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ITINERARI ALLA SCOPERTA DELLA REGIONE
CAMPANIA FELIX
Vivere pienamente il mare vuol dire anche soffermarsi sull’importanza della pesca, la cui attività e i cui frutti non solo caratterizzano i nostri costumi conviviali e le nostre tradizioni culinarie ma definiscono i caratteri di un territorio, la sua cultura, il suo stesso modo di essere. Parlare della pesca vuol dire presidiare un patrimonio che non può andare disperso, nonostante gli indirizzi comunitari sempre più rivolti ad una politica di dismissione che si incrocia anche con un ceto peschereccio significativamente coinvolto da una grave crisi economica e produttiva e dalla mancanza di ricambio con le nuove generazioni. Alla pesca si associano, per modalità e motivazioni diverse, anche altri settori produttivi. Primo fra tutti l’acquacoltura: principale settore di diversificazione per gli operatori del settore ittico e interessante prospettiva per migliorare l’offerta di alimenti nobili rispetto alle sole attività di cattura. L’acquacoltura deve ancora conquistare completamente i mercati, per invogliare i numerosi consumatori diffidenti, perché è sempre più chiaro il percorso verso produzioni di qualità ottenute secondo i più attuali protocolli produttivi miranti alla certificazione o al biologico e che possono garantire la piena tracciabilità del prodotto con il ricorso all’etichettatura. È necessario quindi affrontare le tematiche del mare come di “sistema marino”, nel quale devono interagire e integrarsi le diverse destinazioni produttive in considerazione delle esigenze biologiche degli ecosistemi e delle necessità economiche e sociali delle popolazioni nelle aree maggiormente dipendenti dalla pesca, affinché possano individuarsi perseguibili soluzioni a beneficio delle risorse e di quanti di esse vivono. Da affermare e sempre più approfondire è anche l’interazione con la terra ferma ed è per questo che la campagna di promozione sul pescaturismo e l’ittiturismo, che questo assessorato ha portato avanti nello scorso mese di agosto è stata chiamata “Vivi un’emozione dentro e fuori il mare”. La tipicità delle produzioni agricole regionali e la loro sempre più ampia affermazione unitamente al sistema agrituristico, oramai vera proposta di turismo alternativo, sono un utile volano per consolidare nuove possibilità in tal senso anche per gli operatori della pesca che, facendo tesoro delle esperienze già maturate, trasferiscono anche alle loro imprese il principio della multifunzionalità indirizzata alla possibilità di redditi alternativi ed integrativi per realizzare quella riduzione dello sforzo di pesca oramai improcrastinabile. Con questo numero di Campania Felix l’attenzione è rivolta agli stretti rapporti dentro e fuori il mare, puntando non soltanto alla valorizzazione di un singolo settore produttivo bensì alla stretta e reciproca integrazione, in termini di tipicità e qualità, delle produzioni ittiche e agricole. La nostra scommessa è che si possa restituire prospettiva e futuro alla pesca, all’acquacoltura e a tutto il settore in piena armonia con l’ambiente e un Mediterraneo che dobbiamo imparare a riscoprire e difendere in quanto espressione di un tratto non secondario della nostra stessa civiltà. Gianfranco Nappi Assessore Regionale all’Agricoltura
In questo numero parliamo di pesca e territorio sulle coste campane
Edizione speciale Dentro e fuori il mare pesca e territorio sulle coste campane
Editore, direttore editoriale e artistico Mariano Grieco Direttore responsabile Dario Coviello Relazioni esterne Ersilia Ambrosino Testi Mariano Grieco Simona Mandato Schede prodotti Italo Santangelo l’editore ringrazia Vincenzo Amendola Antonio Chiocca Cristoforo e Edoardo Costagliola Felix D’Andrea Ivan Gentile Pellegrino Riccardo Giordano Edoardo Marino Lello Mazzacane Antonino e Gennaro Morvillo Gilles e Salvatore Pappalardo Pietro Pugliese Giuseppe Scelza e tutti coloro che hanno collaborato ed inoltre Raffaele Ambrosio Sergio Lubrano Gennaro Scognamiglio Alberico Simioli Foto Alfio Giannotti, Archivio Altrastampa Archivio Settore SIRCA e Settore del Piano Generale Forestale
Progetto grafico Altrastampa
Sommari O ... e navigar m’è dolce in questo mare Il mare, l’uomo e l’armonia
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Dentro e fuori il mare Pesca e territorio sulle coste campane
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I prodotti del territorio Costa flegrea
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Ischia e Procida
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Costa vesuviana
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Costiera sorrentina e Capri
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Costiera amalfitana
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Costa cilentana
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Coordinamento del progetto Daniela Lombardo e Maria Passari si ringraziano Alfonso Amendola, Maurizio Cinque Melinda Cozzolino, Giovanni De Rosa Antonino Di Gennaro, Assunta Di Mauro Fulvio Iannucci, Maria Raffaela Rizzo Maria Sambone, Linda Toderico
In copertina: Panorama di Napoli foto: Alfio Giannotti
CAMPANIA FELIX® Direzione, redazione, amministrazione e pubblicità: Postiglione (SA) Periodico registrato presso il Tribunale di Napoli n. 5281 del 18.2.2002 R.O.C. iscrizione n. 4394 anno XI, n. 28/2009 Una copia Ê 8,00 © 2009 ALTRASTAMPA Edizioni s.r.l. 84026 Postiglione (SA) cell. 338.7133797 altrastampa@libero.it
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... e navigar m’è dolce in questo mare
• testo: Mariano Grieco • foto: archivio Altrastampa
Il mare, l’uomo e l’armonia e è vero che un’immagine dice più di mille parole, allora il quadro qui a destra, ne è l’esempio lampante. L’autore è il tedesco Carl Wilhelm Tischbein, quasi impronunciabile, uno dei tanti artisti, stranieri ma anche italiani, che, sulla scia di Goethe, tra ‘700 e ‘800 vagarono per le nostre contrade attratti dalle bellezze dei luoghi, immortalandole, con maggiore o minore bravura. Ebbene il quadro in oggetto, dal titolo “Giovane donna napoletana”, per noi dice tantissime cose, adatte all’argomento di questa pubblicazione; la scena rappresenta una giovane donna, figlia o sposa felice di un pescatore fortunato e agiato, lo si rileva dal fatto che, con aria serena, ella, elegantemente e riccamente vestita, indossa tra l’altro una bella collana di corallo, sta riparando una rete da pesca, e con gesto gentile raccoglie un grappolo d’uva della pergola che incornicia una finestra da cui si intravede il panorama, e che panorama! Dietro di lei un’anziana (la madre, la suocera, chissà) fila tranquillamente la lana, probabilmente delle pecore del loro piccolo gregge familiare. In questo quadro c’è tutto: il mare, la pesca, i prodotti della terra, la sapiente manualità artigianale, la bellezza dei luoghi e in più c’è una cosa, quella che forse più di tutte attrasse i tanti artisti, c’è un’armonia profonda tra le persone e le cose, tra entrambe e i luoghi. E di armonia parlano anche le altre immagini che corredano questo testo, certamente esempi di quell’oleografia che ha condannato Napoli e la Campania tutta ad una bellezza stereotipata dalla quale non riusciamo ancora ad affrancarci, ma che ci confermano che evidentemente, oleografia a parte, può esserci un rapporto armonico con la natura che prescinde le esigenze della quotidianità intesa in termini meramente mercantili. Viene in mente un breve racconto del premio Nobel Heinrich Böll in cui un turista vedendo un pescatore placidamente seduto, dopo la sua notte di lavoro, a godersi il panorama marino ed il sole, colpito dall’inattività lo sollecita a rad-
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In questa pagina. C. W. Tischbein, Giovane donna napoletana. Pagina successiva. Al centro, in alto. Usi e costumi di Napoli e contorni, Pescatore napoletano. In basso. O. Palumbo, Masaniello. A destra, dall’alto. E. Dal Bono, Da Frisio a Santa Lucia. A. Riedel, Famiglia di pescatori. T. L. Turpin de Crissé, Pescatori a Sorrento. A. Mas y Fondevilla, Piccoli pescatori a Mergellina.
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monti o le argentee lame della luna che si riflettono sulle onde increspate a compensare le notti insonni e, quando capita, la delusione delle reti vuote nonostante l’impegno e la dedizione. Fu proprio un pescatore a segnare un momento importante della nostra storia; a metà ‘600, nel pieno della corrotta e proterva dominazione spagnola, un certo Tommaso Aniello di Amalfi disse no e il popolo lo seguì. Masaniello seppe interpretare la rabbia e la voglia di giustizia del popolo napoletano, certo fece una brutta fine, ma nel breve periodo della sua rivoluzione ci fu qualcosa di nuovo per la gente, la capacità di aggregarsi per raggiungere uno scopo e un sogno ad occhi aperti in cui credere e sperare. Forse per andare veramente avanti, bisognerebbe guardare un po’ indietro e tornare a quell’armonia perduta, difficile ma non impossibile, auspicando, perché no, il sorgere di un novello Masaniello, pescatore povero ma onesto, che, magari con miglior fortuna, ci riscatti dalle ingiustizie e ci dia un sogno.
doppiare le uscite in mare così pescherà di più e con i maggiori ricavi potrà comprare altre barche che pescheranno sempre di più rendendolo ricco; con quella ricchezza potrà iniziare un grande commercio di pesca e avrà tanta gente che lavorerà alle sue dipendenze così lui potrà... tranquillamente godersi, in tutto riposo, il panorama marino e il sole. Il pescatore lo guarda, con una specie di sorriso, e dice: “Ma io
questo già lo faccio, ora”. Tutte le arti, dalla pittura alla musica alla poesia, si sono cimentate nel raccontare e descrivere questa terra benedetta dalla natura e bagnata dal mare lungo una costa di incredibile varietà ma sempre affascinante e ricca di scorci suggestivi. Un mare che continua ad essere una importante risorsa economica e sociale nonostante i persistenti attacchi che subisce dall’azione sconside-
rata dell’uomo. Ma, tornando ai nostri quadri, essi ci parlano anche del duro lavoro del mare, della fatica dei pescatori, dei perigli quando Nettuno si adira. Già, i pescatori, gente temprata, che fin dalla tenera età trascorre la vita in simbiosi col mare dal quale trae la sua sussistenza; non basteranno certo il percorrere le frastagliate e ammalianti coste, le meravigliose albe a cui, giocoforza, assistono o gli infocati tra-
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Dentro e fuori il mare Pesca e territorio sulle coste campane
In alto. Alba sui Campi Flegrei. In basso. Costa flegrea. Pagina seguente. A sinistra. Il mercato ittico di Pozzuoli. A destra. Pesci al mercato.
Pisce palumme e pescatrice, scuorfene, cernie e alice, mucchie, ricciòle, musdee e mazzune, stelle, aluzze e storiune, merluzze, ruòngole e murene, capodoglie, orche e vallene, capitune, aùglie e arenghe, ciefere, cuocce, tràcene e tenghe. Quale napoletano non conosce la canzone del Guarracino? Un interminabile scioglilingua che la tradizione, canora e peschereccia, di questa terra ci ha tramandato. Il protagonista è una castagnola (in dialetto guarracino), un piccolo pesce molto comune nelle acque di Napoli, il cui amore per una sardella gli scatena addosso le ire dell’ex fidanzato, un alletterato, generando una zuffa subacquea, cui prendono parte tutti gli abitanti del golfo, elencati senza tralasciarne nessuno: rigorosamente con i loro nomi dialettali, perché i pesci hanno innanzitutto il loro nome popolare. Il nostro itinerario lungo le coste campane inizia lì dove il mare incontra il fuoco. Fonti minerali e termali, ribollenti dal suolo e dalle profondità del mare, fumarole e solfatare con caldissime emanazioni gassose, vulcani spenti e laghi scaturiti dalle voragini di crateri inabissati, lento sprofondare della terra e violento e improvviso erompere di vulcani. Con questo vortice di parole l’archeologo Amedeo Maiuri descrisse il territorio dei Campi Flegrei. Degli elementi della natura qui non ne manca nessuno. La terra e l’acqua, in un continuo saliscendi, giocano insieme da milioni di anni, vincendo a turno l’uno sull’altra: gli scienziati chiamano questo gioco bradisismo. Per il fuoco degli innumerevoli vulcani attivi nei millenni passati, i Greci chiamarono questa terra “campi ardenti” (phlegraiòs, da cui appunto Flegrei). Infine, l’aria è quella che, carica di un intenso odore di zolfo, permea ancora parte di questi luoghi, e genera benefici vapori a lungo impiegati in bagni termali, di cui si giovarono imperatori romani e re medioevali. Il paesaggio ha qui le tenui tinte gialle del tufo, con pennellate verdi della vegetazione spontanea di pini e arbusti di lentisco, e spa-
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tolate di blu e smeraldo dei fondali più e meno profondi del mare. Tutto questo si trova in un cerchio magico tra Pozzuoli, Lucrino, Bacoli, Baia e Cuma. Qui, alle varie
forme di valorizzazione del territorio, se n’è aggiunta di recente un’altra che fa leva sul mare e sulla forte tradizione ittica dell’areale. Non a caso, Pozzuoli è sede
• testo: Simona Mandato • schede prodotti: Italo Santangelo • foto: Alfio Giannotti, archivio Altrastampa, archivi Settore SIRCA e Settore del Piano Generale Forestale
di uno dei principali mercati ittici della Campania, una struttura in cui i pescherecci arrivano fin sotto i banchi di vendita; la domenica si riversano qui i napoletani più mat-
tinieri per procurarsi le migliori vongole o un purpetiello freschissimo da affogare in casseruola. Questo litorale non è, d’altronde, l’unico lungo le centinaia di chilo-
metri di coste campane, ad avere una forte connotazione marittima. In numerosi centri portuali della regione si è andato sviluppando negli ultimi anni una forma di
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In alto, a sinistra. In navigazione sulla costa flegrea. A destra. Particolare di una rete a tramaglio. In basso. Il porticciolo di Monte di Procida.
