inginocchiarsi di fronte all’idolo del dato matematico statistico della moderna procedura illiberale del monopolio del pensiero scientifico. Difatti, solo alcuni aspetti, ovvero quelli specificatamente psicoterapeutici in senso generale, della psicoanalisi possono essere sottoposti a tali verifiche, ma di certo non la sua essenza che si basa sulla unicità e irripetibilità individuale di ogni singolo paziente che si sottopone ad una analisi. Tale unicità di rapporto terapeutico, per definizione stessa, non si può ripetere in modo omologo in nessun caso: e quindi come si può misurare secondo criteri statistici? Ma sopratutto, di fronte al disagio psichico si possono usare gli stessi criteri di valutazione delle altre malattie umane? Francamente io credo proprio di no. Chiunque abbia i capelli bianchi come i miei e abbia anche solo un minimo di onestà intellettuale, sa molto bene come tutta la classificazione delle malattie psichiatriche non sia altro che una convenzione che viene, per praticità e necessità di comunicazione fra medici, universalmente accettata, e non una realtà oggettiva, come invece avviene per le malattie organiche. E ciò è un fatto, non la mera opinione di chi scrive. I nomi e i criteri, tutti sintomatologici – e come tali soggettivi perché i sintomi psichici sono un fenomeno psichico che un soggetto descrive o mostra alla psiche di un altro soggetto, venendosi a perdere così la necessaria distanza di osservazione scientifica fra un soggetto e un oggetto – cambiano continuamente e seguono criteri affatto non oggettivi. Basti pensare al fatto che le classi che raggruppano le sindromi psichiatriche sono enormemente differenti fra il DSM-3 di quando studiavo medicina e l’attuale DSM-5. Ma c’è molto

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di più di questo a conforto della mia tesi ed è proprio la statistica che mi viene in aiuto. Le patologie psichiatriche, proprio seguendo i criteri DSM, si manifestano infatti in forma pura solo nel 10% dei casi (Faravelli, 2010). In tutti gli altri casi, ovvero l’enorme numero del 90%, presentano un altissimo tasso di co-morbilità. Nel caso dei disturbi di personalità, poi, la situazione è ancora più grave, se si considera che in base alla classificazione DSM succede che: «Il numero di diagnosi di personalità per singolo paziente può andare da due fino a più di sette» (Lingiardi, 2001). Da una tale difficoltà di diagnosi discende anche una non piccola difficoltà di scelta terapeutica come la descrive il Faravelli:3 «In definitiva i dati che ci conducono alle scelte terapeutiche sono fondati su diagnosi in parte fuorvianti, in parte superficiali, su criteri di valutazione assai lontani dalle esigenze della clinica, su studi condotti nell’ambito di popolazioni non rappresentative del fenomeno patologico da studiare e in un ambiente non scevro di contaminazioni commerciali ed economiche» (Faravelli, 2010, p. 136). Quindi, se la diagnosi del disagio psichico è così complessa e per nulla chiara, come si può asserire con certezza una valutazione della efficacia di un metodo per curare una qualche malattia che non è per nulla chiara e precisa? Come si possono fare delle asserzioni di assoluta validità o meno di una pratica terapeutica quando ci si trova di fronte ad una situazione così complessa come la descrive il Faravelli? Inoltre, se osserviamo la meta-analisi sopra riportata di Leichsenring (2004), ci accorgiamo come due metodi terapeutici che non si considerano semplicemente differenti, ma addirittura opposti, come sono la psicodinamica e la terapia cognitivo comportamentale risultano entrambi egualmente efficaci. Questo ci dice indubbiamente una cosa fondamentale, ovvero, che il fatto che un metodo risulti efficace non significa affatto che ciò renda non efficace un altro metodo completamente opposto. E questo conferma che non basta studiare i metodi, poiché, se metodi opposti ottengono lo stesso risultato di efficacia è evidente che nelle cause di tale efficacia vi deve essere un’altra variabile che non è stata studiata. E ciò accade perché tale variabile è data da una dinamica individuale che non può venire valutata statisticamente. Quella dinamica terapeuta-paziente che avviene in psicoterapia che noi analisti chiamiamo “traslazione” che è unica ed irripetibile per ogni singolo paziente e che determina una parte importantissima nella azione di cura del trattamento (Fabj, 2009). E tale dinamica che è intersoggettiva si basa sulla esperienza e non sulla evidenza. Se così non fosse, non si potrebbe di certo verificare che due cose così differenti come la psicodinamica e la terapia cognitivo 3 Carlo Faravelli è professore ordinario di Psichiatria nelle Facoltà di Psicologia dell’Università di Firenze, dove è Direttore della Scuola di Specializzazione in Psichiatria alla Facoltà di Medicina.

