Fabj Alchimia dell'Immagine.L'alchimia e il transfert: Jung e la Klein

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Nei suoi studi di Psicoanalisi junghiana ha trovato una spiegazione psicologicamente convincente dell’efficacia terapeutica del transfert che sarebbe stata intuita già dagli antichi alchimisti.

prof. Renzo Canestrari Decano di Psicologia della Facoltà Medica della Università di Bologna

Attualmente insegna la Psicologia della traslazione nella Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Analitica Aión di Bologna.

Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Analitica Aiòn

Alchimia dell’Immagine L’alchimia e il transfert: Jung e la Klein

Nel 1946 Carl Gustav Jung descrisse il transfert archetipico che si crea fra analista e paziente usando le antiche immagini alchemiche nella sua famosissima opera La psicologia della traslazione. Nello stesso anno, Melanie Klein con il suo Note su alcuni meccanismi schizoidi fissò i capisaldi delle relazioni oggettuali in psicoanalisi. I due testi, solo apparentemente diversi, in realtà descrivevano il medesimo processo psichico che sottende il transfert: l’identificazione proiettiva. L’autore, attraverso l’immaginario alchemico rigorosamente esaminato secondo la scienza psicoanalitica, pone in questo libro a confronto la Psicologia analitica con la Psicoanalisi delle relazioni oggettuali mostrando non solo l’esistenza di presupposti e conclusioni comuni, ma anche di una possibile applicazione clinica comune ai due metodi.

Presentazione di Renzo Canestrari

Corso quadriennale riconosciuto dal Ministero dell’Università e della Ricerca della repubblica Italiana con autorizzazione n.172 pubblicato in G.U. n.180 del 03/08/2004

www.assoalba.it -info@assoalba.it Tel. +39 348 268 36 88 Sede didattica: via Palestro, 9 Bologna

Luca Valerio Fabj

Alchimia dell’Immagine

A partire dal 2002, quando faceva parte del direttivo dell’Ordine dei Medici di Bologna, si è occupato di quale fosse l’essenza del rapporto che si instaura fra il medico e il suo paziente che spesso ha una importanza fondamentale per la cura di quest’ultimo.

[…] dice testualmente Jung: «È solo il medico ferito che guarisce». Difatti è solo attraverso la sua ferita insanabile che il medico può curare, solo se è disposto a porre tutto sé stesso in una relazione terapeutica che è sì, certamente, tecnica e professionalità ma anche e soprattutto, dice il Fabj, dedizione e amore incondizionato. […] mi piace credere che ogni lettore possa soddisfare le sue curiosità vuoi che sia professionalmente impegnato nella azione psicoterapeutica vuoi che sia interessato ad approfondire la sua cultura di base.

Prezzo al pubblico € 15,90 - Iva inclusa

Luca Valerio Fabj

Luca Valerio Fabj, nato a Bologna il 23/11/1961 è laureato in Medicina e Chirurgia, è Psicoterapeuta Specialista in Psicoterapia analitica.

Presentazione di Maria Caterina Bianchini

www.persianieditore.com info@persianieditore.com



LUCA VALERIO FABJ

ALCHIMIA DELL’IMMAGINE L’alchimia e il transfert: Jung e la Klein

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Alchimia dell’immagine

L’alchimia e il transfert: Jung e la Klein di Luca Valerio Fabj

Paolo Emilio Persiani Editore piazza San Martino 9/C 40126 Bologna Tel. (+39) 051/9913920 Fax (+39) 051/19901229 e-mail: info@persianieditore.com

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INDICE

Presentazione..............................................................................................9 Introduzione.............................................................................................11 Parte prima: Considerazioni generali e teoriche sul transfert in Psicologia analitica 1.1 Transfert, definizione di un concetto in evoluzione.............................36 1.2 Jung e l’alchimia....................................................................................42 1.3 Alchimia e Cristianesimo: il Cristo come Lapis....................................51 1.4 La coniunctio/transfert come proiezione di una immagine archetipica “a priori”.....................................................................................................65 1.5 Le nozze chimiche dei Rosacroce.........................................................83 1.6 Jung e la traslazione: un rapporto ambiguo..........................................96 Parte seconda: aspetti teorico/clinici del transfert in Psicologia analitica 2.1 La clinica del transfert secondo Jung...................................................105 2.2 Evoluzione del concetto di transfert in Psicologia analitica: il contributo di Fordham e della Davidson..................................................120 2.3 Il transfert e la dimensione simbolica: il pensiero di Oria Fellini.......145 2.4 La traslazione di Jung come identificazione proiettiva della Klein: l’opera di Natan Schwartz-Salant..............................................................151 2.5 Rosarium, transfert, unus mundus e identificazione proiettiva............166 Parte terza: Commento alle immagini alchemiche del Rosarium Philosophorum 3.1 Le immagini del Rosarium Philosophorum: la coniunctio alchemica come identificazione proiettiva e sacrificio della interpretazione.......................178 3.2 Prima incisione: “La fonte mercuriale”...............................................186 3.3 Seconda incisione: “Re e Regina”........................................................197 3.4 Terza incisione: “La nuda verità”........................................................201

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3.5 Quarta incisione: “Il bagno”................................................................208 3.6 Quinta incisione: “La coniunctio” e la sua figura complementare: “La fermentazione”...................................................................................211 3.7 Sesta incisione: “La morte”..................................................................215 3.8 Settima incisione: “La ascesa dell’anima”............................................224 3.9 Ottava incisione: “La purificazione”...................................................229 3.10 Nona incisione: “Il ritorno dell’anima”.............................................232 3.11 Decima incisione: “La nuova progenie o Rebis”...............................239 3.12 Considerazioni conclusive.................................................................255 Tavole alchemiche...................................................................................257 Bibliografia..............................................................................................267

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PRESENTAZIONE

Già nella dedica di questo pregevole volume di Luca Valerio Fabj è presente l’ “Anima” di Jung ed è alla Psicologia Analitica che l’autore rivolge la sua attenta riflessione al fine di relazionarla alla Psicoanalisi delle relazioni oggettuali. Luca Valerio Fabj individua il nucleo di questa relazione nel processo della identificazione proiettiva teorizzato da Melanie Klein e definito da Jung come proiezione attiva: e se da esse e alla modalità con cui tali processi si costituiscono si deve l’insorgere delle psicosi va riconosciuto che su di esse si costituisce anche la conquista della nostra identità personale. É importante dare risalto al fatto che nell’opera del Fabj trova una fine disamina la relazione di transfert e controtransfert costituita da una tale potenza emotiva da generare processi trasformativi sia nel paziente che nel terapeuta. Da qui, secondo Jung, l’astrattezza freudiana della “neutralità” ovvero la pretesa di essere “lo specchio di ghiaccio” delle ondate emotive del paziente; al contrario dice testualmente Jung «solo quando il medico è interessato la sua azione è efficace. Solo il medico ferito guarisce. Ma se il medico si chiude nell’abito professionale come in una corazza, non ha efficacia. Io prendo i pazienti sul serio, forse sono posto di fronte a un problema come il loro. Spesso accade che il paziente sia proprio il medicamento adatto per il punto debole del medico o piuttosto proprio per lui». Difatti è solo attraverso la sua ferita insanabile che il medico può curare, solo se è disposto a porre tutto se stesso in una relazione terapeutica che è si, certamente, tecnica e professionalità ma anche e soprattutto, dice il Fabj, dedizione e amore incondizionato. Mi piace sottolineare lo sforzo costante dell’autore di spogliare l’opera di Jung dalla concezione magica e mistica che lo avvolge 9


(aspetto che al contrario piaceva al mio amico Federico Fellini che preferiva Jung a Freud al punto di abbandonare, alla prima seduta, il collega Servadio, psicanalista ortodosso, per andare dallo junghiano Bernardh). Luca Valerio Fabj intende rivendicare la “scientificità” di Jung in quanto antropologo e quindi anticipatore della antropologia simbolico psicologica di Lévi Strauss e di Eliade. Penso di aver segnalato solo alcuni dei tanti temi che costituiscono l’ossatura dell’interessante libro del collega Luca Valerio Fabj; mi piace credere che ogni lettore possa soddisfare le sue curiosità vuoi che sia professionalmente impegnato nell’azione psicoterapeutica vuoi che sia interessato ad approfondire la sua cultura di base. prof. Renzo Canestrari Decano di Psicologia della Facoltà Medica della Università di Bologna

