Alessandro Bruni
ULISSE AVEVA UNA FIGLIA Romanzo
Narrativa
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ALESSANDRO BRUNI
ULISSE AVEVA UNA FIGLIA
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piazza San Martino 9/C 40126 Bologna Tel. (+39) 051/9913920 Fax (+39) 051/19901229
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Copertina: Angelo Pintore Redazione: Giuseppina Catone, Carlo D’Alonzo, Marica Di Pietro, Alessandra Pallara, Tabatha Papini Copyright © 2015 by Gruppo Persiani Editore Srls TUTTI I DIRITTI RISERVATI – Printed in Italy
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Cronologia eventi 21 febbraio 1891: prima pubblicazione del “Manifesto” del Partito Comunista di Marx ed Engels. 24 ottobre 1917 (8 novembre): prende il via l’insurrezione detta Rivoluzione d’ottobre che porta al potere il partito bolscevico guidato da Lenin. 30 dicembre 1922: nascita dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. 26 aprile 1986: incidente alla centrale nucleare di Chernobyl. 9 novembre 1989: caduta del muro di Berlino. 26 dicembre 1991: formale dissoluzione dell’URSS.
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Prima Parte
2010
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Capitolo primo L’estate, per quanto mi interessava, fu attraversata da pochi, significativi eventi. Osservavo con ansia le immagini televisive degli enormi incendi che avvampavano la Russia. L’incapacità dell’uomo di bloccare le fiamme. Il cielo invisibile di Mosca, le persone che vagavano con il viso protetto da mascherine. In Italia, in compenso, la crisi di governo e la frattura del centro-destra sembravano aprire una nuova fase della vita politica. Per il resto registravo le innumerevoli pubblicazioni su Tolstoj e le altrettanto innumerevoli citazioni da Anna Karenina. Compariva qua e là un Vronsky pronto a dichiarare: «...sono in viaggio per essere là dove siete voi…» oppure autori che mettevano in bocca ai loro personaggi l’universale «tutte le famiglie felici si assomigliano, ogni famiglia è infelice a modo suo». Da sotto l’ombrellone constatavo che tutti miei vicini erano connazionali proprio del compianto Tolstoj. La media borghesia russa era evidentemente alla conquista della riviera romagnola. Studiavo le facce, la lingua, l’abbigliamento, i titoli dei libri in cirillico. Volti completamente diversi da quelli ottocenteschi delle contadine spaurite che avevo visto in TV raccogliersi in preghiera per invocare la pioggia divina a fermare le fiamme. Dopo le vacanze, al ritorno a Bologna i primi di settembre, festeggiammo il compleanno di mia figlia Martina per i suoi cinque anni. Claudia, mia moglie, con cui stavo da circa sedici anni, preparò la torta e invitammo a casa una decina di piccoli barbari coetanei di Martina. Alla fine della giornata ci ritrovammo esausti a sistemare la casa devastata. Come di consueto, prima di addormentarsi, Martina mi chiese di leggerle una storia. Scelse Pollicino, che io trovavo terrificante. Terminata la lettura 9
la vidi che già sonnecchiava beatamente. Bisbigliai «Sogni d’oro», la baciai sulla fronte e raggiunsi Claudia sul divano intenta a guardare un film. Riconobbi l’inizio di American Beauty cadenzato dalla frase fuori campo «Oggi è il primo giorno del resto della mia vita», che accompagnava il risveglio di Kevin Spacey, e subito sempre lui intento a spararsi una sega sotto la doccia prima di andare al lavoro. Restai qualche minuto a seguire la trama. Claudia, seduta al mio fianco, fissava lo schermo e ingoiava pop corn da un cestino foderato con un tovagliolo. Durante il tragitto della sua mano alla bocca, scostai il cestino, le toccai la coscia e cercai di risalire. Lei, senza staccare gli occhi dallo schermo, tolse la mano e riprese in grembo il cestino. Rassegnato rimasi ancora qualche minuto a guardare il film, poi mi congedai. «Vado a dormire, domani devo essere in studio presto…» Annuì. «Guardo un po’ e ti raggiungo». Dormii malissimo. Faceva caldo. Sognai bambini inferociti che mi inseguivano armati di martelli e lame. Camminavo su qualcosa di molliccio, un denso strato di torta. Sognai poi un bimbo più quieto. Si presentò dicendo di essere Pollicino. Seminava i suoi sassolini nel prato del giardino condominiale di casa mia e non si capacitava del fatto che papà e mamma lo avessero abbandonato con i suoi fratellini. Il lunedì mattina mi svegliai frastornato, con la testa pesante attraversata da una specie di ronzio. Misi i piedi giù dal letto, mi alzai mentre Claudia dormiva, barcollai verso il bagno a occhi semichiusi, pisciai per metà fuori, poi raggiunsi la cucina, ammainai la tapparella e la luce del giorno mi schiaffeggiò senza riguardi. Nella testa riecheggiò minacciosa la voce doppiata di Kevin Spacey. «Oggi è il primo giorno del resto della mia vita». E poi di 10
