ANNO VII • N. 21 • 2005 • Ê 5,00
ITINERARI ALLA SCOPERTA DELLA REGIONE
CAMPANIA FELIX
Nel circuito investimenti-nuova occupazione l’ambito dei beni culturali rappresenta una delle componenti essenziali nelle dinamiche di sviluppo del Mezzogiorno. La Provincia di Salerno ha attuato una politica di intervento sul territorio nel settore del patrimonio culturale ed ambientale finalizzata anche al conseguimento di positivi riflessi sull’economia turistica. Coordinamento delle strategie di intervento e modalità di reperimento delle risorse: sono queste due priorità alle quali l’azione dell’Ente è costantemente ispirata. In tale contesto la Provincia non ha trascurato - ed intende continuare fermamente sulla strada intrapresa - di dare impulso ad iniziative di alto profilo culturale in grado di valorizzare siti ed emergenze presenti sul territorio di propria competenza, anche proseguendo nel filone di attività promozionale e culturale in Italia e all’estero. I giacimenti culturali, artistici ed architettonici, oltre che ambientali, rappresentano la reale ricchezza del Sud. Partire dal territorio, inteso anche nella sua valenza di patrimonio immateriale, significa assecondarne le originarie vocazioni, incrementare i segmenti produttivi peculiari, puntare sugli attrattori culturali, sulla risorsa-ambiente, sul turismo rurale, sull’artigianato, sull’enogastronomia, sulle tradizioni popolari, concorrendo così ad una necessaria ricostruzione delle identità locali a partire dalle quali rafforzare le politiche per un reale rilancio del turismo europeo. Angelo Villani Presidente della Provincia di Salerno
Numero speciale Itinerario monumentale nella Provincia di Salerno Editore, direttore editoriale e artistico Mariano Grieco Coordinamento scientifico Teobaldo Fortunato Direttore responsabile Dario Coviello Relazioni esterne Ersilia Ambrosino Testo: Teobaldo Fortunato
SommariO Tesori della memoria
Foto: Alfio Giannotti e Archivio Altrastampa Progetto grafico Altrastampa
Itinerario monumentale nella provincia di Salerno
Salerno • Castello di Arechi
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Salerno • San Pietro a Corte
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Salerno • Duomo di San Matteo Copertina Villa Ayala a Valva Foto: Alfio Giannotti
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Cava de’ Tirreni • Badia Benedettina
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Agro Sarnese-Nocerino • Angelo e Francesco Solimena Si ringraziano per la preziosa collaborazione: Matilde Romito, direttore dei Musei Provinciali di Salerno Don Natale Gentile, responsabile Ufficio Beni Culturali della Diocesi di Nocera-Sarno Giuseppe Zampino, soprintendente BAAPSAD di Salerno e Avellino Diocesi di Amalfi e Cava de’ Tirreni Gruppo Archeologico Salernitano Sovrano Militare Ordine di Malta
CAMPANIA FELIX® Direzione, redazione, amministrazione e pubblicità: telefax +39.081.5573808 www.campaniafelixonline.it Periodico registrato presso il Tribunale di Napoli n. 5281 del 18.2.2002 R.O.C. iscrizione n. 4394 anno VII, n. 21/2005
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Ravello • Chiesa di San Giovanni in Toro
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Amalfi • Duomo di Sant’Andrea
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Raito • Villa Guariglia
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Valva • Villa Ayala
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Persano • Casino Reale Borbonico
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Padula • Certosa di San Lorenzo
SITI
Numeri telefonici ricavati dalla Guida Monaci Annuario della Regione Campania
• Castello di Arechi Salerno 089.661111 • San Pietro a Corte Salerno 089.661111 • Duomo di San Matteo
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Ravello • Villa Rufolo e Villa Cimbrone
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Ravello • Duomo di San Pantaleone
•I
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Salerno 089.661111
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• Villa Rufolo Ravello 089.857122
• Villa Ayala Valva 0828.796075
• Villa Cimbrone Ravello 089.857122
• Casino Reale Persano-Serre 0828.974900
• Chiesa di San Giovanni in Toro Ravello 089.857122
• Duomo di Sant’Andrea Amalfi 089.8736211
• Certosa di San Lorenzo Padula 0975.77002
• Duomo di San Pantaleone Ravello 089.857122
• Villa Guariglia Raito-Vietri sul Mare 089.763811
• Provincia di Salerno
• Badia Benedettina Cava de’ Tirreni 089.682111
089.614111
Tesori della memoria Itinerario monumentale nella provincia di Salerno testo: Teobaldo Fortunato foto: Alfio Giannotti e archivio Altrastampa
Il Castello di Arechi.
Fino alle soglie dei tempi moderni, quando la lingua latina ha conservato quell’aura di ufficialità e di sacra reverenza, tante opere umane, erette ad imperitura memoria, hanno recato in epigrafe l’indicazione austera di Monumentum Hoc... quasi un sigillo atto a preservarne memoria e dignità. Oggi, le maglie dell’immensa rete che in qualche modo racchiude il patrimonio culturale di un paese, si sono notevolmente allargate. Pur tuttavia vi sono manufatti, opere architettoniche ed artistiche che entrano di prepotenza nella coscienza collettiva e si storicizzano, per consegnarsi al presente. Tracciare dunque, un percorso all’interno del patrimonio monumentale di una provincia intera, come quella salernitana, presenta rischi notevoli e impone necessariamente scelte anche opinabili. Le strade possibili da percorrere sono sempre varie: storiche, seguendo un percorso diacronico, tematiche in ogni caso specifiche e troppo settoriali o letterarie, seguendo gli abusati diari del Grand Tour. E se tentassimo di percorrerle tutte addentrandoci in una sorta di labirinto visto dall’alto, a volo d’uccello? I rischi? Consensi negati o parziali! Se di continuo siamo obbligati a scelte, perché dunque non seguire, da semplici, i “grandi attrattori” dell’immaginario, anche poco elitario ma di sicuro impatto architettonico, paesaggistico, artistico, emozionale, per scoprire luoghi, manufatti, opere d’arte che per il loro potere evocativo possono sicuramente considerarsi monumentali. E dall’alto di un castello ci muoveremo, attraverso vie di terra, nell’immenso territorio dell’antico principato dell’Opulenta Salernum. Eretto o meglio abbarbicato sulla cima del colle Bonadies, sui presumibili resti di un castrum o di un semplice punto d’avvistamento d’età repubblicana citato da Tito Livio e da Strabone, il castello detto di Arechi, a Salerno, deve il suo impianto originario a maestranze bizantine che all’epoca dello scontro tra Teia e Narsete, ne
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fecero un avamposto di controllo tra il mare e le retrovie verso lo snodo di Nuceria. Le indagini archeologiche condotte da Paolo Peduto, hanno portato alla luce tutte le fasi architettoniche successive fino al XVIII secolo, epoca del definitivo abbandono. La felice posizione e le vicende storiche collegate ad esso, sin dal Medioevo, hanno caratterizzato l’immagine stessa della città sottostante. Boccaccio, nella novella I della IV Giornata del Decameron, dedicata
Il Castello di Arechi.