turismo che valorizza non solo i litorali, ma anche le diverse tradizioni ittiche: oggi il pescaturismo e l’ittiturismo - ospitalità in case di pescatori - stanno al pescatore come l’agriturismo al contadino. Si tratta di una forma di turismo che, in un contesto di rispetto ambientale, consente di avvicinarsi al mondo della pesca tradizionale per conoscerne usi e tecniche e, in fin dei conti, per imparare ad apprezzare maggiormente il lavoro del pescatore, le competenze, le difficoltà che deve affrontare nelle sue uscite. Una scelta di rivalutazione che la Regione Campania sta fortemente sollecitando. Si auspica, infatti, che queste forme di turismo alternativo possano svilupparsi come l’agriturismo che è molto diffuso su tutto il territorio campano con un’offerta
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qualificata e professionale basata sulle tre direttrici fondamentali: ambiente, prodotti enogastronomici tipici, accoglienza. Chi decide di trasformarsi per una serata o una mattina in “turista di pesca”, vive ore di immersione totale nella natura, quella immensa e potente del mare, in una dimensione piena, spesso sconosciuta a molti di noi, e finanche a chi usualmente va in barca per fare bagni al largo. Svegliarsi di notte per uscire in mare alla ricerca del proprio guadagno, studiare le correnti, le stelle, le tecniche da impiegare per riempire al meglio le reti, magari affrontando condizioni del mare non troppo certe: tutto questo poco ha a che fare con i bagnanti della domenica! Allora immergiamoci anche noi per conoscere più da vicino il
mare, i pescatori, le reti e i pesci delle coste campane. Cominciamo proprio da qui, dal litorale flegreo, dove l’Associazione UNCI propone delle interessanti battute di pesca: dal porticciolo di Acquamorta a Monte di Procida si parte a bordo di una barca che dispone di pochi posti per gli ospiti, ma questo favorisce un’atmosfera più intima. La barca è attrezzata con le tipiche reti da posta, ossia reti che vengono rilasciate in mare, nell’attesa che siano i pesci ad andarcisi ad impigliare. Al largo di Monte di Procida la nostra guida marina avvia la pesca e, nel contempo, il suo racconto. Pietro usa il classico tramaglio, costituito da tre reti parallele, disposte in una combinazione geniale, ma malefica per i pesci: al centro è la “mappa”, una rete a maglie strettissime, ed esternamente su entrambi i lati sono le “pareti”, a maglie più larghe. Le prede passano attraverso una parete e si impigliano fra le maglie della mappa: nel continuare il loro percorso, passano per una maglia della seconda parete, restando avviluppate in una sorta di sacchetto che si forma all’esterno della parete, sul lato opposto di quello da cui sono entrate. Per il pescatore è semplicissimo, una volta tirata su la rete, “smagliare” i singoli pesci dai loro sacchetti. Ne saltano fuori splendidi scorfani, marmore, cernie, qualche sarago, un pesce San Pietro, seppie e calamari. Questa uscita in mare è l’occasione, oltre che per conoscere il mondo della pesca, anche per avere un punto d’osservazione privilegiato, diverso da quello solito.
Navigando sotto costa fra Bacoli, Capo Miseno, poi verso Baia, si scoprono grotte scavate nella roccia tufacea, utilizzate in epoca romana come ninfei, ossia piscine dedicate alle Ninfe; frequenti sono anche le tracce di muratura costruite con la tecnica favorita dai Romani che somiglia ad una rete, l’opus reticulatum. Il tutto rimanda ad un’epoca in cui da
queste parti si parlava latino, quello aulico del Senato di Roma, i cui membri qui trascorrevano le vacanze. A rendere rinomati questi lidi furono, infatti, non soltanto la loro amenità e le terme, ma anche le attività… di svago cui si dedicava l’aristocrazia romana. Cesare, Cicerone e numerosi imperatori ed esponenti della cultura romana ebbero le loro ville sul mare o sui laghi fra Miseno e Pozzuoli. Non di rado quelle ville - oggi scomparse a causa di terremoti e bradisismo erano dotate di enormi cisterne per il rifornimento idrico. Dai vicoli di Bacoli si accede alla struttura archeologica detta Cento Camerelle, un’enorme cisterna scavata nel tufo, suddivisa in diversi ambienti con volte a botte, che faceva parte della grandiosa villa di Ortensio Ortalo. L’oratore romano era un appassionato allevatore di murene: pare che nel livello inferiore della cisterna, laddove oggi un corridoio si affaccia con grande suggestione sul golfo, fossero impiantate le sue peschiere a mare. La grandiosa villa di Cesare doveva ergersi, invece, sul promontorio di Baia dominato oggi dal castello, costruito dagli Aragonesi alla fine del ‘400 e ampliato dal viceré spa-
gnolo don Pedro de Toledo. Oggi la fortezza ospita il Museo Archeologico dei Campi Flegrei, con la scenografica ricostruzione del ninfeo che fu ritrovato sommerso, con tanto di statue, a Punta Epitaffio. Bacco annaffiava incontri e pranzi che si svolgevano a Puteoli, Bauli, Baja: una descrizione memorabile di un banchetto luculliano, proba-
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In alto. Il castello di Baia. In basso, a sinistra. Le Cento Camerelle. A destra. Ricostruzione del ninfeo di Punta Epitaffio nel Museo Archeologico di Baia.
In questa pagina. Dall’alto. Zuppa di pesce, spaghetti a vongole, il lago Fusaro in una gouache del ‘700. Pagina successiva. Raccolta di cozze in un allevamento.
bilmente ambientato a Pozzuoli, ce l’ha tramandata Petronio nella celebre scena della Cena di Trimalcione, contenuta nel suo Satyricon. Ma se, a parte le pittoresche descrizioni di Petronio, nessun ricettario ci è pervenuto dai rinomati cuochi della baia di Pozzuoli al servizio dell’aristocrazia romana, la tradizione si è perpetuata passando per le mani di migliaia di donne del popolo. Ciascuna ha insegnato alle sue figlie i modi tradizionali di cucinare e preparare i frutti saporiti di questo prolifico mare. Fra i tanti, la magia della zupp’ ‘e pesce. La ricetta puteolana più nobile è quella che si tramanda dall’epoca di Anna Maiorano, che dal 1929, bimba accanto a suo padre, gestì il celebrato “Grand Restaurant dei Cappuccini”: il seicentesco ospizio di monaci che si ergeva davanti Pozzuoli, circondato dall’acqua e raggiungibile attraverso un pontile, nel 1880 fu trasformato in un ristorante con annesso vivaio di pesci, frequentato da ospiti eccellenti. I marosi e il bradisismo lo danneggiarono fortemente, finché nel 1972 non fu abbattuto. Ebbene, quali erano gli ingredienti della zuppa di Anna? uno scorfano - di cui sono note tanto la bruttezza quanto il gustoso sapore! -, una murena, un grongo, un cefalotto ischitano, qualche cozza rigorosamente flegrea, vongole e telline, un tocco di seppia, un calamaretto e due o tre gamberi. Pomodorini, aglio e prezzemolo fanno il resto. Pare che Anna usasse anche un ingrediente che ha tenuto segreto, com’è giusto che faccia ogni grande cuciniere! Fatto sta che qualcuno ebbe a dire che Anna faceva diventare il mare “proprietà di colui che mangiava la zuppa di pesce preparata con le sue mani”, e noi, non possiamo che credergli! La tradizione di allevare molluschi da queste parti risale all’epoca romana. Un certo Sergius Orata, approfittando delle frequentazioni di aristocratici e politici a Pozzuoli e Baia, e della notevole richiesta che ne veniva di prodotti ittici di qualità, nel I sec. a.C. ebbe l’idea di avviare a Lucrino un allevamento intensivo di ostriche. Nel lago di origine marina si immettevano alcune sorgenti dolci, e l’acqua resa in tal modo salmastra, consentiva di produrre ostriche di elevata qualità. Su alcune fiaschette romane provenienti da Pozzuoli ed esposte a New York, sono dipinti gli OSTRIARIA, impianti di alleva-
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menti di ostriche: da alcuni pergolati in legno pendevano le corde su cui si sviluppavano i preziosi molluschi. Ma fu un altro tipo di allevamento che diede a quel Sergius maggiore notorietà, e finanche il nome: le orate. A proposito, anche il nome del lago Lucrino deriva da
quelle redditizie attività: lucrum, profitto! Nel 1538 un forte movimento terrestre determinò la nascita - in un solo giorno, come vuole una leggenda avvolta di magia! - del Monte Nuovo: tutta l’area circostante ne fu coinvolta, con la
scomparsa di gran parte del lago Lucrino (quello che si vede oggi ricopre solo una minima parte della laguna antica) e numerose fonti termali. Questo evento naturale pose fine anche alla secolare esperienza degli allevamenti di pesci ed ostriche. Solo nel Settecento, per volere del borbonico Ferdinando IV, alle antiche attività lacustri fu dato nuovo impulso. L’ostricoltura fu trasferita nel più ampio lago Fusaro, abbinata alla mitilicoltura, e il re ne approfittò per far costruire al suo architetto di fiducia Carlo Vanvitelli, il casino da pesca e caccia che, su un isolotto, si specchia con grazia nel Fusaro. A partire dagli anni Venti si diede preferenza ai mitili, dando vita all’attuale vocazione dell’area. Nel secondo dopoguerra gli allevamenti di cozze si sono trasferiti nelle acque marine, più favorevoli a questo tipo di coltura. Oggi le condizioni igieniche degli impianti di mitilicoltura sottostanno a ferree regolamentazioni italiane ed europee, fino alla recente emanazione, nel 2007, delle linee guida della Regione Campania in materia di molluschicoltura. Lo specchio di mare antistante Baia e Bacoli perpetua l’antica tradizione, ed è oggi fortemente dedito alla mitilicoltura: i suoi prodotti sono interamente assorbiti dalla domanda campana, che per l’eccesso acquista le adorate bivalve anche da Grecia e Spagna, ma il gusto non è lo stesso. Gli impianti di mitilicoltura a Lucrino e Arco Felice di Federcoopesca sono notevoli, e l’Associazione di aziende ittiche si sta attrezzando per il pescaturismo. Nel frattempo propone di frequente degustazioni, in zona ma anche fuori regione, e, grazie sia alla qualità dei suoi prodotti, che alla passione e alla fantasia con cui operano ai fornelli alcuni storici pescatori membri dell’Associazione, Federcoopesca vanta collaborazioni con Slow Fish e Città della Scienza. Uscite in barca tra i filari di cozze se ne possono fare a Bacoli con la Lega Pesca Campania. Ci si aggira fra gli impianti, mentre Salvatore ci mostra e spiega sia l’allevamento che la successiva lavorazione. I semi delle cozze vengono calati nelle reste, lunghe reti cilindriche, che sono poi messe a dimora in acqua a circa 5 metri dalla superficie. Man mano che i molluschi crescono, però, si rende necessario sostituire le reste, e usarne di più grandi. Dagli undici ai tredici mesi
impiega una cozza inseminata, per raggiungere una dimensione tale da poter essere immessa sul mercato: i tempi variano a seconda dei marosi, delle correnti, delle temperature raggiunte dall’acqua. Agli ospiti a bordo Salvatore mostra le diverse fasi di produzione, dall’in-
seminazione alla raccolta del prodotto adulto. Seguono poi, nel centro di spedizione, la sgranatura, pulitura e rifinitura, prima dell’impacchettamento finale, che si conclude con l’etichettatura fatta in modo tale da consentire una completa tracciabilità del prodot-
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Dall’alto. Una cozza di allevamento, momenti di pesca con le nasse al largo di Baia. Pagina successiva. Dall’alto. Una bella preda, pescatori di Santa Lucia in un’incisione ottocentesca, polpo verace.
