Il fulmine a mani nude

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Il fulmine a mani nude Editoriali e Lettere di Antonio Gramsci


Il fulmine a mani nude Ei t o r i ali e L e t t e r e di An to n i o G ram sc i


Prima di giudicare (e per la storia in atto o politica il giudizio è l’azione) occorre conoscere e per conoscere occorre sapere tutto ciò che è possibile sapere. (Antonio Gramsci)


Premessa Il Par tit o “ in te lle tt u ale or gan ic o ” d ell e c las s i s u bal te rn e. L a c o n q u i st a del p o te re at tr aver s o l a con qu is ta del l’ “egemonia”



“Le idee – scrive Gramsci - non nascono da altre idee, le filosofie non sono partorite da altre filosofie, esse sono l’espressione rinnovata dello sviluppo storico. Le forze materiali non sarebbero concepibili storicamente senza forma, e le ideologie sarebbero ghiribizzi individuali senza le forze materiali.” Le idee nascono dallo sviluppo storico del reale, ne sono l’espressione, ma nello stesso tempo hanno il potere di cambiare la storia. Ecco perché le idee non sono figlie di idee, ma nascono da rapporti storici reali. Nel momento in cui il capitalismo è entrato nella fase monopolistica e le grandi masse sulla scena della storia, il problema della sovrastruttura diviene determinante. Prendere il potere significa, innanzitutto, occupare le “casematte dello Stato”, cioè quegli apparati della società civile, come la scuola, i partiti, i sindacati, la stampa, che hanno il compito di inculcare nelle menti delle grandi masse i valori della classe dominante. La supremazia di un gruppo sociale non può attuarsi solo col dominio e con la forza, deve avvalersi degli apparati egemonici della società civile, deve evocare il consenso più ampio. Il potere non è dominio, è egemonia, intesa essenzialmente come capacità di direzione intellettuale e morale. Ogni classe sociale tende a produrre i propri intellettuali organici connessi ai propri bisogni e alla propria mentalità. Le masse dei lavoratori e degli sfruttati debbono dotarsi di una loro guida intellettuale e l’ “intellettuale organico” alle classi subalterne è il partito comunista che, rappresentando la totalità degli interessi e delle aspirazioni della classe lavoratrice, si configura come la sua guida politica, morale e ideale. Per questa sua capacità unificatrice delle istanze popolari e per il suo fermo tendere verso un supremo fine politico, Gramsci denomina il partito comunista “moderno Principe”, con l’avvertenza che, mentre per Machiavelli esso si identifica in un individuo concreto, per i comunisti si tratta di un organismo in cui si concreta la volontà collettiva della classe rivoluzionaria. In un sistema capitalistico organico e globa- pag. 5 lizzato la strategia rivoluzionaria non può essere frontale, cioè alla “facciata dello Stato”, deve invece dirigersi in pro-


fondità, mediante una “snervante guerra di posizione”, contro le “fortezze” e le “casematte” del nemico, ossia contro l’insieme delle istituzioni della società civile. Si tratta di logorare progressivamente la supremazia di classe della borghesia, conquistando i punti strategici della società civile, e ponendo così le premesse per la conquista del potere e la realizzazione della propria egemonia. La conquista dello Stato borghese deve avvenire dunque dall’interno della società, attraverso una “battaglia delle idee” e sulla base di una prospettiva sociale, economica, politica, intellettuale e morale, che sia in grado di ottenere il consenso delle masse. Il Partito “intellettuale organico” deve ricucire la frattura tra cultura e vita, tra cultura e masse, operata dall’intellettuale tradizionale, membro di una casta separata dal popolo-nazione, e dunque deve essere portatore di una “cultura nazional-popolare” che rappresenta il cemento del rapporto tra dirigenti e diretti, tra governanti e governati. Solo se riesce ad ottenere il consenso di tutte masse subalterne e sfruttate, il partito comunista può creare un sistema di alleanze di classe che gli permetta di mobilitare contro lo Stato borghese la maggioranza della popolazione lavoratrice e diventare classe dirigente e dominante. Sandro Ridolfi