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INTRODUZIONE Il presente lavoro costituisce un adattamento della mia tesi di specializzazione in Psicoterapia Analitica svoltasi in una dissertazione sulla concezione ed evoluzione della idea di transfert e controtransfert in Psicologia Analitica e di come esso potesse confrontarsi ed integrarsi con le teorie della Psicoanalisi delle Relazioni Oggettuali. Ciò spiega perché alcune parti del testo possano mantenere alcuni aspetti “didascalici” che sarebbero in parte fuori luogo in un saggio, ma che però mantegono comunque una loro validità esplicativa. Ciò è vero soprattutto se si considera che non esiste alcuna opera che mostri una panoramica organica della idea di transfert e della sua evoluzione nel mondo junghiano. L’attuale rimaneggiamento intende approfondire in forma di testo i concetti espressi in precedenza nella mia tesi con il precipuo scopo di sostenere la teoria che la Psicologia Analitica è parte integrante e non alienabile di quell’insieme di ipotesi scientifiche, ottenute con metodo ideografico, che prende il nome di “Psicoanalisi” e che sono relative allo studio dello sviluppo e del funzionamento sia normale che patologico dell’apparato psichico dell’individuo nonché alla cura della sua patologia (Carotenuto, 1992). Questa mia fatica ha l’ambizioso scopo di mettere a confronto e combinare il punto di vista junghiano con quello psicoanalitico al fine di allargare in modo specifico la prospettiva clinica della specializzazione in Psicoterapia Analitica. Ovvero, quello di cui qui ci occuperemo è proprio della psicoanalisi come cura, ossia della Psicologia Analitica applicata alla clinica, in altre parole, della Psicologia Analitica come parte integrante di quel gruppo di terapie psichiche note come psicoterapie psicodinamiche. Naturalmente sia la psicoanalisi tout court che il pensiero di Jung non si esaurisce certo solo negli aspetti terapeutico/clinici. In particolare l’opera di Jung è di una vastità immensa e la sua 11


influenza, sia in psicologia che nella cultura occidentale in genere, è di una portata tale che non si può certo esagerare nell’indicare Jung come uno di quegli individui che Hegel definiva “cosmostorici”. E questo fatto fa sì che, in fondo, nella sua opera geniale coesistano tanti aspetti differenti fra loro che non possono certo consumarsi in unica scelta fra i tanti concetti in essa presenti. Pertanto, vorrei che fosse assolutamente chiaro che ciò che verrà esposto in questo libro costituisce solo un punto di vista, e non il punto vista, unico e indiscutibile con cui osservare l’opera di Jung. Di “Maestri” depositari, custodi e divulgatori di una qualche verità assoluta l’umanità in generale, e la psicoanalisi in particolare, ne hanno già avuto ampiamente abbastanza senza alcun bisogno di aggiungerne un altro. La psicoanalisi è un sapere che spazia dalla clinica, alla filosofia, alla mitologia, alla religione (se si vuole all’esoterismo) e all’arte per giungere alla sociologia e alla politica. Non c’è campo speculativo che non sia stato esplorato dalla psicoanalisi. Tuttavia, per quanto potrebbe essere piacevole farlo, la stragrande maggioranza di noi psicoterapeuti non è un aristotes filosofo dell’antica Grecia che può permettersi di speculare sulle cause ultime dell’esistenza passeggiando per l’agorà insieme ai suoi pari. Per noi, comuni mortali, che svolgiamo il nostro umano compito di medici pratici che cercano ogni giorno di alleviare le laceranti sofferenze interiori di chi si rivolge alla nostra “arte”, una scelta di campo deve essere compiuta. E ciò in modo peculiare all’interno di una specializzazione clinica che abilita legalmente all’esercizio della professione di psicoterapeuta, ovvero, della psicoanalisi come cura. A fronte di ciò appare chiaro come la più pragmatica e fondamentale delle decisioni non può essere altro che una scelta di stampo clinico. Questo non perché altre scelte non siano legittime, ma semplicemente perché non sono assolutamente percorribili senza esporre i nostri assistiti, e anche noi stessi, a rischi e a danni del tutto imprevedibili e inutili. 12


A mio modesto avviso, oggi che è sempre più difficile separare il disagio psichico dell’uomo dai suoi bisogni spirituali del tutto insoddisfatti dalle religioni istituzionalizzate, anche la scelta per così dire “spirituale” può avere un suo senso nel campo della Psicologia Analitica e non è assolutamente inconciliabile con quella clinica di cui può costituire un valido completamento. Tuttavia, al contrario, la così detta scelta terapeutica esoterica è troppo pericolosa e non è percorribile, né se ne vede alcuna necessità, per chi, come me, ha come unico scopo la conoscenza di sé stesso e degli altri all’esclusivo fine, assolutamente medico, di alleviarne la sofferenza psichica che, poi, è anche l’unico motivo legittimo e legale per cui si può pretendere un più che giustificato onorario professionale. Una terapia basata su karma, astrologia, tarocchi, chakra o quant’altro è estremamente rischiosa di fronte alla presenza di turbe psichiche. Difatti, niente è più esiziale per un equilibrio psichico già instabile che rinforzarne il pensiero magico che, il più delle volte, è proprio la principale causa della fantasia psicotica che sottende una psiche sofferente e già precaria. Tutto ciò però non significa che tutta la immensa mole di lavoro svolta da Jung e dai suoi seguaci sui miti, sui simboli esoterici, sulle religioni e, in modo peculiare, sulla alchimia debba venire accantonata. Così facendo si giungerebbe veramente a “gettare via il bambino insieme all’acqua sporca”. Semplicemente si deve solo prendere in considerazione tutto questo materiale secondo un’ottica ben precisa. Considerandolo come una produzione dell’inconscio in forma di immagini che sono espressione sia dell’architettura e delle strutture profonde della psiche, sia dei processi dinamici che ne provocano la genesi e che la sostengono in equilibrio compensatorio. In questo modo se ne potrà fare un utile uso clinico per la comprensione e la cura del disagio psichico di qualsivoglia natura esso sia. Oltre a tutto ciò, nella scelta di un orientamento prevalentemente clinico che cerchi una integrazione con altri paradigmi psicoanalitici 13


un altro aspetto va considerato come di fondamentale importanza. In un’epoca in cui oramai la psicoterapia tende ad essere quasi unicamente cognitivo/comportamentale, la psicoanalisi in genere, e la Psicologia Analitica in particolare, si trova nella necessità di giungere a sistemi condivisi di terapia se non vuole correre il rischio di ridursi solo ad un sistema filosofico/culturale privo di ogni validità terapeutica. Per fare questo è necessario trovare sempre di più ciò che unisce i vari orientamenti paradigmatici analitici mettendo da parte quell’anacronistico e supponente narcisismo che tanto spesso ammorba i teorici e i professionisti che abitano nella vasta casa della psicoanalisi. In base a queste premesse, il tentativo che si propone questo libro è quello di seguire la scia di un orientamento teorico della Psicologia Analitica che ritiene sia possibile rilevare una intima unione ideale fra la Psicologia Analitica e tutta quella moderna corrente della psicoanalisi contemporanea che basa le sue concezioni teoriche e terapeutiche sulla Psicologia delle relazioni oggettuali e la Psicologia del Sé. Questa corrente di pensiero della Psicologia Analitica, che ben poco ha a che vedere con l’indirizzo svizzero classico, inizia con Fordham attraverso i suoi primi raffronti con il pensiero della Klein, per giungere modernamente alla fondazione di una vera e propria Scuola nord americana ad opera del canadese Schwartz-Salant. Tale indirizzo, che potremmo definire in senso lato “anglosassone” (per la lingua principale in cui sono espresse le sue tesi), ritiene che una integrazione della Psicologia Analitica in questo fruttuoso filone delle relazioni oggettuali e del sé possa essere foriera di rinnovate delucidazioni vicendevolmente esplicative sulle concezioni di entrambi gli orientamenti che possono consentire di trarre delle nuove concezioni psicopatologiche atte a determinare una rinnovata tecnica ed atteggiamento terapeutico nei confronti di tutte quelle patologie psichiche, come le sindromi marginali, che, rispetto anche solo a dieci anni fa, oggi hanno assunto sempre più frequentemente 14


