Lo sviluppo della personalità nell’arco della vita Concetti teorici e applicativi di F.J. Fiz Pérez - C. Ciancio Pag. 234 Prezzo: € 15,90
La depressione nell’adolescenza Aspetti teorici, diagnostici ed eziopatogenetici di F.J. Fiz Pérez - A. D’Aiello Pag. 144 Prezzo: € 16,90
Psicologia della comunicazione Concetti teorici e pratici di F.J. Fiz Pérez - C. Falasco Pag. 224 Prezzo: € 16,90
Rossella Sofia Bonfiglioli
L’autrice racconta una storia, o meglio “differenti” storie ricche di rappresentazioni e sensazioni, di affermazioni e negazioni, di respiri e silenzi, di separazioni e lutti, di incontri e ritrovamenti, di memorie e dimenticanze, di presenze ed assenze, attorno al corpo, o “corpus di conoscenza”, del genere femminile situate all’interno del modello storico, culturale, sociale e politico di segno patriarcale in Occidente. L’intento è quello di proporre una riflessione medico−antropologica attorno al concetto di trauma, riferito al genere e alle soggettività femminili, ripreso da vari campi disciplinari, dalla medicina−psichiatria, alla psicologia−psicoanalisi, all’antropologia−etnologia. Quest’idea funge efficacemente da ponte di collegamento, in senso sia semiologico che fenomenologico, per esplorare e problematizzare le molteplici “sintomatologie” femminili che hanno contrassegnato il Novecento: un percorso che si focalizza sul cosiddetto “fenomeno isterico”, che ha dato avvio alla psicoanalisi freudiana e alle nuove “psicopatologie” della contemporaneità. Il trauma viene usato come strumento dall’autrice per dare “differente” senso e significanza alle metafore incorporate della sofferenza psichica del genere femminile e per sottolineare l’intreccio, ineludibile e inestricabile, fra esperienza individuale e costruzioni collettive.
Il femminile traumatizzato
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di F.J. Fiz Pérez - C. Ciancio Pag. 135 Prezzo: € 16,90
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Rossella Sofia Bonfiglioli
Psicologia e bioetica Verso una prospettiva Psico–Bio–Etica
Un’analisi medico-antropologica nella cultura patriarcale in Occidente
Presentazione di Francisco Javier Fiz Pérez
Rossella Sofia Bonfiglioli, laureata al DAMS in Semiologia della Comunicazione (Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Bologna); scrittrice, ricercatrice e curatrice di mostre d’arte contemporanea a livello internazionale; ha collaborato con la filosofa e psicoanalista francese Luce Irigaray (CNRS, Parigi); diplomata in Psicologia ed Umanologia Yogica presso il KRI (Kundalini Research Institute, Los Angeles); formazione in Psicoterapia presso la SIB (Scuola Italiana Biosistemica riconosciuta dal MIUR); laureata in Antropologia Culturale ed Etnologia con tesi specialistica in Antropologia Sociale dei Saperi Medici (Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna); ha pubblicato il libro Frequenze Barbare presso la Casa Usher–Electa Firenze, oltre a numerosi articoli e saggi; e partecipato in qualità di relatrice a congressi del settore in Italia ed in Europa. Vive e lavora a Bologna, dove svolge la libera professione come consulente ed autrice nel campo psicoterapeutico e medico–antropologico.
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24/06/2011 16.15.50
Ai miei genitori, Antonio e Gilberta, e a mio figlio Leonardo.
Ringrazio il prof. Francisco Javier Fiz Pérez per aver ospitato questo mio studio nella sua pregevole collana “Sviluppo integrale”. Ringrazio, inoltre, Paolo Emilio Persiani ed i tipi della Casa Editrice Persiani per il gentile aiuto alla redazione del testo.
Sviluppo integrale
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DIRETTORE DELLA COLLANA Prof. Francisco Javier Fiz Pérez, PH.D., PSY.D., BE.M.S., ST. M.S., Ordinario di Bioetica sociale (APRA), Ordinario T.D. di Psicologia dello sviluppo (UER). International Psychologist Advisor Fundación Altius, vice presidente dell’AISES per la Spagna e l’America Latina. COMITATO SCIENTIFICO Membri Nazionali Prof. Marco Bigelli: ordinario di Finanza aziendale presso l’Università di Bologna. Dott. Fausto Capalbo: presidente dell’Istituto per la cooperazione economica internazionale e i problemi dello sviluppo (United Nations). Dott. Tullio Chiminazzo: fondatore del Movimento Mondiale di Economia ed Etica. Prof. Guido Cimino: ordinario di Storia della scienza e della psicologia presso l’Università di Roma “La Sapienza”. Prof. Michele Costabile: ordinario di Marketing, presso l’Università Bocconi. Prof. Valerio De Luca: London School of Economics – presidente dell’AISES Prof. Paola Di Blasio: ordinario di Psicologia evolutiva presso l’Università Cattolica di Milano. Prof. Giuseppe Di Taranto: ordinario di Storia economica, presso l’Università LUISS Guido Carli. Prof. Franco Fontana: direttore della LUISS Business School of Economics. Ordinario di Economia e gestione delle imprese, Roma. Prof. Paola Grammatico: presidente del Comitato etico dell’Ospedale San Camilo–Forlanin. Dott. Francesco La Spesa: vice direttore dell’Ospedale Bambino Gesù.
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Dott. Andrea Laudadio: Università Europea di Roma. E– Lavorando. Prof. Arrigo Pedon: preside della Facoltà di Scienze della formazione LUMSA di Roma. Dott. Roberto Piciucchi: segretario generale della Fondazione Economia ed Etica. Prof. Carla Poderico: ordinario di Psicologia evolutiva presso la Seconda Università degli Studi di Napoli. Prof. Francesca Romana Lenzi: docente di Storia all’Università Europea di Roma. Prof. Paolo Russo: ordinario di Pedagogia presso l’Università di Cassino. Dott. Fernando Salvetti: fondatore di LKN (Logos Knowledge Network). Prof. Vincenzo Saracino: ordinario di Pedagogia generale presso la Seconda Università degli studi di Napoli. Membri Internazionali Prof. Vivian Boland: Blackfriars Oxford University. Dott. Juan Pérez Calot: vice presidente BBV, Spagna. Prof. Fernando Canal: responsabile dei rapporti internazionali dell’Università Francisco de Vitoria, Madrid. Dott. Ramón Pérez Carrión: fondatore della Società Spagnola di Oncologia Medica. Prof. Alberto Garcia: direttore della Cattedra Unesco – Bioetica e diritti umani, APRA, Roma. Prof. Teresa Gutiérrez–Haces: Universidad Nacional Autonoma de México, Economia política internacional. Prof. Jose Maria Lopez Landiribar: dean of the Psychology School, Universidad Anahuac, Messico D.F. Dott. Elizabeth Messina: presidente dell’IAPA, USA.
