ITINERARI ALLA SCOPERTA DELLA REGIONE
CAMPANIA FELIX
PRODOTTI TIPICI CAMPANI UNA STORIA DI QUALITÀ
Quanto interesse e quanto piacere suscita in noi, ogni volta, vedere il Presepe napoletano. I suoi racconti, le sue scene: tante, tutte diverse, con particolari che sono lì a raccontarci la nostra storia. Quelle statuine perfette che ci attraggono, ci coinvolgono, che rappresentano modi di vivere, di gioire, di mangiare. Già, di mangiare: perché il Presepe napoletano è anche una grande e vera rappresentazione della nostra cultura alimentare, dei nostri gusti, del bere e mangiar bene. Potrebbe diventare un testimonial unico per promuovere i prodotti tipici della nostra regione. Perché in quelle scene sono immortalate le nostre specialità alimentari, le produzioni tradizionali di un’agricoltura che ancora può esprimere tanto in termini di crescita e di sviluppo. In nessuna opera dell’uomo, come nel Presepe napoletano, è così tangibile questo stretto connubio tra arte e tradizione popolare, tra artigianato d’autore e prodotti della terra. Ecco perché si è pensato di dedicare a quest’argomento un numero speciale di questa rivista, a testimonianza di un ancestrale ma ancora solido rapporto tra l’arte presepiale e l’agricoltura campana. Andrea Cozzolino Assessore Regionale all’Agricoltura e alle Attività Produttive
Numero speciale La tradizione gastronomica di Natale
Editore, direttore editoriale e artistico Mariano Grieco Direttore responsabile Dario Coviello Relazioni esterne Ersilia Ambrosino Testi Teobaldo Fortunato Patrizia Giordano Simona Mandato Foto Alfio Giannotti Archivio Altrastampa Progetto grafico Altrastampa Copertina La taverna Presepe della Reggia di Caserta Foto: Archivio Altrastampa
Si ringraziano Michele Bianco, Maria Passari,
SommariO Il sogno di Natale Fantasie, realismo e desideri nel presepe napoletano
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Il presepe a Napoli Breve storia di una tradizione secolare
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24 ... ‘a Vigilia Alla ricerca dei sapori antichi
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25 ... Natale, quel Santo Giorno Quando il mangiare è cultura
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Maurizio Cinque, Italo Santangelo e inoltre Ditta Giovanni Scaturchio-Napoli, gli artigiani di San Gregorio Armeno, Annunziata Russo
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Il sogno di Natale Fantasie, realismo e desideri nel presepe napoletano foto: Archivio Altrastampa
Premessa Guardando il presepe napoletano, si ha l’impressione di ritrovarsi di fronte alla riduzione in scala di quello che tutti i giorni, ma specialmente nel periodo che precede il Natale, vediamo camminando per le strade popolari di questa antica e nobile città. Friggitori ambulanti con improvvisati banchetti fumanti, spaselle di pesci del nostro pescoso mare, quasi memori delle seicentesche rappresentazioni pittoriche di Giu-seppe Recco e giù giù fino al più recente e sanguigno Irolli, su cui vongole taratuffoli e cannolicchi, che con i loro spruzzi sembrano barocche fontane, gareggiano in cangianti cromìe con i rossi degli scorfani e delle triglie e le azzurre alici, i polipi palpitanti e i guizzanti capitoni; carnacottari che tra una testa di porco e un piede di vitello, espongono le gocciolanti mercanzie appese come richiamo appetitoso; distese di formaggi dai mille profumi, caciocavallo in testa, fanno bella mostra di sé tra
trionfi di carni, sasicce e salumi squisiti; forni da cui, la fragranza del pane appena sfornato, esce e si mischia nell’aria agli altri intensi odori del mercato; vetrine stracolme di struffoli, roccocò, mostaccioli, sapienze e paste reali per la gioia degli occhi e la delizia del palato; cantine ristoranti e pizzerie con le memorabili e allettanti ricette della cucina popolare; cataste di olezzante baccalà pronto a indorarsi per trasformarsi in pietanza saporitissima; straripanti puosti di frutta e verdura dai mille colori, su cui si accalcano tutti i prodotti che questa generosa terra è capace di donare in ogni stagione, dai vruoccoli ‘e Natale ai cavolfiori, dai finocchi di Sarno alle arance di Sorrento, insomma la summa del mondo agricolo campano. E tra questa folla di prodotti si aggira una folla di persone, (o personaggi?) ognuno ad interpretare il proprio ruolo (o la propria vita); belli, brutti, indaffarati o nullafacenti, consapevoli o inconsapevoli di essere la continuazione di una tradizione antica, una sorta di “presepe vivente” in un continuo scambio tra realtà e finzione, tra presepe e vita.
Tutto nel presepe è riprodotto fedelmente, in creta, dalle abili mani degli artigiani, in differenti proporzioni, fino ai muschilli, poco più grandi di un’unghia.
Lo spagnolo Leandro Fernandez Moratin venendo a Napoli tra la fine del 1793 e i primi mesi del 1794 nei suoi appunti scrisse: “... Tranne poche eccezioni, bisogna confessare che la città di Napoli è forse la più abbondante in commestibili che vi sia in Europa; certo, mirabile è l’abbondanza di viveri che si vede nelle sua piazze e nelle strade. Pani, carni, pesce, legumi, frutti, verdure, formaggi, paste, dolci, bibite, vino, liquori, da quel ch’è più necessario alla conservazione della vita fino a ciò che di più squisito fu inventato dall’arte per solleticar la gola, tutto è esposto agli occhi del pubblico; e il popolo è contento quando, anche senza mangiare, sa che ha da mangiare”. Poco o niente è cambiato da allora, anche il presepe, che continua ad essere lo specchio fedele della vita di tutti i giorni con la sua attualità in costante mutazione ed aggiornamento. Forse adesso a nessuno basta solo guardare tutto questo ben di Dio, specialmente a Natale; tutti fanno a gara perché sulle tavole imbandite, al cenone della Vigilia e al pranzo di Natale, quando questa miriade di prodotti si trasformerà in innumerevoli e prelibati piatti tipici, non manchi nulla, ma proprio nulla, di quello che la tradizione comanda. Mariano Grieco
Il presepe a Napoli Breve storia di una tradizione secolare testo: Teobaldo Fortunato foto: Alfio Giannotti e Archivio Altrastampa
“Dopo che Gesù nacque a Betlemme in Giudea, al tempo del re Erode, ecco giungere a Gerusalemme dall’oriente dei Magi, i quali domandavano: Dov’è il neonato re dei Giudei? Poiché abbiamo visto la sua stella in oriente, siamo venuti ad adorarlo...” (Matteo 2,1), nella lunga storia
iconografica del racconto evangelico, legata alla nascita di Gesù (Luca 2,9) ed agli eventi successivi - in primis l’adorazione dei Re Magi - un posto di rilievo è assunto dalla sfarzosa Pala Strozzi, datata al 1423 e firmata da Gentile da Fabriano. La grandiosa opera d’arte era stata commissionata al pittore dal ricchissimo banchiere fiorentino Palla Strozzi, per la cappella di famiglia. Fino a questo punto nulla da eccepire, ma..., nel nucleo centrale del
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dipinto, Gentile compie un’operazione ardita: la scena, dalla stalla di Betlemme si sposta all’esterno di un edificio turrito, immediatamente alle porte di Firenze, ed il lungo e variopinto corteo è capeggiato dal cambiavalute committente! Passerà poco meno di un secolo ed anche a Napoli, un altro
pittore, il calabrese Marco Cardisco, appronterà l’ennesima Adorazione di Magi; stavolta, al riparo di una tettoia di fortuna, addossata ad una rovina classica, vengono effigiati Carlo V, Ferrante ed Alfonso d’Aragona nelle vesti di Saggi Re d’Oriente. Del resto, a Napoli, la tradizione artistica del presepe quale “articolata rappresentazione plastica della Natività si colloca nel secondo Quattrocento. Risale al 1478 il presepe dei fratelli Pietro e Giovanni Aleman-
no per la chiesa di San Giovanni a Carbonara... Restano diciannove figure lignee grandi quasi al naturale, policrome... figure essenziali, prive di elementi accessori che possano distrarre dalla concentrazione sull’evento sacro che si sta svolgendo” (A. Catello). Nel Sedicesimo secolo, sono però, testimoniati i primi cambiamenti; comincia ad apparire il paesaggio, anche cani e caprette, bufale e giovenche affiancano l’asino ed il bue nella Sacra Rappresentazione. Nel 1532, Matteo Mastrogiudice, un aristocratico di Sorrento, si fa ritrarre dallo scultore Domenico Impicciati, tra i pastori di terracotta rifiniti ad olio, dalle ridotte dimensioni, in un presepe dalla struttura compositiva che in brevissimo lasso di tempo divenne comune e ricorrente in tutto il Meridione d’Italia. “... in basso la grotta con angeli e pastori, e in un piano superiore il sacro monte con
i pastori, le greggi e qualche angelo in volo, e di lontano il corteo dei Magi. Per tutto il secolo convivranno figure lignee policrome a grandezza naturale e statuine in terracotta, ma di dimensioni più contenute rispetto a quelle quattrocentesche, poco più di tre palmi”. Bisognerà attendere il Seicento per trovare artisti che sempre più si specializzarono nella realizzazione di pastori da presepio come annoverano le cronache del tempo. Il biografo degli artisti napoletani, De Dominici, cita ad esempio la famiglia dei Perrone, Michele, Aniello e Donato quali artefici del presepe commissionato nel 1658 dal Conte di Castrillo, Viceré di Napoli. Con le sue 112 figure d’escultura, di ridotte dimensioni, è indubbiamente il più cospicuo tramandato. Poco dopo la metà del secolo, accanto alle minute figure lignee si diffondono quelle in cartapesta ed altre mobi-
li con arti snodati, di misura terzina (35-40 cm), il cui corpo era realizzato in stoppa e l’anima interna di filo di ferro per conferire la giusta articolazione, mentre gli arti rimanevano in legno, le teste realizzate invece, molto spesso in terracotta dipinta. In verità, esemplari di manichini snodati e lignei,
alla temporaneità dell’evento, mutato di volta in volta, legato esclusivamente al Natale. Una teatralità manifestata come vedremo, in tutti gli aspetti più caratterizzanti che in breve, scandirono le sequenze temporali e di luoghi, accostate su un unico masso, ovvero lo scenario, deno-
rivestiti con abiti di stoffa erano già comparsi in Germania nella prima metà del Cinquecento, contemporaneamente “alla costruzione d’ingegnosi presepi meccanici, che dal Medioevo avevano ereditato la voga degli automata nella rappresentazione del prediletto tema dell’Adorazione dei Re Magi, allusione cosmologica alle tre parti del mondo conosciuto” (B. Molajoli). Nell’epoca barocca, si passò in tal modo dalla disposizione fissa alla composizione mobile,
minato anche scoglio, su cui la rappresentazione prendeva forma e corpo, verso la fine del XVII secolo ed in quello successivo, nei nobili palazzi e nelle case della buona società regnicola e metropolitana. Nel “Voyage Pittoresque ou Description des Rayaumes de Naples et de Sicilie”, l’Abbé de Saint-Non scrisse: “... un genere di spettacolo lasciato altrove ai bambini e al popolino, a Napoli, per la sua perfezione, diventa degno dell’attenzione dell’artista e dell’uo-
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Pagina precedente. Marco Cardisco, Adorazione dei Magi, Napoli, Museo Civico di Castelnuovo. Al centro: Pietro Alemanno, Sibilla e Profeta del presepe di San Giovanni a Carbonara, Napoli, Museo di San Martino.