“colorazioni” atipiche che le rendono difficilmente classificabili e trattabili. La Psicologia delle relazioni oggettuali è appunto quella teoria che prevede «un modello della mente che spiega le funzioni mentali in termini di relazioni tra oggetti interni» (Zennaro, Polla, Tenzon, 2003). Essa ritiene che tali oggetti interni sono innati e quindi “a priori” e non conseguenza della esperienza personale esterna. Secondo questo orientamento teorico, iniziato dalla Klein, tutti i processi psichici sono spiegabili e causati dalla relazione con l’oggetto mentale interno: dove tale processo relazionale viene definito «Fantasia». Nel «Fantasma» questi oggetti interni diventano agenti attivi e autonomi, dotati di una propria volontà, in relazione fra loro e con l’Io. Come si vede già da queste poche note esplicative questa forma di psicoanalisi (che non a caso quando fu formulata venne definita “eretica”), presenta molti punti in comune con le concezioni di Jung. Per entrambi, infatti, esistono immagini innate nella psiche e la psiche è un processo dinamico determinato da queste immagini, e, inoltre, il processo immaginativo – l’attività “fantasmatica” – è il meccanismo psichico più importante per l’evoluzione e/o la patologia dell’individuo. Tuttavia, prima di tutto, per seguire questa direzione di confronto/integrazione fra i due modelli (analitico e delle relazioni oggettuali), è necessario esaminare quale sia stata la ragione profonda per cui tale confronto/integrazione sia divenuto possibile. Essa risiede, a mio avviso, in una sostanziale identità di metodo fra i due orientamenti. Difatti, non esiste alcuna teoria psicoanalitica che possa considerarsi come avulsa dal suo “metodo”. Il metodo psicoterapeutico non è solo il luogo ove avviene l’analisi e ove vengono raccolti tutti i dati, ma è anche l’origine della teoria stessa. Si può serenamente affermare che nella storia della psicoanalisi la pratica ha preceduto di gran lunga qualsiasi ipotesi o teoria. Praticamente tutte le concezioni analitiche non sono nate dalla osservazione di dati atti a confermare 15


delle ipotesi, ma dalla osservazione di dati che hanno determinato la nascita di ipotesi e di teorie che dessero una spiegazione dei dati raccolti. Scriveva già al riguardo Otto Fenichel nel suo Trattato: Oggi è possibile giustificare il metodo spiegando il retroscena teorico. In realtà la teoria non precedette il metodo. Si potrebbe dire, piuttosto, che è stata possibile formularla con l’aiuto del metodo (O. Fenichel, 1945).

La empiria ha sempre dovuto precedere qualsiasi teoria analitica perché la psicoanalisi non possiede alcun metodo di osservazione diretta. Infatti, l’oggetto di osservazione del Clinico analitico sono solo i derivati coscienti di processi inconsci che, in quanto tali, non possono mai essere visti direttamente e alla luce del sole. Per così dire, i derivati dall’inconscio non possono essere mai osservati privi di quel “Velo di Iside” che la coscienza pone su di loro. Per questa sorta di difficoltà gnoseologica, che si traduce nel percorso obbligato della tecnica analitica come strumento di conoscenza teorica, ogni metapsicologia non potrà altro che fondarsi sugli scopi che il metodo stesso si propone di ottenere. E, per quanto questo faccia inorridire gli psicologi sperimentali scientisti, è solo attraverso la corretta applicazione pratica del metodo che è possibile ottenere una conferma validante di qualsivoglia concezione psicoanalitica. Da queste differenze di metodo e scopo derivano tutte le “differenze” degli orientamenti analitici che solo ad una lettura superficiale sembrano dettati dalla teoria, mentre in realtà sono costruiti sullo scopo della tecnica analitica in questione, ovvero, su ciò che il Clinico vorrebbe ottenere con la sua “arte” terapeutica. Purtroppo però la vastità dell’inconscio è tale da creare una struttura di oggetto di osservazione con la caratteristica proteiforme di adattarsi perfettamente a ciò che in un determinato modo si vuole cercare. E ciò avviene per il semplice motivo che nell’inconscio tutto si presenta in modo multiforme e niente ha mai una faccia sola. Nessuna concezione psicodinamica è in grado di esaurire tutto ciò che è contenuto nell’inconscio dell’uomo, ma può solo portare alla 16


luce unicamente ciò che i presupposti finalistici del metodo tecnico/ empirico si prefigge di ottenere. Quello che intendo dire è che, nel considerare le conclusioni strutturali di qualsiasi Psicologia del profondo, dobbiamo anzitutto chiederci quale sia stato lo scopo che il metodo si era prefissato, poiché è unicamente da esso che sono derivate le conclusioni teoriche definitive. A differenza di Freud, che dell’inconscio desiderava il controllo attraverso la sua conoscenza, lo scopo del metodo analitico di Jung era quello di giungere a comprendere il fine verso cui i processi inconsci tendevano. Per fare ciò non era necessario che l’Io si sostituisse all’inconscio (il freudiano: «Là dove c’era l’Es ci sarà l’Io»), ma era fondamentale che in qualche modo l’Io integrasse in sé l’inconscio. Era cioè indispensabile operare una sintesi fra i due. Per mezzo di questa unione, per Jung, era possibile giungere alla unità/totalità della psiche. L’unione degli opposti processi psichici consci e inconsci poteva portare l’individuo a divenire quello che etimologicamente significa tale termine: un “non diviso”. In questa meta ideale a cui aspirare, più ancora che nelle conclusioni o nelle scoperte a cui Jung giunse attraverso il suo lavoro, sta tutto il valore e la grandezza del pensiero e dell’opera di uno straordinario “medico dell’anima” che in modo più che pertinente è stato definito «il Signore del Profondo». Jung, figlio di un Pastore protestante che aveva perso la fede, si rese perfettamente conto che, al di là delle necessità di potere, delle ipocrisie di facciata e delle esteriorità rituali di massa delle religioni istituzionalizzate, era la «morte di Dio» ciò che caratterizzava il vero e intimo doloroso problema dell’uomo occidentale moderno. Egli comprese che da questa morte interiore, e non dalla “repressione sessuale”, era derivato un profondo senso di perdita di significato dell’esistenza che era, ed ancora è, alla base di quella epidemia di “inflazione dell’Io” che praticamente sottendeva quasi tutti i disturbi psichici che giunsero alla sua osservazione di psichiatra prima e di analista poi. L’intuizione di Jung, che non ha mai sottaciuto il suo 17


grande debito verso Nietzsche, è appunto consistita nel mostrare al pensiero psicoanalitico come la principale causa del malessere interiore fosse la perdita di uno scopo e significato ultimo della esistenza dell’uomo. Per Jung, che era sicuramente il portatore di un pensiero introvertito, l’unica via possibile nel mondo moderno per uscire da questa situazione patologica, consisteva nel volgersi all’interno di sé. Come l’Oriente prima di lui, così oggi l’Occidente doveva intraprendere un cammino introvertito verso quelle figure interiori e autonome dell’inconscio con cui instaurare un dialogo costruttivo per riempire quel senso doloroso e angosciante di vuoto abissale di cui soffre l’umanità dopo l’inarrestabile tramonto del cristianesimo. L’uomo occidentale nella sua ricerca interiore, senza abbandonare le sue scoperte e il suo spirito scientifico, doveva, secondo Jung, ritrovare le sue tradizioni spirituali perdute e represse dalla persecuzione della Chiesa romana e cercare un utile confronto con i simboli di esse che ancora vivevano nascoste nel profondo dell’inconscio dell’uomo europeo. Jung, grazie alla sua vastissima cultura, aveva visto frammenti di queste “entità” simboliche nei deliri dei malati di mente che in forma complessuale e autonoma esercitavano un’azione disastrosa per la psiche, ma che, al tempo stesso, erano anche una possibile fonte di guarigione e di progresso psichico. Il fatto che le malattie mentali, come qualsiasi malattia, non fossero un’entità a sé stante, ma unicamente “processi normali disturbati”, e che «similia similibus curantur» fosse una grande verità della medicina antica tutt’ora valida (Jung, 1935), era una concezione cardine del pensiero di Jung. Analogamente al vàmàcàra (Via della mano sinistra) dello shivaismo tantrico secondo cui «tutto ciò che ci fa cadere deve servire per elevarsi», Jung, per seguire le sue intuizioni teoriche sulla struttura e attività della psiche, intraprese una perigliosa discesa nelle profondità del suo inconscio allo scopo di conoscere il significato di queste immagini simboliche dimenticate dall’uomo moderno. Da 18


questo proficuo «confronto con l’inconscio» (Jung, 1961) Jung trasse la sua tecnica principe di esplorazione e terapia dell’inconscio – la «immaginazione attiva» – e pose, di conseguenza, la funzione immaginativa e il meccanismo/difesa della proiezione che ad essa è indissolubilmente legata come cardine principale di tutto il processo dinamico che connota e anche denota la attività della psiche umana. Come un antico Cavaliere della perduta Avalon, Jung intraprese un lungo e pericoloso viaggio dentro sé stesso alla «cerca» del suo Santo Graal per sanare la ferita mortale del proprio interiore Re pescatore che lo portò a scoprire che l’inconscio non si esauriva nei semplici ricordi dimenticati o rimossi di una persona, ma che nelle profondità dell’inconscio di ogni individuo erano racchiuse delle strutture che erano comuni all’inconscio di tutta la specie umana, e forse ad una sorta di “psiche” comune a tutte le specie animali e financo alla materia inorganica. Difatti, se c’è qualcosa che caratterizza e differenzia la psicologia di Jung da qualsiasi altra concezione psicologica è dato dal fatto che l’approccio junghiano alle strutture della mente si traduce in un atteggiamento che rende la psiche come una questione che non è puramente personale (Schwartz-Salant, 1982), ma come una questione che riguarda la storia più alta e necessitante della psiche dell’intera umanità che si volge ripetendosi per intero nel destino contingente del singolo. Jung si avvide che i contenuti di queste strutture energetiche dinamiche e sovrapersonali si elicitano nella psiche in forma di immagini simboliche che sono l’espressione dell’archetipo che le sottende. Jung, ventiquattro anni prima di qualsiasi lavoro sulle relazioni oggettuali, giunse alla conclusione che tali «immagini archetipiche» non erano la riproduzione psichica di un oggetto esterno quanto piuttosto una «immagine fantastica» a priori che si basava sulla presenza di un’attività fantasmatica inconscia sempre presente nell’individuo in modo del tutto autonomo rispetto alla coscienza e dotata di una sua finalità ben precisa (Jung, 1921). 19