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comportamentale possano sortire lo stesso effetto terapeutico; perché sarebbe come sostenere che il tempo che si impiega per giungere da un luogo ad un altro in aereo o in treno sia lo stesso sebbene le velocità e le modalità di spostamento (aria e terra) siano completamente diverse. Se si avesse un dato simile, ad esempio che per andare da Roma a Parigi in aereo o in treno una persona ci ha messo lo stesso tempo, cosa dovremmo considerare? Tutta una serie di fattori individuali, come ad esempio che per imbarcarsi in aereo ci sono volute due ore, che prescindono dai due mezzi di trasporto presi da soli. Lo stesso vale per i dati di questa meta-analisi, solo fattori individuali e quindi soggettivi sono stati in causa nel determinare il medesimo effetto fra i due paradigmi terapeutici. Tutto ciò non per asserire che gli studi basati sulla evidenza clinica andrebbero aboliti, ma per ribadire che ciò che in psicoterapia si basa sulla esperienza non solo non può essere eliminato, ma che deve essere il completamento dell’altro aspetto. Ed è proprio questa la nuova sfida della psicoanalisi, ribadire la importanza di ciò che in essa vi è di basato sulla esperienza confrontandosi utilmente con i dati scientifici statistici ma non uniformandosi ad un metodo che non gli appartiene e che, molto semplicemente, la distruggerebbe nella sua essenza. Sono certo che la psicoanalisi abbia tutti i mezzi e le risorse per vincere questa sfida se resterà fedele a se stessa ed affronterà quel senso inevitabile, quando manca il “manuale di istruzioni” da seguire come un automa non pensante, di “non sapere prima” dove andare di fronte ad un paziente che si presenta per la prima volta. Ma non conoscere la propria strada da seguire se ci si abbandona a ciò che nel nostro inconscio vi è di creativo ed intuitivo costituisce solo un apparente limite se si tengono sempre ben presente le parole del suo Padre filosofico, il Nietzsche: «Mai uomo si innalza come quando non sa dove lo conduce la sua strada» (Nietzsche, 1878). Luca Valerio Fabj

BIBLIOGRAFIA Anderson E.M., Lambert M.J., Short-term dynamically oriented psychotherapy: a review and meta-analysis, in “Clinical Psychological Review”, 15, 1995, pp. 503514. Britton R., Sesso, morte e super-io: esperienze in psicoanalisi, Astrolabio, Roma 2004. Canestrari R., Godino A., La psicologia scientifica. Nuovo trattato di psicologia generale, CLUEB, Bologna 2007.

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Crits-Christoph P., The efficacy of brief dynamic psychoterapy: a meta-analysis, in “American Journal of Psychiatry”, 149, 1992, pp. 151-158. Fabj L.V., Alchimia dell’Immagine. L’alchimia e il transfert: Jung e la Klein (prima edizione 2009 con prefazione di Renzo Canestrari), Paolo Emilio Persiani Editore, Bologna 2010. Faravelli C., Psicofarmacologia per psicologi, il Mulino, Bologna 2010. Gabbard G.O., Psichiatria psicodinamica, Raffaello Cortina Editore, Milano 2015. Leichsenring F., Rabung S., Leiding E., The efficacy of short term psychodynamic psychotherapy in specific psychiatric disorders: a meta-analysis, in “Archives of General Psychiatry”, 61, 2004, pp. 1208-1216. Lingiardi V., La personalità e i suoi disturbi, Il Saggiatore, Milano 2001. Luborsky L., Singer B., Luborsky L., Comparative studies of psychotherapies: is it true that “everyone has won and all must have prizes”?, in “Archives of General Psychiatry”, 32, 1975, pp. 995-1008. Nietzsche W.F., Umano, troppo umano (1878), Newton Compton Editori, Roma 1990. Rutto P.B., Lezioni di Psicologia Dinamica: Sigmund Freud, Bollati Boringhieri, Torino 2001. Shedler J., The efficacy of psychodynamic psychotherapy, in “American Psychologist”, 63, 2010, pp. 98-109. Smith M.L., Glass G.V., Miller T.I., The benefits of Psychotherapy, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1980.

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IN MEMORIA DI GIGLIOLA PANZACCHI