mo di gusto ...”. “Divertissement della Corte, passatempo elitario, annota in tempi recenti, Marina Causa Picone - ma solo per un breve tempo; presto il gioco viene passato di mano, il signore si è stancato e il passatempo viene consegnato al popolo. Divenuto popolaresco, non si va troppo per il sottile”. Si avvertono dunque i grandi cambiamenti: elementi spuri compaiono. L’antro o la capanna è relegata in un punto eccentrico di tutta la messa in scena: la quotidianità di Napoli in tutti i suoi aspetti più pittoreschi e la vita pulsante hanno il sopravvento. I tre episodi salienti del Mistero della Nascita Divina assumono un ruolo marginale nel grande teatrum mundi della variegata umanità rappresentata. Piuttosto, la taverna, o diversorium, elemento quanto mai spurio, (in verità introdotto già nel presepe realizzato da Pietro Belverte, nel 1507, a San Domenico Maggiore), diviene il locus principale di tutto l’apparato. La temporanea (effimera?) “macchina” architettonica pertanto, assume il ruolo di vero magico luogo onirico dell’abbondanza, dove ogni genere di commestibile è mostrato alla vociferante, attonita e spesso incredula folla, più come proiezione del desiderio che come possibilità di fruizione reale. Qui, riparati dalla frasca sono ostentati realistici quarti di carne, agnelli, capuzzelle di vitelli e papere grasse, capponi e maiali spaccati, prosciutti e soppressate, canestri ricolmi di pane e taralli bolliti, caciocavalli e ricotte, frutti maturi e coloratissimi ortaggi rigorosamente di terracotta, accostati tutti, di qualunque mese e stagione essi siano: le castagne di Montella e Roccadaspide sono accoppiate alle ciliege di Siano e Bracigliano, l’uva alle nespole, le albicocche del Vesuvio alle mele, il rosso sfumato, vermiglio e caldissimo delle melagrane si coniuga al giallo screziato e pallido di pere succulente e perfette. Le ceste ricolme di verdure costituiscono un trionfo cromatico per gli occhi; il giallo ed il rosso dei peperoni, il viola intenso delle melanzane incorniciano il lattiginoso bianco dei cavolfiori. Fagiolini e broccoli, zucchine e carciofi di Paestum, scarole e verze dispiegano ogni nuance possibile di verde: reminiscenza e rimando poetico alle nature morte napoletanissime e barocche. Insomma, non c’è alcuna vagheggiata metafora. È mani-
festa bensì, la natura realistica e generosa delle terre di quella Campania Felice che per la feracità del suolo e la pescosità del mare ha visto etnie e gentes disparate contenderla e sottrarla per millenni alle grandi forze che l’hanno agitata e sconvolta: l’acqua talora rovinosa dei suoi fiumi e il fuoco del Vesuvio. E l’ostessa? Jeanne Carola ce ne dà un ritratto arguto e simpatico: “prosperosa, occhi neri, capelli biondi, pomelli accentuati e rossi quanto una mela annurca. Un farsetto di seta damascata, foderato di rosa a coprire la vaporosa camicia bianca che usciva dal bustino nero”. Agli esordi del XIX secolo, già da qualche decennio, il Messia viene fatto nascere all’ombra di imponenti rovine classiche e di mutile colonne corinzie: è l’epopea felice di Ercolano e Pompei, le risorte città vesuviane. Forse, la citazione archeologica è un capriccio soltanto, se consideriamo che secoli addietro, in moltissimi dipinti (mi riferisco ad esempio all’Adorazione dei Magi di Rogier van der Weiden, oggi a Monaco, a quella di Vincenzo da Pavia, a Treviso), diruti edifici della romanità - si pensi allo stupendo scorcio di anfiteatro posto sia da Andrea Sabatini che da Girolamo da Salerno nelle medesime Adorazioni, rispettivamente a Capodimonte ed al Pio Monte della Misericordia a Napoli - erano stati il pretesto per affermare forse metaforicamente, che il Figlio dell’unico Dio, era nato dal disfacimento di un paganesimo non più credibile. Si dilata la scenografia fino all’inverosimile, musici e pastori dormienti, mori e stuoli di angeli, vecchi suonatori di chitarra e villanelle, verdummari e acquaiole al mercato, viandanti e pescatori lungo rigagnoli, con canestri di triglie ed ogni sorta di pesce, avventori e beoni che banchettano all’aperto, mestieranti al lavoro si alternano e s’affollano nel posto prestabilito, variabile di anno in anno, in ogni angolo dello scoglio. “... Entro una leggera impalcatura a forma di capanna ornata di piante e arbusti sempreverdi, si collocano la Vergine, il Bambino e tutti gli altri partecipanti, posati a terra o svolazzanti nell’aria, in splendide vesti... Ma un tocco d’inarrivabile bellezza all’insieme è dato dallo sfondo che raffigura il Vesuvio con i paesi circostanti”: così, J. W. Goethe, nel “Viaggio in Italia”. Particolari sempre nuovi, invenzio-
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Il presepe vivente alla Vaccheria di San Leucio.
ni, trovate verosimili e credibili continuano a sovrapporsi, alla fine dell’Ottocento. L’erba fresca di Pietramelara e il vino cosparso nella taberna del presepe in casa del notaio Raffaele Servillo, avevano lo scopo di rendere più credibile la spettacolarità di una rappresentazione che nel corso del secolo e forse anche prima, aveva perso l’originaria aura sacra. Del resto, Francesco
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d’Assisi, nel 1223 a Greccio, portando fuori dalle mura della basilica il presepe, lo aveva reso vivente, in tema con le sacre rappresentazioni medievali. Contadini umbri e pastori criofori (pastori che recano in spalla gli agnelli) avevano così avviato quel processo iterato e veristico, sopravvissuto in Campania come in altre regioni non solo d’Italia. Alcune, anche se non vantano una
antica tradizione come quella di Vaccheria a San Leucio, il minuto borgo settecentesco nel Comune di Caserta, hanno il sapore folclorico, irriverente della Napoli del XVIII secolo. A Vaccheria, varcato il portale d’ingresso detto “del Cappuccio”, si giunge alla piazza dove comincia ad animarsi, durante le festività natalizie, la vita brulicante di due secoli fa: il belato delle pecore o il grugnito dei maiali, il profumo penetrante del pane appena sfornato, il leggero fumo della polenta nei paioli ed i canti delle lavandaie segnano il percorso tortuoso che conduce alla Grotta della Natività. È la coralità della gente del paese che “... attraverso l’allegoria del Natale a Vaccheria testimonia la volontà collettiva di mantenere saldi i legami con le proprie radici” (G. Arena, Campania Felix, anno IV, n. 7). Stessi abiti sontuosi o spartane vesti contadine sopravvivono sempre più a fatica anche nelle medesime risoluzioni allestite nei tanti paesi che compongono l’Agro Nocerino-Sarnese. Maria Isabella d’Autilia, un decennio fa, ne diede un quadro esaustivo in un articolo sul presepe vivente di Sarno. Fornì un’acuta analisi di quattro differenti tipologie: quelli “... Statici e Muti in cui gli attori fissi nel sito,
non recitano, ma mimano; Statici e Recitati, in cui gli attori compiono azioni... e recitano e/o cantano secondo un copione... Mobili o Itineranti, in cui gli attori si muovono da un sito all’altro in una pantomima di vita quotidiana... Semi-Statici, in cui la forma prevalente è del tipo Statico-Muto, ma, in particolari fasi o date”. Ogni anno, si rinnova il rito per coloro che allestiscono filologici o insoliti presepi, in cui Pulcinella convive con le ultime “creazioni” dei figurinai di San Gregorio Armeno, la storica via dove durante tutto l’anno da secoli si modellano i “pastori” e gli accessori, ma anche new entries nel proliferante mondo della farsa contemporanea. Resiste e dura (per fortuna nostra!) la magia dell’incanto, per i novelli fedeli che in una sorta di moderno pellegrinaggio, si recano nella Reggia di Caserta, nel Museo dell’Abbazia di Montevergine, a Monaco di Baviera altrove o a Napoli, al Museo di San Martino a lasciarsi suggestionare, per la prima volta o l’ennesima, dall’ampio cielo e dal popolo del presepe Cuciniello. “A San Martino ce n’è per tutti i gusti: il presepe nascosto entro un mastodonte di sughero raffigurante il Tempio di Nettuno a Paestum... il presepe dei Certosini,
quello di maiolica Giustiniani, il ricco presepe Ricciardi”. Bellissima è anche l’aerea scenografia delle 32 figurine in finissima porcellana di Capodimonte che compongono il presepe donato dalla famiglia de’ Liguori, allestito nella prima sala del Museo Alfonsiano a Pagani. Al centro dell’ambiente è stato posto il clavicembalo, costruito a Napoli nel 1711, su cui forse, il
santo dottore Alfonso Maria de’ Liguori compose “Quanno nascette Ninno”, una delle più celebri nenie natalizie che tuttora risuonano e resistono accanto a più nuove melodie, nelle nostre contrade: “Quanno nascette Ninno a Betlemme / era notte e pareva miezojorno / mai le stelle, lustre e belle / se vedettero accussì, / e ‘a cchiù lucente / jette a chiammà li Magi a l’Uriente!”.