Difatti, nella teoria junghiana, gli archetipi sono in sé irrapresentabili, ma i loro effetti appaiono nella coscienza come immagini e idee archetipiche. Esse, in quanto espressioni primordiali degli archetipi che sono veri e propri “organi” della psiche, possiedono una eccezionale carica energetica che le dota di una capacità costellante straordinaria capace sia di distruggere l’Io dell’individuo come di guarirlo e farlo evolvere. Analogamente a quanto sostenuto ben cinquantacinque anni dopo da Kernberg (1976) nella strutturazione interiore delle relazioni oggettuali, le immagini archetipiche della concezione junghiana sono sia un processo psichico, sia una conseguenza del processo ed anche una struttura permanente della psiche. Ora, sebbene la grande differenza con la psicoanalisi sta proprio nel fatto che quest’ultima non accetta l’idea di archetipo come modello e motivo universale, è però altrettanto vero che la Psicologia delle relazioni oggettuali accetta la teoria di oggetti interni (i fantasmi) che sono comuni a tutti gli individui e a priori. Appare dunque evidente come Jung per primo (nel 1921 e non dopo la Klein, né contemporaneamente ad essa, che parlò di certi meccanismi solo nel 1946) si sia occupato delle relazioni dell’Io con gli oggetti interni e “a priori” dell’inconscio e delle loro attività fantasmatiche funzionali e disfunzionali alla economia psichica dell’individuo. Inoltre, molto prima di Winnicott, Kohut o Kernberg, egli si era reso conto della esistenza di un centro vero e reale della psiche non assimilabile all’Io (sebbene lo comprendesse), dal cui svolgersi in modo reale o falso dipendeva lo sviluppo o la patologia di tutto l’apparato psichico. Le immagini archetipiche si comportano dunque come i “fantasmi” della Klein e dei teorici delle relazioni oggettuali, e sono la forma comprensibile alla mente di una sorta di reticolo energetico simile a quello del cristallo che costituisce la entelechia ultima della idea di archetipo. Difatti per la costituzione stessa dell’archetipo le immagini che esso produce sono dotate di una infinità di significati 20


che non possono mai essere completamente esauriti ed intesi razionalmente, e sarà pertanto il Simbolo lo strumento migliore per dare forma sensibile ad un oggetto (l’archetipo) non completamente conoscibile dalla coscienza. È il numinoso che sempre accompagna l’archetipo dagli infiniti ed inesauribili significati – ossia «una essenza o energia dinamica non originata da alcun atto arbitrario della volontà» (Jung, 1938/1940) – che si veste della Immagine simbolica per rendersi comprensibile alla mente umana che è finita e limitata. Ed è proprio a causa di questa polisemia inesauribile dell’immagine archetipica che l’interpretazione psicologica non deve pretendere di avere l’ultima parola. La psicologia indaga sulle immagini simboliche che emergono dall’inconscio nei sogni, nelle fantasie, nelle visioni, nei miti, nelle fiabe, nelle religioni e nei deliri, rendendole coscienti, ma senza esaurirne mai il significato: La psicologia è il ‘farsi coscienza’ del processo psichico, ma in un senso più profondo non è una spiegazione di tale processo, perché ogni spiegazione del fatto psichico non può essere altro che lo stesso processo vitale della psiche (Jung, 1947/1954 corsivo mio).

Egli si avvide che al centro della psiche vi era una sorta di archetipo degli archetipi che assumeva le caratteristiche di una struttura trascendente e al tempo stesso immanente all’Io con funzioni ordinatrici, trasformatrici e teleologiche che egli definì il Sé. In essa Jung vi vide l’Imago Dei che l’uomo aveva perduto, la sorgente della sua evoluzione psichica, la causa della sua malattia e la fonte della sua guarigione, nonché la meta ultima da raggiungere. Da questa «premessa del Sé» (Fellini, 1989) Jung trasse le basi per il suo procedimento di psicoterapia che definì con il nome di «Metodo Sintetico o Costruttivo» (Jung, 1917) per differenziarlo da quello Analitico o Riduttivo di Freud e da quello Educativo o Pedagogico/ Sociale di Adler. Come dice la definizione stessa, il metodo analitico junghiano si basa essenzialmente in un procedimento atto a creare 21


una sintesi fra la coscienza e gli opposti processi inconsci della psiche che conduce a una vera e propria “unione dei contrari” in parte simile alla coincidenza degli opposti del neoplatonismo quattrocentesco di Nicolò Cusano. Se la tecnica della Psicoanalisi freudiana è caratterizzata dallo scomporre i prodotti inconsci (immagini e simboli) nelle sue componenti elementari seguendo un ordine causale-riduttivo, il metodo sintetico junghiano, al contrario, integra il Simbolo in una espressione generale e comprensibile che evidenzi il suo reale valore e la sua teleonomia nella economia psichica dell’individuo che ne è il portatore. Ovvero, per la Psicologia Analitica, i processi inconsci e la loro produzione in Immagini simboliche hanno un significato che può essere letto in senso anagogico e non solo analogico, come vorrebbe Freud. Esse cioè, analogamente alla interpretazione mistica delle immagini allegoriche contenute nelle Sacre Scritture che possono essere lette come realtà soprannaturali a cui l’anima deve elevarsi, assumono, nella teoria junghiana, la dignità di veri e propri “fatti psichici” reali dotati della capacità sia di strutturare che di trasformare l’apparato psichico. Secondo questo indirizzo teorico, dalla sintesi dei processi inconsci con la coscienza, ovvero dalla loro integrazione, non si verifica solo la risoluzione dei disagi psichici, ma anche il progresso psichico e spirituale dell’individuo, poiché le immagini archetipiche hanno una vera e propria funzione trasformatrice della psiche a cui non ci si può sottrarre. A differenza di Freud che ritiene l’inconscio stesso un “pericolo” responsabile della patologia psichica e che, come tale, va controllato; per Jung, invece: La mancanza di unità con l’inconscio è la sua pericolosità. Se si riesce a creare quella funzione (o atteggiamento) che io definisco trascendente, si elimina la mancanza di unità e ci possiamo rallegrare dell’aspetto positivo dell’inconscio (Jung, 1917 corsivo mio).

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Questa «funzione trascendente della psiche» è appunto il ponte che unisce il Conscio con l’Inconscio, ed è attraverso la sua attivazione che l’unione diviene possibile, poiché essa «[...] risulta dalla unificazione dei contenuti “consci” con quelli “inconsci”» (Jung, 1957/1958). Tale funzione psicologica in cui il processo di confronto con l’inconscio da lei sostenuto non può essere descritto separatamente dal metodo messo in atto per promuovere il processo, presenta delle affinità sorprendenti con la “funzione di sintesi dell’Io” di Kernberg soprattutto nella sua concezione di capacità di introiettare ciò che prima nella relazione oggettuale era scisso, proiettato e autonomo. Tale funzione nella quale «non si deve intendere niente di misterioso, di soprasensibile o di metafisico» (Jung, ibidem), e che può essere paragonata alla funzione matematica che ha lo stesso nome e che «trascende» i numeri reali e immaginari (Jung, ibidem), viene attivata nel paziente (e anche nell’analista) attraverso le tecniche peculiari della Psicoterapia Analitica che agiscono tutte sui processi immaginativi della psiche dell’individuo. In altre parole le tecniche peculiari della Psicoterapia Analitica come l’Interpretazione sul Soggetto, l’Amplificazione Circolare, il Disegno Simbolico, e, ovviamente, l’Immaginazione Attiva, hanno tutte lo scopo, attraverso l’attivazione dei processi immaginativi del paziente e della sua capacità di simbolizzare, di rendere efficiente la funzione trascendente e creare, in tal modo, una proficua sintesi degli opposti del conscio e dell’inconscio. Proprio questa peculiarità di metodo conoscitivo e di tecnica terapeutica spiega perché sia possibile fare un parallelismo così stretto fra la Psicologia delle relazioni oggettuali, quella del Sé e la Psicologia Analitica. Infatti con l’analisi sul gioco fatto dai bambini da parte della Klein anche il metodo psicoanalitico passa dalla interpretazione logica delle libere associazioni alla ermeneutica delle fantasie immaginative infantili. Come ben sapevano gli alchimisti, è difficile trovare un processo immaginativo più profondo e spontaneo del gioco dei bambini. È quindi nel momento in cui il metodo diviene analogo che anche le conclusioni che la psicoanalisi 23