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Dott. Christopher Poll: chairman Future–Route. London, UK. Prof. Gladys M. Sweeney: academic dean IPS, Washington D.C. Prof. Craig Steven Titus: research Professor STD, University of Fribourg, Switzerland. Prof. Maria Adela Bertella: direttore Dipartimento di Psicologia, Università Cattolica Buenos Aires, Argentina. Prof. Jesús Labrador: presidente sezione psicologia del FIUC. Università di Comillas di Madrid, Spagna. Prof. Ricardo A. Machón: Psicologia generale, Loyola Marymount University. College of Liberal Arts, Los Angeles, USA. Prof. Julio Guille: Psicologia clinica. Faculté Libre des Letters et Sciences Humanines Lille, Francia. Prof. Carlos Vargas: presidente della Facoltà di Psicologia all’Università Cattolica di Colombia.
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Rossella Sofia Bonfiglioli
IL FEMMINILE TRAUMATIZZATO Un’analisi medico–antropologica nella cultura patriarcale in Occidente Con la presentazione di FRANCISCO JAVIER FIZ PÉREZ
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IL FEMMINILE TRAUMATIZZATO Un’analisi medico–antropologica nella cultura patriarcale in Occidente di Rossella Sofia Bonfiglioli
Paolo Emilio Persiani Editore piazza San Martino 9/C 40126 Bologna Tel. (+39) 051/9913920 Fax (+39) 051/19901229 e–mail: info@persianieditore.com www.persianieditore.com Tutti i diritti sono riservati a norma di legge e a norma delle convenzioni internazionali. Copertina: Con–fine Studio Immagine. In copertina: la Venere di Milo, la Dea dell’Amore (Alessandro di Antiochia, Museo del Louvre, Parigi, 130 a.C.). Afrodite, la Dea sotto i cui passi nascono i fiori. Curatori del testo: Francesca Delvecchio, Isotta Pieraccini e Perla Premoto. Stampa: Atena.Net Srl, Grisignano (VI) Copyright © 2011 by Gruppo Persiani Editore di Paolo Emilio Persiani TUTTI I DIRITTI RISERVATI – Printed in Italy
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INDICE GENERALE Presentazione............................................................................................... 12 Prefazione.................................................................................................... 15 Introduzione................................................................................................ 26 Capitolo Primo Trauma e memoria traumatica, corpo e sofferenza 1.1. Centralità del “corpus di conoscenza” femminile nel contesto storico– culturale della crisi della modernità.......................................................39 1.2. Omaggio a Luce Irigaray........................................................................55 1.3. L’attraversamento della categoria della differenza come “altra” rappresentazione della soggettività femminile.......................................62 1.4. Dal sesso al genere: personalità multipla e “fenomeno isterico” come strategie di resistenza creativa................................................................70 1.4.1. Violenza e personalità multipla.............................................................70 1.4.2. L’“isterica”: questa sconosciuta..............................................................78 Capitolo Secondo Sopravvivere al trauma: il corpo comunica 2.1. La donna che emerge “ri–nasce”...........................................................126 2.2. Costruzione culturale dell’esperienza della sofferenza: l’incorporazione dei disordini.......................................................................................... 130 2.3. La questione dell’aggressività femminile: le narrazioni del corpo........134 Capitolo Terzo La questione del divino e la dimensione del sacro femminile 3.1. Di Maria non sappiamo quasi niente: sotto il manto della Dea ciò che non è ovvio è “segreto”........................................................................144 3.2. Verso un’arte della relazione sessuata fra donne e uomini, nel rispetto della differenza e di una immanenza sensibilmente trascendente..........151 Riferimenti bibliografici...........................................................................157
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PRESENTAZIONE Con immenso piacere ho accettato l’invito della dottoressa Rossella Sofia Bonfiglioli di presentare questo libro. L’autrice incentra la sua analisi medico–antropologica attorno ai molteplici “sintomi” che sono stati classificati dalla bio–medicina e bio–psichiatria occidentali, in particolare a partire dalla fine dell’Ottocento, con l’esplodere del cosiddetto “fenomeno isterico”, come “psicopatologici” del genere femminile. Secondo l’originale interpretazione dell’autrice, questi “sintomi psicopatologici”, “naturalmente” assegnati al femminile, sono da analizzare e problematizzare, nella loro concettualizzazione e definizione riduzionistica, al fine di metterne in luce le cause culturali e politico–sociali, spesso nascoste, rimosse o annullate attraverso specifiche costruzioni di potere appartenenti ad una tradizione di segno squisitamente patriarcale. Perseguendo tale obiettivo, i due filoni che l’autrice utilizza sono: la repressione dell’istinto di aggressività e la rimozione del senso del divino femminile. Due aspetti che sono stati più o meno “naturalizzati” come ipoaggressività propria del genere femminile e mancanza di riferimenti simbolici e di incarnazioni femminili della divinità. L’ipotesi che l’autrice propone è che la costruzione del potere patriarcale lungo il corso della storia dell’Occidente sia di ordine specificatamente culturale–politico–ideologico. Essa ha avuto origine e si è mossa semiologicamente e antropologicamente attraverso due particolari direzioni: da una parte certi stati o condizioni (fragilità, debolezza, malinconia, ecc.) sono stati considerati come “naturali” nelle donne, e pertanto ritenuti scientificamente irrilevanti; dall’altra questa “naturalizzazione” ha prodotto quei cosiddetti “sintomi psicopatologici” che sono stati
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spesso utilizzati, da parte delle istituzioni di potere, come occasioni di ostracismo, condanna, persecuzione, marginalizzazione, medica– lizzazione, ecc. In sintesi, sempre secondo l’autrice, questa costruzione culturale, operata dal discorso di potere patriarcale in Occidente, si basa su una “naturalizzazione” ideologica eretta sulla dimenticanza/negazione dei concreti fattori socio–culturali, di segno squisitamente patriarcale, che l’analisi antropologica pensa invece come cardini di base dei cosiddetti “sintomi psicopatologici”. Sintomi che, di fatto, sono stati considerati attraverso la concezione diagnostica, in particolare bio–medica e bio–psichiatrica, come “indici di deviazione” rispetto ad una presupposta “normalità” e pertanto, come tali, da correggere o da punire, da debellare farmacologicamente o clinicamente. Con quest’opera l’autrice pertanto propone di esplorare il “trauma” collettivo storico–culturale, oltreché individuale ed esistenziale; la ferita, la sofferenza e il disagio del femminile nel contesto della civiltà occidentale da un punto di vista sia psicoterapeutico che medico– antropologico. Ed altresì di analizzarne e problematizzarne le costruzioni culturali, in particolare attraverso la rivisitazione del pensiero della differenza originato e fondato attraverso il lavoro della filosofa e psicoanalista francese Luce Irigaray e l’esplorazione dei due temi portanti sopraindicati: la repressione dell’istinto aggressivo e la rimozione del senso del divino femminile. Il mio ringraziamento va, dunque, all’autrice per la realizzazione di quest’opera che, scientificamente, si fonda sull’osservazione e sullo studio di alcuni esempi tratti dalla letteratura psichiatrica, psicoanalitica e antropologica, culturalmente e storicamente contestualizzati fra la fine e l’inizio del Novecento, oltre che sull’individuazione e condivisione di alcuni casi clinici ed etnografici, appartenenti sia alla pratica professionale che alla contemporaneità.