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San Gregorio Armeno
24 ... ‘a Vigilia Alla ricerca dei sapori antichi testo: Simona Mandato foto: Alfio Giannotti e Archivio Altrastampa
Le cartelle sono scelte, le poste sono giocate, gli scongiuri sono fatti: si può partire. Chesta è ‘a mana, e chisto è ‘o culo do’ panare! Con questa frase rituale, ad indicare l’assoluta onestà di chi estrae i numeri, senza trucco e senza inganno comincia la tombolata: nell’oretta che rimane da trascorrere tra la fine del cenone e l’inderogabile messa di mezzanotte, alcuni giri di tombola impegnano tutta la famiglia e gli amici venuti a fare gli auguri. Il gioco è rallegrato dai diversi tipi di dolci natalizi e dalle sciosciole: noci di Sorrento, nocciole di Giffoni e mandorle secche, da mangiare semplici o inserite a imbottire i fichi secchi, dando così luogo alla fica ‘mbuttunata, affettuosamente chiamata anche ‘a pupatella. Le più appetitose sono quelle fatte con i moscioni, fichi lasciati ad essiccare parzialmente sull’albero, che hanno una polpa abbondante e carnosa. La tradizione regionale propone anche i fichi bianchi del Cilento essiccati e poi infornati; nella versione più golosa, i frutti
disidratati al sole sono ricoperti di cioccolato fondente. E poi uva passa, datteri, prugne e ogni frutto che si riesca ad immaginare conservato mediante essiccazione. Le castagne del prete provengono da Montella, l’area irpina in cui fitti ed ampi castagneti producono dei frutti rotondeggianti e dal sapore dolce. Queste morbide castagne, dal gusto particolare che ricorda il caramello, non mancano mai sulle tavole natalizie della Campania. Eppure, non tutti sanno che la lavorazione tradizionale per ottenere questa specialità è lunga e complessa: in un particolare locale rurale, le castagne vengono essiccate tenendole almeno dieci giorni al fumo che si produce bruciando legna di castagno, così, nel contempo, acquisiscono anche un delicato aroma di affumicato. In seguito vengono tostate e, prima della commercializzazione, immerse in un bagno che le reidrata. Qualcuno utilizza, tra un boccone e l’altro, quelle stesse scorze per fare le “puntate”: in mancanza d’altro per segnare i numeri già
estratti, noccioline e mandorle si prestano in maniera egregia. In molte famiglie si usano, invece, i fagioli secchi, ma chi ha memoria delle tombolate dai nonni, ricorderà che a ricoprire le caselle numerate c’erano le crastulelle, ossia i cocci di piatti che si erano rotti durante l’anno, appositamente ridotti in pezzi piccoli e conservati per i ludi natalizi. Vintiquatto, ‘a Vigilia; trentotto, ‘e mmazzate; otto, ‘a Maronna. La Madonna segna l’inizio dei festeggiamenti legati al Natale. L’otto dicembre si fa l’albero, si espone il presepe, un tempo si chiamavano in casa gli zampognari per la novena dell’Immacolata: una serie di preparativi il cui scopo è di predisporre l’animo ad accogliere il Natale. Ma andiamo per ordine. Tutto comincia ancora prima, tra gli inizi e la metà di novembre, a secondo delle personali esigenze e abitudini. Per tutti i Napoletani e gli abitanti della Campania che, un po’ per devozione, un po’ per tradizione, un po’ - diciamolo pure per gioco, costruiscono e addobbano il presepe, il prologo della festa del Natale è costituito dal rituale pellegrinaggio a San Gregorio Armeno. Ogni anno la ricostruzione della Natività viene integrata con nuovi angoli di paesaggio, novelli elementi architettonici, personaggi appena usciti dalla creatività e dalle mani di chi li ha plasmati e decorati. Qualcuno poi, invade la rappresentazione con elementi che si giovano della moderna tecnologia: dei piccoli motori consentono all’acqua di una cascatella o di una fontanina di scorrere all’infinito, al pizzaiolo di infornare la pizza, al fabbro di picchiare sul ferro caldo. Ma nel territorio della fantasia popolare, si sa, il kitsch è parte integrante del gusto, e allora va bene così. Quando il lavoro di sega, colla e colori che ha fatto il papà con la collaborazione della sua prole è compiuto, e la nuova scenografia in miniatura è esposta nell’angolo più in vista del salotto, viene il turno della mamma. La sua opera si compie in cucina, anzi, ancor prima al mercato, nella scelta dei prodotti che arricchiranno la tavola e la casa di deliziosi profumi e riconosciuti sapori. La spesa da fare per i giorni di festa è tanta, e tanti sono i piatti da preparare, un’adeguata organizzazione aiuta sicuramente ad ottimizzare tempi e fatica. Così, una parte
della spesa si fa con il maggior anticipo possibile. Girando tra decine di banchi multicolori, alla Pignasecca a Montesanto o al Buvero, il Borgo di Sant’Antonio, a via dei Tribunali o a Porta Nolana e nei tanti e colorati mercati della regione, i prodotti saranno sempre quelli della più ligia tradizione. Starà all’abilità della massaia riconoscere la migliore qualità di noci, quelle di Sorrento, e mandorle per imbottonare i fichi secchi, di cavolfiori e papaccelle per l’insalata di rinforzo, di filetto di baccalà per la frittura, di cedro e scorzette d’arancia per gli struffoli. Per lei, che ha ancora negli occhi i personaggi del presepe appena finito di comporre da marito e figli, quel traboccare di merci dai banchi dell’ortolano, del pescivendolo, del macellaio sono dei déjà vu. Tra la folla di pastori-venditori di più di due millenni fa, scorge gli stessi di oggi: quel modo di esporre la mercanzia, quelle facce, quelle voci che dalla Sacra Rappresentazione sembravano urlare “Alice belle, alice fresche… Signò, accattateve ‘o capitone!... Quant’è bell’ ‘stu cavulisciore!”, eccole ritrovate dal vivo. Qual è l’originale, e quale la copia? Sarà che nella tradizione del presepe di ogni famiglia, Napoli rappresenta se stessa, altro che Betlemme! Tornata a casa, dimentica le sue fantasticherie, e si mette subito al lavoro. Vintinove, ‘o pate d’‘e criature; uttantacinche, ll’aneme ‘o priatorio; trentadoie, ‘o capitone. Non si può fare a meno, però, di rimandare in prossimità del 24 l’acquisto del pesce. Primo fra tutti lui, il re della tavola di Natale, il pesce che ricorda un viscido serpente, quello che il Festeggiato di questi giorni è venuto a scacciare per sempre. Anche se la frittura del capitone appesta tutta la casa con un intenso fetore di grasso, e sebbene a molti in famiglia non piaccia, non possono mancare, sull’abbondante mensa allestita in tutta la Campania in memoria della venuta del Salvatore, quei pezzi di carne bianca e tenera, avvolta in uno strato di grasso naturale sotto la pelle nera, semplicemente infarinati e fritti, poi passati nell’aceto che ne attutisce il sapore forte. Chissà che l’origine di questa tradizione non stia nel fatto che al mangiarne si sia attribuito, in un tempo remoto, una funzione catartica, immaginando che far
diventare il pesce-serpente parte di sé consentisse di acquisirne l’antidoto, che l’ingestione costituisse un omeopatico rimedio per eliminarlo definitivamente dalla propria sfera. Ma queste sono elucubrazioni, in genere le tradizioni gastronomiche nascono in maniera molto più semplice, spontaneamente dettate dall’alternarsi stagionale dei prodotti della terra e dell’acqua. Certo è, che i capitoni - e per le tasche meno facoltose, le anguille - sono richiesti in Campania solo a Natale e a Capodanno, innescando un meccanismo di importazioni da remote zone d’Italia e anche oltre i confini europei, importazioni che tutte convogliano qui, pur di soddisfare la fortissima ed anomala richiesta. Legge inderogabile per tutti è che capitoni ed anguille debbano essere acquistati vivi. Per far sì che questo pesce arrivi ancora guizzante nella borsa dei clienti, i venditori allestiscono delle strutture apposite. Enormi vasche espongono quantità incalcolabili di capitoni, impossibilitati a muoversi dal forte assembramento; un complesso sistema idraulico rinnova continuamente la loro acqua, che dal prolungamento collegato al rubinetto scende in una vasca, per
poi cadere in una seconda posta al di sotto della prima, ed infine essere raccolta ed eliminata. La delicatezza delle anguille costringe intere famiglie di pescivendoli a sostituirsi nel negozio in turnazioni anche notturne, poiché il sistema che le tiene in vita non può essere interrotto prima della sera del 24. Fino ad una ventina d’anni fa, era rito, dopo averli acquistati, tenerli ancora vivi in acqua nella vasca da bagno, gioia dei più piccoli, dei quali diveniva il gioco più atteso. Tragico e divertente al tempo stesso è ancora oggi il momento della “mattanza” che precede la frittura: la mamma, o il papà, o il nonno, a secondo di chi, in ciascuna famiglia da sempre ha rivestito questo importante ruolo, si trasforma nello sterminatore di capitoni. Un vero e proprio combattimento, degno di San Michele o dell’equestre San Giorgio, quello tra l’uomo e la bestia che si dimena, scatta, viscida sfugge dalle mani, tra le urla divertite dei bambini e quelle schifate delle donne, e poi tutti a caccia dell’anguilla gigante che si è rifugiata sotto un tavolo, un armadio, dietro al frigorifero. Non smette di agitarsi anche dopo essere stata tagliata a pezzi, e finanche quando viene messa a
friggere nell’olio bollente, in conseguenza, evidentemente, di forti contrazioni nervose; questi eventi faranno parlare di sé a lungo in famiglia. Vintitré, ‘o scemo; vinticinche, Natale; uttantadoie, ‘a tavula mbandita. Diversi “piattini” sono disseminati sul tavolo ed ospitano piccole leccornie, olive, acciughe, sottaceti, cipolline, uva passa e pinoli, fungono da antipasto, ma ciascuno torna ad attingervi tra una portata e l’altra, facendogli assumere stavolta il ruolo di piccoli contorni. Il tripudio di tutti è per l’arrivo dei vermicelli alle acciughe o alle vongole, conditi con pomodorini del piennolo del Vesuvio. I primi rappresentano probabilmente la tradizione più antica: è ancora in voga a Cetara, dove si aggiunge anche qualche goccia di “colatura”, un succo estratto dalle alici, prelibato quanto complesso nella preparazione, da secoli tipico di quel delizioso centro della Costiera Amalfitana e dono natalizio tra famiglie. Oggi, probabilmente grazie al maggior benessere raggiunto, in gran parte della Campania il primo piatto ufficiale della Vigilia sono i vermicelli alle vongole, a secondo