trae divengono del tutto simili, anche se possono essere espresse con una terminologia propria e differente. Per comprendere meglio queste analogie fra i due metodi può essere utile rievocare, al riguardo, la notissima, ed oramai storica, polemica fra la Klein e Anna Freud sulla tecnica del gioco e l’analisi infantile, perché ci permette di vedere in modo chiarissimo come in psicoanalisi teoria e metodo pratico si inducano reciprocamente e siano strettamente solidali. Per fare ciò ci avvarremo della magistrale descrizione storica che Claude Geets (1971) fa di questa polemica. La posizione antagonista della Freud nei confronti della Klein si concentrava innanzitutto nei confronti della equiparazione degli elementi del gioco alle associazioni dell’adulto che la Klein compiva nella sua tecnica analitica del gioco dei bambini. Per la Freud nel bambino manca «la rappresentazione di uno scopo preciso», in questo caso la coscienza di essere in analisi e quindi anche di voler guarire, che dà alle associazioni dell’adulto il loro valore significativo. Il gioco, a differenza delle associazioni verbali, è una attività spontanea, naturale, che si svolge nel bambino al di fuori di ogni fine terapeutico. Non possiamo pertanto, secondo Anna Freud, trattare gli elementi del gioco allo stesso modo delle associazioni dell’adulto. Cioè negli atti del gioco non si possono vedere dei simboli (nel senso freudiano di qualcosa che cela qualcosa d’altro), poiché essi, in quanto spontanei e al di fuori della influenza della situazione analitica, possono avere delle spiegazioni perfettamente innocenti (A. Freud, Psicoanalisi e bambini). La divergenza fra le due è proprio su questo punto cruciale. Anna Freud, a differenza della Klein, non crede che il bambino si trovi sin dall’inizio in una situazione di transfert nei confronti dell’analista, e pertanto non pensa che una nevrosi di transfert possa, a stretto rigore di termini, fare la sua comparsa nel corso dell’analisi. Certo il bambino mostra nei confronti dell’analista movimenti di affetto e di ostilità mostrando, in tal modo, «una quantità di reazioni che ha acquisito nei suoi rapporti con i genitori», ma non è possibile, 24


tuttavia, parlare di un transfert vero e proprio e ciò per una semplice ragione: Il bambino non è, come l’adulto, pronto ad iniziare una nuova edizione delle sue relazioni affettive perché, potremmo dire, la vecchia relazione non è ancora esaurita. I primi oggetti del suo affetto, i genitori, per lui esistono ancora nella realtà come oggetti di amore e non, come avviene per il nevrotico adulto, soltanto nella fantasia. (Anna Freud, ibidem)

Da questo fatto, per Anna Freud, non si può che imporre la seguente conclusione: non si può, nell’analisi infantile, parlare di una situazione analitica paragonabile a quella che si stabilisce nell’analisi degli adulti. La critica della Klein a questa concezione sarà puntuale, e logicamente ineccepibile nonché alla base della sua concezione teorica di Super-Io infantile. Per convincersi che durante la cura si produca realmente una nevrosi da transfert, basta osservare attentamente il bambino nel corso dell’analisi: la Klein si rese conto dal modo in cui i sintomi aumentano o diminuiscono, parallelamente all’abreazione degli affetti, esattamente in funzione dell’attuale rapporto del bambino con l’analista. E quindi constatata la realtà del transfert bambino/analista, è necessario spiegarne la possibilità. Soltanto un Super-Io infantile molto precoce ci permette di spiegarlo. E nella concezione kleiniana l’analisi dei bambini ci mostra proprio che, fin dal terzo anno di vita, la parte più importante del loro sviluppo psichico è terminata. Nella analisi emerge, secondo la Klein, che le tendenze edipiche (che per lei sono già apparse durante lo svezzamento) hanno già stabilito una distanza fra il bambino e i suoi primi oggetti d’amore; la rimozione e il senso di colpa sono già all’opera contribuendo a modificare e deformare la relazione fra il bambino e i suoi oggetti in modo tale che «gli oggetti d’amore attuali sono delle imago degli oggetti primitivi» (Klein, 1923).

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Ma ciò che più sorprende, secondo la Klein, è l’eccesso di severità del Super-Io infantile se rapportato alla severità dei genitori effettivi, come se la forma degli oggetti interni che costituiscono il Super-Io non potesse assumere la caratteristica degli oggetti esterni (i genitori) se non a prezzo di una deformazione considerevole. Pertanto il Super-Io infantile non è dunque una semplice riproduzione dei genitori reali, ma partecipa profondamente delle pulsioni libidiche ed ostili del bambino piccolo nei suoi precocissimi stadi evolutivi: «In nessun caso potremo identificare gli oggetti effettivi con quelli introiettati dal bambino» (Klein, ibidem). Il Super-Io presenta, cioè, delle stratificazioni costituite da una serie continua di identificazioni successive a volte fra loro opposte e radicate in periodi diversi, ma che sono tutte più o meno profondamente diverse dagli oggetti reali anche se le identificazioni più superficiali tendono ad avvicinarsi a tali oggetti. Gli aspetti diversi e in successione del transfert del bambino ora positivo, ora negativo (la mamma “fata” o la mamma “cattiva”), contribuiscono a mettere a nudo tali identificazioni successive e divergenti. Tutto il materiale che si presenta agli occhi dell’analista, compreso il gioco del bambino, possiede quindi per la Klein sempre un significato analitico, suscettibile di essere rivelato mediante una interpretazione condotta secondo regole precise. Tutto ciò che avviene in analisi è oggetto di analisi, poiché in definitiva tutto nell’analisi è fantasia (cioè attività immaginativo/simbolica), proprio nella misura in cui tutto nell’analisi serve all’espressione della vita istintuale. In tal modo le personificazioni del gioco servono da «supporto proiettivo» (Lebovici e Soulè, 1970) al mondo degli oggetti interni di cui incarnano le diverse figure, mentre contemporaneamente si manifestano i correlati emozionali ad esse e i meccanismi di difesa che sono all’opera. E questo processo, come vedremo nel proseguo dell’opera, sarà del tutto analogo alle proiezioni che l’alchimista farà sulla materia che intende trasmutare. Ma proprio in quanto si svolge alla presenza di un altro, il gioco del bambino segna anche la sua apertura sull’ordine simbolico: ossia il 26


bambino esprime con un linguaggio arcaico e filogenetico il proprio vissuto interiore. Esso rivela sempre un tentativo di uscire da una relazione duale alienante per instaurare una relazione a tre. Ciò che egli esprime «al di là di una semplice riproduzione delle fantasie», è «lo sforzo di una elaborazione mitica e una prima simbolizzazione». E questo spazio terzo fra analista e bambino, come vedremo successivamente, costituisce per la Psicologia Analitica, proprio il campo interattivo (“corpo sottile”), ovvero il mundus immaginalis di cui parla la Psicologia Analitica. Voglio intendere con queste considerazioni che, se ci liberiamo da ogni pregiudizio teorico e osserviamo obbiettivamente questi fatti, possiamo ben vedere come le fantasie oggettuali che la Klein trovò nel bambino sono analoghe a quelle dei miti più arcaici della umanità e del tutto analoghe alle teorie junghiane, comprese quelle del mondo post-junghiano sullo sviluppo psichico infantile. Inoltre, anche la osservazione del bambino di Winnicott ha portato ad una Psicologia del Sé sviluppata da altri con analogie fortissime rispetto alle idee di Jung, e la attuale corrente psicoanalitica che da loro si è sviluppata ha ben poco a che vedere con le teorie pulsionali freudiane o con le sue concezioni dinamico/strutturali dell’apparato psichico (anche se tutti gli esponenti di essa fanno dei tentativi tanto eroici quanto inutili per conciliarle), mentre tutto ha a che condividere con la Psicologia Analitica di Carl Gustav Jung. È parere di chi scrive che, se si spurga la teoria junghiana da tutti i ridicoli e fanatici orpelli mistico/esoterici ad essa apposti artatamente da certi “epigoni”, e la si osserva approfonditamente alla luce della sua reale verità analitica concettuale e metodologica, appaia evidente come essa precorra e integri la moderna psicoanalisi. Per rendersi conto della bontà di queste mie affermazioni è sufficiente dare una scorsa non preconcetta alle definizioni presenti nell’undicesimo capitolo dei Tipi psicologici del 1921. In esso si troveranno delle descrizioni concettuali dell’Io, della Immagine, della Proiezione/Introiezione, del Sé, della attività fantasmatica 27