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Mi permetto di consigliare vivamente la lettura di questo volume, che analizza e mette a fuoco la costruzione storica e culturale di segno patriarcale dell’Occidente come violentemente sessista, sia in senso strutturale che simbolico, volume orientato decisamente all’individuazione della soggettività femminile differentemente sessuata, come base necessaria dello “sviluppo integrale” delle nostre società. E volentieri sottolineo che ciò che caratterizza l’indagine dell’autrice non è il conflitto, né tanto meno lo scontro fra il femminile ed il maschile ma piuttosto l’apertura psicoterapeutico–antropologica verso una nuova visione esistenziale: una cultura “integrata” dei due differenti generi, che necessariamente deve fondarsi sulla capacità di trovare nuovi modi, incorporazioni, linguaggi e rappresentazioni dell’essere insieme donne e uomini; del divenire, citando Irigaray ,“Uno”, rimanendo in “Due”. Francisco Javier Fiz Pérez Professore ordinario di Bioetica sociale (APRA) Professore straordinario t.d. di Psicologia dello sviluppo ( UER)
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PREFAZIONE Spes: ultima Dea Così disse ed essi obbedirono a Zeus signore, figlio di Crono. E subito l’inclito Ambidestro, per volere di Zeus, plasmò dalla terra una figura simile a una vergine casta; Atena occhio di mare, le diede un cinto e l’adornò; e le Grazie divine e Persuasione veneranda intorno al suo corpo condussero aurei monili; le Ore dalla splendida chioma, l’incoronarono con fiori di primavera; e Pallade Atena adattò alle membra ornamenti di ogni genere. Infine il messaggero Argifonte le pose nel cuore menzogne, scaltre lusinghe e indole astuta, per volere di Zeus cupitonante; e voce le infuse l’araldo divino, e chiamò questa donna Pandora, perché tutti gli abitanti dell’Olimpo l’avevano portata in dono, sciagura agli uomini laboriosi. Poi, quando compì l’arduo inganno, senza rimedio, il Padre mandò a Epimeteo l’inclito Argifonte portatore del dono, veloce araldo degli dèi; né Epimeteo pensò alle parole che Prometeo gli aveva rivolto: mai accettare un dono da Zeus Olimpio, ma rimandarlo indietro, perché non divenga un male per i mortali. Lo accolse e possedeva il male, prima di riconoscerlo. Prima infatti le stirpi degli uomini abitavano la Terra del tutto al riparo dal dolore, lontano dalla dura fatica, lontano dalle crudeli malattie che recano all’uomo la morte (rapidamente nel dolore gli uomini avvizziscono). Ma la donna di sua mano sollevò il grande coperchio dell’orcio e tutto disperse, procurando agli uomini sciagure luttuose. Sola lì rimase Speranza nella casa infrangibile, dentro, al di sotto del bordo dell’orcio, né se ne volò fuori; ché Pandora prima ricoprì la giara, per volere dell’egioco Zeus, adunatore dei nembi. E altri mali, infiniti, vanno errando fra gli uomini.1 Secondo il racconto tramandato dal poeta Esiodo ne Le opere e i giorni, il vaso (dal greco Πίτθοσς) era un dono fatto a Pandora da Zeus, il quale le aveva raccomandato di non aprirlo. 1 Esiodo, La Teogonia, VIII–VII secolo a.C.
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Pandora (παν δωρον: tutti i doni), che aveva ricevuto da Hermes il dono della curiosità, non tardò però a scoperchiarlo, liberando tutti i mali del mondo. Sul fondo del vaso rimase soltanto la Speranza (Éλπις) che non fece in tempo ad allontanarsi prima che il vaso venisse chiuso di nuovo. Prima di questo momento l’umanità aveva vissuto in una sorta di Eden, libera da mali, fatiche o preoccupazioni di sorta dove gli uomini erano, come gli dèi, immortali. Dopo l’apertura del vaso il mondo diventò un luogo desolato e inospitale, finché Pandora aprì nuovamente il vaso per fare uscire la Speranza. Con il mito di Pandora la teodicea greca assegna alla curiosità femminile la responsabilità di aver reso dolorosa la vita dell’uomo. Pandora aveva disubbidito a Zeus che le aveva ordinato di lasciare il vaso sempre chiuso. Per questo motivo della “colpa” iniziale il personaggio di Pandora non è dissimile da quello di Eva nel mito biblico della Genesi. Infatti, secondo il racconto biblico, tra tutti gli alberi piantati nel giardino, ce n’erano due particolari: l’“Albero della Conoscenza del bene e del male” e l’“Albero della Vita”. Dio proibì all’uomo di mangiare i frutti del primo; la disobbedienza portò alla cacciata dal giardino dell’Eden, e vennero negati all’Uomo i frutti del secondo... Poi Dio disse: «Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi, quanto alla conoscenza del bene e del male. Guardiamo che egli non stenda la mano e prenda anche del frutto dell’Albero della Vita, ne mangi e viva per sempre». Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture. [...] Maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai
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il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre. Uomo e donna li creò.2
È da sottolineare il fatto che, come è scritto in alcuni commenti che si riferivano alla scrittura originaria della Genesi (una raccolta di antiche leggende ebraiche databili attorno al V–X secolo d.C.), uomo e donna, Abramo e Lilith, all’inizio furono creati insieme dal dio degli ebrei. Lilith, precedente ad Eva, era stata la prima. Lei non era stata creata dopo Adamo, non aveva preso vita da una sua costola; tuttavia, a causa della sua ribellione, essi non vissero insieme. Per il suo rifiuto di obbedire Lilith fu ripudiata e cacciata, ed in seguito rimossa dalla storia. Si racconta che la donna lasciasse allora il paradiso terrestre e raggiungesse il Mar Rosso dove vivevano i diavoli. L’arcangelo Gabriele, per ordine di Dio cercò di convincerla a tornare accanto ad Adamo, ma Lilith fu irremovibile nella sua richiesta di “uguale posizione” e l’arcangelo fu altrettanto irremovibile nell’imporle ubbidienza e sudditanza all’uomo. Lilith dunque rimase dov’era e da allora rappresentò, nella cultura ebraica e poi cristiana, la parte rifiutata dell’archetipo femminile, l’Ombra rimossa della forza delle donne. Se ne andavano via con lei la grande energia vitale, […], la pretesa di parità nella composizione dell’alternanza del potere, la forte carica sessuale e la potenzialità aggressiva nella difesa delle proprie ragioni. […] Togliendo di mezzo lei questa parte della femminilità si inabissa nell’inconscio collettivo, dove va a finire ciò che di noi non vogliamo o non possiamo sapere. […] La Bibbia la toglierà di mezzo e nell’immaginario delle popolazioni giudaico‒ cristiane sopravviverà a lungo, almeno fino al XVI secolo, come diavolessa che uccide i maschi, colpendoli nel sonno. 3
Attraverso i contributi greci, essa verrà poi fissata nella cosiddetta demonologia cabalistica per arrivare a raccogliere in sé, nel corso dei 2 3
Genesis 3,22. M. Valcarenghi, L’aggressività femminile, Mondadori, Milano 2003, p. 41.