È con vivo dolore, condiviso dalla Redazione tutta del Minotauro, che si annuncia la prematura scomparsa della Collega e amica Gigliola Panzacchi che più volte ha collaborato come Autrice a questa Rivista. Poiché la notizia è uscita sul principale quotidiano locale non si nasconderà che la Gigliola si è tolta la vita portando con sé il suo bellissimo e adorato cane da caccia “Bella” che era l’unico essere vivente con cui condivideva la sua casa. Non deve meravigliare che un analista specializzato possa decidere di uccidersi, per due ordini di fattori. Il primo è dato dal fatto che essere psicoterapeuti non protegge certo di per sé dal disagio psichico esattamente come l’essere cardiologi non protegge dall’infarto. Il secondo invece è che, come ben rileva la Mc Williams, empatia fa rima con personalità depressiva che molto spesso è il tipo di personalità che possiede chi decide di fare questo lavoro, confermando con ciò la massima che dice: «Colui che il medico cura è sempre sé stesso». E ciò spiega perché la povera Gigliola nella storia della psicoanalisi non sia di certo il primo caso di suicidio, né sia un caso isolato. Lasciamo ai narcisisti imbecilli l’idea che essere analisti renda esseri superiori alla specie umana in toto e migliori dei propri pazienti. Noi preferiamo sentirci umani, soltanto umani, e proviamo il sentimento che quando uno di noi decide di togliersi la vita, in tutti noi è morto qualcosa: quella tendenza alla serenità e alla vita per la quale lottiamo ogni giorno nei nostri studi. Gigliola mi ha lasciato una bella lettera che la Polizia Giudiziaria mi ha mostrato, e sebbene la sua calligrafia fosse tremula, i suoi contenuti erano estremamente lucidi; come lucidissimo era il suo ultimo articolo pubblicato solo nello scorso numero di questa Rivista. La lettera iniziava con “Caro Luca, Bella dorme già...” ovvero il suo cane era già andato nel sonno di quella morte che presto avrebbe colto anche Lei. Mi auguro che Gigliola possa dormire in pace, in quella pace che la sua difficilissima vita non le ha mai dato e, sopratutto, che sia lasciata in pace senza che nessun curioso e nessun pettegolo si vada a interessare alle sue cose intime che non lo riguardano. Infatti, in vita Ella era quasi ossessionata dal fatto che negli anni Novanta i Giornali si erano interessati alla sua vita privata e affettiva sbattendola in prima pagina perché, ovviamente, in un mondo di omuncoli, faceva notizia il fatto che una psicologa si fosse sposata il suo paziente. Una gogna mediatica che non passava mai poiché grazie ad internet oggi il tuo passato se finisce in rete resta sempre un presente. Ancora oggi, ben diciassette anni dopo, infatti, se si digita il suo nome, la prima cosa che esce non sono i suoi titoli, o le sue capacità professionali, ma i titoli di giornale che raccontano i fatti della sua vicenda

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IL RUOLO DELLE EMOZIONI NELL’ARTE DELLA COMUNICAZIONE. UN APPROCCIO PSICOLOGICO Javier Fiz Pérez e Andrea Ardia Un uomo preistorico è seduto accanto al fuoco nella sua caverna: si riscalda e cuoce la selvaggina, frutto della fortunata caccia del giorno. Un rumore lo mette in allarme: l’uomo afferra le sue armi, e davanti a lui appare un avversario pronto alla lotta per la conquista del cibo. I corpi tesi, le armi pronte, lo scontro sta per iniziare: ma l’astuto cacciatore abbassa l’arma, prende l’animale arrostito, lo spezza e ne offre metà al suo contendente. Insieme i due uomini gustano la carne e mangiano a sazietà, condividendo il piacere del pasto. L’homo faber si è evoluto in homo suadens: l’accoglienza ha trasformato la lotta in condivisione di cibo, più vantaggiosa per entrambi. Il suo gesto ha persuaso l’altro a recedere dal combattimento [...]. Il guerriero ha lasciato il passo al persuasore.4 L’uomo, grazie alle sue abilità intellettive e relazionali, è riuscito, sin dalle proprie origini, a collaborare con i propri simili, diventando oggi l’essere vivente più evoluto del pianeta. Grazie a queste capacità relazionali e collaborative gli esseri umani sono stati capaci di creare gradualmente delle società, divenute con l’evoluzione sempre più complesse. In funzione di questo, l’uomo, nel corso della sua evoluzione, ha sviluppato la capacità comunicativa di persuadere i propri simili verso il raggiungimento di obiettivi, ideali e punti di vista concordanti. Numerosi studi neuroscientifici hanno evidenziato come la neuroplasticità del cervello umano si sia evoluta allo scopo di permettere scambi comunicativi di tipo interpersonale e sociale. La scoperta dei neuroni a specchio,5 particolari neuroni che si attivano osservando il comportamento di un altro essere umano, capaci di produrre un rispecchiamento emotivo e sensoriale che permetta il crearsi di empatia, ha determinato implicazioni importantissime ed essenziali per comprendere il ruolo del cervello nel comportamento sociale complesso, inoltre ha consentito di comprendere come mente e cervello umano si siano specializzati nella comunicazione finalizzata a generare relazioni sempre più complesse.6

4 G. Nardone, La nobile arte della persuasione: La magia delle parole e dei gesti, Ponte alle Grazie, Milano 2015. 5 G. Rizzolatti e C. Sinigaglia, So quel che fai: il cervello che agisce e i neuroni specchio, R. Cortina ed., Milano 2006. 6 G. Nardone, Op.cit.