dell’inconscio che sono pressoché identiche alle concezioni che seguiranno molto dopo della Klein, di Winnicott, Kohut, Kernberg ed altri, i quali senza rendersene conto erano giunti alle stesse conclusioni a cui lo stesso Jung era giunto molto tempo prima di loro. Tutto ciò, a mio avviso, fa di Jung un precursore della Psicologia delle relazioni oggettuali nonché della Psicologia del Sé e pone a pieno titolo la Psicologia Analitica nell’ambito del corpus dottrinale della psicoanalisi come un tutto organico non solo conforme al suo paradigma, ma anche e soprattutto come un insieme di concezioni che posseggono i titoli rivendicativi di una priorità storica euristica di “scoperte” e “metodiche” attribuite erroneamente ad altri autori. Un altro punto di fondamentale importanza per continuare lungo la direzione teorica di confronto fra i due paradigmi che mi sono prefissato in quest’opera, consiste nel comprendere come tali relazioni con gli oggetti interni a priori si esplichino all’esterno nella relazione terapeutica diadica tra paziente ed analista comunemente definita transfert e controtransfert, e che, essendo esse innate, non possono certo esaurirsi unicamente in una produzione delle proprie esperienze personali. È solo nella traslazione e controtraslazione terapeutica (che vanno considerate come “casi particolari di proiezione”) che qualsiasi concetto psicoanalitico trova la sua ragion d’essere e non vi è nessuna vera analisi se non vi è analisi della traslazione che si instaura fra medico e paziente. Come giustamente rileva A. Green (1975), «il transfert come il controtransfert non sono più concetti psicoanalitici da pensarsi alla stregua degli altri, ma sono la condizione a partire dalla quale tutti gli altri possono essere pensati». Oggi, praticamente tutta la psicologia, e non solo la psicoanalisi, indipendentemente dall’orientamento che la anima, si trova d’accordo sul fatto che la psiche dell’uomo non possa neppure pensarsi al di fuori dei suoi rapporti relazionali interni ed esterni. E questi rapporti sono intimamente connessi alla conoscenza e alla 28


regolazione delle emozioni come ampiamente dimostrato anche in ambito neuroscientifico dai lavori di Gallese. (2002/2003) Essere uomini significa quindi relazionarsi con un oggetto interno o esterno che sia, e, seguendo Jung e la concezione psicoanalitica delle relazioni oggettuali, possiamo, superando Brentano e Hussler, parlare di una intenzionalità non più limitata alla sola coscienza, ma estesa anche all’inconscio. Tale intenzionalità innata si esplica nelle relazioni con gli oggetti interni che sono le immagini a priori su cui si struttura tutta la psiche dell’individuo e si manifesta nel rapporto analitico condizionandolo. Per cui non si può parlare di relazioni oggettuali in senso clinico senza parlare contemporaneamente di traslazione! Per Jung il transfert era «l’alfa e l’omega di tutto il metodo analitico» (Jung, 1946) e considerava la sua interpretazione ed analisi di importanza fondamentale in psicoterapia. Anche la concezione junghiana dell’analisi del transfert e del controtransfert con le sue peculiarità tipiche legate alla proiezione di archetipi può essere inserita nelle concezioni psicoanalitiche sopra esposte non solo come analogia concettuale, ma anche come vera e propria premessa. Voglio intendere, rifacendomi a ciò che ho precedentemente esposto sul metodo psicoanalitico, che è solo nella traslazione che si può cogliere tutto il rapporto analitico che si svolge nell’immaginale fra analista e analizzando e dal quale sono state tratte tutte le considerazioni che ho antecedentemente mostrato. Le concezioni di Jung sulla traslazione hanno avuto, in Psicologia Analitica, successivi e importanti sviluppi soprattutto in Fordham (1957), in Meier (1977), Schwartz-Salant (1982) e altri, ed è solo per una ignoranza non scusabile che si ritiene, da parte di alcuni che pretendono definirsi “teorici”, che la «Komplexen Psycologie» dia poco valore al transfert come mezzo di interpretazione e di cura. Alla disamina dell’analisi del transfert Jung dedicò una delle sue opere più importanti e complesse: La psicologia della traslazione (1946). In essa espose le sue teorie sul transfert avvalendosi di un 29


confronto con le immagini contenute in un antico trattato alchemico il Rosarium Philosophorum. Le numerose xilografie contenute in questo testo di alchimia operativa mostrano, in forma simbolica, le immagini del procedimento trasmutativo alchemico, noto come “coniunctio oppositorum”, il quale consiste nella combinazione dei principi “maschili” e “femminili” contenuti nei metalli per giungere alla fabbricazione dell’“oro filosofico”. La sequenza delle figure che illustrano tale fusione “chimica” assumono, nello scritto, la forma della Sigiza universale formata da Re e Regina che, uniti in matrimonio, si congiungono in un coito mortale che porterà alla loro rinascita in forma di Androgino. In tali effigi Jung vi vide descritto il «processo chimico» attraverso cui si verificava «l’Immagine Archetipica della Unione dei Contrari» e lo intese come una comparazione storica che confermava le sue teorie su ciò che avviene in analisi fra il medico e il suo paziente (Jung, 1946). Difatti, la ricerca storico/comparativa (oltre che essere alla base della tecnica ermeneutica analitica che consente la Amplificazione Circolare), costituisce, per Jung, la dimostrazione empirica della scientificità del suo metodo e delle sue concezioni. Scrive a proposito delle motivazioni che hanno fatto sì che egli abbia raccolto e commentato tutto questo materiale storico riguardo alla traslazione: Il motivo, la necessità intrinseca di ciò, sta nel fatto che l’esatta valutazione di un problema di psicologia contemporanea è possibile soltanto quando ci riesca di trovare al di fuori del nostro tempo un punto a partire dal quale possiamo osservare il problema in questione. Questo punto non può essere costituito che da un’epoca passata che abbia affrontato gli stessi problemi, anche se con premesse e in forme diverse (Jung, 1946).

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E ciò nasce per Jung da una considerazione fondamentale: La Psicologia Analitica è fondamentalmente una scienza naturale, ma soggetta ai personali pregiudizi del ricercatore più di qualunque altra scienza. Perciò quanto più lo psicologo si fonda su paralleli storici e letterari, tanto meno corre il rischio di commettere errori grossolani nei suoi giudizi (Jung 1961).

D’altro canto è proprio nell’Alchimia che Jung vede la conferma storica della sua psicologia: Notai ben presto che la Psicologia Analitica concordava stranamente con l’alchimia. Le esperienze degli alchimisti erano, in un certo senso, le mie esperienze e il loro mondo era il mio mondo. Naturalmente questa fu per me una scoperta importante: avevo trovato l’equivalente storico della mia Psicologia dell’inconscio. Ora essa aveva un fondamento storico. La possibilità di un raffronto con l’alchimia, così come la continuità spirituale fino al lontano gnosticismo, le davano la materia (Jung, ibidem corsivo mio).