alla possenza d’amore, ambienta la funesta storia d’amore tra Guiscardo e Gismunda, figlia di Tancredi, principe di Salerno, nel castello avito: “Tancredi, prenze di Salerno, uccide l’amante della figluola e mandale il cuore in una coppa d’oro; la quale, messa sopr’esso acqua avvelenata, quella si bee e così muore”. E Francesco Petrarca? Nell’Itinerarium Syriacum, soffermandosi sulla capitale dei principi longobardi, ricorda che ospitò per secoli la Scuola Medica Salernitana, erede legittima della scuola
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eleatica, in virtù del clima mite e della salubrità dei luoghi. In piena epoca rinascimentale, Thomas Hoby, a Salerno tra il 1547 ed il 1564, appunterà nel diario di viaggio “Salerno è posta sul fianco di una collina presso il mare in modo piacevolissimo. Nella città vi sono giardini e luoghi ben esposti in grande quantità e vi si coltiva una grande abbondanza e varietà di frutta: arance, limoni, melagrane, cedri, meloni, fichi, e tante altre di ogni sorta e anche viti che danno diversi tipi di vini veramente squisiti e preziosi. C’era qui una famo-
sa scuola, ma negli ultimi tempi essa è stata trasferita a Napoli, non senza gran dispiacere da parte del principe, Ferrante di Sanseverino che si diletta molto ad intrattenere stranieri di ogni paese. In alto, sulla roccia sopra la città, vi è un bel castello dove vive il principe ed esso gode di aria salubre e di straordinari panorami tanto verso il mare quanto verso le colline circostanti dove non cresce quasi altro che rosmarino”. Nel 1824, una viaggiatrice d’eccezione, lady Blessington scrisse che le rovine di un antico castello coronano la cima di una rocciosa ed erta montagna piramidale... mentre l’anonima inglese autrice de “La Cava ovvero dei miei ricordi dei Napoletani” annotò, alcuni decenni dopo “Le rovine del castello dei Sanseverino si ergono sulla città, il suo muro, come un braccio protettivo, si estende lontano lungo il lato della montagna; il suo attuale
tetro aspetto rievoca le focose scene guerriere di cui deve essere stato testimone nei bei tempi passati, quando cavalieri e nobili, e audaci crociati combattevano tra queste montagne, seminando morte tra i feroci Saraceni. Questo castello fu eretto da Arechi, o Aregisa, come è comunemente chiamato, per fortificare la città contro Carlomagno, quando questi la attaccò nell’a.D. 787”. Ed in effetti, a parte le tracce di frequentazione anteriore all’epoca bizantina, è indubbio che il circuito murario fu totalmente rinnovato da Arechi II, il principe longobardo che ridiede un nuovo e più notevole assetto urbanistico e difensivo a Salerno. Infatti, il castello costituiva il punto terminale settentrionale di un sistema triangolare di difesa, la cui configurazione a lungo comparve sia sui coni monetali longobardi che nelle incisioni settecentesche rela-
In questa pagina. In alto: San Pietro a Corte, interno. In basso: lacerto di opus sectile pavimentale. Pagina seguente. In alto: San Pietro a Corte, Madonna con Bambino e Santa. In basso: San Pietro a Corte, interno.
tive alla città di Salerno. Dell’impianto primitivo del turrito castello è ancora individuabile, nei blocchi squadrati di tufo grigio, qualche traccia della turris maior, edificata verso la metà del VI secolo dai Bizantini. Arechi II focalizzò la sua attenzione soprattutto nell’erezione delle mura difensive di cinta. I Normanni invece le sopraelevarono ulteriormente, dal momento che nel 1100 macchine belliche più efficienti e moderne resero necessario un riassetto di offesa e di difesa. Il castello subì un ampliamento a meridione: fu costruito un loggiato di cui rimangono piloni inglobati nelle murature del XVI secolo. Il maniero, grazie alla sua posizione non fu mai preso militarmente. Durante l’assedio di Roberto il Guiscardo nel 1077, la resa avvenne per fame. Interessante risulta la costruzione ad opera dei Normanni della torre denominata La Bastiglia, a nord della sommità del monte. Si tratta in verità, come affermano Matilde Romito, direttrice dei Musei Provinciali di Salerno ed il medievista Paolo Peduto, di una torre semaforica “... Dalla sua posizione era possibile segnalare al castello i movimenti da quest’ultimi non direttamente visibili”. Federico II di Svevia non si occupò in maniera determinante del complesso, mentre in epoca angioina ed aragonese, sia i documenti d’archivio che le evidenze archeologiche testimoniano rifacimenti e restauri. Intorno all’anno 1299 sono da collocare le ultime fasi angioine; i vani posti al lato destro dell’ingresso appartengono all’evo moderno allorquando il luogo divenuto residenza saltuaria dei principi Sanseverino, aveva perso quasi del tutto la funzione originaria e le cannoniere edificate, come avvertono gli autori dei saggi di scavo condotti in loco, “sono opere rabberciate alla meglio, utili più a incutere timore che a praticare reali offese”. Il lungimirante principe longobardo Arechi II, nella seconda metà dell’VIII secolo, verosimilmente tra il 758 ed il 787, edificò in città un fastoso palazzo a ridosso delle mura verso il mare di cui è rimasta, nonostante gli iterati restauri e le superfetazioni architettoniche, la magnifica cappella palatina consacrata ai Santi Pietro e Paolo, nota come San Pietro a Corte. Nel X secolo, si era già persa la cognizione del palatium, tanto che l’Anonimo Salernitano riporta la
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leggenda secondo cui durante lo scavo per le fondazioni fossero stati rinvenuti il tempio e l’aurea statua del dio Priapo. Distrutto l’idolo pagano, Arechi, utilizzandone il prezioso metallo, fece erigere la sua cappella privata, adornandola di fastosi decori. Nel 1976, durante i lavori di consolidamento degli ambienti, ora ipogei, un tempo in quota con le strade circostanti, vennero alla luce i resti di un edificio termale di età flavio-traianea posto ai margini del centro urbano d’età imperiale, su cui si era innestato, nel corso del V secolo d.C. un complesso cristiano. Del resto, Salernum tardo antica era una città ancora attiva, prima dell’arrivo dei Longobardi. Lo scavo ha restituito epigrafi relative ai secoli V, VI e VII che recano nomina romani, bizantini, goti: Albulo, Theodenanda, Verulo, Socrates. L’ambiente originario era un frigi-
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San Pietro a Corte, San Giacomo.
darium ovvero il vano con la vasca per i bagni in acqua fredda, realizzato in laterizio ed opus mixtum. Delle ricche decorazioni della cappella arechiana, gli scavi hanno restituito unicamente frammenti dei pavimenti e delle pareti che tuttavia ne testimoniano la grandiosità ricordata dalle fonti letterarie coeve. Sectilia in marmi policromi, alternati lungo le pareti a lastre di porfido rosso e verde, vetro ed oro ci danno solo una pallida idea dello sfavillio emanato. Se non è più possibile ricostruirne il complesso ordito decorativo parietale che interessava l’abside, le parti restanti dell’intera cappella erano verosimilmente affrescate. Come sottolinea Alessandro Di Muro, in uno specifico saggio relativo alle decorazioni della Cappella Palatina, “il gioco dei riflessi dei marmi, degli ori e dei vetri colorati, coronato dall’epigrafe in lettere di bronzo che correva lungo tutta l’aula... doveva conferire all’interno della cappella palatina una spazialità dilatata, quasi irreale, sospesa tra cielo e terra”. Interessanti sono i dipinti sul pilastro arechiano che presentano una teoria di santi in posizione statica, accanto alla Madonna in trono con il Bambino. Se la risoluzione stilistica si presenta alquanto modesta per il massiccio utilizzo dell’ocra, del rosso, del marrone, del bianco che l’avvicinano ad analoghe scelte iconografiche d’ambito campano riferibili al XII secolo, tuttavia l’insieme delle altre figure conferiscono una certa ieraticità ed un aspetto devozionale alla composizione. Altri frustuli pittorici adornano l’intero complesso, ma la loro frammentarietà ne rende talora illeggibile i cicli di appartenenza. Forse risale ai primi decenni del XVI secolo, la Madonna con il Bambino e Santi entro la cappella di Sant’Anna, annessa ed affiancata al complesso palatino. In quel tempo, l’ambiente divenne “aula adibita a pubbliche funzioni, quali, per esempio, le cerimonie per il conferimento delle lauree della Scuola Medica Salernitana” (T. Mancini). Nel 1573, nell’ambito di un intervento radicale sull’edificio, viene costruito un piano intermedio tra il solaio e gli ambienti sottoposti. Pertanto a seguito dell’interro e del conseguente abbandono, gli affreschi risultano per sempre obliterati. I rifacimenti tardo rinascimentali sono testimoniati altresì dalla pala d’altare commissionata dall’abate Decio Caracciolo, ora conservata nel Museo
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Diocesano Salernitano. Altre trasformazioni sostanziali sono rintracciabili nel Settecento: viene eretta la Cappella di Sant’Anna impreziosita da affreschi di cui rimangono poche tracce attribuibili al pittore beneventano Filippo Pennino, attivo anche nell’Agro Nocerino Sarnese, ad esempio nel chiostro del Convento francescano di Santa Maria degli Angeli a Nocera Superiore. Il soffitto ligneo con la gloria della
Vergine approntato per la Chiesa di San Pietro a Corte rappresenta un notevole esempio di quello scenografico gusto teatrale che connota tanta produzione barocca italiana e che iscrive a pieno titolo il Pennino, tra i più felici pittori dello scenario artistico campano del XVIII secolo. San Pietro a Corte ha ormai perso a quel tempo il fascino ed il misticismo che l’aveva contraddistinta nei secoli precedenti.