dei gusti in bianco o con una spruzzatina di pomodoro, con vongole veraci o al massimo, con i succedanei lupini per chi non può permettersi le prime. Fede religiosa vuole che il giorno che precede il Natale sia strettamente di magro, in previsione dei festeggiamenti per il 25. E allora, se magro dev’essere, che siano le pietanze migliori! La superiorità del semplicissimo sugo alle vongole è verità acclamata; il poeta Raffaele Viviani ne esaltò in un sonetto la capacità di trasmettere molto più che la semplice approvazione del palato: “E chesta è ‘a puisia. Niente cantante, / niente pusteggia, pe puté magnà / ‘nu vermiciello a vongole abbundante / cu ‘o putrusino crudo, ‘addore ‘e scoglie / e â primma furchettata te hai scustà / se no svenisce mentre l’arravoglie”. Finanche nelle province interne, come in Irpinia, che certamente non hanno una tradizione gastronomica di mare, il recarsi a Napoli o a Salerno per comprare le vongole e le altre specialità di pesce per la Vigilia, è considerata parte integrante della festa. Sempre in ossequio al dettame ortodosso, arrivano le pietanze successive: pesce in bianco, a scelta spigola, cernia o altro, condito con
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olio extravergine di oliva DOP rigorosamente campano e limone delle costiere sorrentina e amalfitana. Nella prima metà dell’Ottocento, in coda alla sua celebre “Cucina teorico-pratica”, Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino redasse anche una “Cucina casarinola napoletana” - oggi si direbbe casareccia - che, per coerenza, scrisse in napoletano. Ecco la sua ricetta del Pesce a lo tiano: “Piglia na cepolla, la ntritarraje; la miette dinto a no tiano, o cazzarola, co l’uoglio, o co la nzogna, no poco de petrosino, e quanno la cepolla s’è arrossuta, nce miette no poco d’acqua, nce farraje dare no paro de vulli, e po’ nce miette chillo pesce che buò, nce miette lo sale e lo pepe, e lo farrje cocere”. A metà del pasto, viene servita una leccornia che fa impazzire grandi e piccini, e prepara i convitati al prosieguo del banchetto: le cosiddette pastette o pizzette natalizie sono un “entremets”, una lieve pausa che preannuncia nuove portate. L’impasto lievitato è fritto in piccole, croccanti porzioncine, poco più di un boccone, che racchiudono, a sorpresa, pezzetti di baccalà, acciughe o cavolfiori. Pur apprezzando tutte le portate che fin qui hanno stimolato ed allietato il palato, l’animo di tutti i commensali resta però come sospeso nell’attesa della pietanza
a tutti più gradita, la fiduciosa inquietudine esplode in gioia quando, dritta, dritta dalla padella al piatto, arriva la frittura di pesce misto: gamberi, calamari, triglie e merluzzetti freschissimi, che fino a questa stessa mattina ancora sguazzavano nel mare dei nostri golfi. Poche ore sono bastate per passare dalla rete al mercato e poi all’olio bollente, non prima di essere state pulite e brevemente rigirate nella farina, che si trasforma in una lieve crosta dorata. Sale, una spruzzatina di limone a piacere nel piatto, e per la lieve callosità dei calamari tagliati ad anelli, la croccantezza che avvolge ciascun pezzo e l’intenso sapore di mare che si reitera ad ogni boccone, le papille gustative si drizzano, rabbrividiscono, fanno a gara a trasmettere al cervello sensazioni di puro piacere. Un nobiluomo inglese, lord Nathaniel Thorold, sbarcò nella seconda metà del Settecento nel porto di Napoli con un enorme carico di baccalà: questo evento contribuì alla diffusione della specialità in tutta la regione, e qui presto furono inventati mille modi per prepararlo. I grossi merluzzi pescati nei mari del nord - i migliori sono quelli provenienti dalle coste del Labrador o da Terranova - sono decapitati, sventrati e spianati a
bordo dello stesso peschereccio, dove vengono poi salati per assicurare una più durevole conservazione. In realtà questa lavorazione conferisce un aspetto e un gusto particolare al merluzzo, la cui carne diventa, dopo essere rimasta per giorni a spugnare e spurgare sale in acqua corrente, bianchissima e leggermente traslucida. “Piglia sempe lu baccalà chiù duppio, e che tene la scorza nera, pecché è chiù salatiello, e lu llavarraje bbuono”, suggeriva il duca di Buonvicino. In dialetto napoletano il filetto è detto mussillo, e si presta ad ottime preparazioni: all’insalata - bollito e condito a freddo con olio extravergine di oliva DOP campano e, aglio, prezzemolo e limone delle costiere, amalfitana o sorrentina - o infarinato e fritto, sono quelle proposte alla Vigilia. In coda alle fritture di pesce, trionfante fà il suo ingresso ‘o capitone. Qualcuno lo fa arrostito, cotto nel limone, in umido: in questo si distinguono forse le abitudini delle varie province campane, ma il modo scelto per prepararlo dipende anche dal gusto prevalente in famiglia. Le cuoche più pazienti si prodigano a cucinarlo in due, tre modi differenti, per venire incontro alle diverse preferenze. I cosiddetti broccoli di Natale sono di una particolare specie, chiamata in dialetto vruoccole a’ piere
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perché dotati di un torsolo grande, che con fantasia è paragonato ad un piede; hanno le foglie molto scure e un cuore grosso come un cavolfiore. All’insalata o alla monachina, cioè soffritti con pinoli e uvetta, sono il leit motiv, il contorno che accompagna tutto il cenone. Il Cavalcanti così descrisse la preparazione dei vruoccoli zuffritti: “Piglia chilli vruoccoli li chiù cemmuti, ne levarraje tutte lle fronne, e restarraje lle cimme; le lavarraje co l’acqua fresca e po’ nce farraje appena appena na scaudatella, justo quanto se smosciano no poco; lli farraje scolà, e po’ dinto a no tiano o cazzarola nce miettarraje chill’uoglio che te pare mproporzione che sono li vruoccoli, lo farraje zuffriere co quatto o cinco spicoli d’aglia, e quanno s’è buono sfumato nce mine li vruoccoli, e accossì lli farraje finì de cocere. T’arraccomanno de non farle sfajere”. L’ultima portata della prolungata sessione alla mensa della Vigilia è l’insalata di rinforzo. A chi lo sente per la prima volta, il nome lascerebbe pensare che l’insalata venga accomunata ad uno scarno pranzo quaresimale o ad un pasto di periodo di carestia. Certo non immaginerebbe, l’ignaro scopritore di questo piatto, che si tratti della conclusione di un convivio abbondante come quello natalizio. Anche perché, proprio leggero non è: il cavolfiore bollito viene condito con olio e aceto, papaccelle peperoni tondi sottaceto -, acciughe, capperi, olive verdi e nere. Per fortuna siamo arrivati alla frutta! Le croccanti mele annurche della zona flegrea, del Casertano, del Beneventano, o del Salernitano, le aree di maggior produzione dove, in autunno, giacciono su lunghi tappeti di paglia ad arrossare; e ancora le arance di Sorrento, i mandarini dei paesi vesuviani e i melloni d’inverno - sì, con due elle, come si vuole in dialetto -, appositamente conservati per il Natale. Non possono, a questo punto i commensali, non aver
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conservato un posticino nello stomaco per frutta secca a volontà e cascate di dolci dai mille colori! Diciotto, ‘o sanghe; sittantacinche, pullecenella; sittantadoie, ‘a meraviglia. La meraviglia è quella di tutti i convitati quando, già rimpinzati di tutte le portate che la padrona di casa ha sottoposto loro fino alla frutta, fanno la loro comparsa sulla tavola struffoli, mustacciuoli, raffioli, paste reali, roccocò, croccanti e torroni, oltre alla nordica contaminazione dei panettoni. Quasi come se non fossero stati soddisfacenti e abbastanza propiziatori il trionfo di antipasti, la gloria di vermicelli alle vongole, l’apoteosi di fritture e infornate di pesce! La tradizione è devozione, e chi può d’altronde resistere a quella variopinta invasione di campo? Alla vista di quel bendidio, le mucose della bocca cominciano a secernere con riflessi che prescindono dalla volontà dell’individuo. Nel tempo in cui Napoli era disseminata di monasteri di tutti gli ordini, per secoli monache dedite alla clausura trascorrevano le loro giornate nelle immense cucine dei rispettivi conventi. Dal loro pestare, impastare, caramellare, infornare sono nate molte squisitezze che ancora oggi vengono perpetuate dalle migliori – e purtroppo anche le peggiori! – pasticcerie di Napoli e della Campania. Ogni monastero aveva le sue specialità, delle quali le consorelle avevano nel tempo perfezionato non soltanto il sapore ma anche la decorazione; quelle ricette a lungo tenute segrete, nel Seicento, chissà per il tradimento di chi, cominciarono a circolare anche nelle peccaminose cucine laiche. Molti dolci tipici del Natale hanno avuto origine tra pareti claustrali, in particolare le paste reali. Guai, però, a confonderle con le paste di mandorle: le prime sono prodotte con un impasto a crudo di mandorle finemente pestate e zucchero, mentre le seconde sono di mandorle infornate e inasprite. Successivamente anche le monache del Divino Amore al Grande Archivio arrivarono a produrne di eccellenti: spesso davano loro la forma di un cuore e le ricoprivano con del naspro rosa o d’altri colori, un confettino d’argento al centro completava la delicata decorazione. In onore del loro monastero, siffatte paste reali furono chiamate nel Settecento divini amori.