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PSICOIDE E PROTOMENTALE: JUNG E BION Riccardo Gramantieri ed Erica Neri Le formulazioni del concetto di inconscio, in Jung e in Bion, sono complesse e affascinanti e al di là della loro indubbia originalità, hanno punti di contatto. Carl Gustav Jung (1875-1961), legato a Freud per un certo periodo della propria vita professionale, elabora la propria psicologia analitica in maniera autonoma dal maestro viennese, malgrado alcune intuizioni comuni nate durante lo studio delle associazioni verbali.Wilfred Bion (1897-1979) affonda le proprie radici nel pensiero freudiano e deriva il proprio lavoro dalla teoria delle relazioni oggettuali di Melanie Klein. Jung e Bion, appartenenti a momenti diversi della storia psicoanalitica, sono ovviamente autonomi nel proprio lavoro teorico, per cui non si evidenziano collegamenti diretti. Bion arriva alla psicoanalisi attraverso gli studi di medicina e il successivo lavoro con i gruppi in ambito militare, e l’unico labile collegamento con il pensiero junghiano è riscontrabile come interesse culturale, quando nel 1935 consigliò al suo illustre paziente, Samuel Beckett, di ascoltare una conferenza che Jung teneva alla clinica Tavistock (Bléandonu, 1990). È possibile, tuttavia, riscontrare, nei due Autori, l’interesse per il funzionamento psicotico e la messa a punto di una tecnica rivolta all’hic et nunc piuttosto che al passato. È possibile inoltre pensare ad alcune ulteriori analogie fra alcuni concetti cardine, quali l’inconscio interpersonale, il processo di trasformazione da inconscio a conscio attuato durante la seduta, e l’ipotesi di concomitanza di significati fra elementi psicofisici. L'inconscio collettivo in Jung Jung, proseguendo alcuni studi compiuti da Eugen Bleuler, compie i primi esperimenti associativi su persone “normali” durante lo svolgimento della sua professione presso la clinica psichiatrica Burghölzli di Zurigo, e pubblicherà la metodologia dell’esperimento ed i risultati nel 1904. A questi primi studi segue l’applicazione del metodo alle persone affette da dementia praecox, patologia che rappresenta il primo campo di studi e di interesse di Jung. Gli esperimenti di associazione permettono di rilevare l’esistenza di complessi. Nel saggio Sulla dottrina dei complessi (1911), Jung definisce il complesso come un tema personale costituito da varie idee tenute assieme da un tono emotivo e che, in particolari condizioni, può esercitare un influsso patogeno. Esso è il «polo di attrazione delle rappresentazioni [ed ha] capacità di azione autonoma nella mente, indipendente dalla coscienza» (Innamorati, 2013, p. 53). Il complesso è relativamente indipendente dal controllo centrale della coscienza ed è capace in qualsiasi

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L’INSERIMENTO DEL DISABILE NEL MONDO DEL LAVORO Javier Fiz Pérez ed Eleonora Ginepri La diversità nell’uomo ha sempre suscitato paura, sentimenti a cui esso ha reagito con l’allontanamento e l’esclusione da tutto ciò che appare “diverso”. Infatti per molto tempo le persone hanno emarginato tutto ciò che era giudicato “diverso”, ciò che era “pericoloso”. Questo è stato l’errore più grande che si potesse fare in quanto ha creato nel “diverso” il vero problema: una disabilità non fisica ma psicologica. Ancora oggi è molto lontana l’idea del disabile come portatore di ricchezze e risorse, come persona colma di valori. Passi avanti, verso una nuova concezione, sono stati fatti grazie alla pedagogia speciale: una scienza che studia la disabilità, finalizzata all’integrazione dei soggetti con deficit, alla creazione di una “cultura speciale” che porti a un cambiamento nell’agire comune, nel modo di pensare e vedere le persone disabili. Andando poi a prendere in considerazione il termine “disabilità” ci giungono infinite definizioni. Oggi viene definita dall’enciclopedia come: «la condizione di chi, in seguito a una o più menomazioni, ha una ridotta capacità d’interazione con l’ambiente sociale rispetto a ciò che è considerata la norma, pertanto è meno autonomo nello svolgere le attività quotidiane e spesso in condizioni di svantaggio nel partecipare alla vita sociale».30 Tuttavia, c’è chi cerca di fare grandi passi avanti spostando l’attenzione sul disabile inteso prima di tutto come persona, con i suoi diritti e le capacità di poter fare, oltre ai limiti che presenta; d’altronde tutti abbiamo dei limiti. Molto spesso un limite è percepito come qualcosa di negativo; in realtà imparare a conoscerli ci spinge a guardare oltre e a soffermarci su ciò che sappiamo fare meglio, migliorando e crescendo. Pur se qualcuno ha cercato di fare progressi, l’Italia, riguardo questo tema è molto arretrata: definisce innanzitutto la persona disabile come «colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione».31 Pone dunque l’accento sugli elementi che condizionano in negativo la vita del disabile, non considerando l’ambiente in cui vive e con cui interagisce che costituisce gran parte della sua vita. Inoltre sembra che per l’accesso al sistema di servizi, nel nostro Paese, non sia quasi mai sufficiente la verbalizzazione di uno 30 https://it.m.wikipedia.org/wiki/disabilità. 31 Art. 3 della legge 104/92.

