Mensile di informazione, politica e cultura dell’Associazione Luciana Fittaioli - Anno III, n. 6 - giugno 2011
Votare è un diritto e un dovere morale MAURA DONATI
ell’anno dei festeggiamenti per i 150 anni dell’Unità d’Italia cade anche il sessantacinquesimo anniversario della nascita della Repubblica Italiana che si celebra il 2 giugno, appunto, Festa della Repubblica. Si tratta ufficialmente della principale ricorrenza nazionale civile italiana che ricorda il referendum istituzionale indetto a suffragio universale il 2 e il 3 giugno del 1946 con il quale gli italiani vennero chiamati alle urne per esprimersi sulla forma di governo, monarchia o repubblica, da dare al Paese, in seguito alla caduta del fascismo. Dopo 85 anni di regno, con 12.717.923 voti contro 10.719.284 l'Italia sceglieva la repubblica e i monarchi di casa Savoia venivano esiliati. Una data storica, un momento epocale, non solo perché ha rappresentato il passaggio verso una forma di governo repubblicana fondata sulle solide basi di “una delle migliori costituzioni al mondo” ma anche perché ha segnato lo spartiacque tra il prima e il dopo la libertà di espressione politica e di voto per tutti. Oggi viene sottovalutata l’importanza di questa libertà perché viene data per scontata e non le si attribuisce la rilevanza che merita. Sono passati “appena” 65 anni da quel momento (l’età di una persona matura della nostra epoca) eppure, solo in pochi portano con sé il senso profondo e il valore di un diritto conquistato in anni e anni di sacrifici, lotte, tormenti e ingiustizie. Nei primi anni del ‘900 non era per nulla scontata “l’opportunità” di prender parte alle decisioni del proprio paese attraverso appositi strumenti di partecipazione popolare. Per questo, la gente era disposta a lottare e a scendere nelle piazze pur di conquistare questo diritto di cui aveva compreso le potenzialità e la valenza sociale. D’altronde, andando a ritroso nel tempo, ci si accorge che già dal 1848 fu riconosciuto il potere di voto, ma solo ai cittadini di sesso maschile con un’età superiore ai 25 anni, che sapessero leggere e
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scrivere e pagassero almeno 40 lire di imposte: numericamente, questo portava il 2% della popolazione italiana alle urne. Il 1860 istituisce una limitazione al corpo elettorale portando alle urne solo l’1,89% degli italiani. Poi, nel 1872, la sinistra parlamentare abbassa la soglia della maturità elettorale da 25 a 21 anni ammettendo al voto anche tutti i cittadini in grado di leggere e scrivere ma la situazione cambia poco visto l’alto livello di analfabetismo. La legge Zanardelli del 1882, invece, fa più che triplicare il corpo elettorale e, addirittura, nel 1912, con la legge promulgata da Giovanni Giolitti arriva un suffragio quasi universale per gli uomini. Ma le donne non sono ancora considerate di pari diritti rispetto agli uomini e rimangono a casa. Intanto, la situazione va migliorando negli anni fino a che, nel 1945, il consiglio dei ministri emana il decreto di “Estensione alle donne del diritto di voto”. Pensate, solo 66 anni fa il mondo femminile conquistava quella libertà di espressione politica attraverso il voto che oggi si dà genericamente per scontata, quasi snobbandola, valutando con superficialità se è il caso o meno di andare a votare. Nel 1946, per la prima volta, arriva in Italia il voto universale per donne e uomini: il primo appuntamento è con le elezioni amministrative fra marzo e aprile, il secondo è con il referendum istituzionale tra monarchia e repubblica e l’elezione dell’assemblea costituente. Gli italiani partecipano entusiasti, coraggiosi e volenterosi. Oggi, i figli di quegli stessi italiani sono chiamati a esprimersi su tematiche di grande rilevanza sociale partecipando ai referendum popolari sull’acqua, sul legittimo impedimento e sul nucleare. Chiedere lo stesso entusiasmo a una società disincantata come la nostra sarebbe forse troppo, ma partecipare al voto percependo il senso civico di quest’azione e avendo rispetto per il valore che ha in sé questo atto democratico conquistato con i sacrifici di una vita è il minimo che ci si può aspettare da ognuno di noi, ricordandoci sempre che votare è un diritto e un dovere morale.