Introduzio ne L’uom o che h a af ferrato il fulmi ne a mani nude (tratto da un intervento tenuto da Mario Tronti alla Camera dei Deputati il 17 aprile 2007)



Ho riflettuto a lungo sul perché, pensando a Antonio Gramsci, scatti in me, subito, per istinto, un titolo: la figura del grande italiano. Sarà che questo nostro paese continua a metterci di fronte una sostanziale ambiguità: da un lato la debolezza politica della storia italiana, dall’altro lato il paese forse più politico del mondo, in tutte le sue componenti sociali e popolari. Noi abbiamo inventato la politica per la modernità. Ne abbiamo fatto una forma, privilegiata, e un’espressione, intensa, di pensiero umano. Perché Gramsci ha così a lungo pensato su Machiavelli? Intanto: il grande italiano è l’uomo del Rinascimento. Dietro c’era la stagione magica che, fra Trecento e Quattrocento, aveva visto svolgersi quella contraddizione lancinante, fondativa della nostra successiva natura, la contraddizione tra una storia d’Italia, ancora molto lontana dal presentarsi come tale, e una poesia, una letteratura, un’arte, una filosofia, già italiane, in forme dispiegate e mature, con, in più, una naturale vocazione universalistica. ... Come Machiavelli aveva chiosato la prima decade di Tito Livio, così Gramsci chiosa Il Principe. Geniale la sua interpretazione del partito politico come moderno principe. Credo, ancora di una sconvolgente attualità. «Il moderno principe, non può essere una persona reale, un individuo concreto; può essere solo un organismo; un elemento di società complesso nel quale già abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva, riconosciuta e affermatasi parzialmente nell’azione. Questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico; la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a divenire universali e totali» ... «il partito non come categoria sociologica, ma il partito che vuole fondare lo Stato »: fondare lo Stato, non farsi Stato ... Il problema originalmente comunista di Gramsci - vorrei dire, se questo non disturba troppo, l’originale leninismo di Gramsci - è la costruzione di un rapporto virtuoso tra classe dirigente e classe sociale. Il mito - usa lui questa parola e voglio usarla pag. 9 anch’io del partito-principe è l’organizzazione di una volontà collettiva, «elemento di società complesso», come l’unica


forza in grado di contrastare l’avvento della personalità autoritaria. A questo punto vorrei non dare l’impressione di edulcorare il personaggio Gramsci, iscrivendolo nel ruolo non esaltante di Padre della Patria. Non si può parlare di Gramsci restando neutrali. Scrisse di sé, dal fondo del carcere fascista: «Io sono un combattente, che non ha avuto fortuna nella lotta pratica». Non era un’anima bella. Nato per l’azione, circostanze esterne lo costringono a diventare uomo di studio. Se dovessi riassumere in una definizione l’insegnamento che Gramsci ci lascia, direi così: come un uomo di parte possa diventare risorsa della nazione, senza dismettere la propria appartenenza, ma agendola nell’interesse di tutti. Gramsci ci dice che, machiavellianamente, la politica non ha bisogno dell’etica per nobilitarsi. Si nobilita da sé, sollevandosi a progetto altamente umano. Gramsci non è solo i Quaderni del carcere. C’è un Gramsci giovane che si fa amare, se possibile, ancora di più ... quell’articolo (febbraio 1917) che comincia con le parole: «Odio gli indifferenti»: «Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo»... «All’individuo capitalista si contrappone l’individuo-associazione, al bottegaio la cooperativa: il sindacato diventa un individuo collettivo che svecchia la libera concorrenza, la obbliga a forme nuove di libertà e di attività». Gramsci nasce, politicamente e intellettualmente, a Torino. Davanti a lui, il biennio rosso, l’occupazione operaia delle fabbriche, l’esperienza dei consigli operai. La vera università: la grande scuola della classe operaia. Del resto, ormai lo sappiamo: o si parte da lì, o si raggiungono solo quelli che oggi si chiamano non-luoghi. L’ordine Nuovo, settembre 1920: «L’operaio comunista che per settimane, per mesi, per anni, disinteressatamente, dopo otto ore di lavoro in fabbrica, lavora altre otto ore per il Partito, per il sindacato, per la cooperativa, è, dal punto di vista della storia dell’uomo, più grande dello schiavo o dell’artigiano che sfidava ogni pericolo per recarsi al convegno clandestino della preghiera». Già Togliatti, nel ricordo che scri-