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LA CRESCITA DEL DISABILE ATTRAVERSO TRE TEMI FONDAMENTALI Javier Fiz Pérez ed Eleonora Ginepri Le idee che si sono create negli anni per permettere un buon inserimento del disabile nel lavoro ovviamente non devono diventare un modello rigido da rispettare, ma essere prese in considerazione come linee guida, come punti di partenza. Un’ottima innovazione presa in considerazione per un buon inserimento del disabile nel lavoro è sicuramente il telelavoro. Il termine “telelavoro” indica un modo di lavorare, tramite l’uso di strumenti informatici, indipendentemente dalla localizzazione geografica dell’ufficio. È dunque un metodo che si contrappone alle modalità lavorative tradizionali e che comporta numerosi vantaggi. Questa potrebbe essere una soluzione che il contesto sociale propone nei confronti delle persone disabili per poterli aiutare nell’inserimento nel mondo del lavoro. Andando poi a prendere in considerazione la vita e la crescita del soggetto stesso sono emersi tre concetti di fondamentale importanza. Uno è studiato dalla psicologia positiva che prende in esame il benessere e la qualità della vita. Considera il ruolo fondamentale delle risorse e potenzialità dell’individuo, privilegia interventi per un miglioramento della persona e non si concentra sui limiti che questa presenta. C’è dunque un cambio di prospettiva nella percezione del disabile come colui che può fare. Un altro tema importante è un concetto che nasce alla fine degli anni Settanta, chiamato mindfulness, un processo che consiste nel prestare attenzione in modo particolare: “attenzione nuda”, consapevole, non giudicante, fatta momento dopo momento. Permette di prendere consapevolezza dei nostri pensieri, emozioni e sensazioni e di guardarli con distacco, come semplici interpretazioni della realtà e non come la realtà stessa, permettendo inoltre di fronteggiare lo stress emotivo e il dolore. Possiamo dunque ben comprendere come l’esercitazione di questo è di cruciale importanza per tutti, ma soprattutto per il disabile che si guarda e si giudica costantemente in maniera negativa. Ciò non vuol dire che la vita sarà libera da momenti critici ma diventa possibile imparare a scegliere la risposta migliore. L’ultimo tema affrontato è proprio quello dell’empowerment: quel processo di crescita duro e faticoso che permette al soggetto di autodeterminarsi. Questo per noi può sembrare un processo del tutto scontato, ma non è affatto così per il disabile che deve fare i conti non solo con la propria disabilità ma anche con le ansie dei familiari che lo circondano e che spesso gli impediscono una crescita, influenzando in maniera decisiva la formazione della persona.

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INTERVISTA A MARIO TREVI

CONVERSAZIONI SULL’OMBRA E LA CREATIVITÀ NELLA POETICA DI ARTHUR RIMBAUD INTERVISTA E TESTI A CURA DI

Alessandro Raggi (psicoterapeuta, psicoanalista – Napoli) COLLABORAZIONE DI

Marianna di Mezza (psicologa – Napoli) Nell’estate 1997, su presentazione di Aldo Carotenuto mio relatore per la tesi di laurea, fui invitato nella dimora romana di Mario Trevi44 che mi concesse una lunga intervista. All’epoca stavo lavorando a un progetto di tesi di laurea in psicologia sull’archetipo dell’Ombra nella poesia di Arthur Rimbaud, che s’inseriva nel più ampio filone di ricerca di Aldo Carotenuto, docente di psicologia della personalità alla Sapienza di Roma, sulle relazioni tra psicoanalisi e letteratura. Ricordo Mario Trevi, reduce da una convalescenza dovuta a un incidente in cui si ruppe un braccio, come una persona curiosa e affascinante, con modi signorili e pensiero irriverente, in una splendida casa irrorata di luce, tra libri, piante e i numerosi oggetti che probabilmente aveva raccolto durante la sua vita sempre alla ricerca di nuove prospettive. Sembra opportuno lasciare da subito spazio all’intervista rimasta sino ad oggi inedita. Trevi M.: «… io sono stato un po’ stupito di questo accostamento, non perché non sia costruttivo, per carità, ma perché personalmente non ci avevo mai pensato e poi naturalmente evocando, così, molto in fretta alla memoria Rimbaud, mi vengono in mente due aspetti. Il suo concetto di dérèglement, sregolamento, che è un concetto di rottura, legittimo proprio nell’ambito del decadentismo in cui Rimbaud viene collocato e che però, più largamente, nell’ambito della tradizione romantica, dove il poeta si trova sempre in una situazione di rottura, di sfida anche alla consuetudine socio-culturale dei suoi tempi, alla consuetudine borghese e così via. Possiamo risalire molto più su di Rimbaud, però, ecco, lui tematizza questo tema: bisogna rompere ogni regola per quello che riguarda le consuetudini della nostra sensualità. Poi, ecco, l’altra cosa che è connessa è appunto la sua vicenda omosessuale con Verlaine che noi oggi guardiamo come una cosa normale, legittima, soprattutto vissuta in condizioni di esaltazione reciproca, poi lui era 44(1924-2011) È stato uno tra i più autorevoli e influenti analisti junghiani italiani, autore di numerosi contributi e noto per le sue posizioni critiche rispetto allo junghismo “tradizionale” che hanno dato vita al movimento di pensiero del cosiddetto “criticismo junghiano”.