Le monache del Convento di San Sebastiano furono invece maestre nella preparazione di mustacciuoli, morbidi rombi rivestiti di un naspro al cioccolato, il cui impasto è a base di farina, zucchero, pochissima farina di mandorle e abbondante pisto, un pesto di cannella, noce moscata e chiodi di garofano. Il mosto è all’origine del loro nome (in latino si chiamavano mustàcea), sebbene quest’ingrediente sia scomparso già da tempo dalla ricetta. Altrettanto morbidi, da consumare freschi, sono i raffioli, fatti di pan di Spagna e crema, simili alla cassata siciliana ma senza il contorno di pasta di pistacchio né gocce di cioccolata, e ricoperti invece con del naspro, una sorta di glassa ricavata mescolando albume e zucchero. Il nome dei sosamielli deriva dai semi di sesamo incorporati nell’impasto a base di farina di mandorle e miele. Tre erano le versioni di sosamielli: quello rotondo, detto “nobile” perché fatto con l’aggiunta di farina bianca, era destinato alle persone di maggior riguardo che portavano a domicilio i loro auguri natalizi, mentre quello prodotto con farina scura e rottami di
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mandorle era destinato agli zampognari che venivano a suonare la novena, o ai domestici, e si distinguevano per la tipica forma a S. Per i religiosi, infine, c’era il “sosamiello del buon cammino”, nel cui impasto veniva inserita della marmellata di amarena. Le sapienze, leggera variazione sul tema, presero il nome dalle clarisse del Convento di Santa Maria della Sapienza che ne seppero sfornare saporiti esemplari. Il roccocò è solo per chi è dotato di denti forti e saldi: una ciambella schiacciata a base di farina, finissima farina di mandorle e mandorle a pezzetti, dal profumo particolare, conferito dal pisto aromatico già descritto. Alla meraviglia per queste delizie di Natale non seppero sottrarsi neanche uomini di lettere, autori di celebri opere. Ne “Lo mercante”, uno dei racconti del seicentesco “Lo cunto deli cunti” di Giovan Battista Basile, il maggior cruccio del protagonista, costretto a lasciare Napoli, era quello di mai più poter saggiare le ghiottonerie dolciarie partenopee. Il suo addio alla città si esprime in un tragico canto: “Bella Napole mia, chi sa se v’aggio a vedere chiù, mautune de
zuccaro e mura de pasta reale!”, per poi proseguire a nominare altri meravigliosi doni dei forni napoletani. Nel “Candelaio” di Giordano Bruno sono citati i raffioli; nel 1535 Benedetto di Falco menzionò i mustacciuoli nella sua “Descrittione dei luoghi antiqui di Napoli e del suo amenissimo distretto”, la prima guida, oseremmo dire, di questa millenaria città. Altrettanto fece il Basile nel “Pentamerone”. Ottocento anni prima di Cristo, molti Greci fuggirono dalla madrepatria in cerca di pace, e si fermarono sulle coste dell’attuale Campania fondando delle prospere colonie, dall’odierna Ischia, a Cuma, alla Partenope che, rifondata si chiamò Neapolis, e giù fino a Poseidon, Paestum in latino. Con sé portarono le loro preziosissime tradizioni: accanto all’arte della ceramica dipinta e a quella di costruire templi imponenti, eppure equilibrati ed eleganti, ve ne fu un’altra, che non viene celebrata dai testi d’arte, ma a Natale nelle case di tutta la regione. Gli “strongulos” erano delle piccole sfere di pasta fritte, i napoletani hanno conservato gelosamente questa tradizione, trasformandone in parte il nome in struffoli, e le
monache dei Conventi della Croce di Lucca e di Santa Maria dello Splendore, che ne furono esperte preparatrici, contribuirono a questa pia opera di trasmissione ai posteri. D’altronde, la forma stessa del dolciume si prestava ad attribuzioni di significati che potevano essere traslati dal paganesimo alla religione cristiana: il folto numero
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di “palline” rappresenta ed auspica l’abbondanza, mentre la disposizione che spesso se ne dà a ciambella, simboleggia il serpente del male sconfitto che si morde la coda. Amalgamati con il miele, gli struffoli si conservano morbidi per tutti i giorni della festa, il tocco finale è dato dall’aggiunta di canditi e scorzette d’arancia a pezzetti. Un’antica versione della ricetta fu pubblicata nel 1809 da Vincenzo Corrado, capo dei servizi di mensa nella corte del principe di Francavilla, nel sontuoso Palazzo Cellammare di via Chiaia a Napoli: “Un quarto di fina semola, in unione di altro quarto di fior di farina, s’impasti con un misurello d’olio, e con tanto vino bianco per quanto la pasta ne riceve. Questa pasta si ha da maneggiare d’assai, e dopo (…) a pezzo a pezzo si riduce in tanti finissimi maccaroncini, li quali a guisa di pallottini si tagliano. (…) Fritti si fan confettare entro mezzo rotolo di mele, nel quale si terranno sul fuoco sintanto che il mele non siasi addensato. Si accomodano a quella figura che si vuole nel piatto, e polverati di zucchero si servano”. Così descrisse il Corrado la preparazione dei bigné all’innumerabile: unica differenza con i nostri struffoli è che, al posto del semplice zucchero, per cospargere la composizione oggi si usano i diavolilli, minuscoli e scenografici confetti di zucchero colorati. In tarda età, l’autore del celebre “Cuoco galante”, diede alle stampe un poco conosciuto trattato di “Cucina napoletana”: per i nobili dell’epoca non solo pietanze di pura discendenza francese, com’era allora tradizione, ma - forse a rivendicare, durante il dominio di Gioacchino Murat sul Regno di Napoli, un’autonomia almeno in campo gastronomico! - anche riservando degli spazi alla cucina della tradizione partenopea. Eppure, al nome popolare della portata, il Corrado ritenne dover dare una veste più nobile, e gli struffoli si trasformarono in “innumerabili” bigné. Nel Salernitano, un dolce natalizio tipico sono i calzoncelli, delle tasche di pasta sfoglia fritta, che racchiudono un meraviglioso quanto elaborato impasto di castagne, cioccolata sciolta, vino cotto, pinoli, uva passa e canditi; anche in questo caso miele e diavolilli completano l’opera, in pregio non solo al gusto, ma anche alla vista. Nelle province più interne, il torrone è signore fra i dolci natalizi, quelli di San Marco dei
Cavoti, Ospedaletto d’Alpinolo e di Benevento sono i più noti in assoluto, cui si accompagna anche la versione pantorrone, morbido e con pan di Spagna. Sulla scìa dei torroni, per ultima ricordiamo la tradizione del (o della, volendo stare alla femminile versione dialettale) croccante, un composto di miele e mandorle tostate ridotte a pezzetti. Un tempo i produttori dolciari facevano a gara nel disporre il caramelloso impasto nelle forme più ardite: dee bendate che portano cornucopie stracolme di struffoli, castelli merlati con ponte levatoio, fontane zampillanti di miele e canditi. Oggi è piuttosto raro vedere tali sculture abbellire le vetrine delle pasticcerie, solo qualcuno perpetua questa artistica tradizione. Nel 1820, Vincenzo Corrado scriveva: “Le paste croccanti si vedono elevate ad elegante disegno, nobilmente decorato e disposto (…) Le croccanti, in realtà, sono più per l’occhio che per la bocca, ma l’occhio più della bocca decide del bello e del sontuoso alla mensa”. Il coraggio di rompere per primi la splendida composizione al miele e di addentare il croccante era, infatti, dei bambini: probabilmente proprio perché il loro occhio non era ancora educato al bello. Trentatré, ll’anne ‘e Cristo; sissantanove, ‘o mbruoglio sotto ‘e llenzola; uttantaquatto, ‘a chiesa. In questo gioco antico, gli anziani di famiglia si divertono, sul filo dei doppisensi, ad abbinare indifferentemente richiami al sacro e al profano, così come vuole la cultura campana, poiché nella sua anima convivono in uno strano equilibrio, un passato pagano ed un presente cristiano. La mezzanotte è vicina, ci si prepara alla messa che celebra la Sacra Nascita, mentre i botti vengono festosamente esplosi in tutte le città. Ci torna in mente il grande Salvatore Di Giacomo, che con parole piene di poesia descriveva stanchi zampognari, i pastori che dalle montagne dell’Irpinia o della Lucania salernitana scendevano verso i luoghi della costa per suonare, giornate intere, le novene ai cittadini, e così mettere da parte un po’ di soldi per l’anno che veniva. “Dint’ ‘a na grotta scura / dormeno ‘e zampugnare: / dormeno, appese a ‘e mura, / e ronfeno, ‘e zampogne / quase abbuffate ancora / ‘a ll’urdema nuvena.(…) A
“Vruoccoli zoffritti; vermicielli co’ l’alice salate; pesce a lo tiano; pesce mpasticcio; fritto d’anquille e auto; arrusto de capetune; nsalata acconciata de caulisciore, aulive e chiapparielli; struffoli”.
nessuno si sognerebbe più, come si faceva nelle famiglie nobili o altoborghesi, di consumare due pasti al giorno, entrambi consistenti in una mezza dozzina di portate, e di condire e friggere perlopiù con grassi animali. Dietologi seri e autonominati esperti in materia alimentare dell’ultim’ora inorridirebbero e farebbero venire a noi la pelle d’oca snocciolando i danni in termini di colesterolo, ipertensione e cellulite, provocati da una simile alimentazione. Considerata l’im-
Questo è il menu che indicava nel 1839 Ippolito Cavalcanti per la Vigilia de lo Santo Natale in una “Lista de tre piatte à lo juorno pe n’anno sano”, abbinata alla sua “Cucina teorico-pratica”. Un testo che è stato per tutto l’Ottocento il riferimento di cuochi e dame che desideravano dirigere personalmente la loro cucina; fino agli inizi del secolo scorso, la “Cucina teorico-pratica” ha rappresentato la summa della gastronomia nostrana per tutti coloro che si sono interessati all’argomento: lo dimostrano le numerose edizioni che ha avuto il manuale. Oggi le abitudini alimentari sono molto cambiate rispetto a quanto indicato dal duca di Buonvicino,
portanza della tradizione delle feste maggiori, la natalizia e la pasquale, però, ci incuriosiva sapere quali elementi fanno parte effettivamente di un’antica eredità. È nostro sommo desiderio infatti, che la raggiunta consapevolezza ci aiuti a scongiurare l’ipotesi che panettoni soppiantino struffoli e roccocò, e che agnolotti, risotti o orientalii sushi apprezzate divagazioni nel corso dell’anno - si insinuino sulle nostre tavole di Natale, sull’onda di una globalizzazione che tocca finanche il campo del gusto. Ma dal confronto con l’elencazione del Cavalcanti, pare che fino ad oggi, per fortuna, questo pericolo sia scongiurato.
mezanotte / cchiù de n’ora ce manca; / e se sparano botte, / s’appicceno bengala / e se canta, e se sona / pe tutto ’o vicenato. (…) E c’‘o viento, e c’‘o friddo, / ncopp’‘a paglia pugnente / dormeno, stracque e strutte, / ‘e zampugnare”.