Comunicazione della Redazione Da questo numero la direttrice responsabile del nostro giornale è la “giovane” (vero!) amica Maura Donati. Avremmo voluto dire di più per manifestarle il nostro ringraziamento e l’augurio di buon lavoro, ma... già con il suo primo intervento in prima pagina si è presa tutto lo spazio (quasi)... Grazie e auguri Maura
Iraq, Falluja, 2004
Referendum nucleare Un piccolo “si”, un grande “MA”... SANDRO RIDOLFI “Prima di giudicare (e per la storia in atto o politica il giudizio è l’azione) occorre conoscere e per conoscere occorre sapere tutto ciò che è possibile sapere”. Questo insegnamento di Antonio Gramsci può essere considerato il “manifesto” di questo giornale. Improntato alla diffusione del pensiero e dell’azione comunista, questo giornale si è posto l’obiettivo di stimolare l’interesse alla conoscenza, al confronto, al ragionamento, “seminando” idee, provocazioni e informazioni. Coerentemente con tale fine il giornale è aperto a ogni contributo, da chiunque provenga purché con onestà mentale e trasparenza morale, che possa contribuire, attraverso l’arricchimento critico delle conoscenze, alla crescita qualitativa (e anche quantitativa) della partecipazione alla vita politica. Il 12 giugno si svolgeranno alcuni referendum abrogativi, frutto di iniziative popolari e perciò dimenticati, per non dire persino oscurati, dalla politica così detta “di palazzo”. Due i temi principali: la difesa della natura pubblica dell’acqua e l’opposizione alla (re)introduzione nel nostro Paese della produzione di energia nucleare. Sul primo tema possiamo dire che non c’è discussione, altri articoli lo tratteranno in questo numero e al “bene comune” acqua è dedicata la contro copertina. Quanto al secondo tema,
invece, la questione è più “controversa”; non tanto sull’opzione del voto, poiché indiscutibilmente si dovrà esprimere anche in questo referendum un “si” abrogativo, quanto sulle motivazioni e soprattutto sulle responsabilità morali di tale rifiuto. Alcuni decenni or sono l’Italia era all’avanguardia mondiale nella ricerca della produzione di energia nucleare per fini civili. Allora però, in un contesto di forte partecipazione consapevole, dovuta anche alla presenza di un grande Partito Comunista, gli italiani dissero un netto “no” all’energia nucleare. Il nostro Paese aveva però un bisogno di risorse energetiche enormemente superiori alle proprie capacità di produzione autoctona. Lontano dall’immaginare la riconversione della avanzatissima ricerca sull’energia nucleare verso quella su fonti alternative, l’opzione politica ed economica fu allora di accentuare l’approvvigionamento dall’esterno di petrolio e gas in due direzioni, che il particolare contesto degli equilibri geopolitici dell’epoca singolarmente consentivano al nostro Paese di frontiera cerniera, dall’Unione Sovietica e dal mondo arabo. L’Eni, il piccolo gatto schiacciato dai mastini delle “Sette Sorelle” che monopolizzavano il mercato del petrolio descritte da Enrico Mattei, è divenuto così una delle più grandi “sorelle”, la quinta o persino la quarta. L’Italia allora non ha invaso o colonizzato i paesi produttori, ma ha pagato con la moneta peggiore
che sia mai stata coniata: la vendita delle armi. E’ in quegli anni che si è sviluppata una tra le più avanzate industrie belliche del mondo che ha portato l’Italia, nel 2010, a divenire il secondo esportatore di armi subito dietro gli USA. Quell’ignobile sistema di scambio, che condannava i paesi esportatori a bruciare tutte le loro ricchezze in beni assolutamente inutili e così a rimanere sottosviluppati, da circa un ventennio è ulteriormente degenerato. Il collasso del sistema sovietico, ponendo fine all’equilibrio dei due blocchi, ha radicalmente cambiato le regole del gioco, anzitutto per l’Italia. Al mercato “armi contro petrolio” si è sostituito il più semplice “bombe per il petrolio”. Jugoslavia, Iraq, Afganistan e oggi Libia sono altrettanti scenari di guerra nei quali il nostro Paese è stato costretto a entrare per non restare tagliato fuori dall’approvvigionamento delle risorse energetiche. Dire “no” oggi al nucleare significa dunque dire “si” alle guerre di aggressione ai paesi produttori o anche sfortunati soli transiti di condotte di petrolio e gas. Questo lo dobbiamo sapere. Dobbiamo sapere che se giustamente non vogliamo che i nostri figli siano esposti ai rischi del malfunzionamento di un sistema di produzione di energia nucleare dimostratosi ancora molto insicuro, i figli dei paesi produttori di energia dovranno subire violenze, devastazioni, miseria e, se non bastasse, anche un forte inquinamento nucleare
dall’uranio impoverito utilizzato nelle armi più moderne. E qui si impone il “MA”. No al nucleare, certamente, ma a condizione che cambino radicalmente sia la nostra politica economica e sociale interna, che la nostra politica estera nei confronti dei paesi produttori del terzo mondo. “MA” (a condizione che) che lo Stato, e solo lo Stato, riprenda in mano totalmente la ricerca e la produzione di energie alternative, a uno stesso tempo imponendo la più drastica possibile riduzione dei consumi energetici superflui. “MA” (a condizione che) ancora lo Stato, e solo lo Stato, cessando la produzione e la vendita di armi, scambi tecnologie, infrastrutture, beni e strumenti produttivi in grado di aiutare realmente lo sviluppo dei paesi produttori, nonché ponga termine, subito e incondizionatamente, a qualsiasi politica di aggressione mascherata sotto ridicoli veli umanitari. Non è impossibile, qualcuno lo sta già facendo. La Cina, il paese che si avvia a essere il più grande consumatore di energia del mondo, approvvigiona enormi quantità di risorse dall’estero, ma non vende armi e non bombarda, non invade, non devasta alcun paese. Un altro modello di sviluppo è possibile, “ma” occorre averne coscienza e consapevolezza collettiva e quindi occorre che la collettività, cioè lo Stato, ri-assuma il suo ruolo di unico titolare e tutore dei beni e dei diritti fondamentali dell’uomo. Un solo “si” senza “MA” è un atto di egoismo vergognoso.
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