Altro grandioso monumento, simbolo della città di Salerno è il Duomo, voluto dal normanno Roberto il Guiscardo, intorno al 1080, forse per celebrare ed in qualche modo legittimare la vittoria sul Ducato longobardo. La consacrazione della cattedrale avvenne nel 1084 (nonostante il cantiere si protrasse per oltre cento anni) con l’intervento diretto di papa Gregorio VII; fu dedicata all’apostolo Matteo, le cui spoglie erano state rinvenute nel medesimo anno. Il papa era giunto a Salerno scortato dai Normanni che lo avevano tratto in salvo a Roma dalle minacce dell’imperatore Enrico IV che insediò nel 1083, l’antipapa Clemente III, sul soglio pontificio. Pertanto è possibile affermare che la fortuna artistica del Duomo salernitano è intimamente collegata al prestigio della sua sede episcopale, nonostante il conte Ruggero II, ultimo erede degli Altavilla, nel 1127, avesse negato a Salerno il privilegio di capitale del Ducato di Puglia e Calabria, trasferendone la sede a Palermo. Oggi, l’edificio è giunto a noi appesantito da quegli stilemi formali tardo barocchi che l’arcivescovo metropolita Bonaventura Poerio aveva conferito, dopo il terribile terremoto del 1688. Tuttavia, gli oculati restauri nel corso del Novecento, hanno consentito la lettura del primitivo impianto basilicale a tre navate con colonne di spoglio ed antistante quadriportico. Questi elementi struttivi dichiarano una precisa adesione a modelli paleocristiani e rivelano una chiara similitudine con la Basilica di San Benedetto dell’Abbazia di Montecassino. Del resto, il committente di Montecassino, l’abate Desiderio I ebbe frequentazioni continue con la corte del Ducato salernitano, se non altro per i legami parentali con la sposa longobarda di Roberto il Guiscardo. Già dal 1077, animatore del complesso basilicale salernitano fu l’arcivescovo Alfano I, amico e confratello di Desiderio. È possibile che sia stato Alfano il committente della cattedra, impreziosita dai braccioli dalle protomi leonine, ottenute riadattando più antichi marmi. Forse si devono a lui i coevi mosaici dell’arco absidale, di cui sono giunti a noi esigui brandelli relativi all’angelo, all’aquila ed al bue, simboli degli evangelisti Matteo, Giovanni e Luca. L’accesso alla cattedrale è dato da due portali di marmo, i cui architravi provengono da materiale di
spoglio della Salernum romana. Entrambi i portali romanici sono contraddistinti rispettivamente da felini: sulla porta esterna, i leoni sono intenti a brandire due quadrupedi, mentre sulla Porta del Paradiso che immette nella chiesa fungono da guardiani. Quest’ultima porta conserva le ante bronzee originarie fuse a Bisanzio e donate da Landolfo e Guisana Butrumile nel 1085. Il quadriportico, aggiunto durante la
prima metà del XII secolo è scandito da un doppio loggiato, ottenuto con l’impiego di ventotto colonne provenienti da Poseidonia. Una successiva stagione decorativa del Duomo, si ebbe con l’elevazione del campanile, all’epoca dell’episcopato di Guglielmo da Ravenna, nella seconda metà del XII secolo. Il poderoso parallelepipedo risulta snellito oltre che dalle allungate bifore, dal contrasto cromatico tra il travertino usato
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Duomo di Salerno, portico.
In alto: Duomo di Salerno, ambone sinistro. In basso: ambone sinistro, particolare della decorazione musiva.
nella parte inferiore ed i mattoni dell’elevato, secondo uno schema già utilizzato in analoghe chiese benedettine: a Sant’Angelo in Formis, in provincia di Caserta, ad esempio. Il vano cilindrico terminale, sopra l’attico, è adornato da archi innestati su colonnine, sormontate da stelle a sei punte mutuate da ambiti musulmani,
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quali il califfato di Cordova e confluite successivamente in ambienti normanni. Al suo interno, la chiesa, scandita da due colonnati, è divisa in tre navate. Le immagini di San Matteo ed alcuni profeti, occupano la lunetta dell’abside centrale, Cristo ed i Santi Fortunato e Giovanni sono effigiati invece sulla navata sinistra.
L’abside, denominata Cappella di Gregorio VII, in quanto vi è il sepolcro del papa, evidenzia il catino ornato di mosaici del XIII secolo di ispirazione bizantina. Nell’abside mediana vi sono i resti della cattedra episcopale (sec. XI), mentre nel catino dell’abside di sinistra, vi è un mosaico con il Battesimo di Gesù, completato ad
affresco nel 1300; alle pareti sono conservati affreschi di Angelo Solimena. Notevoli sono i due amboni intarsiati ed il candelabro per il cero pasquale, anch’esso in marmi policromi del 1180, il pavimento musivo del coro, precedente di qualche decennio ed il coro ligneo inquadrabile verso la fine del XVI secolo. I due pulpiti furono commissionati dall’arcivescovo Romualdo II Guarna e dal vicecancelliere del regno Matteo d’Ajello. Le cappelle laterali evidenziano invece, i rifacimenti d’età barocca: contengono tele degli artisti napoletani Francesco Solimena e di Francesco De Mura. Interessante è la statua della Vergine con il Bambino databile al XIV secolo. Superbo rimane, nella navata sinistra, il monumento funerario, l’ultima dimora della regina Margherita di Durazzo (1348-1412), sposa e vedova di Carlo III, “una delle più accanite combattenti che la storia del Meridione ricordi”, secondo l’acuta definizione che lo storico dell’arte, Roberto Middione dà della potente regina (Campania Felix, n. 5 anno IV, ottobre 2004).
In alto: Duomo di Salerno, cripta. In basso: Duomo di Salerno, interno.
Il grandioso sepolcro rappresenta l’opera tardiva di Antonio Baboccio da Piperno, in collaborazione con un altro scultore, Alessio di Vico. Nel primo decennio del XV secolo, il Baboccio aveva già firmato (1407) i portali del Duomo di Messina. “Piuttosto imponente, con marcate tracce della policromia originaria - cosa rarissima a mantenersi fino ad oggi - discretamente conservato, presenta un sarcofago sostenuto da quattro personaggi allegorici - Prudentia, Regalità, Fede, Fortezza - e da un pilastrino centrale; sulla lastra frontale, a rilievo, si scorge una figura femminile regale in trono tra le ancelle. Più su si impianta la cella funeraria, con le cortine dei tendaggi tenute dischiuse da due angeli e la stessa figura femminile, cui è dedicato il monumento, distesa già nell’atto della morte, in abiti da terziaria francescana” (R. Middione). Ma prima di lasciare il Duomo salernitano, non si può che rimanere estasiati di fronte alle smembrate formelle eburnee del Museo Diocesano di Salerno, oggi finalmente riaperto al pubblico. Le sessantasette formelle originarie, cronologicamente inquadrabili nell’ultimo ventennio dell’XI secolo, facevano parte forse di un antependium, ovvero un paramento applicato alla parte anteriore dell’altare. Ripercorrono alcune scene tratte dall’Antico e dal Nuovo Testamento, con dichiarata funzione catechetica. Funzione del resto, assunta anche dal meraviglioso exultet, custodito nel Museo Diocesano. Datato verso la metà del XIII secolo, ha assolto fino al 1917, anno dell’arbitrario smembramento, alla sua originaria mansione, esposto dal pulpito per alcuni giorni dopo la Pasqua. Raggiunge oggi una lunghezza complessiva di 8 metri suddivisi tra 11 brani e 18 scene miniate entro cornici geometriche, forse da un alluminatore operante verosimilmente presso lo scriptorium della Badia di Cava de’ Tirreni. Ed è esattamente al cenobio benedettino della Santissima Trinità che continua la nostra escursione, alla ricerca delle grandi realtà monumentali presenti sul territorio di questa vasta e ricca provincia. Raggiungibile dal centro in pochi minuti, nel Medioevo si presentava molto appartato e lontano dalla sottostante cittadina, e snodo di traffici e mercanzie. Queste le parole di Henry Swinburne (1780 ca.) “... È situata in una piccola valle tra i boschi all’ombra di un
In questa pagina. In alto: Museo Diocesano di Salerno, tavolette eburnee. In basso: Museo Diocesano di Salerno, exultet. Pagina precedente. Monumento funebre di Margherita di Durazzo.