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EMPLOYER BRANDING: LE MOTIVAZIONI DELLE RISORSE UMANE IN CHIAVE DI SOSTENIBILITÀ E CRESCITA DEL BUSINESS Javier Fiz Pérez e Chiara Greta De Filippo Viviamo in un’epoca di profonda trasformazione culturale, sociale ed economica che richiede al management strategie e comportamenti sempre più efficaci per la gestione delle imprese e organizzazioni, in un ambiente incerto e dinamico. In questa prospettiva, la guida delle persone e dei gruppi nei contesti organizzativi presuppone che i manager credano fino in fondo che gli individui siano determinanti per il successo di un’organizzazione e costituiscano una fonte di vantaggio competitivo per la stessa (Pfeffer, 1994). La soddisfazione delle persone, la loro motivazione e il loro engagement, le conoscenze e le competenze individuali e di team sono la chiave di successo della leadership e, per poterle mettere in pratica, è richiesto un investimento consistente in questa direzione (Gabrielli, 2010). In passato, per un’organizzazione alla ricerca di talenti, trovare le risorse era più semplice e, al contrario, al giorno d’oggi ricercare e trattenere i talenti è diventato una necessità particolarmente sentita a livello aziendale ma, allo stesso tempo, maggiormente difficile da soddisfare. Dai risultati della Aon46 Global Risk Management Survey 2015, che ha coinvolto oltre 1400 professionisti in 60 paesi, emerge una lista dei dieci maggiori rischi percepiti dalle organizzazioni in tutto il mondo. Ai primi quattro posti della classifica troviamo rispettivamente le minacce al brand, i rischi economici, i rischi di cambi innovativi e la concorrenza. Al quinto posto si trova invece l’incapacità di attrarre e trattenere i talenti. Questi risultati tuttavia non sono isolati. Da uno studio effettuato nel 2014, il Global Talent Management and Rewards Study, dalla società americana Towers Watson,47 che ha coinvolto 1600 aziende in tema di attraction, retention ed engagement, emerge chiaramente come il problema inerente la capacità di attrarre e trattenere il personale sussista a livello globale. È stato altresì rilevato che il fenomeno è in sensibile aumento rispetto agli anni passati, inoltre circa il 65% delle aziende coinvolte nell’indagine testimoniano 46 Aon è una società americana tra i principali operatori a livello globale nell’offerta di servizi di consulenza nei settori del risk management, brokeraggio, outsourcing, assicurazione del credito e risorse umane. 47 Towers Watson è una delle principali società di consulenza e brokeraggio a livello globale e fornisce soluzioni nella gestione del rischio, nell’ottimizzazione dei benefit e nello sviluppo dei talenti.

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JUNG E NEUMANN IL CARTEGGIO (1933-1959)... DELLA DELUSIONE Giuseppe M.S. Ierace Il confronto epistolare tra Carl Gustav Jung (1875-1961) ed Erich Neumann (19051960) prese spunto da quell’ipotesi, del resto prospettata dal modello di inconscio collettivo, d’una psicologia specificamente “ebraica”, che già aveva destato scandalo nel rievocare una “mancanza di radici” automaticamente riprodotta dalla forzata diaspora. La psicologia analitica trapiantata in Eretz Israël dalla quinta ondata migratoria sionista (Aliyah) non avrebbe potuto che seguire dunque questo suo destino di vivere nella condizione di un “esilio”, predisposta tanto dalla situazione contingente quanto, ancora più a lungo, dalla millenaria storia precedente? Neumann prova a relativizzare certe affermazioni junghiane: Temo che Lei confonda Freud – che oltretutto aveva classificato come [pensatore] sociologico-europeo – con l’ebreo [prototipico] […] Senz’altro adoro la fecondità germanica, per quanto riesca a vederla e a intuirla. Ma l’equazione nazismo = germanesimo ariano potrebbe essere fatalmente erronea… Secondo Lei anche il bolscevismo è un’espressione inconscia ariana? [...] In entrambi credo vi siano semi di un possibile futuro, ma credo – anzi so (l’ho imparato e ne ho avuto conferma da Lei) che il segreto più prezioso di ogni essere umano (non solo di quello germanico) sia il fondo dell’anima puramente e creativamente ricco di presentimenti (Ahnungsvoll). 58