Pertanto, a fronte di queste considerazioni espresse da Jung stesso, nel confrontarsi col suo pensiero, non si può fare certo a meno di considerare, piaccia o meno, l’Alchimia come essenza cardine delle sue concezioni. Evitare di fare ciò crea una visione mutila della teoria e della pratica della Psicologia Analitica che impedisce una reale comprensione degli aspetti fondamentali del pensiero analitico junghiano. Purtroppo però la complessità del linguaggio usato da Jung per descrivere i processi simbolico/psichici che si manifestavano negli scritti alchemici – che dava per scontato da parte del lettore una vasta cultura e conoscenze umanistiche, storiche, filosofiche e antropologiche – non ha certo favorito la comprensione delle sue concezioni storico/comparative fra l’alchimia e la Psicologia Analitica da lui ideata. E ciò ha generato non pochi equivoci nel corso della evoluzione della esegesi del suo pensiero. Il più grande di essi, compiuto più o meno scientemente dai terapeuti “new agers”, consiste nel ritenere il pensiero di Jung come una sorta 31


di “dimostrazione” pseudoscientifica di ogni sorta di teoria o mistero occulto. In realtà, il mondo dell’Alchimia, con il suo immaginario prodotto dalle proiezioni inconsce degli alchimisti sulla materia che cercavano di trasformare, è stato tolto da Jung, attraverso la comparazione storico/psicologica, dall’ambito del mero interesse dell’esoterismo per inserirlo nella scienza della Psicoterapia Analitica. Cosa questa compresa perfettamente sia dai moderni alchimisti, sia dagli stessi esoteristi dotati di un minimo di cultura e senso critico che difatti sono estremamente critici nei confronti dello Psichiatra svizzero. La Psicologia Analitica, come ideata da Jung (che soffriva molto dell’accusa di “non scientificità”), è nella sua realtà, nei suoi scopi, e nel suo paradigma operativo verbi sensus, un’opera scientifica empirica che non usa come metodo di indagine il modello scientifico sperimentale, ma quello storico/comparativo ed ideografico. Per fare ciò, utilizza le immagini simboliche presenti nei miti, nelle religioni, nelle credenze, nella magia e nell’alchimia, ma lo fa a scopo di ottenere una comparazione oggettiva in senso storico universale delle sue ipotesi e non con lo scopo di compiere chissà quale forma di ritualità magica. Fare della Psicologia comparata non significa in alcun modo dare una “giustificazione scientifica” all’occulto, così come l’antropologia pur dedicandosi allo studio della magia non ne costituisce certo una dimostrazione scientifica, né tanto meno, una particolare forma di setta esoterica. È necessario quindi recuperare questi aspetti chiamiamoli “esoterici” e tradurli in senso scientifico/clinico, nonché confrontarli con altri paradigmi psicoanalitici al fine non di svilire o annacquare i concetti teorici cardine junghiani, ma col precipuo intendimento di integrarli, chiarirli e renderli fruibili operativamente nel modo migliore possibile. In modo particolare riguardo ai processi psicologici della traslazione che Jung vide nelle immagini del Rosarium, come giustamente osserva Schwartz Salant (1997), egli giunse a delle conclusioni che sono quasi sovrapponibili a quelle alle quali giunse Melanie Klein 32


riguardo al meccanismo della identificazione proiettiva. Pertanto occuparsi di alchimia dal mio punto di vista significa occuparsi soprattutto di Psicologia delle relazioni oggettuali. Dunque, in riferimento al transfert e al controtransfert, il piano della presente opera è appunto quello di commentare la Psicologia della traslazione di Jung cercando di evidenziare i concetti in essa espressi sia singolarmente e peculiarmente che in rapporto alle concezioni della evoluzione del pensiero junghiano, nonché di fare un parallelo con le concezioni teoriche della psicoanalisi delle relazioni oggettuali e del Sé. Cercheremo di dare una visione clinica accessibile delle immagini alchemiche contenute nel Rosarium philosophorum confrontando il pensiero di Jung sulla traslazione con la psicoanalisi classica, con il pensiero post-junghiano (Plaut, Fordham, Davidson, Meier, Schwartz-Salant ed altri), e soprattutto con la psicoanalisi delle relazioni oggettuali e del Sé. Per fare tutto ciò ho diviso la presente opera in tre parti: nella prima si delineeranno le concezioni della Psicologia Analitica sul transfert in senso generale e teorico. Nella seconda si cercherà di dare una struttura clinica teorico/pratica del transfert non solo secondo la concezione classica di Jung, ma anche secondo la sua evoluzione nel “mondo” junghiano ed in modo particolare secondo Plaut, Fordham, Davidson, Meier, Schwartz Salant e l’italiana Oria Fellini. Nella terza, infine, si commenteranno le immagini alchemiche del Rosarium nella speranza di rendere più chiara e fruibile una materia così oscura e complessa, e la descrizione di esse verrà eseguita in riferimento alla clinica analitica delle relazioni oggettuali con particolare attenzione al meccanismo della identificazione proiettiva. Per terminare voglio asserire che nel compiere questa mia “fatica” spero di essere stato in grado di trasmettere tutto l’entusiasmo che ho provato nell’approfondire il pensiero junghiano raffrontandolo con la psicoanalisi delle relazioni oggettuali, ma anche di come sia necessario nel campo della Psicologia del profondo mantenere sempre un atteggiamento di assoluta umiltà. Infatti, se consideriamo 33


la vastità incommensurabile dell’inconscio nessuno può presumere di possedere l’ultima parola o una qualsivoglia chiave di lettura e di conoscenza certe. Di fronte all’inconscio nessuno è mai veramente “maestro” o “docente”, ma è sempre un allievo che ha tutto da imparare. Riguardo a ciò, per concludere la mia introduzione, voglio citare proprio dalla Psicologia della traslazione quella che era la concezione di Jung riferita all’atteggiamento che ogni giorno lo psicoterapeuta avrebbe dovuto tenere nella sua pratica professionale e che spero sia quello che sono riuscito a tenere nella stesura della presente opera: Senza dubbio l’ignoranza non costituisce mai un titolo di raccomandazione, ma anche il più grande sapere spesso non basta. Lo psicoterapeuta non dovrebbe quindi lasciar passare giorno senza ricordare umilmente che egli ha ancora tutto da imparare.

C.G. Jung, La Psicologia della traslazione (1946)

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Parte prima: CONSIDERAZIONI GENERALI E TEORICHE SUL TRANSFERT IN PSICOLOGIA ANALITICA

René Magritte, Il terapista (1937).

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1.1 “Transfert”: definizione di un concetto in evoluzione Il termine “transfert” (la parola è francese), in italiano “traslazione”, rappresenta un concetto clinico di difficile definizione che nella storia della psicoanalisi ha avuto accezioni spesso alquanto difformi. Come ogni altro concetto clinico psicoanalitico, la parola “transfert” ha subìto vari cambiamenti di significato man mano che la psicoanalisi si è evoluta e sviluppata nella sua teoria. Inoltre, anche nella medesima fase storica della psicoanalisi questo stesso termine è stato espresso con significati differenti. La evoluzione del concetto di “transfert” è stata così variabile e foriera di una vasta molteplicità di significati che, attualmente, si è creata una situazione tale per cui il significato di questo termine è completamente determinabile solo attraverso un esame del contesto in cui è usato. Se osserviamo la definizione che la ormai classica Enciclopedia della psicoanalisi dà del vocabolo “transfert”: Il processo con cui desideri inconsci si attualizzano su determinati oggetti nell’ambito di una determinata relazione stabilita con essi e soprattutto nell’ambito della relazione analitica. Si tratta della ripetizione di prototipi infantili che è vissuta con un forte senso di attualità. È per lo più il “transfert nella cura” che gli psicoanalisti chiamano transfert, senza altra qualificazione. Il transfert è tradizionalmente riconosciuto come il terreno in cui si svolge la problematica di una cura psicoanalitica, la sua impostazione, le sue modalità, la sua interpretazione e la sua risoluzione (Laplanche e Pontalis 1967),

ci accorgiamo immediatamente come già nel 1967 tale termine possedesse una marcata polisemia di significato che di certo non era in grado né di specificare né di esaurire il senso di tutte quelle complesse interazioni affettive che si sviluppano fra analizzando e analista nel corso del processo di analisi. Inoltre, è altrettanto evidente in questa stratificazione di significati molteplici del termine la evoluzione storica che il concetto di transfert ha subìto dalle 36


prime formulazioni di Freud a quelle attuali. Si è passati dalla idea che la traslazione fosse una semplice ripetizione di esperienze infantili rimosse che venivano messe in scena nella relazione transferale attraverso una sorta di “regressione controllata”, alle concezioni attuali che vedono il transfert come una organizzazione della esperienza attuale secondo modelli interni (Bateman, Holmes, 1995) dove il “dramma” transferale non è visto più come una semplice ripetizione del passato, ma come una esperienza nuova influenzata dal passato (Cooper, 1987). Come giustamente rilevato da Lisi, Mazzeschi e Zennaro (2002) una sintesi del problema dei molteplici significati del termine “transfert” può essere fatta seguendo Bateman e Holmes (1995): In sintesi, nelle varie formulazioni del concetto, il transfert: • descrive il processo tramite il quale un individuo “trasferisce” sull’analista e sulle altre persone esperienze, atteggiamenti e sentimenti che appartengono al passato e che ha frequentemente sperimentato nelle relazioni precedenti con le figure più importanti; • descrive l’esteriorizzazione attuale di relazioni oggettuali interiorizzate all’interno del processo analitico e delle relazioni ordinarie; • include tutti gli aspetti inconsci della relazione analitica compresa la comunicazione non verbale; • comprende i concetti di alleanza di trattamento o alleanza terapeutica; • il suo sviluppo può essere ostacolato dall’insorgere di una specifica resistenza o, d’altro canto, il transfert stesso può divenire la resistenza alla risoluzione del conflitto soggiacente; • il transfert può essere una “sonda” della realtà relazionale (Slavin e Kiergman, 1992); • può essere una manifestazione del significato latente, stimolata dalla relazione con l’analista, ma in una forma alterata della esperienza passata.