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25 ... Natale, quel Santo Giorno Quando il mangiare è cultura testo: Patrizia Giordano foto: Alfio Giannotti e Archivio Altrastampa
Non occorre essere dei nostalgici e neppure dei conservatori per bearsi a Natale della bontà e prelibatezza di certi piatti, di certi prodotti che, in preparazioni semplici o complesse, popolari o raffinate, racchiudono in sé tutta la storia e la saggezza della gastronomia campana. Dentro ci trovi un mondo intero. C’è spirito, sostanza, ci sono i colori, i sapori e le emozioni di un popolo, realista e fantasioso, che ha imparato nel corso dei secoli, a proprie spese, quanto sia importante il mangiare per vivere o meglio per sopravvivere (visto che si doveva accontentare anche di un solo pasto giornaliero) e quanto risulti altrettanto gratificante “il procurare di mangiare bene per sopravvivere meglio”. Così, nei coloratissimi presepi di San Gregorio Armeno, la parte più epica sono ancora le osterie, le taverne, i formaggi, i prosciuttoni appesi, i banchi dei pescivendoli e quelli dei macellai, le uova, le oche, le galline ed i capponi. Insomma il mangiare, che in questo scenario reale e surreale, sacro e profano, diventa simbolo appagante e consolatorio di tutti gli affanni e gli stenti quotidiani. Una chiave di lettura della vita stessa, una filosofia della convivialità, un volano ideale per cogliere l’essenza di questo popolo, dove non c’è evento familiare, triste o gaio, o ricorrenza, che non acquistino sapore attorno ad una mensa. In questa dimensione, quasi di “liturgica funzione”, va inserito il Natale, che oltre ad essere la festa del Signore, è la grande festa della tavola. Un inno alla gioia e alla speranza per l’avvio di un anno diverso e migliore, da condividere attorno a una tavola imbandita, ricca e accogliente, che esclude fretta e frenesia, che ha voglia di riscoprire l’intimità ed il calore dei rapporti familiari. Natale è il cenone della Vigilia nell’attesa catartica dello Spirito della Festa. Natale è soprattutto il pranzo “regale”, opulento e magnificato del 25, preparato con cura e trepidazione. Natale è il ritorno della tradizione, che non ammette sconti o riduzioni, almeno per gli amanti del gusto e dal
palato fino. Una volta le famiglie senza possibilità economiche si indebitavano persino, pur di procurarsi le pietanze per le festività natalizie. Facevano un accordo con il pizzicaiolo di fiducia a cui pagavano sin dall’inizio dell’anno, ogni settimana, una piccola somma di denaro, per avere a Natale una cesta stracolma di ogni ben di Dio, chiamata “sfrattatavola”. Era l’unico modo per assicurarsi, così, una pausa sedativa e gode-
anche ai secondi. Quindi tutto appare più semplificato, ma certamente banalizzato. Ma la tradizione al Sud è più dura a morire e nonostante la moda dell’etnico avanzi nei freezers domestici, dalle nostre parti resiste il culto per i pranzi tipici regionali, preparati dalle massaie che impastano tagliatelle e farciscono tacchini, pur di non far mancare sulla tavola imbandita le pietanze dei trisavoli. È stato narrato da molti auto-
reccia dopo un lungo anno di rinunce e privazioni. Il menù natalizio, come menù della regina delle feste, è di sicuro il più complesso di tutti i menù festivi e per rifornire la dispensa bisogna approvvigionarsi per tempo. Certo, adesso c’è il supermercato sotto casa, le imprese di “catering” e “banqueting” con tanto di cuoco inviato a domicilio, i surgelati che da vent’anni stanno facendo la scalata nelle cucine italiane di single e mamme indaffarate. Prima, grazie alle materie prime come carne e pesce, poi ai primi piatti ed ora
ri che durante le feste di Natale nel Settecento venivano consumate a Napoli tante provviste... ”quante sarebbero bastate a sfamare l’intera Città per un mese”. Con l’avanzare dei tempi moderni, la proporzione è di sicuro diminuita, ma ciò dipende soprattutto dalla migliore qualità e quantità di cibi inserita nella dieta giornaliera del popolo, benché i giorni delle festività continuino ad essere caratterizzati da banchetti pantagruelici ed interminabili dove alcuni piatti vengono consumati non tanto per fame, ma “pe’ devu-
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zione”, vale a dire gustati “religiosamente” anche se non piacciono. Questo confondere il mangiare con il rituale, il misticismo e la religiosità, è forse una delle caratteristiche più nobili della cucina popolare nostrana che non a caso ha sostituito all’asettico “buon appetito”, l’ammiccante ed augurale “cu’ ‘na bona salute”, a spiegare il “sacramentale” svolgimento di qualsiasi convivio. Se il menù del cenone della Vigilia è strettamente di magro e quindi prevede una lista di privazioni - si fà per dire - alimentari per onorare il Signore, a Natale che si fà? Ci si
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sfoga e ci si sbizzarrisce, nel senso che ciascuna famiglia prepara una lista di pietanze all’insegna della tradizione e della creatività. E a proposito di tradizione, andando a spulciare tra i menù di una volta, Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, nella sua “Cucina teoricopratica” del 1837 - dove ci sono menù per ogni giorno dei mesi dell’anno, comprese le feste e le domeniche - suggerisce un pranzo a base di carne e verdura piuttosto classico per l’epoca: “Menesta de vruoccoli e cicorie, bollito de vacca, capune, salato e salsicce, capune a lo tiano (cioè nella teglia
ndr), fritto de grasso, arrusto de filetto de porco ma chilo de Surriento e na ‘nsalata e jancomagnà”. In realtà, un menù da ricchi, non certo adatto alle tasche del popolo, perennemente in “bolletta” e che il pasto quotidiano lo vedeva quasi come un miraggio. Meno opulento e più vicino ai nostri tempi, invece, il menù natalizio recuperato dallo scrittore Mario Stefanile: “Tagliatelle all’uovo fatte in casa in brodo di tacchina e la stessa tacchina cotta prima in pentola e poi nel forno a legna attorniata da patatine novelle rosolate nel sugo”. Una volta,
nel brodo, il rito imponeva l’aggiunta di cicorie e scarole tenerissime, dal corroborante sapore amarognolo, ma dato il tempo necessario per il lavaggio e la scelta delle verdure, in molte case oggi si è ripiegato sui più semplici tagliolini all’uovo. La tavola si rallegrava poi con l’arrivo della “frittura mischiata” (come riportato anche dai ricettari del Cavalcanti e di Vincenzo Corrado) composta da panzarotti a base di patate lesse, schiacciate e mescolate a prezzemolo tritato e ricoperte di pangrattato, sfogliatelle alla ricotta, fegatelli, “cerevelle e animelle,
muzzarelline, vurraccie e sciurilli”, (questi ultimi sono la borragine e i fiorilli di zucca ricoperti di pastella e fritti nell’olio ndr), pizzelle all’uovo o al formaggio o al prosciutto o nude, carcioffole tagliate in quattro, fungetielli e patate ‘a micciariello. Per sgrassare il palato, un “fenucchio mascolo”, salato, oliato e un poco pepato ed un “rafaniello” per aiutare la digestione. E con lo stomaco più leggero si passava ai dolci. Già, i dolci: struffoli nel croccante, pasta di mandorle, paste reali, torroncini, cassata napoletana, roccocò, raffioli, susamielli, mostaccioli e
sapienze. Per finire, un bicchierino di nocillo fatto in casa con le noci di Sorrento, o un limoncello della costa d’Amalfi. Insomma due pranzi diversi, soprattutto nella scelta e nei costi delle materie prime, ma che dimostrano il carattere fondamentale della culinaria campana, fatta, in fondo, di estro e povere cose, ma trasformate qui con una incredibile sapienza in “manicaretti di lusso”. Suggestioni e variazioni, che si ritrovano sempre, sia che si prenda a riferimento un piatto “lazzarone”, quello, per intenderci, dei vicoli e vicarielli dei quartieri, sia quello più raffinato, affidato ai “monzù” che lavoravano nelle case dei nobili. Anche i Borbone, del resto, avevano dato particolare attenzione alla tavola, a partire da Carlo, il capostipite della dinastia, che aveva istituito la figura del “Capo dei servizi di Bocca” alle cui dipendenze lavoravano un maestro di casa, uno di cucina, un maestro scalco che aveva il compito di disossare e tagliare ogni tipo di animale. Infine una schiera di cuochi ognuno con una specializzazione specifica: c’era il cuoco friggitore, il cuoco per le carni, quello per le insalate, il rosticciere, il pasticciere, il bottigliere e il ripostiere. Al loro servizio c’era una pletora di sguatteri e servitori che avevano il compito di esibire lo spettacolo fantasioso delle portate prima di servirle in tavola. E il più delle volte le portate erano più di trentadue. Una vera cuccagna. Eppure il pranzo di Natale del 1835, successivo quindi alla funesta ondata napoleonica, fu per Ferdinando II di Borbone e la giovane e pia Maria Cristina di Savoia, in attesa dell’erede al trono, il futuro Francesco II, un Natale da vacche magre. Stando agli ordinativi del mastro della Real Casa della Reggia di Caserta, i sovrani consumarono per la Vigilia un semplice “brodo vegetale, trote del Matese arrosto, asparagi di serra al burro, fragoline di serra condite con panna e zucchero”. Anche per il giorno di Natale le cose non andarono meglio, gli ordinativi pare fossero abbastanza parchi: agnello al forno, carne, contorni vari e dolci. Che differenza con gli anni passati, quando il mastro della Real Casa ordinava intere spaselle di pesce di Pozzuoli o i cuochi preparavano aragoste ed ostriche o magnifiche spigole “affogate nel vino” oppure si dilettavano a dar sfoggio della loro bravura tra le varie mercanzie che