Premonizioni e investimenti Nel contempo Neumann confermava però la fatidica “questione culturale” della psicologia del profondo, difendendo le posizioni del Maestro proprio presso la rivista “Jüdische Runschau”: «La psicologia junghiana sarà decisiva per gli sforzi degli ebrei di giungere ai propri fondamenti: a essere decisivo sarà proprio il carattere per così dire “sionistico” delle sue idee e scoperte. Come nel sionismo esse includono l’aspetto irrazionale delle origini umane della creazione». Ancora Ahnungsvoll, premonizioni, ma pure investimenti! L’investimento intellettuale nel loro rapporto affettivo rimane nell’ambito del tutto asimmetrico dell’analisi. Commenti fulminei dell’uno a fronte di corpose considerazioni dell’altro, il cui flusso “individuativo” evolve ininterrottamente 58 L. Zoja (a cura di), E. Zoja (traduttore) Jung e Neumann. Psicologia analitica in esili. Il carteggio (1933-1959), Moretti & Vitali, Bergamo 2016.

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SUSSIDIARIETÀ E TERZO SETTORE: I NUOVI ATTORI SOCIALI. DAL BEN ESSERE AL BEN VIVERE Javier Fiz Pérez e Michele Ferraro

1. Dall’assistenzialismo centrale al federalismo del welfare In seguito alla Legge quadro n. 328 dell’8/11/2000 “per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali” in Italia e alla riforma del Titolo V della Costituzione, operata con la promulgazione della Legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001, che ha fatto rientrare la materia dei servizi sociali alla persona tra quelle di competenza residuale delle Regioni, si è dato vita al c.d. federalismo del welfare, grazie anche al sistema legislativo e regolamentare delle Regioni che hanno, a loro volta, disciplinato concretamente una materia a loro assegnata nell’ottica della sussidiarietà, verticale e orizzontale. Prima della Legge 328 del 2000, la materia dei servizi sociali in Italia era sostanzialmente disciplinata dalla c.d. Legge Crispi, del 17 giugno 1890, n. 6972. Con essa ci si proponeva, in primis, il riordino delle già esistenti Opere Pie denominandole Istituzioni Pubbliche di Assistenza, che ora venivano costituite e regolamentate con il preciso fine «a) di prestare assistenza ai poveri, tanto in istato di sanità quanto di malattia; b) di procurarne l’educazione, l’istruzione, l’avviamento a qualche professione, arte o mestiere, o in qualsiasi altro modo il miglioramento morale ed economico» (art. 1), dando loro personalità giuridica. L’assistenza, quindi, era sì nelle mani dello Stato, tant’è che le istituzioni pubbliche di assistenza erano costituite o riconosciute dal governo del Re e poste sotto la tutela delle Giunte provinciali amministrative e l’alta sorveglianza del Ministro dell’Interno, esercitata in ogni provincia dal Prefetto che ne incaricava un consigliere di prefettura, ma già nel XIX secolo essa era stata decentralizzata tant’è che «in ogni Comune è istituita una Congregazione di carità con le attribuzioni, che le sono assegnate dalla presente legge […]. Le istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza sono amministrate dalla Congregazione di carità» (art. 2). I compiti delle istituzioni pubbliche di assistenza erano ben definiti dalla normativa che prevedeva: «Spetta alla Congregazione di carità di curare gl’interessi dei poveri del Comune e di assumerne la rappresentanza legale così innanzi all’autorità amministrativa, come dinanzi all’autorità giudiziaria» (art. 7). «La Congregazione di carità promuove i provvedimenti amministrativi e giudiziari di assistenza e di tutela degli orfani e minorenni abbandonati, dei ciechi e dei sordomuti poveri,