to. Data la particolare delicatezza dei mitili, il comparto è sottoposto a rigide procedure. Come la stabulazione prevista per quelle cozze provenienti da aree di mare di zona B - ossia con acque classificate di media qualità -, e i continui controlli effettuati da parte dell’ASL e dell’Istituto Zooprofilattico di Portici. Come non concludere con una classica ‘mpepata ‘e cozze?! Non c’è bisogno di gran maestria, basta pulire bene i molluschi, farli cuocere brevemente in un tegame coperto, e poi cospargere di abbondante pepe il tutto. Nei piatti si avrà cura di non far mancare il prezioso brodo spurgato dalle stesse cozze, che sarà raccolto nella valva ad ogni boccone, con l’aggiunta di una breve spruzzata di limone. Un’operazione che si può svolgere agevolmente anche in barca, si mangia rigorosamente con le mani, senza farsi scrupolo di emettere il risucchio: tanto sarà corale di tutta la compagnia! Un’uscita di pescaturismo può essere agevolmente abbinata ad un’immersione archeologica, prendendo contatti con un’associazione o un diving center specializzato in visite guidate subacquee. Sarà interessante per gli appassionati di archeologia - con cognizioni base in materia di immersione! - andare a perlustrare quei fondali dall’atmosfera magica, scrigno di antiche testimonianze. Come il porto militare creato artificialmente dai Romani, collegando con un canale il mare al lago Lucrino, e poi questo con il lago d’Averno. Il
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complesso sistema fu chiamato Portus Julius in onore di Ottaviano, membro della dinastia Julia. In conseguenza dei movimenti bradisismici, i resti di quelle strutture sono oggi sommerse nel mare a 45 metri di profondità. Oltre ai pontili e ai depositi di Portus Julius, le escursioni sub-archeologiche sul fondale di Baia consentono di visitare i resti di diverse ville, fra cui quella che fu dei Pisoni. Dal 2002 l’area di Baia è Parco Archeologico Sommerso, che assieme a quello della Gaiola a Posillipo, è stato il primo istituito in Italia. Siamo partiti in serata, per controllare se e quanti polpi fossero caduti nelle trappole messe in mare. La pesca al polpo qui si fa con le nasse, dei grossi cesti con una piccola imboccatura. I cefalopodi vengono attratti da un saporito granchio, irresistibile esca, e poi vi restano intrappolati perché non riescono più a trovare l’uscita. Mario pesca solo polpi grandi, da almeno un paio di chili: qui ci sono molti granchi, e l’abbondanza di cibo fa sì che crescano belli grossi! Siamo arrivati alle nasse che lui ha deposto qui ieri sera: esse pendono in verticale lungo una cima disposta orizzontalmente sott’acqua. Noi ospiti siamo invitati a collaborare, e allora a turno a tirar su
nasse, una dopo l’altra. La prima... vuota, la seconda anche, la terza pure... la delusione comincia a farsi strada in noi... ma ecco che dalle nasse successive cominciano a sbucare i polpi, uno dopo l’altro, e uno più grande dell’altro. Sui tentacoli hanno una doppia fila di ventose, a riprova del fatto che si tratta di polpi veraci. Così grossi si prestano ad essere preparati all’insalata: li si fa cuocere in acqua, finché non si fanno rossi e morbidi - non troppo, però, perché devono dare quella lieve sensazione di callosità sotto i denti. Tentacoli e testa si tagliano a pezzi, si adagiano in un’insalatiera e si condiscono con aglio, olio extravergine d’oliva, prezzemolo e limone. Un piatto fresco, ideale per le calde giornate d’estate. Qualcuno chiama questo piatto “polpo alla luciana”, e non a torto: la prima versione elaborata dalle “Luciane”, le abitanti del borgo di Santa Lucia a Napoli, mogli dei pescatori, era questa in bianco. Poi verso la metà del Seicento, con l’importazione dei pomodori dall’America, in quello stesso quartiere marinaro napoletano una Luciana ebbe l’intuizione di abbinare i pomodori ai purpetielli, ossia ai polpi più piccoli e teneri, facendoli “affogare” nella loro
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I PRODOTTI DEL TERRITORIO COSTA FLEGREA Melannurca Campana Igp
In alto, a sinistra. Veduta di Ischia e Procida da Capo Miseno. A destra. Il porto di Procida. Al centro e in basso. Vedute della Corricella a Procida.
acqua di cottura, al semplice condimento di pomodori, aglio, olio, olive, capperi e una spruzzatina di prezzemolo fresco in conclusione. Nacque così una ricetta che strabilia ancora oggi, e che ha mantenuto nel nome anche la sua origine geografica. Non possiamo qui dimenticare di citare ‘o brodo ‘e purpe, che si ricava dalla cottura dei polpi in acqua
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salata (che in origine era quella di mare!) in grosse caldaie: ricchissimo di pepe o peperoncini, se ne versa a mestolate in ogni tazza, con una ranfetella (un tentacolo), dove sono già disposte delle freselle - pane biscottato -, pronte a gonfiarsi della bevanda bollente e piccante, che inebria con quel suo forte profumo di mare. A Napoli, a via Foria e a Porta Capuana c’è ancora qualcuno che perpetua questo rito secondo le più antiche usanze napoletane, magari in condizioni igieniche anch’esse alquanto antiche... ma, con le dovute cautele, pur questo contribuisce al suo fascino e al suo sapore! La terra che sa di zolfo continua anche oltre Capo Miseno, e si estende su Procida e Ischia. Che anche qui il territorio sia vulcanico lo testimoniano ancora oggi conformazione di baie, monti e rocce. In barca siamo passati davanti a Vivara, un’isoletta minuscola posta fra Procida e Ischia. Dell’ex vulcano, si distingue chiaramente la forma del cratere nella mezzaluna di superficie dell’isola; scam-
pata miracolosamente alle cementificazioni, Vivara è da più di trent’anni un’area naturalistica, e dal 2007 riserva integrale del Parco Marino Regno di Nettuno, di cui fanno parte - se pur con limiti meno ferrei perché zone B e C anche Ischia e Procida. Il dio del mare protegge oggi le splendide acque azzurre e turchesi, la terra dai colori degli arbusti di mirto, del lentisco, delle ginestre di questo meraviglioso fazzoletto di terra vulcanica. Prima di attraccare al porticciolo di Procida per assaggiare in un ristorante il nostro bottino di pesca, siamo passati davanti alla Corricella, l’abitato dei pescatori, case aggrappate alla roccia tufacea, oltre che l’una sull’altra, in un puzzle inimmaginabile; ogni casetta è di un colore diverso, tutte in tinte pastello, giallo, rosa, azzurro, verde, così che i pescatori potessero riconoscere ciascuno la propria casa dal mare. Uno scenario ideale per un film, e più d’uno v’è stato ambientato: i turisti vengono qui a cercare il paese de Il Postino, la pellicola che
La Melannurca Campana è fra i prodotti che meglio si possono fregiare della propria tipicità: essa è infatti prodotta pressoché esclusivamente in Campania e manifesta caratteristiche uniche nel panorama delle mele presenti sul mercato italiano. Definita, non a torto, la “regina delle mele”, essa è da sempre conosciuta soprattutto per la spiccata qualità dei suoi frutti, dalla polpa croccante, compatta, bianca, gradevolmente acidula e succosa, con aroma caratteristico e profumo finissimo, una vera delizia per gli intenditori. La Melannurca Campana rivendica da tempi immemori anche virtù salutari: altamente nutritiva per notevole con-
tenuto in vitamine e minerali, è ricca anche di fibre, regola le funzioni intestinali, ma è anche diuretica, particolarmente adatta ai bambini ed agli anziani. Anche per l’eccezionale rapporto acidi/zuccheri, le sue qualità organolettiche non trovano riscontro in altre varietà di mele. Uno degli elementi di tipicità che certamente caratterizzano questo prodotto è l’arrossamento a terra delle mele nei cosiddetti “melai”. Essi sono costituiti da piccoli appezzamenti di terreno su cui sono stesi strati di materiale soffice vario. Durante la permanenza nei melai i frutti sono disposti esponendo alla luce la parte meno arrossata, ven-
gono poi periodicamente rigirati ed accuratamente scelti, scartando quelli intaccati o marciti. È proprio questa pratica, volta a completare la maturazione dei frutti, ad esaltare le caratteristiche di qualità della Melannurca Campana, conferendole quei valori di tipicità che nessun altra mela può vantare. Tradizionalmente coltivata nell’area flegrea, spesso in aziende di piccola dimensione e talora in promiscuità con ortaggi ed altri fruttiferi, la Melannurca Campana si è andata diffondendo nel secolo scorso in tutte le aree frutticole della regione soprattutto nell’alto casertano. Vino dei Campi Flegrei Doc Vino di grande storia e tradizione, deriva da uno dei più apprezzati prodotti
ha reso immortale Massimo Troisi. Qui si svolgono anche intense manifestazioni religiose legate alla passione di Cristo, in cui la tradizione marinara è particolarmente presente. Ma Procida è innanzitut-
to L’Isola di Arturo, quella che ha straducce solitarie, chiuse fra muri antichi, oltre i quali si estendono frutteti e vigneti che sembrano giardini imperiali. In primavera, le colline si coprono di ginestre. Così
enologici dell’antichità, il Falerno Gaurano, lodato da Plinio il Vecchio e, per la sua lunga storia, inserito nella “carta dei vini” della corte di Napoli e di quella papale. La zona di produzione è tra le più ricche per cultura e bellezze naturalistiche, con scorci panoramici che non trovano uguali; i terreni, che derivano da un incessante succedersi di eruzioni vulcaniche e che, oggi, si adagiano su un complesso di crateri spenti, sono ricchi di tufi, ceneri, lapilli, pomici, microelementi che conferiscono alle uve e ai vini sapori e aromi del tutto originali e permettono la coltivazione della vite su piede franco. La Falanghina, antico vitigno campano di grande pregio, da cui si ottengono i tipi bianchi, ebbe in questa area la sua prima diffusione. I tipi rossi si ottengono invece dai migliori vitigni campani, come il Per ‘e palummo e l’Aglianico. Il clima, il terreno, i vitigni, la cultura e la storia vitivinicola, le basse rese ad ettaro, la presenza di aziende enologiche, tecnologicamente all’avanguardia, ma rispettose della tradizione; tutto ciò si traduce in vini di assoluta eccellenza. Il disciplinare della Doc contempla le seguenti denominazioni: bianco, rosso, Falanghina, Piedirosso (o Per ‘e palummo), Falanghina spumante, Piedirosso (o Per ‘e palummo) passito.
Arturo la descrive nel celebre libro di Elsa Morante, scritto ed ambientato qui nei primi anni Cinquanta: un parco letterario è stato dedicato all’autrice nei favolosi “Giardini di Elsa”.
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In alto, a sinistra. Terra Murata a Procida. A destra. Processione del Venerdì Santo a Procida.
Una posizione isolata, mare tutt’intorno, roccia alta ed aspra: la conformazione perfetta per essere destinato a fortezza, e questo è sempre stato, infatti, lo scoglio in pietra lavica che sorge a Ischia Ponte. Dall’epoca greca fino alla metà del Quattrocento, quando Alfonso d’Aragona rifece il vecchio mastio, costruì il ponte di congiunzione con l’isola maggiore e poderose mura di fortificazione tutt’intorno. Queste ultime servirono da riparo a tutta la popolazione di Ischia ai tempi delle incursioni piratesche. In tutti gli acquerelli e le stampe del Settecento, intorno al castello di Ischia Ponte si vede un denso abitato che ora non c’è più: navi inglesi cannoneggiarono a lungo, nel 1809, la fortezza ischitana in cui si erano asserragliati i francesi di Gioacchino Murat. Per fortuna il Castello Aragonese è ancora là, oggi aperto al pubblico. La cupola settecentesca della Chiesa dell’Immacolata domina la fortezza, in contrapposizione al mastio. Fumarole, sorgenti termali, fanghi dai poteri curativi: tutto questo è il frutto dell’attività vulcanica oramai evidente, per fortuna, esclusivamente in queste manifestazioni “pacifiche” - che ancora caratterizza il sottosuolo ischitano. I Romani, amanti dei bagni termali, li convogliarono, e ancora oggi a Lacco Ameno, Forio, Maronti, ovunque su quest’isola ci si può immergere in acque e vapori, e goderne gli effetti terapeutici, o semplicemente benefici. L’AGCI Pesca è attivamente presente su Ischia, e in particolare dedica molta attenzione ai giovani, dando al pescaturismo il senso
più strettamente legato all’educazione, alla trasmissione di una tradizione antica quale è la pesca, i segreti di chi trascorre una vita in mare, ma anche l’amore per il pesce come prodotto alimentare fra i più sani. Frequenti sono le battute di pescaturismo organizzate con scolaresche, anche grazie alla disponibilità di diverse barche di una certa capienza, che possono uscire anche in piccole flotte. Un biologo a bordo fornisce spiegazioni sulle specie ittiche, le rispettive caratteristiche, e risponde alle domande dei ragazzi, che in un’esperienza del genere trovano sempre grande interesse. Sant’Angelo è un paesino di pescatori, il cui nome deriva da un monastero che in epoca medioevale sorgeva sull’isolotto che fronteggia il borgo: l’Arcangelo è da allora il protettore del villaggio, cui a settembre vengono dedicati grandi festeggiamenti, processioni per le strade e per mare, a bordo di un’imbarcazione, per invocarne la benedizione su case e barche, ossia su entrambi i luoghi di vita ed azione degli abitanti. Dal porticciolo di Sant’Angelo ci imbarchiamo nel tardo pomeriggio a bordo di uno scafo dell’AGCI per andare a pesca di totani. Ischia ha i fondali giusti, profondi e sabbiosi, in cui ne vivono tantissimi. Verso il tramonto questi pelagici si avvicinano a riva, e i pescatori ne approfittano. Le lunghe lenze sono pronte, le esche pure; i filetti di acciuga sotto sale, sciacquati, piacciono da morire (è il caso di dire!) ai totani. Ma nascondono un’insidia: la totanara, un tondino di metallo che viene legato alla lenza, alla cui estremità è un ciuffo di robusti ami. Quando abbiamo
raggiunto un punto dal fondale abbastanza profondo, ci fermiamo, ma la barca non viene ancorata, segue la lieve corrente. Ognuno cala la sua lenza, fino a toccare il fondo, poi la tiriamo un po’ su con movimenti lenti. Ancora giù e poi su, più volte. Finché la fortuna del principiante non bacia uno di noi, che avverte uno strappo. La nostra guida-pescatore Massimo consiglia di tirare con movimenti veloci e decisi, altrimenti il totano adescato potrebbe liberarsi. La preda è finalmente in superficie, ma a questo punto interviene lui, bisogna essere rapidi nei movimenti; con il guadino lo afferra quando appare sul pelo dell’acqua, poi nel tirarlo fuori lo volta con il sifone dall’altro lato: sapeva già, l’esperto pescatore, che sarebbe partito un grosso getto d’acqua e inchiostro nero. Immediatamente, la nostra prima preda va nel secchio,
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Pagina precedente. Il Castello Aragonese di Ischia. In questa pagina. In alto. Veduta di Sant’Angelo ad Ischia. Al centro. Preparazione dei palamiti. Sotto. Disegno di un totano.