nuovo il ronzio. Invidiai a Kevin Spacey la costanza di spararsi una sega di prima mattina. Arrivai in studio presto, molto prima degli altri colleghi. Le vie del centro erano ancora poco affollate e il grande rientro dei vacanzieri e degli studenti doveva ancora materializzarsi. L’aria era fresca e il cielo limpido. La breve canicola estiva sembrava già finita. Trovai il portiere davanti al portone del palazzo e la targa con il mio nome ritualmente al suo posto: “Avv. Carlo Baschieri”. In studio tutto sembrava nello stesso ordine in cui era stato lasciato venti giorni prima. Nessun fax, un paio di messaggi in segreteria, le pratiche più urgenti da riprendere subito in bella vista. La signora delle pulizie era passata. Lavorai per qualche ora con poca voglia e ancor meno lucidità. Cercai di far passare il mal di testa e il ronzio con un paio di pasticche. Sbadigliavo in continuazione. A metà mattina fui costretto a scendere per prendere un altro caffè. Non appena varcato l’atrio, presi la direzione del consueto bar dove mi fermavo e in quel momento iniziai a provare una strana sensazione che mi accompagnò sino al mio rientro in studio. Nel primo pomeriggio decisi che avevo lavorato abbastanza. Degli altri colleghi non si era visto nessuno. Avevo ricevuto cinque o sei telefonate e fissato un paio di appuntamenti già per il giorno successivo. Un buon inizio. Una volta sceso in strada mi incamminai verso piazza Cavour, dove ero solito prendere l’autobus per ritornare a casa. Dopo poche decine di metri, lungo il vicolo delle Drapperie, tra un banco di verdure e uno di pesce, tornai a percepire distintamente quella strana sensazione. Mi fermai d’istinto e mi guardai le spalle. Vidi qualche passante intento a fare acquisti, qualche venditore intento a sistemare le merci. Niente di significativo o anomalo. Ripresi a camminare e dopo pochi 11
secondi di nuovo la stessa sensazione. Allungai un poco il passo sino ad arrivare all’imboccatura di Galleria Cavour, dove stavano stipati i negozi di abbigliamento più prestigiosi, e mi fermai di nuovo. Mi guardai attorno in ogni direzione. La strada in quel punto era deserta. Ero solo. Scossi la testa poco convinto e ripresi la strada. Alla fermata trovai il bus al capolinea pronto a ripartire. Salii in fretta e decisi di prendere posto in fondo, con l’inconfessato scrupolo di controllare chiunque fosse salito sul mezzo. La fastidiosa sensazione si era attenuata sino a scomparire. Mi rilassai sullo schienale, aprii la borsa di pelle ed estrassi il giornale comprato al mattino per dare un’occhiata. La quiete durò pochi minuti. Non appena il bus prese a camminare tornai a percepire distintamente la stessa sensazione di prima. Cercai di definirla. Era qualcosa che mi puntava alle spalle, una specie di raggio freddo e pesante, come uno spostamento d’aria che mi investiva e che premeva. Mi voltai e dal finestrino posteriore osservai la strada. Dietro il bus c’era un taxi. Cercai di scrutare meglio. Fissai il conducente, un uomo calvo di mezza età. Vidi l’ombra di un passeggero a bordo. Il riflesso mi impedì di scorgerne i dettagli del viso. I contorni, la chioma di capelli fluenti erano però di una donna, di questo ero sicuro. Rimasi voltato per la prima parte del tragitto. La sensazione era inalterata e mi investiva frontalmente. A un certo punto vidi il taxi svoltare per una strada laterale. La sensazione svanì dopo qualche secondo. Mi sorpresi a ridere. Il ritorno al lavoro era evidentemente una cosa malsana, ne avevo la prova. Una paranoia, un malessere come quello, poteva essere solamente il frutto della mia mente oziosa che desiderava tornare al più presto in una qualsiasi spiaggia.
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“Non ci fosse stato il tetto, guardando in alto, avremmo visto un immenso cielo stellato, proprio come quelle notti di vent’anni prima a Plotov”
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