approdavano nelle cucine. E proprio in occasione del Natale, dopo l’abolizione della secolare Festa della Cuccagna, il Corpo della Città aveva preso l’abitudine di portare in dono all’illustre sovrano il cosiddetto “Trionfo dei Fiori”, una enorme cesta piena di frutta, vino, verdure e cacciagione - roba tutta diligentemente inventariata - assieme alla “Potica”, una fantasiosa costruzione che rappresentava il tempio di Diana, piena di colombi, fagiani e tortorelle. Un segno di sottomissione della Città e anche un augurio di prosperità e fertilità per l’anno a venire. Ma quel Natale del 1835 era forse il preludio al tramonto di una dinastia. E oggi? Il nostro menù di Natale deve sbrigarsela con il rincaro dei prezzi, e altri problemi. Ma poi, tra tira e molla, beghe e cattivi pensieri, alla fine tutto si svolge secondo copione: “perché cca’ si nun se fa accusì nun è Natale”. E la parola d’ordine sulla tavola sarà: riscoprire. Sapori, odori, aromi di una volta (magari anche con un occhio alla linea, ma si fa per dire), insomma la ricchezza di una cucina ancora capace nell’immaginario collettivo di raccontare la storia di un popolo. In questa ricomposizione ideale del pranzo di Natale, un pensierino anche ai dettagli: una bella tovaglia di lino, ricamata, o damascata, tirata fuori dall’armadio delle ricorrenze, una spruzzata di oro o di rosso nella scelta degli accessori. Tanto per stare meglio insieme. D’obbligo, su una tavola che si rispetti, i tradizionali piattini degli antipasti (una volta chiamati “piattini del riposto”) con prodotti tipicamente campani: dai formaggi (e qui in Campania siamo aiutati da un’offerta mai tanto diversificata e allettante: burrino, caciocavallo silano, fiordilatte dei Monti Lattari, caprino del Cilento, provolone del Monaco e via gustando...), ai salumi (capicollo di Ricigliano, pancetta arrotolata, prosciutto di Pietraroja o di Casaletto, salsiccia sotto sugna di Vairano, soppressate del Sannio o di Gioi Cilento, ecc.), accompagnati da sott’oli come acciughe, cipolline, salsiccia forte, peperoncini verdi e poi ancora, olive, passi, pinoli e datteri. Potendo, anche ciò che è rimasto della pizza di scarola della cena della Vigilia, caso mai tagliata a dadini da spiluccare candidamente fra una portata e l’altra. È una torta rustica fatta di pasta sfoglia ripiena di piedi di scarola bianca riccia schiana precedente-
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mente lessati, riempiti di olive, capperi, acciughe, pangrattato, uva passa e pinoli. Una vera delizia in cui si mescolano il sapore un po’ amarognolo della verdura con i pezzettini di acciughe che vengono aggiunti al composto. Stuzzicato l’appetito, è il turno della minestra maritata o pignato grasso, uno dei piatti più tipici della gastronomia partenopea che celebra con il suo nome le felici nozze fra il vigore ricco ed opulento della carne e la saporosità delle verdure. I napoletani una volta la mangiavano quasi ogni giorno e fu proprio questa minestra a valer loro l’appellativo di “mangiafoglie”, almeno finché non fu rimpiazzato nel Seicento con quello di “mangiamaccheroni”. I motivi che determinarono la predilezione per questa pietanza tra il popolo scrive Lejla Mancusi Sorrentino sta probabilmente nel basso costo delle verdure coltivate negli orti attorno alla città e nelle campagne vesuviane, tanto che le erbette si potevano cogliere direttamente lungo i sentieri. Spesso il cosiddetto “marito”, cioè il necessario per fare il brodo di carne, si riduceva in molte famiglie povere ad un osso scarnificato di prosciutto più volte utilizzato e conservato, se non addirittura avuto in prestito dal vicino di casa. Alla fine del Cinquecento poeti e scrittori iniziarono a tessere le lodi di questa minestra diventata ormai simbolo incontrastato di tutto un Regno. Giovan Battista Del Tufo nel suo poema sulle “Grandezze, Delizie e Meraviglie della Nobilissima Città di Napoli” scrive: “Deh, se provate mai, donne mie care /, certo altro buon mangiare / che noi con studio assai lo solem fare / d’una dolce pignata / d’un pezzo riposata / detta a Napoli tra noi la maritata / fatta di torzi d’ossa mastre e carne / dove entra un pezzo di presciutto vecchio / per far meglio apparecchio / salcizon, soppressata e boccolaro/ col suo finocchio e buon formaggio dentro / che il sapor vadi a penetrar nel centro / Oh che pignato raro /così sempre da noi tenuto caro”. Che la nostra minestra maritata derivasse dalla spagnola “olla podrida” era riconosciuto dagli stessi napoletani sin dai tempi degli Aragonesi, solo che rispetto alla versione spagnola, a Napoli si escludevano i ceci, i fagioli e le patate sostituite con le foglie dei vari ortaggi e al posto del “corico”, il salamino piccante iberico, si utilizzava l’altrettanto pepato “sau-
ceccione della costa” oppure le “pezzentelle”, salsicce ricavate dalle parti di scarto del maiale. In breve, nonostante fosse tosta e pesantuccia, questa minestra era talmente squisita da attirare le simpatie anche di Ippolito Cavalcanti che nel suo ricettario del 1837 in dialetto napoletano, ce ne offre una versione semplificata, terminando però con la frase “... e po’ mme sapraje dicere che menesta acconcia stomaco che te magne”. A questo “capolavoro” di piatto (i giudizi, un tempo, erano unanimi prima che sbarcasse la moda all’insegna del light) si erano convertiti anche i Borbone. Pare che il mastro della Real Casa ordinava più di una volta all’anno: scarulelle, boracelle, coroie, vruoccoli e cappucce (scarole, borragine, cicorie, broccoli, verze e torselli) che arrivavano dalle campagne vesuviane e dagli orti di Napoli. Qualche storico si è chiesto pure se i nomi di quelle verdure non appartenessero ad “antiche (e belle) fanciulle di contado...”. Oggi, della minestra maritata, vengono fornite diverse versioni: ad esempio le verdure possono variare come le dosi di carne (mezza gallina, un osso di prosciutto, salsiccia secca piccante o maiale fresco), a seconda che si voglia la minestra più o meno sostanziosa. I tempi di preparazione sono lunghi ma la soddisfazione è ancora tanta. Nelle zone più interne dell’Irpinia, la pietanza viene proposta sia con la pizza di granturco sia con l’uva secca. Rimanendo in tema di revival culinario, oltre ai classici tagliolini e fettuccine in brodo (“la gallina deve essere vecchia di un anno” consigliano i gourmet, solo così fa buon brodo), un altro piatto forte della tradizione, sono gli strangulaprievete al ragù o alla sorrentina. Un nome particolarissimo che i napoletani hanno dato agli gnocchetti di patate, caratteristici proprio per quella incavatura (dal greco “strongulos”) che si dà col pollice ai tocchetti di pasta lavorata all’uovo. Ma la leggenda racconta
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invece “de ‘nu prevete cannaruto” che ne mangiò talmente tanti di gnocchi da rimanerne strafogato. Molte massaie per non farli attaccare tra loro, usano rigarli con la punta di una forchetta. Così “rigati”, gli gnocchi reggeranno meglio a quel sugo di ragù, detto una volta “zuco d’‘o Re” e che Giuseppe Marotta definiva “non salsa, ma la storia e il poema delle salse”. Nella ricetta sorrentina, gli gnocchetti di patate vanno disposti in una terrina con salsa di pomodoro San Marzano, parmigiano grattugiato e pezzetti di mozzarella di bufala fresca e infornati per un quarto d’ora in forno già caldo. Attestiamoci ai primi piatti, altre due bontà sono: il sartù di riso preparato con un abbondante ragù e vari addendi prelibati: uova sode, salame, polpettine, mozzarella, piselli e rigaglie di pollo. Un “ripieno” che si sovrappone al tutto (dal francese “sur-tout”, corrottosi poi in sartù), in particolare al riso, che qui diventa solo un semplice “accessorio”. Lo stesso nel timpano o timballo di maccheroni (o più semplicemente, maccheroni al forno), la cui ricetta ci arriva da Ippolito Cavalcanti che consiglia di utilizzare per la pasta, i mezzani di Gragnano; mentre per l’imbottitura, cervellatine e mozzarella a fettine, funghi, piselli, fegatini e petti di pollo, uova sode tagliate a dadini. Il “timpano di maccheroni” va composto in una teglia alternando uno strato di mezzani ad uno strato di imbottitura. Il tutto poi cotto in forno per almeno quaranta minuti. La nostra tavola si sta rallegrando ed è pronta per passare ai secondi: al grasso cappone a lo tiano indicato dal Cavalcanti nel suo menù, oggi si preferiscono pollo arrosto con patate novelle, o pollo alla cacciatora, il cui sugo può essere usato per condire i mezzanelli . Per chi ama la carne bianca, d’obbligo, il tacchino al forno, mutuato dalla tradizione americana, accompagnato, volendo, da patatine o una fresca insalatina di carciofi. L’imbottitura del tacchino è a base
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di carne di vitello tritata, uova sode, parmigiano, salame napoletano o quello leggermente speziato di Mugnano del Cardinale tagliato a dadini, infine, uva passa, pinoli, sale e pepe. L’importante prima di mettere in forno il tacchino, è cucire bene l’apertura del ventre e legarlo ben stretto di modo che non perda la sua forma quando arriva a troneggiare sulla tavola. Ma non solo carne bianca, sul nostro desco natalizio, anche squisitissimi arrosti di maiale, salsicce fritte o arrostite sulla brace con contorno di broccoli del Vallo di Diano e friarielli, questi ultimi saltati in padella con olio, aglio, sale e un pezzettino di peperoncino. Sono piatti che vanno per la maggiore soprattutto nelle zone più interne della Campania dove i sapori sono più forti, decisi, dato anche il clima invernale. E se il maiale piace ma non convince, c’è sempre l’agnello o il capretto al forno (una volta quelli paesani arrivavano dalle campagne di Sant’Anastasia), meglio ancora se cotti a legna, entrambi accompagnati da patate novelle ed erbette tipiche della macchia mediterranea (rosmarino, menta, mirto, alloro). Quando si parla di carni ovi-