vasto dirupo e di alte cime sulle quali c’è un piccolo villaggio con mura chiamato Corpo di Cava”. L’imponente facciata del convento e della chiesa d’impianto barocco, occultano alla vista l’originario chiostrino della Badia da cui si dipartono gli ambienti più fascinosi di tutto il complesso monastico. È qui che incombe l’alta rupe sotto cui le esili linee architettoniche ripartiscono quello spazio delimitato e raccolto dove è possibile ritrovare le vestigia dell’antico impianto. Alferio Pappacarbone, successore dell’abate Pietro I, nel 1012, secondo la tradizione scelse di condurvi vita da eremita nella grotta Arsicia. Prestissimo, la sua vita in odore di santità attirò molti discepoli che affiancarono la sua
dimora con un più confortevole monastero. Il ritrovamento di una statua di faunetto, in un ambiente della grotta, in cui sono tuttora conservati resti mortali di Alferio, sotto uno sfarzoso altare, lasciano ritenere che il sito fosse già frequentato in età romana. Non lungi, lo scenografico ponte a doppia arcata in laterizio, definito “del diavolo” testimonia che l’area fosse abitata già in età repubblicana. Conferma ulteriore è il ritrovamento nell’ultimo secolo di ville rustiche in più frazioni viciniori all’abbazia. Sant’Alferio, di origine longobarda, era un gentiluomo della corte di Guaimario III, principe di Salerno che con esenzioni ed elargizioni per l’erigendo mona-
In questa pagina. In alto: Cava de’ Tirreni, Badia Benedettina, sala capitolare. In basso: il cimitero longobardo. Pagina precedente. Cava de’ Tirreni, Badia Benedettina, esterno e interno.
In alto: Cava de’ Tirreni, Badia Benedettina, interno, volta affrescata. In basso: chiostrino.
stero, favorì l’incremento demografico nei villaggi circostanti. La costruzione dell’abbazia intitolata alla Santissima Trinità è documentata da un diploma di Guaimario III del 1025 ove si menziona l’esistenza di una inclita grypta in cui Alferio aveva edificato una chiesa a novo fundamine. “Ora, se guardiamo alle testimonianze architettoniche, assai problematica appare la ricostruzione... dell’aspetto dei primi edifici che dovettero occupare quel luogo. Una singolare e vivacissima stratificazione di strutture, determinata in gran parte dalla stessa situazione naturale, fortemente acclive, si è manifestata nel corso dei secoli, sicché spesso - nel succedersi di ampliamenti, nuove sostruzioni, consolidamenti e restauri antichi e moderni - si sono alternate le quote primitive e si sono determinate tali compenetrazioni murarie da rendere quanto meno arduo il riconoscimento delle diverse fasi struttive” (G. Pane). Nel 1092, papa Urbano II consacrò la nuova chiesa che aveva sostituito quella primigenia di Alferio. Rimane del tempo, un paliotto di marmo in una cappella; al contrario, la chiesa fu ridisegnata nel Settecento, ma si conserva ancora un ambone del XII secolo: leoni stilofori reggono colonne tortili illuminate dalle tessere policrome. Al di sopra, gli archi e la cassa sono rivestiti da intarsi musivi. Nei secoli, la Badia ha ospitato munifici donatori: regnanti ed abati, grandi personalità e regine come Sibilla, la seconda moglie di Ruggero II. Perita a Salerno nel 1150, fu sepolta nell’abbazia cavese in un cenotafio musivo. Più interessanti sono invece alcuni relitti struttivi del convento: il cimitero longobardo ed il piccolo chiostro. Risalente al XIII secolo, quest’ultimo è circondato da colonne binate che sorreggono archi su alti piedritti, d’influenza araba. Intorno, frammenti lapidei e sarcofagi romani tardo antichi rendono l’atmosfera rarefatta e pacata. Anche nel cosiddetto cimitero longobardo, utilizzato dall’XI al XIII secolo, posto sotto il chiostrino e la chiesa, il tempo assume una dimensione diversa. Interessante si presenta anche l’arco trilobato del XIV secolo pertinente alla sepoltura del tesoriere di re Roberto, Costanzo Punzo, morto nel 1338. Notevoli rilievi marmorei sono da riferire a Tino di Camaino, attivo presso la corte angioina. Nel complesso, come nell’annesso
museo sono conservate eccezionali opere d’arte, dagli importantissimi codici miniati al busto argenteo di Santa Felicita, datato intorno al 1480. Verso la fine del XV secolo, il monastero vide la restaurazione dell’Ordine Benedettino con una conseguente rinascita culturale ed una rinnovata organizzazione economica. Fu fondata la biblioteca. Dopo la metà del XVIII secolo, l’abate Giulio De Palma, incaricò l’architetto Giovanni del Gaizo di ridare una nuova impronta a parte del monastero e alla facciata della chiesa. Tuttavia, la sobrietà del gusto tardo barocco, già incline al rigore neoclassicista, non eclissano del tutto le linee originarie dell’intero complesso. Furono verso la fine del Settecento, riarredati alcuni ambienti tra cui l’appartamento dell’abate, arricchito di mobili di gusto ancora rococò e da un soffitto sfondato da finte quinte architettoniche. Qualche tempo dopo, l’interno della sala diplomatica dell’archivio mostra linee decorative tipiche del ritorno all’antico: nella volta trionfano grottesche allusive alle ritrovate città vesuviane. Va segnalata inoltre la Sala del Capitolo, riattata nel 1761 nell’antica sacrestia cui sono afferenti gli affreschi del XVII secolo. Lungo le pareti furono sistemati i cinquecenteschi stalli
lignei intarsiati. Ma ricco di fascino è il pavimento maiolicato posto successivamente, essendo la sua sede originaria il convento napoletano di Sant’Andrea delle Dame. Nel 1857, la chiesa fu ridecorata da Vincenzo Morani che eseguì una Deposizione, nel transetto sinistro. Indubbiamente, il cenobio nel corso degli ultimi due secoli ha perso quel potere spirituale e temporale che lo aveva contraddistinto, assegnandogli un ruolo a lungo non trascurabile nelle vicende sto-
riche del Meridione d’Italia. Già nel 1821, Richard Keppel Craven, a proposito dell’importanza dell’archivio, annotava “... Oggi i suoi tesori consistono in poche copie di manoscritti originali che in gran parte trattano la storia del Regno, e sono di un valore inestimabile. Nessun altro paese possedeva tanti documenti di questo genere quanto il Regno di Napoli; e nonostante i suoi archivi siano stati saccheggiati dagli invasori, e più di una volta sottoposti alla furia dei
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In alto: Cava de’ Tirreni, Badia Benedettina, biblioteca. In basso: sala del museo.
In questa pagina. Nocera inferiore, Arciconfraternita del Rosario, Paradiso e incoronazione della Vergine, affresco di Angelo e Francesco Solimena. Pagina successiva. Nocera Superiore, Chiesa di San Bartolomeo, Angelo Solimena, Pietà.