I PRODOTTI DEL TERRITORIO ISCHIA E PROCIDA Vino Ischia Doc I vini di Ischia sono stati tra i primi vini italiani a potersi fregiare della Denominazione di origine controllata; risale infatti al 1966 il riconoscimento ministeriale, primo in Campania. La zona di produzione coincide con l’isola di Ischia, dove la vite fu introdotta dagli antichi Greci, provenienti dalla Calcide. Proprio per la bontà dei suoi vini, i Romani la denominarono Enaria, terra del vino. In alcune aree la vite è ancora allevata a curruturu, forma arcaica strettamente vincolata alla tradizione: tradizione che in questo caso è garanzia di qualità superiore. Il vino Doc si ottiene da uve Biancolella, Forastera e Per ‘e palummo, allevate solo in Campania e sapientemente vinificate sull’isola da moderne strutture enologiche. Il Disciplinare impone vincoli rigorosi a tutela della qualità del prodotto; la produzione di uva ad ettaro non può supera-
re i 90-100 quintali di uva e i tre chili per ceppo. Per tutti i vini è inoltre previsto un affinamento in bottiglie da effettuarsi obbligatoriamente nell’isola di Ischia. Le denominazioni ammesse sono: bianco, rosso, Biancolella, Forastera, Piedirosso (o Per ‘e palummo), Piedirosso (o Per ‘e palummo) passito, bianco spumante. Le problematiche della viticoltura ischitana trascendono la dimensione prettamente agronomica per assumere significati storici, geografici e socioeconomici. La presenza della viticoltura ad Ischia non riveste importanza solo produttiva, ma assume connotazione di tutela paesaggistica e di salvaguardia etnico-culturale. Costi di produzione altissimi e tenacia appassionata della conduzione della vigna in situazioni orografiche difficili, fanno della produzione del vino ad Ischia un’attività quasi “eroica”. Limone di Procida L’isola di Procida, nel golfo di Napoli è tuttora colorata da numerosi e caratteristici alberi di limoni, che producono tipici frutti di pezzatura medio-grande con buccia a grana grossa di colore giallo chiaro caratterizzata da un albedo, lo strato bianco e spugnoso che si trova sotto la scorza gialla, di notevole spessore. Per questa loro peculiarità,
dovuta in parte anche all’ambiente pedoclimatico, vengono detti anche “limoni pane”. Il loro profumo è intenso e il succo gradevolmente acido. Il limone di Procida viene utilizzato per la realizzazione di bevande e per aromatizzare ricette locali, anche se i palati più fini lo gustano anche a fette, come dessert, con o senza l’aggiunta di un cucchiaio di zucchero. La coltivazione di questo limone a livello familiare è sicuramente secolare ed è da attribuire alla spiccata vocazione degli abitanti alla navigazione dove, come è noto, la presenza di frutti di limone a bordo assumeva carattere fondamentale per la tutela della salute degli equipaggi.
seguita, a breve, da molte altre. Passiamo davanti a Napoli, da lontano si riconoscono la collina di Posillipo, poi quella del Vomero pronunciata dal Castel Sant’Elmo, il poggio Echia su cui tutto cominciò ai tempi della greca sirena Partenope; giù, a pelo d’acqua, davanti Santa Lucia, si innalza un’altra fortezza, quella di Castel dell’Ovo, legato ad antiche leggende di un uovo nascosto dal poeta Virgilio nelle fondamenta. Approdiamo alle falde del Vesuvio, facciamo tappa al Granatello, il porticciolo di Portici su cui si affaccia l’imponente villa settecentesca d’Elboeuf. Non lontano da qui è il Palazzo Reale, fatto erigere nel 1738 da re Carlo III di Borbone come dimora di villeggiatura per sé e per la regina. Un’ala di questa reggia fu espressamente adibita ad ospitare le meraviglie artistiche che proprio in quegli anni venivano fuori dagli scavi archeologici di Pompei ed Ercolano. Statue, bassorilievi, mosaici, affreschi, tutto ciò che di più interessante ne veniva estratto, entrava nella collezione privata del re. Oggi quelle meraviglie sono esposte al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. E con il loro villeggiare ai piedi del Vesuvio, il re e la regina avviarono una moda fra i nobili dell’epoca: sorsero così oltre cento ville, disseminate nei dintorni della strada per le
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Calabrie, in una posizione dalla quale si gode una vista mozzafiato sull’intero golfo di Napoli, da Ischia a Capri. Tutte in stile tardo barocco, rococò e, successivamente anche neoclassico, in uno sfavillio di scaloni, giardini e terrazze: da tanta sontuosità concentrata in un sì breve raggio, nacque la definizione di Miglio d’Oro per quel tratto di costa che si estende da San Giovanni a Teduccio a Torre del Greco. Ci accostiamo all’approdo borbonico di Ercolano, costruito affinché il re avesse un accesso diretto alla splendida Villa Favorita, residenza che Carlo volle dedicare a Maria Amalia di Sassonia, sua moglie. Non lontano da qui sono le antiche officine ferroviarie di Pietrarsa, oggi prezioso Museo Ferroviario: qui terminava il percorso della prima strada ferrata d’Europa, poco più di sette chilometri da Napoli a Portici che nel 1839 si percorrevano in meno di dieci minuti, allo sbuffare di una locomotiva inglese. Una rivoluzione! A volerne la realizzazione fu Ferdinando II, il pronipote di Carlo III. Fra le tante ville, una è stata resa celebre dal fatto di essere stata abitata, nell’800, da Giacomo Leopardi nell’ultimo periodo della sua vita. Qui su l’arida schiena/Del formidabil monte/Sterminator Vesevo,/La qual null’altro allegra arbor né
Pagina precedente. Al centro. Veduta di Napoli dal mare. In basso. L’approdo del Granatello in una gouache ottocentesca. In questa pagina. Dall’alto. La reggia di Portici, la reggia di Portici in una gouache ottocentesca, le officine di Pietrarsa.
I PRODOTTI DEL TERRITORIO COSTA VESUVIANA Pomodorino del piennolo del Vesuvio Dop Il pomodorino vesuviano è uno dei prodotti più tipici ed antichi dell’agricoltura campana, tanto da essere perfino rappresentato nella scena del tradizionale presepe napoletano del ‘600. L’aspetto peculiare di tipicità che caratterizza i pomodorini vesuviani è l’antica pratica di conservazione del prodotto “al piennolo”, cioè legando fra di loro alcuni grappoli o “scocche” di pomodorini maturi, fino a formare un grande grappolo che viene sospeso in locali areati, assicurando così l’ottimale conservazione del prezioso raccolto fino al termine dell’inverno.
In alto. Pesca sulla costa vesuviana. Al centro. Il porto di Torre del Greco. In basso. Si riparano le reti.
fiore,/Tuoi cespi solitari intorno spargi,/Odorata ginestra,/Contenta dei deserti. Da questa intensa lirica dedicata alla ginestra, l’arbusto che in primavera tinge di giallo le pendici del Vesuvio, Villa Ferrigni fu ribattezzata Villa delle Ginestre. Anche qui la pesca costituisce una tradizione radicata, e come potrebbe essere altrimenti? Sulle piccole paranze dell’UNCI che salpano all’alba da Torre Annunziata, si può assistere allo strascico su piccola scala, e poi alla vendita sui banchi del mercato ittico di Torre Annunziata che, nel primo pomeriggio, riapre per accogliere i pescherecci che come il nostro, tornano intorno alle quattordici. Il mercato è a ridosso dell’approdo, il pesce passa direttamente dall’imbarcazione al banco di vendita. Davvero interessante vedere in funzione un mercato come questo. Il prossimo è nella vicina Torre del Greco, sorto di recente nel porto, grazie a finanziamenti POR. Anche qui sono allevamenti di cozze che si possono visitare in un’esperienza di pescaturismo fatta da Torre del Greco, nel cuore del golfo di Napoli. Aggirandosi tra i filari di mitili, a Punta Quattro Venti fuori Villa Favorita, si vedono anche gli impianti per l’ostricoltura, realizzati in via sperimentale dalla Facoltà di Biologia Marina dell’Università di Napoli Federico II. L’impiego di nuove tecniche, come il cavo di canapa long line cui è applicato un collante speciale per favorire l’accrescimento
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Nel corso dei mesi il pomodorino, pur perdendo il suo turgore, assume un sapore unico e delizioso: è impossibile non trovare un buon napoletano che non utilizzi il pomodorino del piennolo nel tradizionale menù natalizio che prevede la preparazione degli spaghetti a vongole. Il Pomodorino del Vesuvio viene apprezzato sul mercato sia allo stato fresco, venduto appena raccolto sui mercati locali, che nella tipica forma conservata in appesa o “al piennolo”, oppure come conserva in vetro, secondo un’antica ricetta familiare dell’area, denominata “a pacchetelle”, anch’essa contemplata nel Disciplinare di produzione. L’area tipica di produzione coincide con l’intera estensione del complesso vulcanico del Somma-Vesuvio, includendo le sue pendici degradanti sino quasi al livello del mare. Nel suo ambiente di elezione, le falde del Vesuvio, la qualità del pomodorino raggiunge punte di eccellenza. Proprio
delle neonate ostriche, ha dato buoni risultati. Peccato però, che i mitili presenti nelle stesse acque tendano a prendere il sopravvento! Lungo questo litorale, reso nero dalle sabbie laviche che ne ricoprono spiagge e fondali marini, oggi si vede un affastellamento di costruzioni, da quelle antiche e rurali, alle più prosaiche opere in cemento che hanno invaso il territorio a partire dagli anni ’50, dietro le quali le ville settecentesche spesso spariscono alla vista. Questi fondali, in altri tempi, videro l’ap-
la ricchezza in acidi organici determina la vivacità o “acidulità” di gusto, che è il carattere distintivo del Pomodorino del Vesuvio. Ciò, oltre a derivare da una peculiarità genetica, è indice di un metodo di coltivazione a basso impatto ambientale, con ridotto ricorso a fertilizzanti e ad acque d’irrigazione, che rende tale coltura particolarmente adatta ad un’area protetta, quale quella del Parco Nazionale del Vesuvio. Albicocca vesuviana
mercato fresco per le loro caratteristiche organolettiche, soprattutto per sapidità e dolcezza. Si distinguono dal punto di vista estetico per la presenza di un sovraccolore rosso sfumato o punteggiato sulla base giallo-aranciata della buccia di una buona parte di esse. Ma sono particolarmente apprezzate anche dall’industria di produzione dei succhi e dei nettari proprio per le caratteristiche di spiccata dolcezza della polpa e per l’idoneità alla trasformazione dei frutti.
Una delle prime testimonianze precise della presenza di albicocchi in Campania è dovuta a Gian Battista Della Porta, scienziato napoletano, che, nel 1583, nell’opera Suae Villae Pomarium citava la presenza nell’area vesuviana di “crisomele” pregiate. Da questo antico termine deriverebbe, quindi, il napoletano “crisommole” ancora oggi usato per indicare le albicocche. Nell’800 i botanici del regno borbonico riconoscono nell’albicocco l’albero più diffuso nell’area napoletana e precisamente in quella vesuviana “... dove viene meglio che altrove e più maniere se ne contano, differenti nelle frutta ...”. Evidentemente vi era già allora una discreta varietà di ecotipi che offrivano frutti anche molto diversi, dei quali ancor oggi se ne contano oltre 50 nell’area vesuviana. I più diffusi sono: Ceccona, Palummella, San Castrese, Vitillo, Fracasso, Pellecchiella, Boccuccia Liscia, Boccuccia Spinosa, Portici. La coltivazione è attualmente estesa a tutto il territorio dell’area vesuviana, dove infatti è nota la particolare fertilità dei terreni, che, essendo di natura vulcanica, sono ricchi di minerali e in particolare di potassio, elemento noto per la sua influenza sulla qualità organolettica dei frutti e dei vegetali in genere, e che, in questo caso contribuisce a conferire alle albicocche un gradevole e caratteristico sapore. Le albicocche del Vesuvio sono apprezzate sul
Vino Vesuvio Doc Il vino dell’area vesuviana è un prodotto che entra a pieno titolo nella storia dell’enologia nazionale ed internazionale: nota ed affermata in tutto il mondo, la Lacryma Christi, ha assunto infatti, nel corso dei secoli, un valore quasi leggendario. Già Marziale, per celebrare questo vino, raccontava che “Bacco amò queste colline più delle native colline di Nisa“. Qui l’uva ha un sapore e un profumo inconfondibile. La fama di questo meraviglioso angolo di mondo e del suo vino ha fatto fiorire miti e leggende: il nome deriverebbe dal fatto che “Dio, riconoscendo nel Golfo di Napoli un lembo di cielo asportato da Lucifero, pianse e laddove caddero le lacrime divine sorse la vite del Lacryma Christi“. Considerata la natura straordinaria del territorio e del suo terreno, ricchissimo in cenere frammista a lava e lapilli, era quasi scontato che nel vino si sprigionasse tanta forza della natura attraverso l’espressione di aromi e sapori ineguagliabili. La zona di produzione comprende le aree a vocazione viticola di quindici comuni localizzati sulle pendici del Vesuvio, dove i vigneti ospitano varietà autoctone, da sempre coltivate in questa zona, come il Piedirosso, il Caprettone, lo Sciascinoso, la Falanghina. Il disciplinare prevede tre tipi di Lacryma Christi: il bianco, il rosso e il rosato.
prodo delle coralline, le barche che battevano il Mediterraneo alla ricerca dei coralli più pregiati, e quella presenza ha fatto sviluppare l’arte di lavorarlo, così come quella del cesellare cammei dalle conchiglie. Il Museo del Corallo a Torre del Greco testimonia di quest’antica tradizione, che grazie a mani fatate ancora si perpetua, sebbene di coralli non vi sia più traccia nel nostro golfo. Su queste spiagge sono numerosi i cantieri che costruiscono barche da diporto, laddove un tempo
lavoravano di sega e pialla i maestri d’ascia, alla costruzione dei gozzi. Questa tradizione sopravvive in pochi sporadici episodi, anche perché la domanda è sensibilmente scesa, a vantaggio delle moderne imbarcazioni in vetroresina, più economiche ma... Gli arsenali più grossi sono, però, quelli di Castellammare di Stabia: si riconoscono da lontano i grossi cantieri che producono traghetti, ma che nacquero ad opera di quello stesso Ferdinando, che da qui fece varare i suoi vascelli.