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secoli, attraverso un lungo processo di costruzione storico–culturale, tutto il “negativo” che si coagula attorno alla donna, o meglio, al “corpus di conoscenza” del femminile. «Su di essa vanno ad aggregarsi tutte le influenze culturali e religiose e psicologiche trasformandola in un vero tabù». 4 Lilith, che appartiene all’area della cultura mediterranea giudaico/cristiana, è una figura delineata nel Medioevo come emblema caratterizzato dagli aspetti negativi della femminilità: sposa ribelle, madre assassina e pericolosa seduttrice, è assimilabile al demone della religione mesopotamica sumerica, del 3000 a.C. circa, associato alla tempesta: un insieme di spiriti legati al vento, ritenuto portatore di disgrazia, malattia e morte. È stata avanzata da alcuni studiosi l’ipotesi che la storia di Lilith sia stata scritta facendo riferimento a tutta una serie di tradizioni, immagini e leggende risalenti a culti di origine sumera e babilonese tracce, del resto, ritrovabili in molti libri della Bibbia. 5 Tracce dalle quali deriverebbe etimologicamente anche il suo nome, in particolare dall’assiro–babilonese lilitu: un demone spirito del vento che intorno al 2000 a.C. si trasforma nel sumero lillake, che vive all’interno di un albero, posto sotto la protezione della dea Inanna,6 il cui mito della discesa agli inferi, che sarà poi riproposto nella cultura greca attraverso la figura di Persefone ed in un certo qual modo anche di Psiche, racconta del suo viaggio all’inferno come metafora di un viaggio iniziatico, che in sé accoglie gran parte del complesso archetipico femminile di nascita/morte/trasformazione. Se in area sumerica il suffisso –lil indicava demoni solitamente negativi, capaci di provocare malattie e di indurre alla follia, nella tradizione ebraica il nome Lilith pare invece derivare dalla parola layla che significa “notte”, con le relative simbologie immaginarie: notte come luogo dei sogni, degli spiriti, degli incubi… Nell’insieme 4 5 6
R. Sicuteri, Lilith e la luna nera, Astrolabio, Roma 1980, p. 50. cfr. G. Scholem (1960), La Kabbalah e il suo simbolismo, Einaudi, Torino 1978. cfr. R. Graves (1948), La dea bianca, Adelphi, Milano 1991.
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delle credenze dell’ebraismo Lilith appare infatti come un demone notturno oppure, a volte, come una civetta che lancia il suo urlo. Come già accennato, i più antichi commenti al testo sacro, riferiti alla Sacra Scrittura originaria e risparmiati dalla censura dei rabbini, raccontano di lei. Non volendo essere succube di Adamo, anche in ambito sessuale, e rifiutando che fosse solo lui a possederla, Lilith, pronunciò infuriata il nome di Dio. Prese il volo abbandonando, prima della caduta dell’uomo, il giardino del Paradiso e, non essendo sottomessa alle leggi della mortalità per non aver toccato l’Albero della Conoscenza, si rifugiò sulle coste del Mar Rosso dove vivevano i diavoli. Abbiamo inoltre visto come la leggenda di Lilith, la prima moglie di Adamo, si fondi con la precedente tradizione assiro–babilonese. Faust: «Ma quella chi è?» Mefistofele: «Quella è Lilith» Faust: «Chi?» Mefistofele: «La prima moglie di Adamo, sta’ in guardia dai suoi bei capelli, da quello splendore che solo la veste. Fai che abbia avvinto un giovane con quelli, e ce ne vuole prima che lo lasci». 7 Come si pone dal Medioevo e dalla caccia alle streghe fino ad arrivare alla modernità, il confronto della tradizione patriarcale con questa figura demonica, aggressiva e ribelle, testimone di un sacro/impuro impossibile da possedere, da addomesticare? Lilith che ha rifiutato di sottomettersi piegandosi all’Edipo, continua ad essere una realtà psichica che si manifesta in forme diverse, tutte però ruotanti intorno ad un nucleo generativo: la sua ribellione, la sua capacità creativa, la sua esistenza come soggetto desiderante… Voce sommersa ma sempre udibile attraverso i confini fra deviazione e normalità, salute e malattia, la figura di Lilith afferma, attraverso vie sotterranee, nonostante la rimozione ed il divieto, la propria esistenza 7
W.J. Goethe (1772-1775), Faust e Urfaust, Mondadori, Milano 1970.
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nel genere femminile nell’Occidente patriarcale fino ad esplodere nel cosiddetto, esplicito ed inequivocabile, “fenomeno isterico” della fine dell’Ottocento. Lilith e la sua abnorme produzione di demoni — fantasmi senza corpo — può essere letta come il prodursi incessante nella psiche femminile di immagini di desiderio e di creatività, che se pure non hanno avuto finora statuto di realtà, non possono essere cancellate. La sua pullulante generatività e il corpo/terra/madre di cui Lilith è costituita, possono ricondurci verso un modello di identità femminile fondata non sull’Edipo, ma sul legame amoroso tra corpi di donne e sulla narcisizzazione del corpo femminile, restituito allo sguardo non solo dell’invidia, ma del rispecchiamento madre/bambina.8
Dopo Lilith nella Bibbia si dice che nasce Eva. Questa volta creata da una costola di Adamo, e quindi da lui dipendente, viene tentata dal serpente a mangiare il frutto dell’Albero della Conoscenza fra il Bene e il Male. Anche la storia di Eva può dunque essere letta come una storia di disobbedienza. Infatti lei verrà condannata, insieme ad Adamo, a lasciare il Paradiso Terrestre assumendo così su di sé, attraverso la cultura giudaico–cristiana, che la assimila all’immagine demonica del serpente, il male ed il peccato dell’intera umanità. Ma eravamo partiti con Pandora… Avevamo visto che già il suo mito aveva proposto all’interno dell’immaginario culturale collettivo della società patriarcale occidentale la questione “donna”: connessa alla Terra e quindi alla materia, lei è matrice della vita e della morte; la sua potenza è ambivalente… rischia di trasgredire l’ordine, laddove il desiderio della “conoscenza” si può scontrare con quello della conservazione. 8
M.C. Barducci, Il velo e il coltello. L’aggressività femminile fra cura e cultura, Vivarium, Milano 2006, p. 127.