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WELFARE AZIENDALE IL BENE COMUNE DIVENTA MOTORE PER LA CRESCITA Javier Fiz Pérez e Chiara Greta De Filippo La crisi economica degli ultimi anni ha reso più pressante la necessità di ricalibrare nuovamente il welfare state pubblico e ciò ha costretto la politica a spingere verso un contenimento e una riduzione dei costi che si deve tuttavia interfacciare con un costante aumento dei bisogni sociali. Negli ultimi vent’anni la popolazione mondiale è diventata più longeva, l’aspettativa di vita è cresciuta e le necessità di cure sono aumentate. Da una parte, i bilanci pubblici sono andati incontro a pressioni considerevoli, pressioni che aumenteranno in futuro, se si considerano i cambiamenti socio-economici a cui stiamo assistendo attualmente, e dall’altra, le aziende si stanno confrontando con la reale difficoltà ad attrarre e trattenere il personale altamente qualificato all’interno delle aziende e ciò richiede al management delle strategie e dei comportamenti sempre più efficaci. Il tema del welfare aziendale è diventato una necessità contemporanea in quanto numerose problematiche associate ai sistemi di welfare potranno essere risolte con successo esclusivamente prevedendo una collaborazione attiva tra il settore pubblico e privato e quindi potenziando il ricorso al welfare aziendale. Ma adottare una politica di benefit aziendali significa anche prestare maggiore attenzione al capitale umano, soddisfare le esigenze specifiche delle persone, affidarsi, quindi, a un valido strumento per contraddistinguersi come realtà aziendale, in un contesto economico labile, caratterizzato dalle difficoltà e dai rischi, da cambiamenti improvvisi, dominato dalla competizione, e in cui attirare, trattenere e motivare le risorse chiave è sinonimo di competitività. Il presente articolo prende in considerazione l’evoluzione storica del welfare privato per poi ripercorrerne l’evoluzione e analizzare le modalità di interazione con il welfare statale. Saranno inoltre illustrate le condizioni di fattibilità di un piano di welfare aziendale che determinano l’efficacia del piano stesso, le aree di intervento e la diffusione del welfare nel nostro paese. WELFARE STATE E WELFARE PRIVATO

Le origini del welfare privato Il welfare privato affonda le sue radici nell’iniziativa dei privati, tra cui annoveriamo associazioni religiose e istituzioni della Chiesa, individui singoli, nobili e non, associazioni filantropiche private così come organizzazioni di mutuo soccorso tra lavoratori, il cui intento principale è di rispondere alle esigenze pressanti e diversificate dei vari gruppi di popolazione (Treu, 2013). Questi schemi

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RE CE NS IO NI

DIEGO SPINAZZOLA PIGNATELLI

Alchimia Junghiana

Persiani Editore, Bologna 2015 ISBN: 978-88-98874-37-8 Pp: 140 € 16,90

In Alchimia Junghiana (D. Pignatelli Spinazzola, Persiani 2018) l’attento lettore potrà trovare comparazioni e analogie al repertorio del celebre psichiatra di Zurigo — affinità e analogon simili con le Opere di C.G. Jung. Un ulteriore sguardo in verticale al volume connoterà poi l’elaborazione teorica dell’autore in veste poetica sull’oscuro repertorio e sottigliezze di pensiero dell’opus junghiano riconfacente a una complessa ermeneutica illustrata nei toni, nell’enfasi lirica e nella dialettica all’assortito inventario teorico-analitico e teorico-clinico dello psicologo zspontanee con i temi, su modalità e tono e rituale stilistico di scrittura, tenore, prassi e trance da scrivania, impostazione, dedizione all’arcanum e allegoriae aecclesiae nonché le adiacenti correlazioni e parafrasi, coincidenze sincronisticheurighese. Il lettore più attento alle Opere di C.G. Jung potrà di sicuro apprezzare le parafrasi e la contestualizzazione ermeneutica, le coincidenze sinottiche e sintattiche alle Opere nonché una certa traiettoria classica e analogon per similitudine affine alla visione originale del padre pioniere e fondatore della psicologia analitica. Paragrafi a sé stanti che costituiscono una condensazione di un lexikon caro allo Jung adepto e latinista con un ricco tessuto di latinismo, lirica, poetica e rimandi al Mysterium coniunctionis (1955-56). Sarà rivisitato il Saggio d’interpretazione psicologica del dogma della Trinità (1942-48) con una speciale rielaborazione del ka-mutef e del filioque, homoousia ponendo attenzione all’analisi del transfert e controtransfert, complesso padre e figlio nonché all’intero quadro della dinamica controsessuale da una duplice

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BOLOGNA 160


Il ruolo delle emozioni nell’arte della comunicazione. Un approccio psicologico di Javier Fiz Pérez e Andrea Ardia Psicoide e protomentale: Jung e Bion di Riccardo Gramantieri ed Erica Neri L’inserimento del disabile nel mondo del lavoro di Javier Fiz Pérez ed Eleonora Ginepri La crescita del disabile attraverso tre temi fondamentali di Javier Fiz Pérez ed Eleonora Ginepri Intervista a Mario Trevi. Conversazioni sull’ombra e la creatività nella poetica di Arthur Rimbaud di Alessandro Raggi e Marianna di Mezza Employer branding: le motivazioni delle risorse umane in chiave di sostenibilità e crescita del business di Javier Fiz Pérez e Chiara Greta De Filippo Jung e Neumann. Il carteggio (1933-1959)... della delusione di Giuseppe Ierace Sussidiarietà e Terzo Settore: i nuovi attori sociali. Dal ben essere al ben vivere di Javier Fiz Pérez e Michele Ferraro Welfare aziendale. Il bene comune diventa motore per la crescita di Javier Fiz Pérez e Chiara Greta De Filippo

€ 15.90 Editore


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