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O molto illustre Ulisse, (...) su via, qua vieni,/Ferma la nave; e il nostro canto ascolta(…) Voce, che inonda di diletto il core,/E di molto saver la mente abbella. Così cantarono le sirene a Odisseo, e si narra che fu proprio lungo queste coste che il re di Itaca si fece legare all’albero della sua nave per resistere al canto ammaliante e fatale. Sono diversi i litorali che si contendono lo svolgimento della celebre scena dell’Odissea, ma quella di Sorrento è oramai per definizione la Costa delle sirene. A dare il benvenuto in Costiera Sorrentina è Vico Equense che, dall’alto del promontorio su cui si erge, guarda in giù, su un mare che i fondali bianchi di calcare rendono smeraldino. E la cattedrale in punta allo strapiombo, a godersi lo spettacolo più bello. Una penisola costituita dunque da rocce calcaree, ma su cui il vento ha depositato, millenni orsono, cumuli di polveri vulcaniche trasportandole fin dai Campi Flegrei; il tempo li ha solidificati e trasformati in un enorme banco tufaceo, quel pianoro su cui poggiano le città di Meta, Piano, Sant’Agnello e Sorrento. La piattaforma cade a picco sul mare, denotando fortemente il paesaggio, e lo contraddistingue da quello ben più aspro della vicina costa amalfitana. Conosci tu il paese dove fioriscono i limoni?/Nel verde fogliame splendono arance d’oro/Un vento lieve spira dal cielo azzurro/Tranquillo è il mirto, sereno l’alloro. Questa lirica di J. Wolfgang Goethe è la classica rappresentazione della nostalgia di molti artisti nordeuropei verso l’Italia, quelli che fra Sette e Ottocento ebbero il nostro paese come meta irrinunciabile nel loro Grand Tour, un viaggio obbligatorio ai fini della loro formazione culturale. Fra tappe culturali a Napoli, Pompei, e a Paestum, Goethe si concesse anche un breve soggiorno a Sorrento, ospite del leggendario Hotel du Tasso. Oltre a lui, questa costa ammaliò innumerevoli artisti europei: lord Byron, Scott, Ibsen, fu immortalata in stampe e incisioni, poi in fotografie d’inizio secolo dai fratelli Alinari, e infine, nel celebre film Pane, amore e… da Vittorio De Sica e Sofia Loren. Partendo per una battuta di pesca, lo sguardo spazia sulla costa sorrentina, ne riconosce, dal pelo dell’acqua, le terrazze dei più rinomati alberghi, lassù in alto, e le vecchie case dei pescatori giù a Marina Grande; di fronte il golfo, il Vesuvio, Napoli, Ischia. Superato il
Capo di Sorrento si scorgono gli imponenti resti di un’antica costruzione, che quasi arrivano allo specchio d’acqua marina: si tratta di una delle residenze di vil-
leggiatura dell’antica aristocrazia romana. La villa sfruttava anche un bacino naturale come approdo privato per le barche, i cosiddetti “Bagni della Regina Giovanna”.
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Pagina precedente. Veduta di Vico Equense In questa pagina. Dall’alto. Sorrento in una gouache dell’800, veduta di Sorrento, i Bagni della Regina Giovanna.
I PRODOTTI DEL TERRITORIO COSTIERA SORRENTINA E CAPRI Olio Penisola Sorrentina Dop La coltivazione dell’olivo in penisola sorrentina risale a tempi antichissimi. Nell’intera penisola sono stati rinvenuti resti di santuari minori eretti dai Romani e dedicati a Minerva, con il ritrovamento anche di recipienti utilizzati per l’offerta dell’olio. Da allora, l’olivo non ha più abbandonato questi luoghi e, insieme agli agrumi e alla vite, domina e caratterizza l’intero paesaggio. L’Olio extravergine di oliva Dop Penisola Sorrentina presenta, a prima vista, un bel colore giallo paglierino, più o meno intenso, con riflessi verdognoli; a volte è velato. All’esame olfattivo rivela notevole armonia aromatica, con un delicato sentore di fruttato di oliva e con fini e piacevoli note di erbe aromatiche. L’acidità non supera mai il valore di 0,80%. L’amaro ed il piccante, nelle giuste gradazioni, si amalgamano perfettamente garantendo all’olio il giusto equilibrio; gli odori mediterranei del rosmarino si esaltano nell’abbinamento con il pomodoro e i piatti che ad esso si richiamano. Ottimo sulle grigliate di pesce e di verdure. Originale e particolarmente gradevole il suo abbinamento con le insalate di limoni, ma soprattutto, ardita novità proposta da un grande chef, con il sorbetto e la delizia al limone, dolci tipici di Sorrento. Le particolari condizioni orografiche, che impongono costosi terrazzamenti, il clima tipicamente mediterraneo, la natura vulcanica del terreno, rendono l’ambiente della penisola decisamente originale e tipico, come tipico è l’olio che vi viene prodotto. L’Olio Penisola Sorrentina Dop si ottiene dalla molitura delle olive Ogliarola o Minucciola, da sole o congiuntamente, per non più di un terzo, ad altre varietà. Pomodoro di Sorrento
Il Pomodoro di Sorrento, coltivazione tradizionale di tutti i comuni della Costiera Sorrentina, è un pomodoro di grossa pezzatura, dalla forma rotondeggiante, particolarmente costoluto, e di colore rosso chiaro tendente al rosa con
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sfumature verdi alla raccolta. Secondo gli esperti esso è un ecotipo della famosa cultivar “Cuore di bue”, intensamente coltivata, soprattutto in Liguria, per la sua subacidità. L’ecotipo di Sorrento ha una polpa deliziosa, carnosa e compatta dal sapore dolce e delicato. Secondo alcuni questo ecotipo sarebbe arrivato nella zona attraverso il commercio degli inizi del secolo con l’America, quando nell’esportare i limoni, i commercianti ne avrebbero acquistato il seme. Questa ipotesi è avvalorata dal fatto che la zona di coltivazione coincide con quella in cui risiedevano gli armatori esportatori di limoni, nella quale sono state riscontrate anche altre piante estranee alla vegetazione locale, quasi certamente importate nello stesso periodo dei pomodori. La coltivazione di questa varietà si è poi diffusa ad altri comuni vesuviani e dell’agro gragnanese, dove però il prodotto non ha le stesse pregiate caratteristiche organolettiche. Oggi il Pomodoro di Sorrento è molto utilizzato nella cucina campana, soprattutto crudo, come ingrediente di gustose insalate estive, prima fra tutte la famosa caprese, nella quale è accompagnato da olio, basilico e mozzarella di bufala.
bianco crema dal sapore gradevolissimo e può facilmente essere estratto integro, cosa che rende questa noce particolarmente apprezzata sia dall’industria dolciaria che dai consumatori. Inoltre il guscio è liscio, sottile, fragile e di colore chiaro. La raccolta si concentra nel mese di settembre con una resa estremamente variabile. Il prodotto trasformato della Noce di Sorrento più famoso è il nocillo o nocino, rosolio antichissimo, di colore scuro e gradazione alcolica molto elevata, intorno ai 40°, dalle spiccate proprietà digestive e dal prelibato sapore amaro. L’ingrediente principale da cui è costituito, le noci verdi, sono tradizionalmente raccolte e tagliate alla vigilia del giorno di San Giovanni, il 23 giugno.
Provolone del Monaco
Latticini di Sorrento e di Agerola Accanto al mitico Provolone del Monaco, la penisola sorrentina presenta un paniere di altri prodotti caseari di pregio e di fama internazionale, che vanno dal fiordilatte ai burrini e ad altri latticini, già celebrati ai tempi di Galeno che parlava di località “il cui latte è molto salutare”.
Noce di Sorrento L’antica presenza del noce in Campania è testimoniata dal ritrovamento, negli scavi di Pompei, di alberi di noce carbonizzati simili a quelli presenti oggi nella regione. Il clima ed il fertile suolo cam-
pano, particolarmente favorevoli a tale coltura, ne hanno favorito l’ampia diffusione nelle aree pianeggianti e collinari. La varietà più pregiata è la “Sorrento”, originaria della penisola sorrentina, nell’area di Vico Equense, che col tempo ha dato vita a un’ampia gamma di biotipi tutti commercialmente noti come “Noce di Sorrento”. Per l’assoluto valore commerciale della varietà, tuttora la più pregiata a livello nazionale, l’area di maggiore produzione si è progressivamente spostata dalla zona di origine, ove pure il noce di Sorrento è ancora coltivato, localizzandosi nel napoletano, in particolare nella pianura acerrana-nolana e nell’area flegrea, ma esso è presente anche in altre aree come il casertano, la Valle Caudina ed i Picentini. Commercialmente esistono due ecotipi della cultivar di Sorrento, che si differenziano nella forma: l’uno è allungato e regolare, appuntito all’apice e smussato alla base, l’altro è più piccolo e rotondeggiante. Le valve, in entrambi i casi, sono lisce e sottili; il gheriglio è
verdure sott’olio e alla brace. Altri latticini tipici sono i burrini, le caciottine e i caprignetti, a base di latte caprino aromatizzati e conservati sotto’olio.
Il Fiordilatte è un formaggio fresco a pasta filata che è prodotto utilizzando esclusivamente latte vaccino di altissima qualità, proveniente da una o più mungiture consecutive e che viene consegnato crudo al caseificio entro 24 ore dalla prima mungitura. La lavorazione è quella comunemente utilizzata per la mozzarella vaccina, dalla quale si discosta per forma e consistenza della pasta. La forma è variabile, tondeggiante anche con testina, nodino, treccia e parallelepipedo. La sua consistenza è morbida e rilascia al taglio un liquido lattiginoso, omogeneo e caratteristico; il suo sapore è molto fresco, di latte delicatamente acidulo. Altro tipico formaggio a pasta filata è l’antichissimo Caciocavallo di Sorrento, che rispetto agli altri omologhi del Mezzogiorno è stagionato parzialmente e consumato a pasta semidura. Nella penisola sorrentina si produce anche un formaggio che somiglia molto al caciocavallo ed è il Bebè di Sorrento. Il bebè prende il nome dalla sua forma, che ricorda un neonato in fasce ed è un gustoso formaggio di latte vaccino a pasta semi-cotta e filata, di colore molto chiaro. Un’altra produzione tipica della zona è la Caciottina canestrata di Sorrento, formaggio dal sapore fresco e delicato, che sa molto di latte, ed è l’accompagnamento ideale per pomodori e
richiesto l’intervento di due persone. Il latte impiegato è quello di vacca, specialmente quelle di razza agerolese, utilizzato in quantità non inferiore al 20%. La qualità del latte della vacca agerolese, razza rustica locale sintesi di tre differenti patrimoni genetici, è eccezionale, ma essendo la resa della mungitura molto bassa, non la si può allevare soltanto in vista della produzione lattiera. Al contrario, se il poco latte prodotto rispetto ad altre razze è di qualità elevata, impiegarlo per la produzione di un formaggio di nicchia pregiato come il Provolone del Monaco Dop, fa sì che la sopravvivenza della razza agerolese possa diventare un’opportunità economica remunerativa diventando un elemento imprescindibile per la sopravvivenza del Provolone del Monaco Dop. Limone di Sorrento Igp
Tra i più celebri e tipici formaggi della Campania, il Provolone del Monaco è alla vigilia dell’ambito riconoscimento comunitario costituito dalla Dop, che consentirà finalmente di poter certificare il vero prodotto che può fregiarsi di questa denominazione proveniente esclusivamente dal territorio di produzione previsto dal Disciplinare. La tesi più accreditata sulle origini della denominazione Provolone “del Monaco” si riferisce al fatto che i casari che sbarcavano all’alba nel porto di Napoli, con il loro carico di provoloni provenienti dalle varie località della penisola sorrentina, per proteggersi dal freddo e dall’umidità, erano soliti coprirsi con un mantello di tela di sacco, che era simile al saio indossato dai monaci.