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Questa implicazione mi sembra di primaria importanza, in quanto la questione “donna”, all’interno della cultura patriarcale in Occidente, riguarda fondamentalmente l’“enigma” non della “femminilità”, ma della “differenza” sessuale. L’enigma si manifesta ogni volta che una donna si ribella, fa, crea secondo la propria pressione pulsionale o ispirazione, andando necessariamente e irrimediabilmente oltre il paradigma della dualità che ha contrassegnato l’Occidente tra sacro e profano (vestale o madre, vergine o prostituta). Il mito di Pandora, oltre il coperchio e lo scoperchiamento artistico, intellettuale e spirituale, pone l’interrogativo urgente della donna come soggetto “autopoietico”, cioè autocreativo, in senso conoscitivo, artistico ed intellettuale. Cos’è la proibizione dell’apertura del vaso se non il divieto di accedere a tutto il patrimonio delle potenzialità umane (che comprendono l’ombra, il negativo e di conseguenza anche la possibilità della caduta, della confusione e della catastrofe)? Ricordiamoci che Pandora, secondo il mito, è la prima donna mortale (per ordine di Zeus viene creata da Efesto che la ricava dall’acqua mista a terra) e che sullo sfondo di questo racconto troviamo il tema della responsabilità e della colpa. Zeus dona a Pandora un oggetto dal contenuto misterioso con il quale scendere sulla Terra. Pandora lo ripone in un luogo nascosto: il vaso (il corpo?) è il contenitore di un pericoloso segreto e se il vaso (il corpo?) si apre questo arcano può essere svelato… Qual è questo mistero? Qual è la sua significatività implicita o nascosta? Certamente esso necessita di essere decifrato per essere liberato dalla sua pericolosità o senso di colpa.
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Si tratta di qualcosa che ha a che fare con la mitologia e la simbologia incorporata del femminile; questo, quindi, riguarda, insieme alla curiosità, l’aspetto intuitivo, magico e vaticinante del “corpus di conoscenza” delle donne (classificato nella storia come folle o “isterico”). Scoperchiando il vaso (scoperchiando il corpo?) Pandora non apre forse la stanza di Eros? Eros, il Dio sorto dall’uovo primigenio, il cui sembiante luminoso abbacina la Notte alla quale si unisce per generare la Terra e il Cielo. Il vaso (il corpo?) si pone come l’ambito pericoloso in cui si incrociano le possibilità, cioè gli sguardi. Tra origine e catastrofe, tra carnalità e trascendimento nel “vaso– corpo” si condensa ciò che sta in basso e ciò che sta in alto: bisogni vitali e forme significanti che possono essere trasposti nel mondo abitato dagli uomini non senza rischio. Sembra peraltro essere la creazione di Pandora dall’acqua e dalla terra, cioè dal piano della natura, a permetterle di manifestare se stessa non più come funesta apportatrice di mali, ma come custode di un’invisibile Speranza: è il segreto, lo spazio nascosto dell’attesa da cui muove Eros che rimane inscritto nel fondo del “vaso–corpo” che salva Pandora e con lei il mondo degli uomini. È una corporeità che contiene un presagio, quella di Pandora. Il mito è un vero caposaldo della misoginia greca ma nel “vaso–corpo” della femmina, donatole dal grande Padre, rimane celata la Speranza, una parte vitale non completamente addomesticata: l’amante, l’indomabile, la strega, la selvaggia o la selvatica. Quando il vaso fu richiuso — dopo la fuoriuscita di tutti i mali del mondo — solo la Speranza rimase sul fondo; cosicché, in un certo qual modo, essa fu sottratta agli uomini e tenuta da Pandora. Il momento in cui Pandora lo aprì fu come se la Speranza venisse liberata dal potere delle catene (del senso di colpa). La sua libertà è
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dunque legata ad un’apertura attraverso un capovolgimento di senso, anzi, quasi ad una dissipazione. Sappiamo che un mito è normalmente simbolo dell’inconscio collettivo: quello di Pandora ci indica una delle grandi radici della stigmatizzazione del potere e della conoscenza del femminile all’interno della storia patriarcale dell’Occidente, nella cui tradizione culturale il peccato originale viene strettamente legato alla “donna primaria” latrice di tutti i mali. A questo proposito abbiamo già notato l’analogia fra la mitologia greca, sumera e giudaico–cristiana ed è sotto gli occhi di tutti la trasformazione semantica ed antropologica del mito nella contemporaneità, ancora imperniata di sessismo e di violenza strutturale e simbolica rispetto alla differenza di genere. Spesso nella cultura mediterranea, all’interno della cultura patriarcale, i miti testimoniano la repressione dell’intero complesso istintuale– creativo femminile. Sappiamo inoltre che il mito è una forma del pensiero e che la sua simbologia è viva: è essa stessa produttrice di significati che vengono più o meno consapevolmente incorporati. In altre parole, non esiste un mito in senso proprio, ma abbiamo sempre una mitologia, un discorso sul mito. L’elaborazione letteraria, artistica o filosofica non può disincarnarsi nella o dalla dimensione mitica. Nella rielaborazione del mito è necessario dunque dare vita, dare voce, dare rappresentazione allo spazio immaginario o immaginifico incorporato dallo stesso mito, a volte anche imponendo un vuoto, un silenzio. Dare vita, dare voce affinché possano emergere gli interrogativi sospesi, mettere in luce l’impossibilità di rispondere a tutte le domande che un mito ci pone e fare esplodere il desiderio di connessione, di relazione: il rapporto fra il detto ed il non detto, fra il
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nascosto e l’esplicito. Cosa succede quando il segreto, il non detto, diviene esplicito? I greci non hanno mai apertamente dichiarato che sarebbe stato preferibile che la sessualità femminile non fosse mai esistita, ma implicitamente e di fatto essi sono entrati nel πόλεμος, nel gioco del conflitto, della contraddizione dolorosa, penosa, attraverso la quale riconoscevano soltanto se stessi (me stesso). Rispetto alla portata semantica e conoscitiva della sessualità femminile, nella storia dell’Occidente non resta che una negazione. Oppure il tentativo dell’integrazione, cioè rendere la donna uguale a me stesso: il che è esattamente contrario al femminino, la cui espressione–dissipazione viene fatta diventare esempio di assoluto disastro. Fin quando Pandora non apre alla Speranza, verso di lei e per lei, non c’è ὂστις, cioè ospitalità. È nel momento della massima disperazione, del totale disconoscimento da parte del mondo abitato dagli uomini, che lei si autorivela attraverso la Speranza. Da quel momento Pandora non si rispecchia più. Può conoscersi ed autorealizzarsi. Tutto ciò costituisce sempre uno spazio drammatico, ma non è più la tragedia. Avviene una metamorfosi. Il vaso di Pandora sta al corpo femminile rivelandolo non solo come corpo materno (che contiene segreti terribili che una volta lasciati uscire avrebbero sprigionato disastri e calamità) ma anche come corpo di spes (speranza), femminile “differentemente sessuato”. Compio qualche passo indietro per riprendere il discorso della stretta ed importante connessione esistente fra curiosità femminile (mitizzata misogenicamente come pericolosa e trasgressiva rispetto all’ordine patriarcale) e desiderio di conoscenza. Voglio sottolineare che nella personalità femminile trova spesso