Vandali, quello che ne resta è ugualmente interessante”. Nelle sale duecentesche del museo hanno trovato collocazione dipinti di Andrea da Salerno, Luca Giordano e Francesco De Mura, affiancati da preziosissimi codici miniati, reperti romani e arredi sacri d’argento, testimoni d’una comunità monastica che nonostante stia lentamente assottigliandosi, tuttavia rimane saldamente ancorata ai principi ispiratori dell’ora et labora, quella regola benedettina che nei tempi nostri sembra d’altro mondo e d’epoche altre. Ripercorrendo a ritroso, la strada che tanti intellettuali del Grand Tour hanno attraversato per soggiornare nella città de La Cava, giungendo a Nocera de’ Pagani, ultima stazione ferroviaria del Mezzogiorno fino alla metà del XIX secolo, ci si rende conto che “l’Agro Nocerino non è periferia di una capitale, e non è neppure isola o enclave autonoma, ma parte integrante e integrata del territorio dell’Italia Meridionale” (M. De Cunzo). Qui, nel collasso urbanistico degli ultimi decenni, resistono alcune
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realtà monumentali di grande impatto, diversificate per epoche e connotazioni specifiche che rendono difficile la scelta o il percorso da privilegiare. E se invece di appuntare la nostra attenzione su conventi o chiese o edifici monumentali dei singoli comuni in cui da oltre cento anni, si è frantumato l’antico territorio di Nuceria Alfaterna, tentassimo di trovare un denominatore che per molti versi li leghi tra loro? Un legante potrebbe essere costituito dalle personalità e dalla produzione artistica, talora sinergica, dei due Solimena, il padre Angelo, Francesco il figlio. Entrambi, a cavallo tra il XVII ed il XVIII secolo, rinnovarono quel processo culturale che da sempre aveva collegato l’Agro alle grandi realtà della Campania. Forse l’occasione fu offerta dal matrimonio “nocerino” di Angelo originario di Canale di Serino - con Marta Grisignano, celebrato nel 1655 e dalla nascita del primogenito Francesco, il futuro “Abate Ciccio”, osannato pittore presso le corti europee, ritenuto dal De Dominici, “il Principe di tutti i Pittori viventi”. Dunque, quale delle opere ammirare, in cui sia
possibile ritrovare le mani di entrambi gli artisti, se non l’affresco del Paradiso e incoronazione della Vergine nella cupola dell’Arciconfraternita del Rosario, annessa alla cattedrale nocerina? “Il dipinto, che si colloca fra le opere più avanzate e aggiornate del barocco a Napoli” (A. Braca) è databile tra il 1677 ed il 1680. Evidenzia una luminosità ed una forza evocativa che rendono irrilevante la ricerca della mano del padre o del figlio nel turbinio di figure che affollano i registri pittorici verso il culmine dell’intera rappresentazione. “Se il risultato della cupola di Nocera lascia qualche margine di incertezza in merito alla collaborazione tra Angelo e Francesco Solimena, un momento di sicuro rapporto di cooperazione è costituito, in una fase più avanzata, dalla realizzazione dei tre quadri principali del soffitto cassettonato del Duomo di Sarno” (M. A. Pavone). Ma, la presenza dei Solimena nell’Agro è testimoniata dalle tele che ancora è possibile ammirare nei luoghi di culto di ogni comune della Valle del Sarno. Se è troppo dispersivo ricercarle tutte, è possibile però segnalarne
alcune che in vario modo rendono ancora vivo il legame di entrambi gli artisti con queste terre. Si può partire dalla drammatica Pietà di Angelo Solimena, che farà presto
ritorno nella Congrega della Chiesa di San Bartolomeo a Nocera Superiore. Il corpo esanime di Cristo, in primissimo piano, lascia gli astanti sgomenti, mentre
il morbido manto di Maria si stempera nel volto straziato. A Sant’Egidio del Monte Albino, un’altra opera, la Madonna delle Anime Purganti, siglata da Angelo
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Solimena e datata al 1671, nonostante lacune pittoriche e pur tradendo echi dell’omonimo dipinto di Massimo Stanzione, conservato nella Chiesa del Purgatorio ad Arco di Napoli, denuncia quell’afflato umano che risolleva i corpi nudi per condurli alla salvezza. Poco più lontano, ad Angri, nella Chiesa di San Giovanni Battista, l’Estasi di Santa Rosa da Lima, “anticipa temi che saranno sviluppati nelle due opere di Nocera Inferiore assai vicine a questa tela nel tempo, la pala del Convento di Santa Chiara del 1680, finora inedita, e l’Incoronazione di Sant’Anna del 1681 per la Chiesa del monastero di Sant’Anna” (D. Sinigalliesi). Dalle terre pianeggianti della Valle del Sarno, risaliamo lungo la dorsale del Monte Albino, incombente e verdissima barriera naturale, verso Rebellum (Ravello) alla ri-
In questa pagina. In alto: Angri, Chiesa di San Giovanni, Angelo Solimena, Estasi di Santa Rosa da Lima. In basso: Sarno, Duomo, Angelo Solimena, San Michele Arcangelo. Pagina precedente. Sant’Egidio del Monte Albino, Chiesa di Santa Maria in Armillis, Angelo Solimena, Madonna delle Anime Purganti.
cerca di monumentali evidenze che hanno scandito il tempo e superato, a differenza di altre, turbolente vicende storiche. A guidarci stavolta, sono le parole della scrittrice inglese d’epoca vittoriana, Julia Kavanagh, a Ravello, negli anni ’50 dell’Ottocento “... La passeggiata terminò su un altro terrazzo dove un altro panorama più abbagliante e più bello del precedente, ci apparve davanti agli occhi”. L’autrice, dopo aver visitato palazzo d’Afflitto, entra in un altro monumento significativo, la Chiesa di San Giovanni del Toro “... La graziosa chiesetta dalla porta verde. Vi entrammo: era un luogo bianco, silenzioso, con squisite colonne di marmo, alcune delle quali così bianche e pure come lo erano state il giorno che avevano lasciato la mano del marmista”. Ebbene, a distanza di oltre un secolo, l’impressione rimane immutata: la chiesa, una delle più interessanti del paese arroccato sulla sommità del monte tra le nuvole, fu edificata nel XII secolo. Il piccolo protiro originario di cui sono evidenti poche tracce, fu demolito nel 1715, durante lavori di rifacimento. Il campanile dalle reminiscenze arabo-sicule, a sinistra chiude la facciata scandita da tre portali sormontati da altrettante lunette ad ogiva. All’interno, che culmina nelle tre altissime absidi e nella cupola decorate da archi intrecciati, si conserva lo stupendo pergamo, eseguito da Alfano da Termoli, su commissione della famiglia Bovio, nel 1200. Supportato da quattro colonnine,
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l’ambone è adornato da mosaici policromi con la raffigurazione di Giona e la pistrice e formelle turchesi in maiolica persiana ad ornati scuri. Le volte delle tre navate sono arricchite da affreschi del XIV secolo, coevi ad altri nella cripta. Poco distante, sul palcoscenico della piazza principale è il Duomo. Per poterne tracciare le linee principali, lasciamoci incantare dalle parole di Carl Justi, uno dei più famosi storici dell’arte tedeschi del XIX secolo che fu a Ravello nel 1867. “Cavalcammo fin su a Ravello per vedere la cattedrale. Nel secolo scorso è stata restaurata in uno stile posticcio; ma del XIII secolo sono sopravvissuti due amboni: meta del nostro pellegrinaggio. Quattro leoni avanzano sostenendo sulle spalle sinuose colonne che a loro volta sostengono l’alta balaustrata del pulpito dei Vangeli e delle Epistole. Tutto in marmo bianco, intrecciati con labirintici legamenti di mosaici colorati, stanno singoli medaglioni con figure simboliche, il gallo, il leone. Le linee colorate risplendenti sul marmo nero, l’ariosità e la leggerezza e la sospensione dell’insieme ricorda il gusto arabo e fa un’impressione incantevole”. La cattedrale, edificata nell’XI secolo era dedicata in origine all’Assunta, successivamente a
In questa pagina. In alto: Ravello, Duomo di San Pantaleone, interno. Al centro: esterno con il campanile. In basso: facciata. Pagina precedente. In alto: Chiesa di San Giovanni in Toro, ambone. A destra: affresco votivo. In basso: interno.
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In alto: Ravello, Duomo di San Pantaleone, pergamo. Al centro: particolare della decorazione musiva. In basso: ambone.