Il Provolone del Monaco è ottenuto dalla lavorazione del latte crudo di ogni singola mungitura o al massimo di due mungiture successive. Il metodo tradizionale prevede l’impiego di caglio di capretto. Dalla coagulazione del latte crudo, si ottiene la cagliata, che viene rotta fino alla dimensione di piccoli grani, quindi si passa alle operazioni successive di scottatura e filatura. La filatura è alquanto laboriosa, in alcuni casi, per attorcigliare la cagliata, è
Il Limone di Sorrento, conosciuto in letteratura anche come “Limone di Massa” o “Ovale di Sorrento”, è un prodotto di eccellenza per la sua categoria, noto anche a livello internazionale sia per il mercato dei limoni freschi che per la produzione del famoso “limoncello”. È un limone di dimensioni medie, di
forma ellittica e con polpa di color giallo paglierino, particolarmente succulenta e il cui succo è caratterizzato da elevata acidità e alto contenuto di vitamina C e sali minerali. La buccia, di un bel color giallo citrino, è di medio spessore ed è molto profumata per la ricca presenza in oli essenziali. Le caratteristiche di qualità del Limone di Sorrento Igp sono esaltate dalle particolari tecniche di produzione, ancora legate alla coltivazione delle piante sotto le famose “pagliarelle”, stuoie di paglia che vengono appoggiate a pali di sostegno di legno, solitamente di castagno, a copertura delle chiome degli alberi, al fine di
proteggerli soprattutto dal freddo e dal vento e per conseguire anche un ritardo della maturazione dei frutti, che rappresenta uno dei principali elementi di tipicità di questa produzione. In cucina, il Limone di Sorrento è consumato in tantissime varianti: al naturale, oppure per preparare spremute e succhi o per aromatizzare dolci, marmellate e bevande. Nei ristoranti ed alberghi dell’area di produzione, che comprende anche Capri, i migliori cuochi si sono inventate ricette d’autore in cui il limone sorrentino è una costante in tutte le pietanze, dall’antipasto al dolce, fino al caffè. È ingrediente obbligato in tutti i primi piatti di “mare” e ovviamente accanto al pesce, che in quest’area è il principale attrattore gastronomico per i turisti. Enorme successo tra i frequentatori della penisola sorrentina hanno inoltre ricevuto alcune preparazioni dolciarie a base di limone, come i “babà al limoncello”, le “delizie al limone” ed il “sorbetto al limone”. Liquore di limone di Sorrento Igp Sulla nascita del “limoncello” nell’area sorrentina fioccano leggende e racconti; c’è chi sostiene che questo tradizionale liquore giallo abbia origini molto antiche, quasi quanto quelle legate alla coltivazione del limone. Altri dicono che il limoncello veniva utilizzato dai pescatori e dai contadini al mattino per combattere il freddo già ai tempi dell’invasione dei pirati Saraceni. Altri ancora che la ricetta sia nata all’interno di un convento. Quel che è certo è che oggi il limoncello è diventato un prodotto apprezzato a livello internazionale, prodotto ed esportato da numerose aziende, che, in base al recente riconoscimento comunitario sulla denominazione Liquore di limone di Sorrento Igp, devono utilizzare, solo i limoni della Costiera Sorrentina e di Capri. Dei limoni, colti al massimo da 48 ore, servono le bucce tagliate a mano che vengono lasciate a macerare in una soluzione di alcool, acqua e zucchero, in contenitori coperti a temperatura ambiente. In questi contenitori la macerazione della buccia e l’infuso assumerà lentamente l’aroma e il colore del giallo del limone. Dopo circa un mese di riposo, la preparazione prosegue con l’aggiunta di un pentolino di acqua e zucchero prima portato in ebollizione e poi lasciato raffreddare e dell’altro alcool. Dopo altri quaranta giorni di riposo, l’infuso viene filtrato ed imbottigliato. Il limoncello va conservato in freezer ed è un ottimo digestivo che chiude le cene: è oramai diventato un rito sociale quasi al pari del caffè.
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In alto. Il porto di Marina della Lobra. Sotto. Particolare di pavimento in maiolica. Al centro. Capri da Punta Campanella. In basso. I faraglioni di Capri.
Siamo nell’Area Marina Protetta di Punta Campanella. Raggiungiamo Marina della Lobra, un altro dei punti di partenza per le battute di pescaturismo. In una conca naturale si è sviluppato il piccolo borgo marinaro, armoniosamente raccolto attorno al porticciolo, guardato dall’alto da una corona di colline di uliveti e limoneti. Viottoli e stradine collegano i numerosi nuclei abitativi del comune di Massa Lubrense di cui anche Marina della Lobra fa parte, su ciascuno di loro svetta un campanile. E se le acque del Parco Marino di Punta Campanella risultano da sempre molto pulite, Massa non è da meno infatti ha ricevuto anche la Bandiera Blu 2009. Pressappoco di fronte, in mare si
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erge lo scoglio del Vervece, meta ambitissima dei subacquei per le sue pareti a picco nel mare e le estese macchie colorate di Gorgonie gialle ed Attinie. Sempre più si avvicina all’orizzonte Capri, se ne distinguono con chiarezza il Monte Solaro, e sulla sinistra il più basso Monte Tiberio, da cui si narra che il poco equilibrato imperatore romano che dette il nome alla rupe, facesse volare in mare nemici e amanti non più desiderate. Dalla punta della penisola a quella di Capri, ci sono appena cinque chilometri: un tempo, in realtà, insieme costituivano un’unica lingua di terra. L’isola resa celebre dagli anfratti colorati di azzurro dai riflessi del mare, dai Faraglioni, dagli innumerevoli film che vi sono stati
In questa pagina. Pescatori della Costiera Sorrentina.
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girati e dalle frequentazioni mondane, in origine era in realtà un luogo di pescatori, che vivevano a stento di ciò che il mare decideva di regalare loro. Nel doppiare Punta Campanella, si scorge una delle numerose torri costiere erette nel ‘500 a protezione della costa dai frequenti e temutissimi attacchi dei corsari: provenivano dalla Turchia, ma la gente li chiamava Saraceni per trasposizione di più antiche rimembranze. Quella torre pare fosse dotata di una campanella, e anche qui la memoria è nel nome del luogo. Ma ancora prima, in tempi arcaici, qui sorgeva un tempio dedicato ad Atena, poi tramutata in Minerva dai Latini, un santuario a lungo frequentato da pellegrini che arrivavano da terra o da mare. Poco dopo Punta Campanella si apre un’insenatura molto profonda, che guarda ancora verso Capri ma che si affaccia ormai nel golfo di Salerno. La splendida Baia di Ieranto, a lungo ferita da insensate cave di calcare, è oggi una riserva del FAI, aperta ad un pubblico rispettoso della bellezza e dell’equilibrio della natura: qui la Riserva Marina si fa integrale, e solo le barche a remi possono accedervi. I colori dell’acqua dal turchese allo smeraldo, gli scorci
Pagina precedente. Una buona pesca. In questa pagina. In alto. Punta Campanella. Al centro. La Baia di Ieranto Sotto. Pesca al largo di Punta Campanella.
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In alto. La Costiera Amalfitana. Al centro. Il fiordo di Crapolla. In basso. Riti nel fiordo di Crapolla.
su Capri e i Faraglioni, la bellezza di una macchia mediterranea intatta creano la magia di questa baia. Su di lei, da sempre, vigilano i falchi pellegrini, in greco Ierax, che le hanno dato finanche il nome. Procedendo oltre Ieranto, si passano alcune rocce isolate davanti la costa, Isca e poi Vetara. Una profonda fenditura nella roccia dà accesso all’inaspettato fiordo di Crapolla. L’antica Cappella di San Pietro è nascosta dietro una roccia all’ingresso della minuscola insenatura. A vedetta la solita torre, e intorno la fitta vegetazione di mirto e lentisco. Crapolla può rappresentare un incantevole intermezzo per chi fa un giro in barca, ma è sosta obbligata per chi viene qui a pesca di gamberetti. Queste acque cristalline, queste rocce calcaree che hanno spesso la conformazione di grotte e anfratti, le correnti al giro tra il golfo di Napoli e quello di Salerno, creano le condizioni ideali di habitat per dei piccoli crostacei rosa, una lieve striatura gialla e un lungo becco dentellato: parapandolo è il nome tecnico, gamberetto rosa quello usato dai comuni mortali. Comunque lo si chiami, è una prelibatezza, e comunque lo si prepari, ha sempre un sapore delicato e intensamente profumato di mare.
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L’antichissima tecnica usata da queste parti per catturare i gamberetti rosa è la nassa, una gabbia a forma di zucca, frutto del paziente lavoro dei pescatori, che stringono il giunco ai rami di mirto con circa cinquemila nodi! Questo è d’altronde l’unico tipo di nassa che è permesso utilizzare nell’Area Marina Protetta, perché si tratta di materiale biodegradabile che,
quando la nassa resta impigliata sul fondo, non reca danno all’ambiente sottomarino. Calate in mare ad una profondità di 50-80 metri, dei sacchetti contenenti pezzetti di pesce salato (sardine o altri tipi di pesce meno nobili) ne costituiscono l’esca, dopo un paio di giorni vengono tirate su: nei periodi di massima pesca si riescono a portare in barca 20-30 chili di gambe-
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Momenti di pesca al gamberetto di Crapolla.
In alto. Il porticciolo di Nerano. Al centro e in basso. Pesca al largo de Li Galli.
retti! Da marzo a luglio è la stagione, e con la Lega Pesca si può assistere alla loro cattura. Slow Food ha voluto dedicare attenzione a questa tecnica di pesca oramai in estinzione (non foss’altro che per la difficoltà di costruzione delle nasse) con un presidio che ne incentiva la commercializzazione. Si riparte, invitano a fare un bagno le baie di Marina del Cantone e di Nerano; infine sorprendono Li Galli, un tempo detti Syrenusae perché sarebbero due delle tre
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sirene suicidatesi e trasformate in scogli per l’indifferenza di Ulisse al loro canto. In tempi più recenti, quelle falesie al largo di Positano ebbero appassionati proprietari nei celebri danzatori russi Léonide Massine e, dopo di lui, Rudolf Nureyev, che non di rado passeggiavano fra i bianchissimi, eppur coloratissimi, vicoletti di Positano. Siamo a tutti gli effetti passati dall’altro lato della penisola, che di là si chiama sorrentina e di qua prende il nome da Amalfi. Orgoglio d’un tempo della marineria italiana, assieme ad altre tre repubbliche, Pisa, Genova e Venezia, scrisse importanti pagine negli scambi commerciali e culturali con l’Oriente, lasciando una traccia indelebile con l’introduzione del codice marittimo, la Tabula de Amalpha di cui il Museo Civico conserva una copia manoscritta dell’XI secolo. Paese di navigatori, santi e poeti il nostro, e Amalfi racchiude tutto ciò: fra i tanti marittimi amalfitani è rimasto il nome di un Flavio Gioia che, si dice, abbia dato alla bussola - preziosa invenzione cinese - una veste rimodernata; nientemeno che le reliquie di un apostolo, Sant’Andrea, si procurarono i dogi amalfitani per la loro imponente cattedrale. Infine i poeti (ma anche i pittori) sono i tanti che, ospiti in varie epoche di questi lidi, ne hanno lasciato loro rapite testimonianze, da Foster a Gore Vidal. Oltre che navigare, molti uomini della Costiera Amalfitana hanno per secoli praticato la pesca e lo fanno tutt’ora. In particolare ancora oggi a Cetara, un tempo
famosa anche per le sue tonnare, sopravvive la tradizione della pesca alle alici, e se ne tramanda
l’uso secolare di conservarle sotto sale, oltre che di metterne a colare gli umori per produrre la colatu-
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In alto. Veduta di Positano. Al centro. Cetara. In basso. Antonino Leto, Pesca al tonno.
ra di alici. Nel porto di Cetara troneggiano le tonnare, enormi navi per la pesca al tonno, che nel periodo di fermo pesca si convertono alla piÚ originaria attività ittica della pesca al pesce azzurro. Prima di Amalfi, non lontano dalla Grotta dello Smeraldo, è un altro fiordo, chiamato Furore per le ire del mare, quelle che spesso dovevano affrontare i pescatori della Costiera Amalfitana: in questa feritoia aperta nella roccia e protetta dai marosi, quei marinai
In queste pagine. Momenti di pesca alle sarde a Cetara.
In alto, a sinistra. Il fiordo di Furore. A destra. Amalfi e Atrani dal mare. Sotto. Amalfi in una cartolina di inizi ‘900. Al centro. Vietri. In basso. Panorama di Salerno dal Castello di Arechi. Pagina successiva. In alto e al centro. Gabbie per l’itticoltura nel golfo di Salerno. In basso. Pescherecci nel porto di Salerno. Pagina 38. Gabbie per l’itticoltura delle orate nel golfo di Salerno.
costruirono ricoveri per le barche e minuscole casette in cui riparare quando le tempeste non consentivano di tornare a casa. Il pittoresco borgo, che ospitò intense notti d’amore tra Anna Magnani e Roberto Rossellini, si propone oggi come luogo ideale per chi desidera praticare l’ittiturismo. È questa l’ultima frontiera della rivalutazione del mondo legato alla pesca, che la Regione Campania sta attivamente sostenendo: un tipo di turismo non soltanto sostenibile, ma che consente di recuperare antiche strutture, di dare un’integrazione di reddito ai pescatori, e in definitiva, di rivitalizzarne l’attività, affinché non si esaurisca con questa generazione. Superata Amalfi, Cetara ed infine Vietri, patria delle coloratissime ceramiche che svettano anche sulle cupole di questa costa, si impone alla vista un grande porto che preannuncia una città. Salerno è dominata dall’alto da quel castello detto di Arechi, il principe longobardo che rafforzò le difese di quella che lui aveva eletto a capitale del suo Principato. Era l’epoca in cui fioriva la Schola Medica, i cui insegnamenti e scritti hanno dato un importante contributo alla storia della medicina. Anche se oggi il porto è principalmente commerciale, con grosse velleità e potenzialità turistiche, in passato gran parte della popolazione salernitana era dedita alla pesca. Quelli che oggi sono i locali della movida notturna di questa
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palpitante città, un tempo erano i ricoveri delle barche dei pescatori. Ancora i loro eredi sulla via lungo il porto o nel centro storico chiamano all’acquisto con antiche tecniche di modulazione della voce. Nel golfo di Salerno sono le gabbie per gli allevamenti di orate e spigole, richiestissime dal mercato, non solo locale. Inoltre, qui la Lega Pesca esercita attività ittica con reti da posta, a cui è possibile partecipare in battute di pescaturismo. Su imbarcazioni di una decina di metri si parte in gruppi di massimo 12 persone: si calano le reti (tramagli, ferrettare, nasse) e si tirano su scorfani, cernie, aragoste, saraghi, corvine, polpi. Gli ospiti vengono dotati anche di lenze per essere più autonomi nella pesca. Con l’imbrocco, un tipo di rete simile al tramaglio a una sola mappa e con maglie molto fitte, si pescano i pesci di piccola taglia, così amati dalla tradizione salernitana: acciughe e sardine. E di piatti a base di questi pelagici abbonda anche la cucina nata all’ombra del Duomo di San Matteo. Accanto alla classica frittura di alici, la tiella con sardine cucinate in abbinamento a patate, pomodori, pangrattato, uova e pecorino. Le alici ammollicate, invece, sono preparate con pangrattato, aglio, prezzemolo e tanto succo di limone.