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spazio una curiosità o una passione, per sua natura indomabile e selvaggia, che spinge le donne verso una conoscenza, un sapere che appare istintivo e a volte visionario. Un sapere che appare trasversalmente lungo la storia manifestandosi attraverso molteplici forme e che è stato molte volte interpretato come “trasgressivo” rispetto all’ordine stabilito. Il fatto è che la tendenza delle donne ad ascoltare il loro insopprimibile impulso e desiderio di avventurarsi oltre le barriere del conosciuto verso l’ignoto o il mistero o l’altro da sé, ad infrangere un ordine dato come “naturale” e quindi come giusto, scontato e normativo senza avere un altro ordine prestabilito verso il quale andare, costituisce già e di per sé una sfida alla struttura di senso patriarcale. A questo proposito, concordo con Marina Valcarenghi quando afferma che è qui che si può trovare un nucleo della paura maschile più profondo che nel conflitto fra i generi. 9 Un discorso, il suo, che verte principalmente sulla pulsione istintiva, a lungo repressa, del desiderio di conoscenza e di creazione del femminile oltre il materno, fuori dal senso di colpa e dal giudizio maschile. Pulsione che, attraverso successivi e a volte tortuosi e apparentemente contraddittori passaggi, può arrivare attraverso quella che ho chiamato l’ultima Dea: Éλπις, la Speranza di Pandora, a farsi corpo, vita, conoscenza ed espressione, offrendo ad ognuna e ognuno la possibilità di poter realizzare la propria individuale metamorfosi.
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M. Valcarenghi, L’aggressività femminile, Mondadori, Milano 2003.
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INTRODUZIONE La Natura, la Terra, il Legno, il Fiume sono Pulsioni. Oggi canto ai Sogni che ritornano, alle antiche Melodie. Respiro nel mio Silenzio, Essendo nel mio Divenire Attimo dopo Attimo. In questo libro racconto una storia, o “differenti” storie, ricche di pensieri, di affermazioni, di negazioni, di respiri, di silenzi, di separazioni e di lutti, di incontri e ritrovamenti, di memorie e dimenticanze, di presenze e assenze attorno al corpo, o meglio “corpus di conoscenza” del genere femminile all’interno del modello storico, culturale, sociale e politico di segno patriarcale dell’Occidente. L’intento è quello di proporre una riflessione attorno al concetto di trauma riferito al genere e alle soggettività femminili. Concetto che, nel corso del Novecento, è stato esplorato in vari campi disciplinari, dalla medicina–psichiatria, alla psicologia–psicoanalisi, all’antropologia, in particolare medica. Questo concetto può fungere da collegamento, in senso sia semiologico che fenomenologico, per osservare le differenti sintomatologie femminili che hanno contrassegnato lo scorso secolo (dall’isteria alle cosiddette nuove psicopatologie) ed i loro possibili significati al fine di sottolineare l’intreccio inestricabile fra esperienza psichica individuale e costruzioni culturali e sociali collettive. Poiché siamo tutti inseriti, donne e uomini, all’interno delle strutture significanti dell’ordine patriarcale, ne abbiamo storicamente incorporato gli schemi. Pertanto la ricerca di un’identità differentemente sessuata rispetto al
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Capitolo Primo Trauma e memoria traumatica, corpo e sofferenza Mi tengo. Adesso, qui. Mi basta il tempo di respirare. Respiro. Sono qui. Se tu mi provochi, resisterò. Resisto. Esisto? Una lunga gara. Attraverso il silenzio. Mi concedo una pausa. Prendo tempo. Respiro. Rallento il battito del cuore. Ecco. Sono qui. Adesso, qui. Integra, intera in me. Mi perdo nell’incontro con te, ma ritorno a me. In una trascendenza accecante, assordante. Immersa nel mio, nel tuo mistero, un mistero a noi così prossimo, così caro. Mi apro e mi chiudo impercettibilmente. Come una medusa, come un ventaglio sfumato. Sono altro da te… Eppure sono qui con te. Se cedo… se frano… … Non scorgo più luce nei tuoi occhi. Compio un gesto emblematico. Di colpo, me ne vado. … Dunque, mio miele, mio tesoro di rubino, mio portatore di diamanti e di perle preziose, mio navigatore degli abissi, mio Sole, semplicemente stai qui.
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Stai qui, semplicemente. Se puoi. Come se io non me ne fossi mai andata. Stai qui adesso, in questo attimo presente. Al sempre lascio solo la mia, la tua Nostalgia. 1.1. Centralità del “corpus di conoscenza” femminile nel contesto storico–culturale della crisi della modernità Spesso l’esperienza dell’abbandono, quando tocca gli angoli più remoti della nostra storia, si associa a un’impressione di congelamento, e non ci sono maglie e coperte sufficienti a restituirci un po’ del nostro consueto calore. Nel tempo del gelo, anche gli orsi per consolarsi imparano a cantare canzoni sentimentali, come gli esseri umani quando sono tristi. 24 L’isteria è una forma di nevrosi caratterizzata da sintomi sensoriali e motori (accessi nervosi e convulsivi, delirio, amnesie, allucinazioni, ecc.). Il termine deriva dal greco ὑστέρα, “utero”, e fu coniato da Ippocrate per indicare una serie di disturbi provocati appunto da questo organo che rappresenta, secondo il modello della parte per il tutto, l’intero organismo femminile. Lo studio dell’isteria ha svolto un ruolo più o meno centrale in tutta la storia della medicina. È perciò significativo che solo recentemente (1987) questa sindrome sia stata eliminata dall’elenco delle malattie di origine psichiatrica redatto dall’American Psychiatric Association (DSM–III–R).25
I differenti codici culturali e le pratiche discorsive riguardo alla differenza sessuale, nella varianza delle influenze storiche, si sono radicati nel corpo femminile, all’interno di costellazioni individuali che si intrecciano alle trame di significati collettivi. Operando una comparazione fra le diverse rappresentazioni del 24 L. Melandri, Come nasce il sogno d’amore, Bollati Boringhieri, Milano 1988, p.11. 25 S.V. Finzi, Enciclopedia Treccani, p. 118.