San Pantaleone, trucidato, secondo la leggenda a Nicomedia nell’anno 290 d.C. Medico e dunque martire è molto venerato dagli abitanti del luogo; ad egli è intitolata una cappella annessa al Duomo, dove si conserva la reliquia del sangue. Dopo oltre un trentennio di restauri filologici, a cura della Soprintendenza ai BAAPSAD di Salerno, l’edificio ha riacquistato parzialmente l’aspetto originario, dal momento che è stato liberato dalle superfetazioni architettoniche che ne avevano compromesso la leggibilità. Alfonso Sarno, in un recente articolo, ribadisce che il monumento si caratterizza per “... il forte impatto, sin dalle porte d’accesso. Opera di Barisano da Trani, autore anche di quelle di Trani e di Monreale, si suddivide in una serie di pannelli dove le raffigurazioni di Cristo, della Vergine e dei Santi si completano con altre di carattere profano, in cui si susseguono arcieri, guerrieri, disegni floreali, stemmi araldici. Donatore fu, nel 1179, Sergio Muscettola, marito della nobile ravellese Sigilgaita Pironti, raffigurato inginocchiato dinanzi a San Nicola di Bari”. Come in molte cattedrali, lungo la navata mediana, precisamente a destra, vi è un magnifico pergamo, sorretto da colonnine tortili, tutto scintillante
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grazie alle tessere musive. Un tempo, l’arco di ingresso alla rampa del pulpito denominato del Vangelo o Rufolo, era coronato dal candido busto, ora nel museo entro la cattedrale, di Sigilgaita, sposa di Niccolò Rufolo. Il pulpito è opera di Niccolò di Bartolomeo da Foggia: fu realizzato nel 1272, su commissione della potente famiglia ravellese. Lo confermano un’epigrafe e i due eleganti profili maschili, ai lati della porta del pulpito. Nell’annesso museo sono stati sistemati tutti gli oggetti liturgici che nel corso dei secoli hanno arricchito il cospicuo patrimonio del Duomo: busti d’argento, reliquari, sarcofagi di marmo e lo smembrato ciborio di Matteo di Narni, del 1279. Ornato da marmi e mosaici, in origine era collocato al centro del transetto; fu asportato a causa del terremoto del 1773. Se per tutto l’Ottocento, come si legge in tanti diari di viaggio, gli asinai, risalendo da Amalfi, si fermavano in piazza, di fronte al Duomo, una visita d’obbligo era a casa dell’inglese Francis Nevile Reid che da tempo si era stabilito a Villa Rufolo. Franz Loeher, allora direttore dell’Archivio di Stato a Monaco di Baviera, annotò “Nella villa Ruffolo, sui ruderi delle torri e delle muraglie, si riconoscono ancora le fini ghirlande di pietra nella leggiadra trabeazione con colonnine accoppiate ad ogni specie di archi acuti e intrecciati... Ma chi avrebbe potuto descrivere, a matita o a penna, questi luoghi così profondamente lugubri, eppure tanto pittoreschi! Dovunque si rivolga lo sguardo spuntano torri distrutte, portali in rovina e finestre murate, antichità classica, gotica, normanna, araba: in breve si tratta della più strana cumulazione di stili immaginabile, che vista in questa sublime altitudine lontana dal mondo umano lascia
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In alto, a sinistra: Ravello, Duomo di San Pantaleone, porta bronzea. A destra: sacello con le reliquie di San Pantaleone. Al centro: busto di Sigilgaita nel museo. In basso: sale del museo.
un’ impressione indelebile: a prima vista del tutto fiabesca mentre il suo sfondo è colmo di profonda tristezza”. E Villa Cimbrone? Anche stavolta sono le parole di un altro teutonico del XIX secolo, lo storiografo Ferdinand Gregorovius, a guidarci nella “... casa di campagna... la quale sorge fra le rose e gli oleandri, su di un altipiano da dove lo sguardo spazia nel mare”. Un tempo appartenuta ai Fusco, fu acquistata nel 1904 da Ernest William Beckett che farà della villa e del meraviglioso parco una pastiche architettonica e d’arte che ben riflette la temperie culturale di quello snobismo tutto anglosassone. Erminia Pellecchia,
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In questa pagina e in quella precedente. Ravello, Villa Rufolo.
In questa pagina e in quella successiva. Villa Cimbrone, belvedere e particolari del giardino.
con fine arguzia sottolinea: “Nel delirio di Lord Grimthorpe tutto si giustifica”. Resta comunque la grande fascinazione delle atmosfere che fanno della villa, ora dei Vuillemier, realmente una delle residenze più speciali al mondo ”Si gode di là la vista dell’ampiezza del mare, delle coste delle Calabrie con le cime dei loro monti coperte di neve, dell’imponente punta di Conca e del Capo d’Orso, presso Maggiori; tutte vedute severe che bisogna ammirare e tacere, anziché provarsi a farne la descrizione”. Allo stesso modo, scendendo verso “il mare magico”, e poi, risalendo dalla piazzetta la regale scalinata d’accesso al Duomo d’Amalfi, biso-
gna guardarsi intorno ed ammirare quest’altro monumento che è il simbolo stesso della sua città. La struttura originaria, nota oggi con il nome di Cappella del Crocifisso, si data al IX secolo, mentre la nuova, unita a quella più antica mediante un colonnato, fu edificata verso la fine dell’XI e rifatta nel 1203, assumendo forme arabonormanne di Sicilia; era il tempo in cui il cardinale Pietro Capuano traslò da Costantinopoli, le reliquie di Andrea, il Santo cui fu dedicato il Duomo. Successivi rifacimenti sono del Settecento, la facciata fu ridisegnata ed impreziosita dai mosaici, dopo il 1861, anno in cui era crollata. Il timpano
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In questa pagina. In alto: Amalfi, Duomo, interno. In basso: il Chiostro del Paradiso. Pagina seguente. In alto: colonnato sulla facciata. In basso: busto di santo.
fu arricchito dal Cristo in trono tra la simbologia degli Evangelisti, opera musiva disegnata da Domenico Morelli. Gli influssi musulmani sono riscontrabili anche nel campanile che, nonostante sia stato eretto tra il 1180 ed il 1276, preserva i tutta la sua imponenza, le linee originarie, connotate da bifore, trifore e le torricelle ad archi intrecciati del coronamento superiore. L’atrio che immette nel Chiostro del Paradiso, conserva frammenti di affreschi del Tre-
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cento. Recinto da un portico su colonne binate, che sorreggono archi acuti altissimi ed intrecciati, il chiostro fu eretto tra il 1266 ed il 1268 per volere dell’arcivescovo Filippo Augustariccio, quale luogo di sepoltura per la nobiltà cittadina di sangue e d’ingegno. A parte la suggestione delle tre navate interne, è molto interessante la cripta, dove sono custodite le reliquie di Sant’Andrea e statue di santi, opere di Michelangelo Naccherino e di Pietro Bernini.
Da Amalfi, attraverso i tornanti della statale 163 sostiamo a Raito per godere “di un piccolo gioiello di architettura e natura” (M. Romito): Villa Guariglia. La nobile residenza per volontà testamentaria del proprietario, l’Ambasciatore d’Italia e dell’Ordine di Malta, Raffaele Guariglia, fu annessa al patrimonio dell’Amministrazione Provinciale di Salerno nel 1970. È sede del Centro di Studi Salernitani intitolato all’eminente personalità diplomatica.
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L’archeologa Matilde Romito, ha dedicato al complesso della villa una serie di studi monografici che ci aiutano a delinearne le linee portanti. “L’aspetto attuale è il risultato dell’ultima e definitiva sistemazione negli anni Trenta dopo le trasformazioni che gradualmente, nel corso dell’Ottocento, mutarono l’originaria casa colonica nell’attuale corpo strutturale della villa e a seguito dell’annessione di altri terreni circostanti, acquistati nel 1929 dal padre dell’ambasciatore”. La villa è parte di un grande complesso che comprende la Cappella di San Vito, documentata già nel 1087, giardi-
In alto: Raito, Villa Guariglia, facciata. In basso: veduta dal giardino.
In alto e in basso: particolari del giardino.
In questa pagina. In alto: Raito, Villa Guariglia, veduta delle sale. In basso: la cucina. Pagina successiva. In alto: particolare di una sala. In basso, a sinistra: la biblioteca. A destra: ceramica vietrese.
ni e terreni coltivati, degradanti verso il mare, la torretta Belvedere che costituisce il nucleo principale del Museo della Ceramica Vietrese. La struttura abitativa nel complesso, consta di trentasei sale suddivise su due piani. Gli arredi sono rimasti inalterati, così come li aveva lasciati l’ambasciatore Guariglia. Le stanze che negli anni Trenta costituirono l’oasi di pace cui ritornava il padrone di casa, sempre impegnato in missioni diplomatiche, nella seconda metà del 1944, ospitarono Vittorio Emanuele III e la regina Elena di Savoia. Pertanto, la casa “da tranquilla residenza estiva dell’ambasciatore, fu proiettata sulla scena
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In questa pagina. In alto: Valva, Villa Ayala, teatrino di Verzura. Al centro: giardino all’italiana e facciata della villa. In basso: un angolo del giardino. Pagina seguente. Un angolo del giardino. Pagina 40. La statua di Ebe nel giardino. Pagina 41. Persano, viale di accesso al Casino Reale.