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Parte seconda: ASPETTI TEORICO/CLINICI DEL TRANSFERT IN PSICOLOGIA ANALITICA

Dipinto La scoperta del fosforo, XVII secolo. In esso un alchimista cade stupefatto in ginocchio di fronte allo spettacolo del fosforo che illumina fiocamente il suo laboratorio.

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2.1 La clinica del transfert secondo Jung

Frammento di oro alchimistico conservato al British Museum di Londra (immagine da catalogo).

Nella prefazione de La psicologia della traslazione, Jung scrive: Il lettore noterà che nel saggio presente manca una presentazione dei fenomeni clinici della traslazione. Le mie riflessioni non sono però rivolte ai principianti, a quelli a cui manca una conoscenza del fenomeno, ma esclusivamente a coloro che hanno già acquisito sufficiente esperienza attraverso la pratica (Jung 1946, corsivo mio).

In questo testo, quindi, Jung dà per scontato che il lettore sappia già che cosa è il “transfert” non solo attingendo dalle proprie conoscenze teoriche, ma anche e soprattutto attraverso la propria esperienza clinica pratica. Anche prima del 1946 Jung aveva già fatto più volte riferimento al transfert chiarendo il suo punto di vista; e benché tale esposizione risulti nel complesso esauriente e significativa, egli ha deliberatamente omesso di affrontare gli aspetti clinici del 105


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2.4 La translazione di Jung come identificazione proiettiva della Klein: l’opera di Nathan Schwartz-Salant Allo stato attuale praticamente tutta la psicoterapia psicodinamica accetta l’idea che i kleiniani e i teorici delle relazioni oggettuali abbiano esteso la nozione di transfert attraverso il concetto di identificazione proiettiva (Feldmann, 1997; Gabbard, 1995; Joseph, 1989; Odgen, 1979; Spillius, 1992). Quello che invece, purtroppo, il mondo psicoanalitico (compreso quello junghiano) non ha accettato, né tanto meno compreso, è la teoria di Schwartz-Salant secondo la quale sia l’identificazione proiettiva che la concezione stessa delle relazioni oggettuali, come modello della mente che spiega le funzioni mentali in termini di oggetti interni, siano state ampiamente scoperte e descritte analogamente proprio da Jung, anche se utilizzando una terminologia differente e propria (Schwartz-Salant, 1982). La teoria delle relazioni oggettuali si basa sull’assunto che, piuttosto che la pulsione, sia la relazione con l’oggetto mentale interno («fantasia» e/o «fantasma») a rappresentare la motivazione fondamentale dello sviluppo psichico. Inoltre, un altro aspetto fondamentale della teoria è che tale relazione con l’oggetto mentale è un rapporto primitivo e innato nel soggetto: l’individuo nasce con una tendenza alla relazione ed è su di essa che si fonda la struttura della sua personalità e si sviluppa la sua psiche. L’aspetto motivante della pulsione viene cioè sostituito dal bisogno di relazione. L’«oggetto reale», esterno alla mente, con la sua relazione reale esterna serve come mediatore di una relazione primaria già esistente all’interno dell’individuo (Zennaro, Polla, Tenzon, 2002). Questa opinione condivisa da Faibarin, dalla Klein, da Bion e dagli altri autori di stampo kleiniano, ma anche da Kohut e Kernberg, ha davvero poco a che fare con le dinamiche della psiche individuate da Freud, mentre è estremamente vicina alle concezioni junghiane. Se si sostituisce il termine «oggetto interno» con «Imago», «primitivo» 151


con «archetipico» e «relazione» con «coniunctio», ci si accorge come fra la teoria delle relazioni oggettuali e le idee di Jung vi sia quasi una identità di vedute (Schwartz-Salant, 1982). La base relazionale della psiche ha avuto recentemente una sua conferma tramite le neuroscienze. La scoperta di neuroni specifici (i «mirror neurons», neuroni a specchio) deputati, fin dall’inizio della vita, allo scopo di regolare l’esperienza emozionale/motivazionale su un sistema interpersonale grazie al quale, prima di ogni conoscenza esplicita, siamo in grado di riconoscere intenzionalità di gesti ed espressioni emozionali in noi stessi e nell’altro (Gallese, 2002/2003), pare una conferma della teoria delle relazioni oggettuali. La conoscenza delle nostre intenzioni ed emozioni è, cioè, un processo intrinsecamente intersoggettivo: conosciamo il senso e il valore di una emozione in quanto la colleghiamo ad una intenzione presente simultaneamente nell’altro e in noi stessi, e riconosciamo simultaneamente quel senso e valore tanto in noi stessi quanto nell’altro, perché «è nell’interazione intenzionale che l’emozione si produce in noi e si manifesta nell’altro» (Liotti, 2007). È chiaro, quindi, che se alla base della dinamica della psiche vi è una relazione mentale interna che trova la sua oggettivazione confermativa nella mediazione con la relazione esterna, la “regina” dei meccanismi psichici di difesa, adattamento e sviluppo sarà la proiezione (e non la rimozione come voleva Freud), e l’immagine simbolica universale di tale relazione non potrà essere che il matrimonio: ovvero la «coniunctio» di Jung. La Melanie Klein (1946) isolò il meccanismo della identificazione proiettiva nell’ambito dello sviluppo emotivo relazionale del bambino durante i primi mesi di vita. Esso consiste «nella fantasia onnipotente secondo cui parti non desiderate della personalità possono essere scisse, proiettate e controllate nell’oggetto esterno nel quale sono state riposte» (Grinberg, 1986). Il concetto di identificazione proiettiva applicato nella relazione diadica dell’analisi descrive proprio questo tentativo del paziente di costringere il 152


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Nei suoi studi di Psicoanalisi junghiana ha trovato una spiegazione psicologicamente convincente dell’efficacia terapeutica del transfert che sarebbe stata intuita già dagli antichi alchimisti.

prof. Renzo Canestrari Decano di Psicologia della Facoltà Medica della Università di Bologna

Attualmente insegna la Psicologia della traslazione nella Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Analitica Aión di Bologna.

Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Analitica Aiòn

Alchimia dell’Immagine L’alchimia e il transfert: Jung e la Klein

Nel 1946 Carl Gustav Jung descrisse il transfert archetipico che si crea fra analista e paziente usando le antiche immagini alchemiche nella sua famosissima opera La psicologia della traslazione. Nello stesso anno, Melanie Klein con il suo Note su alcuni meccanismi schizoidi fissò i capisaldi delle relazioni oggettuali in psicoanalisi. I due testi, solo apparentemente diversi, in realtà descrivevano il medesimo processo psichico che sottende il transfert: l’identificazione proiettiva. L’autore, attraverso l’immaginario alchemico rigorosamente esaminato secondo la scienza psicoanalitica, pone in questo libro a confronto la Psicologia analitica con la Psicoanalisi delle relazioni oggettuali mostrando non solo l’esistenza di presupposti e conclusioni comuni, ma anche di una possibile applicazione clinica comune ai due metodi.

Presentazione di Renzo Canestrari

Corso quadriennale riconosciuto dal Ministero dell’Università e della Ricerca della repubblica Italiana con autorizzazione n.172 pubblicato in G.U. n.180 del 03/08/2004

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Luca Valerio Fabj

Alchimia dell’Immagine

A partire dal 2002, quando faceva parte del direttivo dell’Ordine dei Medici di Bologna, si è occupato di quale fosse l’essenza del rapporto che si instaura fra il medico e il suo paziente che spesso ha una importanza fondamentale per la cura di quest’ultimo.

[…] dice testualmente Jung: «È solo il medico ferito che guarisce». Difatti è solo attraverso la sua ferita insanabile che il medico può curare, solo se è disposto a porre tutto sé stesso in una relazione terapeutica che è sì, certamente, tecnica e professionalità ma anche e soprattutto, dice il Fabj, dedizione e amore incondizionato. […] mi piace credere che ogni lettore possa soddisfare le sue curiosità vuoi che sia professionalmente impegnato nella azione psicoterapeutica vuoi che sia interessato ad approfondire la sua cultura di base.

Prezzo al pubblico € 15,90 - Iva inclusa

Luca Valerio Fabj

Luca Valerio Fabj, nato a Bologna il 23/11/1961 è laureato in Medicina e Chirurgia, è Psicoterapeuta Specialista in Psicoterapia analitica.

Presentazione di Maria Caterina Bianchini

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