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trauma della soggettività femminile che si sono espresse attraverso multiformi sindromi radicate nel corpo, l’analisi antropologica ne può mettere in luce l’aspetto culturale e osservare come vi siano stati, lungo il corso della storia occidentale, differenti luoghi spazio– temporali che, attraverso determinate configurazioni, più o meno inconsce, più o meno metaforiche e/o narrative, hanno avuto la funzione di designare una sorta di variabilità incorporata della soglia fra salute e malattia, fra donna normale e donna folle, pazza, isterica. Culturalmente, in Occidente, la centralità del “corpus di conoscenza” femminile si è costituita come uno dei più importanti dati di oggettivazione, sia a livello epistemologico che sperimentale, all’interno delle scienze mediche occidentali. Queste scienze, nate con l’obiettivo di indirizzare la loro ricerca verso l’elaborazione di modalità attraverso le quali sconfiggere la “sventura” e/o la “malattia”, si sono sempre definite come neutrali mentre tutte le più significative socio–analisi del pensiero psicoanalitico, femminista e medico–antropologico hanno evidenziato come esse siano state culturalmente costruite sulla base di assunti ideologici di segno patriarcale considerati come ovvi, naturali, e dunque socialmente non criticabili, capaci a loro volta di operare l’oggettivizzazione di quelle stesse categorie. Si tratta di strutture cognitive e sociali, di schemi interpretativi attraverso i quali, a partire dalla Grecia antica, si sono formalizzate certe visioni, rappresentazioni, cosmologie. All’interno di queste strutture le differenze di genere si sono stereotipate in particolari tradizioni, idee, credenze, pregiudizi, che hanno di fatto codificato la sottomissione e/o negazione del femminile come soggettività portatrice di valori autonomi. Parlo di una storia, in particolare medico–scientifica, che ha continuato a sostenere, fino alla seconda metà del XX secolo, una sorta di “inferiorità biologica” come origine della differenza fra i sessi. Un universo culturale in cui, all’interno delle diverse società, le
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Capitolo Secondo Sopravvivere al trauma: il corpo comunica Lettera ricevuta da Beatrice, 29 anni. “La donna che emerge” … Ciò che è rimasto in ombra. Sono andata a contattare ciò che è rimasto in ombra. … Ciò che io non ho voluto, potuto ricordare… ciò che io non avevo voluto… che ho dovuto, deciso? di accantonare. Sentivo freddo, troppo freddo, troppo dolore, ma questa parte cacciata laggiù nel buio… mi chiamava, mi terrorizzava e più io cercavo di cacciarla più lei si attorcigliava, si deformava, urlava dentro di me. È stato terribile riportarla in vita… ormai era uno scheletro, ma ci siamo riuscite, ce l’abbiamo fatta. Ed oggi la mia parte in ombra… non è più uno scheletro, ma ha preso carne, immaginazione, pensiero, voce, movimento. È una donna selvatica, scalza, con le gambe nude, vestita di stracci e di veli. I capelli lunghi fino alla vita, tiene in mano nastri, conchiglie e sonagli. Ha gli occhi luminosi e un sorriso abbagliante, e corre, corre, corre… La sua casa è una caverna piena di tesori,
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il suo corpo è morbido e caldo, non ha paura del sangue e del seme, è accogliente e può generare. È anche sapiente, anticamente saggia, tiene lontano con torce di fuoco le fiere, conosce i riti ed i ritmi delle stagioni, conosce le erbe e si interroga sui misteri. Quando c’è l’uragano, lei va in mezzo alla tempesta e grida. Quando c’è il sereno canta, coltiva la sua terra e danza. Il suo amante la fa giacere in letti di erba profumata… si incontrano vicino ai fiumi ed ai ruscelli, guardano insieme le stelle e sognano. Si accarezzano e ridono, sono forti e fragili. La donna selvatica vive nei boschi, ed incontra le altre donne selvatiche nelle notti di luna piena. Sviluppano sorellanza… allora lei è felice. Anche quando piange, anche quando è sola e si sente abbandonata… Ha un tamburo e molte cose strane… … Queste sono solo frasi… ma scriverle mi ha aiutata ad aprire la porta lì, dove io sono ancora molto feribile, vulnerabile… il dolore non è ancora passato, ma io sto liberando me stessa, sto ritornando a vivere. Grazie.
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2.1. La donna che emerge “ri–nasce” La donna che emerge è colei che sta liberando se stessa. Sta rientrando nel corpo e ciò le dà la forza di muoversi dal di dentro verso fuori. Capace di sentirsi più viva, può “rischiare” di essere. Questo “rientrare”, che nel paradigma dell’incorporazione trova radicamento, mette in luce la necessità di un processo verso la costruzione di una soggettività femminile sanata dalla dualità cartesiana mente–corpo: una separazione che ha confinato il corpo nel ruolo di substrato biologico della cultura, il linguaggio a funzione rappresentativa del pensiero e ha posto in conflitto la psiche con il corpo, la saggezza con la debolezza, l’immateriale con il materiale e, lungo la storia dell’Occidente, ha consegnato il genere femminile a una sorta di sacrificio. Attorno a questo sacrificio, è avvenuta una rimozione totale: il modello culturale patriarcale si è “dimenticato” dell’identità differentemente sessuata delle donne, della loro forza di soggetti, per ridurle a oggetto, a merce di scambio. Ma il corpo sa e non dimentica: non è un contenitore vuoto, ma un terreno, un luogo significante capace di esprimere le tracce, le ferite, anche quelle più antiche e profonde di un passato, di un trauma mai sepolto. Il corpo, nella sua immanenza ed insieme trascendenza, porta in sé la sua storia, la sua memoria, la sua verità. È in grado di raccontare, di comunicare, di svelare rapidamente ed efficacemente ciò che in esso si è incarnato e continuamente si incarna, al di là e anche oltre il linguaggio delle parole. Quello che Beatrice aveva portato in terapia era un tema di ansia, legato a “sintomi” di claustrofobia. Con lei avevo utilizzato quella che poi ho chiamato metafora della vita come corpo vivente. … La vita è un grande corpo, con il suo respiro, che si contrae e si espande, a livelli diversi, con ritmi diversi. Quando sono nel mio corpo e quando il mio pulsare è intonato con il corpo
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della vita, allora il mio respiro nutre e rigenera le mie cellule. Non sento più paura. Sento che la mia essenza vitale fa vibrare il mio corpo. Viceversa, quando mi lascio catturare dai miei fantasmi, da qualcosa o qualcuno, o addomesticare, mi paralizzo. Entro nell’angoscia, nel panico. Il mio respiro rallenta… mi sento soffocare. Il mio istinto mi sembra estinto. È lì che mi perdo. Non mi sento. Perdo il contatto con me. Esco dal mio corpo, dal ritmo della mia vita. 100
Dare testimonianza del testo di Beatrice mi permette di evidenziare come il linguaggio, in particolare la scrittura, possa essere utilizzato non solo come rappresentazione di un pensiero, ma come modo di comunicare il processo di una trasformazione incorporata in atto: in altre parole, come il linguaggio possa essere uno dei modi di comunicare l’incarnazione. La comprensione e trasformazione di un trauma come l’abuso comporta l’integrazione dei diversi aspetti organici, psichici, storico– culturali incorporati. Spesso le donne che hanno subìto un tale trauma tendono a deviare da un sano comportamento aggressivo di autodifesa, che ad esempio serve a proteggerle da altri movimenti predatori, per rimanere “congelate” nel loro “continuum” di vittimizzazione. Ciò significa che ogni volta che si ripresenta il rischio di una potenziale “predazione” la donna può sentirsi eccitata e insieme immobilizzata ed impotente: una reazione dovuta all’associazione traumatica che non lascia spazio al desiderio e all’attesa del piacere. È noto che quando non si riesce ad uscire da una situazione di immobilità, a livello organico si ha una sensazione di morte incombente, una condizione pressoché costante di estrema ansia. Clinicamente questa angoscia è stata definita angoscia traumatica e generalmente costituisce lo sfondo di base dell’esperienza di vita di una donna gravemente traumatizzata. 100 R.S. Bonfiglioli, inedito.