I PRODOTTI DEL TERRITORIO COSTIERA AMALFITANA Limone Costa d’Amalfi Igp Il Limone Costa d’Amalfi è un prodotto dalle caratteristiche molto pregiate e rinomate, la forma affusolata del frutto, da cui il termine “sfusato”, e la zona in cui si è venuto, col tempo, a differenziare, la Costiera Amalfitana. Da studi recenti dell’Università di Napoli Federico II si è venuti a conoscenza che questa varietà di limone è anche tra le più ricche in assoluto in acido ascorbico, la nota vitamina C. La buccia è di medio spessore, di colore giallo particolarmente chiaro, con un aroma e un profumo intensi grazie alla ricchezza di oli essenziali e terpeni (carattere ritenuto di pregio per la produzione del liquore di limoni). La polpa è succosa e moderatamente acida, con scarsa presenza di semi. È inoltre un limone di dimensioni medio-grosse (almeno 100 grammi per frutto).
La coltivazione tipica a terrazzamenti, lungo i versanti acclivi della costiera, con la copertura delle piante attraverso le famosissime “pagliarelle”, contribuisce a conferire quelle caratteristiche uniche e di pregio al Limone Costa d’Amalfi Igp e a rendere famosi nel mondo i suoi mitici “giardini”. La raccolta avviene più volte l’anno, per il fenomeno tipico nei limoni del polimorfismo, anche se la produzione di maggior pregio si ottiene nel periodo primaverile-estivo, compreso tra marzo e fine luglio. Il Limone Costa d’Amalfi è considerato, commercialmente, un prodotto di eccellenza, sia per il mercato del fresco che per la produzione del celebre “limoncello”, che qui come a Sorrento e a Capri ha trovato la sua area di elezione. Ma l’impiego dello Sfusato amalfitano non si limita alla produzione del liquore di limoni, ma si estende anche al settore dolciario, in quanto l’aroma inconfondibile di questo prezioso frutto è alla base di tante specialità del posto, come le mitiche “delizie”, i “babà al limoncello”, le torte, i profitteroles, i cioccolatini ed altri dolciumi tipici locali. Liquore di limone Costa d’Amalfi Igp Anche il “limoncello” della Costiera Amalfitana ha ottenuto di recente, come il cugino di Sorrento, l’ambito riconoscimento dell’Igp da parte della Commissione europea sia pure con la denominazione commerciale di “liquore di limone”. Il processo di produzione è pressoché analogo solo che la materia prima, le bucce di limone, devono
provenire esclusivamente dall’area di produzione del Limone Costa d’Amalfi Igp. Il forte aroma e profumo della buccia che viene utilizzata, particolarmente ricca di oli essenziali, come ha certificato l’Università degli Studi di Salerno dopo uno studio su diverse varietà di limone, qualifica e caratterizza particolarmente il prodotto finale donandogli un valore aromatico ineguagliabile. Soprattutto se il metodo utilizzato è quello artigianale e tradizionale in uso nella zona di produzione, che ancora prevede il lavoro di raschiatura manuale della buccia che va fatto con particolare cura e attenzione. Colatura di alici di Cetara A Cetara, antico borgo di pescatori della Costiera Amalfitana, continua a essere presente nella tradizione culinaria, la colatura di alici, erede del Garum, un piatto dell’antica Roma descrittoci da Plinio e Orazio come una salsa di pesce cremosa che veniva ottenuta facendo macerare strati alternati di alici e sgombri o tonni, con strati di erbe aromatiche tritate, tutto ricoperto da sale grosso. La colatura di alici che viene prodotta a Cetara è un liquido ambrato, ottenuto seguendo un antico procedimento che i pescatori del luogo si sono tramandati di padre in figlio. Le alici appena pescate nel periodo primaverile e deviscerate, vengono adagiate in un contenitore, cosparse di sale marino e successivamente messe in una piccola botte e sistemate con la classica tecnica ‘’testa-coda’’ a strati alterni di sale. Completato il lavoro, la botticina viene coperta con un disco in legno, sul quale si collocano dei pesi. Per effetto della pressatura e della maturazione del pesce, il liquido secreto dalle alici comincia ad affiorare in superficie. Il liquido prodotto viene man mano rac-
colto, inserito in bottiglie di vetro ed esposto alla luce diretta del sole per circa quattro o cinque mesi, perché evapori l’acqua e aumenti la concentrazione. Quindi il liquido ottenuto viene versato nuovamente nella botte dove le alici sono rimaste in maturazione. Così, colando lentamente attraverso i vari strati di pesci, ne raccoglie il meglio delle caratteristiche organolettiche. Viene recuperato attraverso apposito foro e filtrato in teli di lino. Il risultato finale, la colatura, è un distillato limpido di colore ambrato carico, quasi bruno-mogano, dal sapore deciso e corposo che a Cetara è il tradizionale condimento per gli spaghetti della vigilia natalizia, oltre che per le bruschette e le verdure: tradizionalmente considerato un cibo povero, sostitutivo del pesce fresco, oggi è un condimento ricercatissimo e apprezzato a tutti i livelli commerciali. Vino Costa d’Amalfi Doc La denominazione che caratterizza i celebri vini della Costiera Amalfitana è la Doc Costa d’Amalfi, che annovera nel Disciplinare vitigni storici come l’Aglianico, il Piedirosso e la Falanghina, ma anche vitigni caratteristici solo per quest’area come Sciascinoso, Tintore, Serpentaria, Fenile, Ginestra ed altri, facendo di questa zona una miniera di biodiversità unica per la viticoltura tradizionale. Una viticoltura resa difficile dalle frequenti situazioni di dissesto idrogeologico, che si confronta da sempre con la scarsità del terreno e la natura rocciosa dei luoghi in pendenza, i terrazzamenti intorno ai quali si avvolgono strade, tornanti e camminamenti. La zona di produzione individua i tredici comuni della costiera, caratterizzati da ambienti naturali di eccezionale bellezza e da arditi terrazzamenti, spesso a picco sul mare o in anguste gole, quasi sempre irraggiungibili, se non lungo ripidi e tortuosi scalini; ogni ripiano, ogni maceria, che oggi ospita un vigneto, è stato letteralmente rubato alle rocce, mediante la costruzione di muri a secco, il trasporto di terreno a spalla e il duro lavoro dell’uomo. Da questa superba gradinata, coltivata a vigna e a limone, dove i gusti e i profumi degli agrumi e della flora mediterranea si mescolano con la salsedine marina, si ottengono i vini della Costa d’Amalfi, che inevitabilmente imprigionano gli aromi, i sentori di queste terre. Se ne conoscono tre tipi, il Furore, il Ravello e il Tramonti, prodotti nei rispettivi comuni di coltivazione, anche se il Disciplinare ammette la provenienza anche dagli areali di produzione limitrofi a questi. La base varietale è strettamente legata alla tradizione e la ricca platea di vitigni ammessi consente non solo la produzione di vini rossi, bianchi e rosati per ognuna delle indicazioni geografiche previste, ma offre la possibilità di conferire al vino una spiccata personalità e un’accentuata originalità.
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Un centinaio di chilometri di splendido litorale si sviluppa da Agropoli a Sapri: una costa fatta di spiagge piccole e grandi, alternate a scogliere alte e ricche di cavità marine, un’acqua che dal blu profondo di Punta Licosa assume il verde smeraldino di Acciaroli, e poi l’azzurro intenso di Sapri. Siamo nel Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano, uno dei più grandi d’Italia, riconosciuto dall’UNESCO Patrimonio dell’Umanità, sul cui litorale si concentrano ben otto spiagge fregiate dalle Bandiere Blu di Legambiente. E dal 2007 sono stati istituiti due parchi marini, a Santa Maria di Castellabate e a Costa degli Infreschi. Il primo è una favolosa combina-
zione di terra, cielo e mare che va da Punta Tresino a Punta Licosa. Il promontorio è una propaggine a continuazione del Monte Tresino, un territorio libero dal cemento, sul quale rigogliosi cespugli di mirto e lentisco disegnano l’ambiente naturale. A Punta Tresino, i venti marini hanno eroso nei millenni le rocce, che nei fondali hanno conservato una bellezza inviolata. Sorridente, serenamente adagiata sulla spiaggia appare Santa Maria di Castellabate. Il borgo nato attorno alla medievale Chiesa di Santa Maria, che ancora sorge nei pressi del piccolo approdo marittimo, fu lo scalo per i traffici commerciali dei monaci di Castellabate. I potenti abati di
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Pagina precedente. In alto. Veduta di Agropoli. Al centro. San Marco di Castellabate. A destra. Il porto di Acciaroli. In queste pagine. In alto. Punta Licosa. In basso, a sinistra. La costa presso Palinuro. Al centro. Punta del telegrafo presso Ascea. A destra. Baia degli Infreschi.
Cava de’ Tirreni, per secoli reggenti di gran parte del territorio cilentano, avevano eretto in posizione elevata nel XII secolo un castello, attorno al quale si sviluppò il borgo Castrum Abatis, Castello dell’Abate. Santa Maria ne è la frazione marittima, e sotto le arcate affacciate sul porto delle Gatte, ancora sono i vecchi ricoveri delle barche: al pomeriggio si incontrano lì i pescatori, intenti a preparare pazientemente ami e reti per l’uscita notturna.
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Con l’UNCI partiamo dal porticciolo di Santa Maria di Castellabate, con le palangare armate e l’obiettivo di insidiare il pesce sciabola, quello che comunemente è forse più conosciuto come pesce spatola o bandiera, e che con il suo corpo lungo, piatto e argenteo ama annidarsi sui fondali. La palangara è una sorta di bolentino, una lenza lunghissima, armata con moltissimi “braccioli”, ossia piccoli fili di nylon cui sono attaccati gli ami. Si usa facendolo adagiare orizzontalmente, nel nostro caso sul fondo del mare, ma può anche essere lasciato a pochi metri sotto la superficie del mare quando si intendono catturare specie pelagiche. Per far sì che la palangara resti sul fondo, è necessario fissarla, naturalmente mediante dei piombi. Tirando su in barca la palangara, la lotta tra il pescatore e la sua argentea preda è intensa come quelle descritte da Hemingway nel suo celebre libro Il vecchio e il mare, per il quale in un soggiorno ad Acciaroli l’autore statunitense trovò l’ispirazione. Terminata con successo la nostra battuta di pesca, ci attardiamo a visitare con la nostra guida marina questo amenissimo tratto di costa. Oltre al litorale di Punta della Campanella, anche questo si richiama alla leggenda di Ulisse e delle Sirene: qui uno sperone di roccia, un promontorio dalla bellezza che ammalia, porta ancora il nome di una di loro, Leucosia.
Le pareti del terrazzo marino di Punta Licosa assumono forme artistiche; profonde venature oblique disegnano la splendida roccia scura. Un suggestivo sentiero segue il litorale da San Marco di Castellabate a Ogliastro Marina; fra un promontorio e l’altro, nelle calette, i sassi si ammorbidiscono sotto uno spesso e soffice manto di Posidonie depositate dalle onde. Boschi di Pini d’Aleppo creano una quinta scenografica: conifere che si accontentano di poco per vivere, rupi inospitali e terreni calcarei... in cambio solo di un posto in prima fila davanti a uno splendido mare. Qui il forte vento li piega in forme inaspettate e suggestive. Un porticciolo consente di raggiungere l’isolotto di Licosa in barca, e di ammirare il mare limpidissimo che la circonda. Anche questo intende proteggere il Parco Marino, assieme agli anfratti, le grotte sottomarine, i fondali ricoperti da estese praterie di Posidonia, sinonimo di purezza delle acque. Sulla spiaggia dorata di Ogliastro Marina, qualche estate fa una tartaruga Caretta Caretta depose le sue uova, fra lo stupore dei bagnanti e dei ricercatori della Stazione Zoologica Anton Dohrn di Napoli. La schiusa diede alla luce 31 dolcissimi piccoli: su questa stessa spiaggia torneranno, probabilmente, un giorno le femmine a deporre nuovamente le loro uova. A bordo di barche a remi, si avverte solo il silenzio e il
battere ritmato sulla superficie dell’acqua. Nelle placide notti d’estate gli occhi, immersi nel nero del cielo e del mare, vanno in cerca di Orione, poi delle Pleiadi. La luce di quelle costellazioni indica la rotta ai banchi di alici: tutto questo gli uomini l’hanno imparato più di duemila anni fa, quando i pescatori greci battevano questi mari a caccia di acciughe, un’antica tradizione ittica che oggi sopravvive in una manciata di baie del Cilento, fra Acciaroli e Punta Infreschi. Si può apprendere la tecnica di pesca con la menaica con l’UNCI ad Agnone Cilento, con uscite che portano al largo della bellissima Acciaroli, o a Pisciotta. Nell’imbarazzo della scelta, ci inoltriamo nel mare del Cilento più meridionale.
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Pagina precedente. Preparazione degli ami. In questa pagina. In alto. Baia degli Infreschi. Sotto. Pesca con la menaica.