internazionale come sede della Commissione alleata di controllo”. Tra gli incarichi ufficiali ricoperti dal barone, nel 1947, vi fu anche quello in Spagna, di rappresentante del Sovrano Ordine di Malta. Ed è appunto in una delle proprietà del Cavalleresco Ordine, a Valva, in tutt’altro scenario, ci spostiamo. La prestigiosa residenza dei marchesi d’Ayala-Valva è situata alle pendici dell’incombente Monte Marzano. L’edificazione risale alla seconda metà del XVIII secolo, ad opera di Giuseppe Maria Valva, ultimo marchese dell’antico casato e soprintendente di tutte le strade ed i ponti del Regno di Napoli, all’epoca di Ferdinando IV di Borbone. Il nucleo principale della dimora è immerso in un parco di circa 17 ettari, dalla pianta irregolare, ma i cui viali intersecandosi, immettono alla villa. Subito dopo aver varcato il cancello, lo scenario muta all’improvviso: sul lato destro, un ordinato giardino all’italiana fa da cornice ideale al primo gruppo scultoreo. Ad accogliere è la signora della Caccia, Diana che precede ed annuncia le allegorie delle Quattro Stagioni. Posta in posizione frontale è la Coffee House, dei primi decenni dell’Otto-
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cento. Procedendo lungo il viale in salita, il giardino lascia il posto al bosco. Tra gli alberi e le siepi più diradate, fanno capolino figure di pietra, ninfe dei boschi e personaggi del pantheon classico. Viali di platani, lecci, castagni, abeti, cedri, magnolie e lauri e pungitopi si fondono e sprigionano, nella stagione autunnale, quel profumo acre ed intenso che inebria l’olfatto. A Valva è tutta una “maraviglia” repentina: dal giardino ovale con le statue delle Arti Liberali, disposte ad emiciclo, dinanzi all’accesso principale del castello, alle panche marmoree e alle divinità greco romane che sembrano oziare in questo paesaggio arcadico dove il tempo, in apparenza è dolcemente sospeso. Tuttavia, il lento fluire è denunciato dall’edera invadente ed intrigante. Si insinua ovunque, tra le crepe e le ferite dell’edificio che dopo decenni d’oblio non ha ancora ripreso a vivere. Sul fianco del castello, la torre - parte della struttura originaria - è invasa dalla vegetazione spontanea e selvaggia. Se l’immagine è altamente romantica, come del resto il parco intero, la sensazione che si avverte, non rinfranca l’animo. Più in alto, nel teatrino di Verzura, i busti, trafugati e fortunatamente ritrovati, sono stati ricollocati al loro posto; giudici severi denunciano insopportabili ritardi negli opportuni restauri. Altri sentieri conducono alle grotte popolate dai pipistrelli, loro naturali abitanti e dal dio Vulcano. Più in basso, ci si imbatte in un antro più ampio. Avanzi di muri romani testimoniano antiche frequentazioni. Una piccola immagine della Madonna di Lourdes, posta pochi decenni fa dai Cavalieri di Malta, è il segno del nuovo. Le presenze mitiche e profane del bosco non conoscono sincretismi di sorta alcuna: appartengono ad un’Arcadia vagheggiata ed inquietante. Quell’Arcadia effimera e perduta che incantò l’aristocrazia e i regnanti d’Europa, a metà del Secolo dei Lumi. Il giovane Carlo III di Borbone non sfuggì alle mode, né alle suggestioni: ospite di passaggio, nel 1735, nella tenuta del duca de’ Rossi a Persano, s’innamorò di quei luoghi incontaminati. Dopo alcuni anni, nel 1758 permutò il feudo di Casal di Principe con quello di Persano cui si aggiunsero Postiglione e Controne, di proprietà del duca Garofalo. Si formò in tal modo, il Real Sito di Persano che tra alterne fortune, rimase
In alto: Persano, cortile del Casino Reale. In basso, a sinistra: Pietro Fabris, Ferdinando IV a caccia di cinghiali nella tenuta di Persano. A destra: la scala di accesso.
attivo fino alla caduta dei Borbone. Il progetto di ampliamento e di ristrutturazione del vecchio casino dei de’ Rossi, fu affidato all’ingegnere militare spagnolo Juan Domingo Piana che già nel 1752 sovrintendeva ai lavori. Due anni dopo, egli stesso disegnò gli stucchi per le stanze destinate al re. È probabile che
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qualche imperizia esecutiva sia stata all’origine dell’intervento di Luigi Vanvitelli, in corso d’opera. Le linee strutturali e portanti sottolineano, negli elementi architettonici austeri e spartani, il carattere militaresco che il progettista e probabilmente il committente vollero conferire all’edificio. Sulla facciata, s’alternano, al primo
piano, finestre coronate da timpani triangolari e curvi. Il punto di raccordo è nel grande portale di pietra centrale e nelle due garitte terminali che chiudono l’augusta dimora. Più vivace, nonostante l’estrema sobrietà, è il cortile interno con le quattro torrette poste agli angoli. Le finestre e gli archi sono disegnate da semplici cornici leg-
germente aggettanti. Vanvitelli mutò parzialmente il progetto originario di Piana, occludendo alcune finestre delle torri e le arcate del primo piano. A Persano, fu impiantato inoltre, l’allevamento delle Reali Razze di cavalli, orgoglio e vanto della casa regnante. Delle stagioni felici e delle battute di caccia, negli ultimi
decenni del Settecento, restano incisioni ed eloquenti dipinti, commissionati da Ferdinando IV, tra cui due siglati da Jacob Philipp Hackert, datati al 1782. Pochissimi anni dopo, la Rivoluzione segnò una battuta d’arresto: con la Restaurazione, tanti siti reali di svago e delizie furono amministrati in modo più oculato. Anche a
Persano, le cose mutarono; le cacce e la presenza di cortei reali saranno più diradate e meno sfarzose, fino a che con l’avvento dei Savoia, la crisi fu irreversibile. La nostra escursione volge al termine: l’ultima tappa, all’interno di una provincia così vasta e varia e ricca di monumenti è la Certosa di San Lorenzo a Padula, nel Vallo di Diano. Fu edificata per volere del conte di Marsico e signore del Vallo di Diano, Tommaso Sanseverino, a partire dal 1306. Le motivazioni di una tale scelta non furono unicamente di carattere devozionale o legate alla comune ascendenza francese sia della casa d’Angiò che dell’ordine religioso, bensì ragioni di opportunità e di prestigio. A monte vi era la necessità di bonificare quei luoghi infestati dalle paludi; spesso i grandi organismi ecclesiastici medievali si occupavano di tale compito. Dunque, alla base della protezione da parte dei principi Sanseverino dell’ordine monastico, vi furono una serie di validi motivi pratici ed in ultima istanza, diplomatici. Dell’originario complesso architettonico, gli elementi superstiti sono pochi: le volte a crociera ed il portone ligneo della chiesa del 1374. Dalla metà del Cinquecento, la Certosa subì interventi radicali sia nelle dimensioni che nella struttura. Si iniziò la realizzazione del chiostro grande e dello scalone ellittico. L’edificazione del refettorio e le decorazioni a stucco di molteplici ambienti, nel corso del Settecento costituirono gli ultimi interventi significativi. L’impianto generale della Certosa di Padula segue i medesimi stilemi architettonici individuabili in tutti gli altri cenobi, in quanto sono mutuati dalla rigorosa applicazione della
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In alto: il Casino Reale di Persano, raffigurato su di un piatto del Servizio dell’Oca. In basso: Philipp Hackert, Veduta della tenuta di Persano.