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Capitolo Terzo La questione del divino e la dimensione del sacro femminile “Lui rise e mi lanciò una sguardo che non dimenticherò mai. Era come se riuscisse a vedere tutto: passato, presente e futuro. Poi annuì col capo e mi invitò a sedere”. … Anche il prossimo giorno non nascerà se non dopo questa notte. Ed io amerò quell’intervallo di tempo fra l’inabissarsi della Luna e l’alzarsi del giorno. Quella frazione di spazio fra la caduta del buio e l’apparire della luce. Io starò esattamente lì, lì dove si sta compiendo la mia storia, nel mio divenire. Senza cercare di capire. Accettando che tu, uomo che sorride, vada e venga, da te a me, da me a te, all’Infinito. Io, con il mio corpo vestito di poco, i piedi nudi sulla Terra mossa a un passo da me. A un dio che è in me e che è in te. A una dea che è in te e che è in me. Io non sono morta. Io sono Viva e canto.
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3.1. Di Maria non sappiamo quasi niente: sotto il manto della Dea ciò che non è ovvio è “segreto” La questione del divino e del sacro è presente nella vita delle donne e degli uomini nella contemporaneità. Al di là dei grandi schematismi religiosi e dei dogmi, essa costituisce una grande posta in gioco per la nostra epoca. La questione di Dio, della relazione con la spiritualità, sia a livello personale che collettivo, non è superata, anzi, si pone in modo piuttosto pressante e, in un certo senso, nuovo, focalizzandosi attorno alla divinità femminile, alla sua storica rimozione all’interno della cultura patriarcale, in nome di un Dio evocato come maschio o al massimo come asessuato o neutro e sulla messa in luce della mancanza di rappresentazioni del divino femminile, alla sua identità. Che cosa è stato censurato o occultato nella tradizione patriarcale del rapporto delle donne con il divino? Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto. Mentre però stava pensando queste cose, ecco che gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quello che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Ecco, la Vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele, che significa Dio con noi».110
Il riconoscimento dell’esistenza della differenza sessuale ha comportato da parte di studiose/i, appartenenti a vari ambiti 110 Vangelo secondo Matteo, 1,18–25.
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vol. XI, Bollati
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Rossella Sofia Bonfiglioli
L’autrice racconta una storia, o meglio “differenti” storie ricche di rappresentazioni e sensazioni, di affermazioni e negazioni, di respiri e silenzi, di separazioni e lutti, di incontri e ritrovamenti, di memorie e dimenticanze, di presenze ed assenze, attorno al corpo, o “corpus di conoscenza”, del genere femminile situate all’interno del modello storico, culturale, sociale e politico di segno patriarcale in Occidente. L’intento è quello di proporre una riflessione medico−antropologica attorno al concetto di trauma, riferito al genere e alle soggettività femminili, ripreso da vari campi disciplinari, dalla medicina−psichiatria, alla psicologia−psicoanalisi, all’antropologia−etnologia. Quest’idea funge efficacemente da ponte di collegamento, in senso sia semiologico che fenomenologico, per esplorare e problematizzare le molteplici “sintomatologie” femminili che hanno contrassegnato il Novecento: un percorso che si focalizza sul cosiddetto “fenomeno isterico”, che ha dato avvio alla psicoanalisi freudiana e alle nuove “psicopatologie” della contemporaneità. Il trauma viene usato come strumento dall’autrice per dare “differente” senso e significanza alle metafore incorporate della sofferenza psichica del genere femminile e per sottolineare l’intreccio, ineludibile e inestricabile, fra esperienza individuale e costruzioni collettive.
Il femminile traumatizzato
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Rossella Sofia Bonfiglioli
Psicologia e bioetica Verso una prospettiva Psico–Bio–Etica
Un’analisi medico-antropologica nella cultura patriarcale in Occidente
Presentazione di Francisco Javier Fiz Pérez
Rossella Sofia Bonfiglioli, laureata al DAMS in Semiologia della Comunicazione (Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Bologna); scrittrice, ricercatrice e curatrice di mostre d’arte contemporanea a livello internazionale; ha collaborato con la filosofa e psicoanalista francese Luce Irigaray (CNRS, Parigi); diplomata in Psicologia ed Umanologia Yogica presso il KRI (Kundalini Research Institute, Los Angeles); formazione in Psicoterapia presso la SIB (Scuola Italiana Biosistemica riconosciuta dal MIUR); laureata in Antropologia Culturale ed Etnologia con tesi specialistica in Antropologia Sociale dei Saperi Medici (Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna); ha pubblicato il libro Frequenze Barbare presso la Casa Usher–Electa Firenze, oltre a numerosi articoli e saggi; e partecipato in qualità di relatrice a congressi del settore in Italia ed in Europa. Vive e lavora a Bologna, dove svolge la libera professione come consulente ed autrice nel campo psicoterapeutico e medico–antropologico.
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24/06/2011 16.15.50