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ne, durante le festività, sono tante e tante le preparazioni, che c’è solo l’imbarazzo della scelta. Ad esempio, il capretto al forno alla napoletana prevede oltre alle patate e alle cipolle affettate, anche l’utilizzo di pomodorini corbarini o vesuviani spezzettati. I più poveri si dovevano accontentare del capretto fujuto cioè le sole patate e cipolle insaporite dagli aromi. Nel Sannio, in Irpinia e in particolare nel Cilento, invece, la carne ovina è un vero e proprio rito, in tutte le feste comandate dal Signore, impiegata soprattutto per i primi piatti a base di paste fatte in casa: cecatielli, cazzarielli e lagane, fusilli. Del resto, in queste zone sono concentrati gran parte degli allevamenti della pecora ”laticauda” (quella “dalla coda larga” per intenderci), con metodi ancora tradizionali, pascoli bradi o semibradi. Quindi la carne è soda, ottima per le diverse preparazioni. Deliziosi gli “ammugliatielli” (budella) alla brace, le costatine al forno; il capretto irpinese si cucina ancora alla vecchia maniera: la carne è tagliata a piccoli pezzi e messa in un tegame (di solito di rame) e condita con olio, cipolla, erbette aromatiche, peperoncini
secchi e un pizzico di sale. Una rarità che riesce a convertire anche il palato più globalizzato. Ma chi è vegetariano, a Natale che fa? Be’, ci sono sempre i capitoni fritti o alla “scapece”, cioè marinati nell’aceto, della cena precedente. Comunque accanto alla carne o al pesce, l’insalata di rinforzo continua a svolgere il suo ruolo, già assunto durante il cenone della Vigilia: qui però ci facciamo guidare dal Cavalcanti che ci informa che è un piatto antichissimo, meglio conosciuto come “caponata”, ma che è talmente cambiato nel corso degli anni che è pure difficile stabilire qual è il vero elenco degli ingredienti. Immancabili le bianche cimette di cavolfiori lessati su cui spiccano olive nere e bianche, i filetti di acciughe e tutti i delicati sapori e colori della “giardiniera”, cioè le verdure sottaceto: sedani, peperoncini, cipolline, cetriolini e carote. Un vero e proprio “rinforzo” per affrontare l’assalto dei dolci e dolcetti natalizi. E i vini? Già, i vini: a Natale, “bere bene è bere campano”, recita lo slogan. Conveniamo. Rossi mossi e fragranti, dall’Aglianico al Taurasi al Falerno, per accompagnare carni e salumi, bianchi morbidi, dall’Aspri-
nio al Greco di Tufo al Lacrima Christi del Vesuvio, per pesce e crostacei confinati - come da tradizione - al cenone della Vigilia. Una cosa è certa: il pranzo di Natale del nuovo millennio è molto più libero di quello di un tempo e non solo per quanto riguarda la composizione del menù, ma anche nella scelta di quello che si vuol bere. E ricordate che il “mal di testa” lo danno solo i vini cattivi. Adesso spazio, a frutta fresca di stagione - mele annurche, mandarini e melone bianco che ristorano la bocca - e alle sciosciole: noci di Sorrento, nocciole di Giffoni, mandorle, datteri, “castagne del prete” (seccate e infilate a collana in uno spago), fichi secchi del Cilento, in poche parole la frutta secca, che è il completamento di qualsiasi convivio natalizio, anche dal punto di vista “funzionale “ - scrive Renato De Falco - visto che con le bucce si continua a segnare i numeri dai tempi che furono sulle cartelle della “sacramentale” tombola natalizia. Il nome “sciosciole” spiega De Falco - è di origine greca, da “floios”, scorza, corteccia, solo che il gruppo consonantico “FL” in dialetto napoletano si tra-
sforma in “SCI”. E tra una “sciosciola” ed un’altra ed un finocchio sgranocchiato bellamente, si entra nel paradiso terrestre della gastronomia nostrana, i dolci, che annota don Vincenzo Corrado nel “Cuoco galante” “... sono più per l’occhio che per la bocca, ma l’occhio più che la bocca, decide del bello e del sontuoso della mensa...”. Ed ogni dolce a Napoli è una storia, un sapore, un modellino in miniatura del “paese di Bengodi” da gustare sorseggiando un limoncello sorrentino o un dolce moscato
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passito, un liquore al finocchietto o il sacrosanto nocillo. A cominciare da quella delizia che è la cassata napoletana con quel cuore cremoso di frutta candita, ai croccanti, un impasto caramellato di pezzi minutissimi di mandorle che signoreggia trionfalmente al centro della tavola. Come exploit, come prodezza culinaria che deve lasciare stupefatti i commensali, fanno poi il loro ingresso gli struffoli ricoperti di scorzette di frutta candita e diavulilli che ci ricordano tanto le decorazioni dell’albero
di Natale. Il Cavalcanti, nell’edizione del 1852 della sua “Cucina teorico-pratica”, ce ne lascia una ricetta molto dettagliata, in cui raccomanda particolarmente la forma a tortano, e meglio ancora, a palla, da plasmare con mani bagnate perché più gradita alle signore. Un suggerimento però che gli viene contestato da una dama sua ospite, che gli fa notare che gli struffoli ... ”tanto delicati nella sostanza sono da gustarsi sotto qualunque aspetto si presentino”. Sta di fatto che il duca, da genti-
luomo che era, accusò il colpo e cancellò letteralmente il dettaglio nelle successive edizioni (in tutto furono ben dodici con un’appendice sempre più ampia in dialetto napoletano). A Napoli, si sa, tutte le meraviglie della fantasia dolciaria nacquero nel silenzio di monasteri e conventi. Nel Settecento molte le figlie femmine appartenenti a famiglie nobili e reali erano costrette a prendere la via del convento. E nel silenzio della clausura, esprimevano la loro creatività in una esclusiva e particolare “pasticceria”, tanto che spettava a loro l’onore di confezionare dolci per le feste e gli sposalizi regali. Nacquero così i barocchi roccocò dal francese “rocaille”, per la rotondeggiante forma di conchiglia e sosamielli, sapienze e divini amori. E sulla tavola natalizia, compaiono anche i mostaccioli, deliziosi rombi di mandorle e cioccolata. Non vi fate ingannare dal nome che non ha nulla a che fare con i baffi, piuttosto è da collegarsi al mosto con il quale venivano impastati per renderli ancora più goduriosi. Questi dolcetti vengono citati persino da Giovan Battista Del Tufo che esalta la “pasta gentil” e li
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definisce “opre solo dei miei napoletani”. E ancora le meringhe nasprate ed i raffioli, anticamente detti “graffiuoli”, a base di farina, uova, zucchero, a volte spennellati con marmellata di albicocca. Mentre sono le Benedettine di San Gregorio Armeno che ci lasciano in eredità le paste reali o past’ammennule, fatte di sola pasta di mandorle senza alcun grasso se non quello dell’olio delle mandorle stesse e la cui più remota e diffusa preparazione si deve alle religiose del Real Convento della Maddalena, fondato nel 1320 dalla Regina Sancia d’Angiò. In realtà le Benedettine di San Gregorio Armeno una ne pensavano e cento ne realizzavano: per il re Ferdinando IV di Borbone, che era un gran golosone, si inventarono un esclusivo dolce dal curioso nome il “piattiello”, composto da alcuni strati di pan di Spagna imbevuti di “giulebbe” e alternati a strati di ricotta impastata con canditi e cioccolato. Il dolce veniva conformato al piatto di portata - da qui il nome - e ricoperto da un velo di bianca ricotta adorna di confettini e pezzettini di cioccolato. Chiaramente il re ne andava completamente pazzo. Ma i dolci all’epoca non erano opera soltanto delle monache. Nell’Ottocento, visto che non c’era la consuetudine di comperare in
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pasticceria, le famiglie nobili facevano preparare dalla servitù dolcetti, figurine di marzapane e torte con grande utilizzo di mandorle, canditi, pistacchi e marmellate, rigorosamente fatte in casa, e molte creme fra cui imperversava ‘o jangomagnà, il biancomangiare di lontana memoria medievale (appellativo, racconta il Celano, con cui era soprannominato anche un vicolo di Napoli ubicato nella Pignasecca), ed inserito non a caso nel menù natalizio di Ippolito Cavalcanti. Il buon duca ce ne dà anche una ricetta (latte, zucchero, rossi d’uovo, amido di riso, scorza di limone e cannella) e lo fa risalire (tesi condivisa dal Corrado) al “leucophagon” degli antichi coloni greci che fondarono Neapolis. È certo comunque che questo dolce - tornato oggi di moda dopo un lungo oblìo - era noto nella Firenze del Boccaccio e alla corte di Francia. Nei ricettari medievali si trova spesso sotto il nome di “blamangieri” e poi di biancomangiare. Si faceva con petti di pollo, farina di riso stemperata nel latte, un po’ di lardo e un po’ di miele. Il suo nome fa pensare subito ad un dolce di una bianchezza straordinaria - fa notare Piero Serra in “La cucina della Campania” - ma da molto tempo l’aggettivo ed il nome si sono fusi ed alcuni ricet-
tari propongono biancomangiare al caffè o alla frutta o al cioccolato bianco. A detta del Garlin, noto cucinieregastronomo dell’inizio del secolo scorso, il biancomangiare è un “entremets” che sta tra la crema e la gelatina, insomma una specie di bavarese alle mandorle assai fine e delicata. Non è da tutti accettata l’origine napoletana, avanzata dal Cavalcanti, anzi, molti concordano nell’affermare che è creazione Toscana passata poi in Francia. Sta di fatto che questo jangomagnà rientra tra i migliori dessert per coronare il nostro pranzo di Natale, meglio di “qualsiasi” panettone. Forse per via di quel nome che evoca dei desideri. Qualcosa di delicato e bello come la luce bianca dell’aurora che contiene in sé tutto lo spettro dei colori. Gli ingredienti? Le ricette sono tante, una semplice semplice è a base di latte fresco, mandorle sgusciate, due limoni, gelatina di animale, panna montata ed un cucchiaio di olio di mandorle. Ma intanto la nostra digestione ha un appuntamento d’obbligo con la tazzulella ‘e cafè da sorseggiare cu’ ‘na goccia d’annese. E sì, il caffè con l’anice, che per Eduardo era un rito. Una passione, una frenesia. E qui non può proprio mancare, ... pe’ devuzione.
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