I PRODOTTI DEL TERRITORIO COSTA CILENTANA
Pagina seguente. Pesca con la menaica.
turisti che visitano la Piana del Sele e in particolare i Templi di Paestum. Fico bianco del Cilento Dop
infilati cioè in due stecche di legno parallele per formare le “spatole” o “mustaccioli”. Ancora, esso è posto in commercio anche farcito con mandorle, noci, nocciole, semi di finocchietto, bucce di agrumi o ricoperto di cioccolato, od anche immerso nel rum, con l’obiettivo di ampliare la gamma dell’offerta, soprattutto nel periodo natalizio. Sempre più ricercati sono anche i fichi essiccati e poi dorati al forno, soprattutto quelli farciti. Pregiati, ma sempre più rari per gli alti costi di preparazione, sono i fichi mondi, senza buccia, dal colore chiarissimo tendente al bianco puro e dal sapore prelibato.
Carciofo di Paestum Igp Il Carciofo di Paestum, noto anche come Tondo di Paestum, dal nome dell’ecotipo locale da cui deriva, è ascrivibile al gruppo genetico dei carciofi di tipo “Romanesco”. L’aspetto rotondeggiante dei suoi capolini, la loro elevata compattezza, l’assenza di spine nelle brattee, sono le principali caratteristiche qualitative e peculiari di tale carciofo, che ne hanno consacrato la sua fama tra i consumatori. Anche il carattere di precocità di maturazione può essere considerato un elemento di positività conferitogli dall’ambiente di coltivazione, la Piana del Sele, che consente al Carciofo di Paestum di essere presente sul mercato prima di ogni altro carciofo di tipo Romanesco. Altre caratteristiche tipiche del prodotto sono: una pezzatura media dei capolini, un peduncolo inferiore a 10 cm, il colore verde con sfumature violetto-rosacee, il ricettacolo carnoso e particolarmente gustoso. Le pregevoli caratteristiche commerciali del Carciofo di Paestum Igp sono anche frutto di un’accurata e laboriosa tecnica di coltivazione che gli operatori agricoli della Piana del Sele hanno affinato nel corso di decenni. Il clima fresco e piovoso nel corso del lungo periodo di produzione (febbraio-maggio), che caratterizza tale area, conferisce anche la tipica ed apprezzata tenerezza e delicatezza al prodotto. Queste caratteristiche di pregio consentono al prodotto di essere molto apprezzato in cucina, dove viene utilizzato nella preparazione di svariate ricette tipiche e di piatti locali come la pizza con i carciofini, la crema e il pasticcio ai carciofi, particolarmente graditi ai tanti
Prodotto avente caratteristiche uniche e di assoluto pregio, apprezzate anche all’estero, il Fico bianco del Cilento deve la sua denominazione al colore giallo chiaro uniforme della buccia dei frutti essiccati, che diventa marroncino per i frutti che abbiano subito un processo di cottura in forno. La Dop infatti è riferita al prodotto essiccato dell’ecotipo cilentano della cultivar “Dottato”, pregiata varietà di fico diffusa in tutto il Mezzogiorno. Altre caratteristiche distintive del prodotto riguardano la polpa, di consistenza tipicamente pastosa, dal gusto molto dolce, di colore giallo ambrato, con acheni prevalentemente vuoti e ricettacolo interno quasi interamente pieno. Tali peculiarità, considerate di eccellenza per la categoria commerciale dei fichi essiccati, sono appunto i tratti prevalenti che qualificano il Bianco del Cilento Dop sui mercati. Confezionati al naturale in diverse forme (cilindriche, a corona, sferiche, a sacchetto), i fichi del Cilento sono commercializzati anche nella maniera antica, posti cioè alla rinfusa in cesti fatti di materiale di origine vegetale che possono arrivare anche a venti chili di peso. Una preparazione tradizionale ancora in uso è quella che vede i fichi “steccati”,
La presenza dell’olivo caratterizza da secoli il paesaggio cilentano e ne rappresenta la principale, e talvolta unica, risorsa delle popolazioni locali, tanto da divenire parte integrante della loro vita quotidiana. Recenti ricerche hanno documentato la presenza dell’olivo già nel IV sec. a.C. La tradizione, invece, vuole che le prime piante fossero introdotte dai coloni Focesi, una popolazione di origine greca. Furono essi infatti ad introdurre la più antica varietà da olio locale, la Pisciottana, che resiste molto bene ai venti salmastri della zona, è molto produttiva anche in un comprensorio arido come il Cilento e ancora oggi conferisce all’Olio Cilento la sua riconosciuta tipicità. Nel Cilento, inoltre, ha vissuto per molti anni anche il celebre nutrizionista americano Keys, il padre della Dieta mediterranea, che proprio all’olio di oliva attribuisce un ruolo principe, in quanto determina una riduzione del colesterolo
Pisciotta è un borgo suggestivamente abbarbicato sulle rocce che guardano il mare del golfo di Policastro, un mare che ha i colori delle Bandiere Blu guadagnate senza interruzione negli ultimi anni, e la presenza delle Posidonie sui suoi fondali è la testimonianza più tangibile della salubrità dell’acqua. Tutt’intorno, il paesaggio rurale è fatto di muretti a secco e di ulivi grossi, dritti e folti. Anche qui la costa è puntellata dalle torri di guardia anticorsari. Un angolo di Pisciotta restituisce in maniera concreta quei lontani affanni, una minuscola cappella votiva fatta erigere nel Seicento da Salvatore Pinto accanto alla residenza di
famiglia, al ritorno di suo figlio. Michele e i compagni, partiti a bordo dei velieri dei Pinto, erano stati fatti prigionieri dai barbareschi e condotti a Tunisi. Ma in quel caso, la sorte li volle salvare. A Marina, la frazione costiera di Pisciotta, i pescatori ancora si tramandano i segreti della menaica: astuzia dell’uomo è stata quella di creare una rete che, sbarrando in verticale la strada al banco - ecco perché è fondamentale conoscerne gli orientamenti! - non dà scampo alle alici, le maglie strette fanno sì che vi restino impigliate. La larghezza è però tale da catturare solo le alici adulte, si tratta dunque di una pesca selettiva: le
più piccole sgusciano via, e garantiranno la riproduzione della specie. Le acciughe si dimenano, e ciò provoca il dissanguamento. Man mano che la rete viene tirata su, delicatamente si estraggono a mano le alici impigliate, cui vengono asportate testa e interiora. Private da subito del residuo sangue, se ne ritarda la putrefazione, e questo consente di portare a terra il pescato senza l’uso del ghiaccio. Appena raggiungono terra, le alici vengono messe sotto sale: un lavoro, la salatura, da secoli a operosa cura delle donne. La stagionatura al fresco e umido dei magazzeni, gli antichi ricoveri per le barche, dura circa sei mesi.
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Olio Cilento Dop
serico, migliora la funzionalità dell’apparato cardiocircolatorio, e protegge l’organismo, con il suo corredo di sostanze fenoliche, da gravi alterazioni. L’Olio Cilento Dop si ottiene dalla premitura di olive delle varietà Pisciottana, Rotondella, Ogliarola, Frantoio, Salella e Leccino per almeno l’85%. L’olio, al consumo, è di colore giallo paglierino, con buona vivacità ed intensità; spesso limpido, a volte velato. All’esame olfattivo mostra un leggero sentore di fruttato, talvolta con note di mela e di foglia verde. Il gusto è tenue e delicato di oliva fresca, fondamentalmente dolce con appena percettibili note vivaci di amaro e piccante. È discretamente fluido, con evidenti sentori di pinolo e retrogusto di nocciola e mandorla. L’acidità è sempre inferiore al valore di 0,70%. La notevole presenza di note aromatiche fa prediligere l’uso di quest’olio su piatti di una certa consistenza, tipici dell’area di origine, come grigliate di pesce, insalate selvatiche, verdure bollite, legumi e primi piatti in genere. Vino Cilento Doc
Il Cilento, una delle zone più ricche di bellezze paesaggistiche, dove la natura appare spesso incontaminata nel suo splendore, pur in presenza della nota
asperità del territorio e dell’aridità dei suoi suoli, tuttora conserva una viticoltura storica e tradizionale che il tempo e il progresso non hanno cancellato. I vitigni locali, introdotti ad Elea ed a Paestum dagli antichi colonizzatori Greci, trovano nella natura argillosacalcarea del terreno e nel clima della zona le condizioni per esprimere al meglio la propria personalità. Sante Lancerio, bottigliere del Papa Paolo III, sosteneva, intorno al 1500, riferendosi ai vini della costa cilentana che “... è un delicato bere l’estate alli gran caldi e non ha pari bevanda la sera a tutto pasto ...“. La Doc prevede quattro tipi di vini: il bianco, che presenta come vitigno base il Fiano detto localmente Santa Sofia, il rosso (vitigni Aglianico e Piedirosso soprattutto), il rosato (Sangiovese prevalente) e Aglianico. L’affermazione dei vini del Cilento presso i consumatori ha di fatto promosso la costituzione di imprese d’avanguardia che utilizzano anche le più avanzate tecnologie di produzione, dalla barrique, alle botti, alle vasche d’acciaio, sempre però nel rispetto della tradizione enologica locale e del Disciplinare di produzione. Le viti cilentane producono pochi grappoli, dai quali si ottengono però vini di eccellente qualità, che si abbinano perfettamente alla cucina tipica cilentana “povera”, semplice, ma gustosissima, come: i fusiddi, i cavatieddi e i migliatieddi, gli struffoli, ecc. Alici di menaica Il rito della pesca con le menaiche, praticato, ormai, solo da una piccola flotta di gozzi di Marina di Pisciotta, sulla costa cilentana, risale all’epoca classica e si è mantenuto inalterato nei secoli. I pescatori, estraggono delicatamente le alici una per volta dalle strette maglie della rete, la menaica appunto, eliminando la testa e le interiora. Sistemate in cassette di legno, senza ghiaccio, né alcun refrigerante vengono lavorate di primo mattino: si lavano in salamoia e si dispongono minuziosamente in vasetti di terracotta che ne contengono pochi ettogrammi. In passato, quando il pesce era più abbondante, si usavano le “terzarole”, barili di legno molto capienti.
Dopo la copertura e la pressatura con pietre, devono stagionare per almeno sei mesi. Le alici di menaica sono il risultato di una ottima interazione culturale con il territorio, che ha conservato inalterate le competenze necessarie perché avvengano tutti i passaggi indispensabili a ottenere le straordinarie caratteristiche organolettiche del prodotto.
Le alici di menaica, caratterizzate da una qualità altissima, una carne bianca tendente al rosa e un gusto particolare, molto intenso ma al tempo stesso delicato, si possono acquistare direttamente dai pescatori, che li vendono in caratteristici barattolini. Si mangiano fresche o sotto sale, crude o cotte. Molte ricette locali, semplicissime, prevedono l’impiego delle alici di Pisciotta, come l’insalata di alici crude, appena appena sbiancate con il limone e condite con olio, aglio e prezzemolo, o il sugo di alici, ottimo sugli spaghetti, quale variante deliziosa al mitico aglio olio e peperoncino.
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Una lampara.
La carne chiara e tenera delle alici di menaica ha un aroma e un gusto molto delicati, ideali da mangiare fresche all’insalata o sugli spaghetti con olio, pomodorini, aglio e peperoncino. Capo Palinuro è un altro luogo segnato dalle narrazioni epiche. Qui i protagonisti sono Enea, nella sua fuga da Troia, e il suo nocchiero Palinuro che cadde dalla nave, vittima del sonno prima, e degli abitanti del luogo poi. Passando questa suggestiva lingua di terra, entriamo nell’ultima Area Marina Protetta della regione, Parco Costa Infreschi, che con le meraviglie di un litorale che ha conservato il suo aspetto originario, ha in Punta Infreschi il suo limite inferiore. Raggiungiamo l’ultima meta di questo nostro viaggio nel pescaturismo della Campania: Marina di Camerota. Ci imbarchiamo dapprima di giorno,
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alla scoperta delle incredibili rocce calcaree in cui lo scorrere millenario dell’acqua ha scavato grotte e cavità, nelle quali a sua volta si fa strada il mare, creando giochi di luce, riflessi a volte turchesi, altre smeraldini. Gli occhi a stento credono a ciò che vedono! Il successivo imbarco, in notturna, è invece finalizzato alla pesca. Stasera vogliamo assistere alla pesca a circuizione. Questa volta non si tratta di piccola pesca, si va su quantità più grosse. Con l’AGCI salpiamo a bordo delle barche di supporto, non sulla principale, il cianciolo, dove le manovre potrebbero essere pericolose per noi ospiti. Le piccole hanno la funzione di tenere accese le lampare per attirare sarde e acciughe, formare e man mano ingrandire il banco. È però il cianciolo ad eseguire l’ultima e principale fase della pesca. Attraverso una gru, cala una rete
enorme che una delle lampare dispone a cerchio, con cui si circonda il banco; il cavo unico che, grazie a degli anelli, corre nell’estremità inferiore della rete, viene tirato. Si forma il sacco, i pelagici non hanno più scampo. L’azione è complessa, chi vi assiste avverte in pieno il senso della strategia, e nel contempo, dell’impegno fisico che questo genere di pesca richiede. Un’esperienza forte, e anche se la nostra unica attività è stata quella di osservare, l’impegno emotivo ci ha provati. Siamo lieti che i nostri amici pescatori ci portino a rilassarci e ad assaggiare il pescato, ancorati in una meravigliosa caletta. Ci dirigiamo a sud, superiamo Sapri, in direzione di Maratea, ci fermiamo nel Canale di Mezzanotte. Un bel nome per concludere, anche se la mezzanotte è già passata da un po’.