regola certosina. Pertanto anche qui, gli ambienti rientrano nella tipologia di “casa alta” e “casa bassa”. Appartengono alla prima, gli ambienti destinati alla più stretta clausura e la residenza dei padri, alla seconda invece, i depositi, le stalle, i granai, ossia i vani connessi alle attività lavorative. È evidente che se alla prima ripartizione afferivano i padri certosini, alla seconda erano collegati i conversi, quei monaci che non avevano scelto la clausura per occuparsi delle attività produttive e del sostentamento dei confratelli. Nel 1807, la Certosa fu soppressa ed i monaci furono costretti a lasciarla. Vi faranno ritorno, dopo l’epopea napoleonica; nel 1866, la Certosa fu abbandonata definitivamente; fu dichiarata monumento nazionale nel 1882. Durante la Grande Guerra fu adibita a campo di concentramento per i prigionieri austriaci. Comando della VII Armata nella Seconda Guerra Mondiale e dal 1942 al ’43 di nuovo campo di concentramento per soldati inglesi. Durante gli ultimi episodi bellici del 1944, vi furono rinchiusi, stavolta dagli Inglesi, gli Italiani. Dopo gli anni ’60 del Novecento, iniziarono gli opportuni lavori di restauro sotto la direzione della Soprintendenza ai BAAPSAD di Salerno che conclusi negli anni ’80, hanno ridato alla Certosa, dignità architettonica e quell’aspetto che aveva perso da tempo. La Certosa si è sviluppata
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su una superficie vastissima; si accede sia dal cortile esterno dove erano collocati granai, stalle, depositi, lavanderie, cantine, forni ed il frantoio, sia dalla parte opposta, dove avevano accesso poche persone. Qui, è la facciata tardo manierista sul cui portone in pietra, nel fastigio si legge “felix coeli porta” e la data 1723, l’anno in cui forse furono conclusi i lavori. Si accede al grande chiostro, intorno al portico con la fontana al centro ed il loggiato da cui si eleva la torre dell’orologio. Il loggiato è arricchito di affreschi seicenteschi con vedute e scene agresti e bucoliche ricollegabili al pittore napoletano Domenico Gargiulo. È dal portico che si accede sia alla Cappella della Madonna dei Morti
che alla Chiesa di San Lorenzo. Il portale cinquecentesco incornicia le due ante di accesso, in legno di cedro del Libano, intagliate probabilmente da Baboccio da Piperno, con scene del martirio del santo, l’Annunciazione e le scritte “Cartusiensis Ordinis” e “Ave Maria gratia plena”. La navata unica della chiesa, racchiude distinte zone per i conversi e per i padri di clausura. Due sono anche i cori: quello dei padri, del 1503 e l’altro dei conversi, firmato da Giovanni Gallo e datato al 1507. Sui dossali dei ventiquattro stalli compaiono figure di santi, martiri, vescovi e gli Evangelisti; in basso sono elementi architettonici e paesaggi. Trentasei sono invece gli stalli dell’altro coro con scene dal Nuovo
Testamento. Splendidi sono l’altare in scagliola con intarsi in madreperla ed il ciborio attribuito allo scultore siculo Jacopo del Duca. La volta conserva le scene del Vecchio Testamento affrescate dal pittore palermitano Michele Ragolia. Nella chiesa, come in tanti altri ambienti del complesso certosino, si notano larghi spazi vuoti sulle pareti, laddove un tempo erano importanti tele, asportate dopo i saccheggi successivi alle leggi eversive napoleoniche. Adiacenti alle cappelle laterali della chiesa sono sia la Sala del Capitolo che la Cappella del Tesoro. La prima, adorna di stucchi settecenteschi, è impreziosita da quattro statue attribuite ad un allievo di Lorenzo Vaccaro, Dome-
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In questa pagina. Padula, Certosa di San Lorenzo, la Sala del Capitolo. Pagina precedente. In alto: Padula, Certosa di San Lorenzo, cortile di ingresso. In basso: la biblioteca.
In alto: Padula, Certosa di San Lorenzo, il chiostro grande. Pagina seguente. In basso: la cucina.
nico Lenmico. La Cappella del Tesoro, un tempo ricco “contenitore” della Certosa, oggi appare vuota, trafugati gli ori e le suppellettili custodite. Lungo l’asse che dall’ingresso conduce al chiostro grande è quello cosiddetto dei Procuratori, dominato dalla fontana centrale in pietra con un delfino ed animali marini. Molto interessante, varcato il portone che separa le celle dei padri certosini dagli altri ambienti, è l’appartamento residenziale del priore. Comprende dieci stanze con altri locali annessi, una cappella ed un giardino privato su cui si affaccia una loggia affrescata con paesaggi marini, opera di Francesco de Martino da Buonabitacolo. Dalla loggia, attraversandola, il priore aveva la possibilità di controllare le celle dei novizi. Aveva anche l’accesso diretto alla biblioteca, depauperata oggi delle migliaia di
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volumi contenuti un tempo e confluiti, tra il 1811 ed il 1814, alla Biblioteca Nazionale di Napoli, in quelle delle abbazie di Montevergine, di Cava de’ Tirreni e nella Certosa di Serra San Bruno in Calabria. Varcata la soglia della cella del priore, ci si trova di fronte ad una delle opere architettoniche più belle dell’intero complesso: una scala elicoidale composta di trentotto gradini monolitici in pietra che aprendosi dolcemente a ventaglio, immettono nella sala antistante la biblioteca, dominata dal pavimento maiolicato della metà del XVIII secolo. Attribuito come quello della chiesa a Giuseppe Massa, evidenzia splendidi motivi decorativi esaltati dalle cromie gialle ed azzurre. Gli armadi in noce lungo le pareti, benché svuotati dei preziosi codici, erano divisi per discipline, come si legge nei fastosi cartigli: “Historici Pro-
fani, Poetae, Sancti Patres...” La volta a padiglione è ricoperta da una tela con scene allegoriche, il Giudizio Universale e la Scienza. Datata al 1763, l’opera è firmata da Giovanni Olivieri. Tra le opere monumentali, all’interno della Certosa, va segnalato il bellissimo chiostro centrale, sicuramente uno dei più grandi d’Europa, con i suoi 15000 metri quadrati di superficie. I lavori di costruzione, avviati nel 1583, andarono avanti per oltre duecento anni. Si sviluppa su due livelli: in basso, il portico con le celle dei padri, in alto, la galleria utilizzata per la passeggiata settimanale, allorquando, interrotta momentaneamente la clausura, i padri potevano incontrarsi e pregare insieme. All’interno del chiostro è il cimitero nuovo, racchiuso da una balaustra con teschi in pietra. Al centro invece, è posta un’elegante fontana litica del 1640, a
Padula, Certosa di San Lorenzo, lo scalone.
forma di coppa. In un angolo, è collocata la cappella che custodisce il sarcofago cinquecentesco del fondatore. Fu edificata dopo più di un secolo dalla morte di Tommaso Sanseverino, avvenuta nel 1324. Di grande impatto scenografico, è il grande scalone ellittico che raccorda i due livelli del chiostro: opera di Gaetano Barba, architetto che diresse anche una parte dei lavori del chiostro, a metà del Settecento, si presenta come un magistrale elemento architettonico e plastico, che grazie ai sette finestroni aperti sulla valle, sembra fondersi con il paesaggio circostante. A metà del XVIII secolo, risale anche la trasformazione di un antico refettorio in grandiosa cucina. Tale ipotesi ha trovato conferma, nella scoperta di un affresco del Seicento che rappresenta una Deposizione,
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con Cristo contornato dai monaci certosini. La scena non contestuale ad un simile ambiente, era stata fatta ricoprire forse per le mutate esigenze. Interessanti sono altresì i tavoli e l’enorme cappa in pietra. Un altro ambiente ricco di suggestione è il refettorio rettangolare, edificato nei primi decenni del XVIII secolo. Privato degli stalli lignei, su cui nei giorni di festa, sedevano i padri e delle tele contenute nelle cornici a stucco sopravvissute, conserva, sulla parete di fondo Le Nozze di Cana, realizzate nel 1749 da Alessio d’Elia. Ci sorprende la ricchezza dei personaggi rappresentati, in sontuosi abiti del Settecento che in qualche modo restituiscono una pallida idea delle atmosfere di quel tempo in cui la grande Certosa rappresentava non solo un luogo di silenzio e di preghiera, ma, al
pari di altri cenobi della coltissima Europa, un importantissimo coacervo di saperi e di cultura. Termina o ricomincia da qui il nostro viaggio. Tra scelte suggerite ed altre evocate. L’abbiamo dichiarato in premessa che le strade possibili sono quanto mai varie. In ogni paese della vasta provincia, complessi monumentali, pievi montane o di campagna, conservano testimonianze e si riannodano a più articolate storie. Non c’è sempre un tempo per conoscere ogni cosa; talora relazioni umane, congiunture fortunose, le più disparate o semplicemente quella curiositas tanto cara agli antichi, ci riportano in luoghi già visitati; rivelano tesori d’arte, particolari sfuggiti in precedenza. Consideriamole così le nostre defaiances o, se volete, le coscienti omissioni.