veva, nel 1937, appena dopo la morte di Gramsci, diceva: «Il legame di Antonio Gramsci con gli operai di Torino non fu soltanto un legame politico, ma un legame personale, fisico, diretto, multiforme». Non ci sono due Gramsci. L’operazione di valutare il Gramsci studioso e di svalutare il Gramsci politico è senso comune intellettuale corrente, e come tale va abbandonato a se stesso. Specialista + politico è formula gramsciana risolutiva. Dalla tecnica-lavoro alla tecnicascienza e di qui alla concezione umanistico-storica, senza la quale si rimane specialista e non si diventa dirigente. Il modo di essere del nuovo intellettuale sta nel mescolarsi attivamente nella vita pratica, come costruttore, organizzatore, persuasore, non puro oratore. Quindi, per Gramsci, l’equivalente di politico è dirigente, armato però di cultura tecnica, scientifica, umanistica. Qui c’è la preziosa distinzione gramsciana tra direzione e comando, tra guidare e imporre. Questo vale per il gruppo dirigente nei confronti del partito, vale per il partito nei confronti dello Stato, vale per lo Stato nei confronti della società. Egemonia non è solo cosa diversa, è cosa opposta a dittatura. Sul concetto di egemonia pesa ancora un’incomprensione di fondo e una falsificazione di fatto. Non c’è pratica di egemonia senza espressione di cultura. Praticare egemonia è una cosa molto complessa, direi raffinata: vuol dire guidare seguendo, essere alla testa di un corso storico già in movimento, e che fa movimento anche in virtù delle idee, ideeguida, idee-forza che tu ci metti dentro. Una politica senza cultura politica, non cercatela in Gramsci. Scriveva nei Quaderni: «Il grande politico non può che essere ‘coltissimo’, cioè deve ‘conoscere’ il massimo di elementi della vita attuale; conoscerli non ‘librescamente’, come ‘erudizione’, ma in modo ‘vivente’, come sostanza concreta di ‘intuizione’ politica ». Tuttavia - aggiungeva perché in lui diventino sostan za vivente occorrerà apprenderli anche librescamente. Ho sempre pensato che le due culture non sono, come si dice, la cultura scientifica e la cul- pag. 11 tura umanistica. Sono la cultura del popolo e la cultura degli intellettuali. Due cose diverse: non si identificano, non si


sommano, non si confondono. Eppure un ponte di dialogo e di scambio tra queste due esperienze culturali, deve esserci e devi trovarlo. C’è una cultura materializzata nel lavoro, interiorizzata nel lavoratore: un orizzonte che, per un intellettuale di parte, è come la bussola per il marinaio, ti indica la rotta dove devi andare a cercare, a capire, a scoprire. È difficile comunicare la tranquilla forza di pensiero che ti conferisce l’essere, il sentirsi radicato in questa parte di mondo. L’unico luogo sicuro e libero da quella nevrosi narcisistica che è la maledizione del lavoro intellettuale. La figura gramsciana dell’intellettuale organico, al partito e alla classe, può essere oggi demonizzata e derisa solo da chi non sarebbe mai stato capace di esserlo. Ebbene, quel ponte tra le due culture lo ha costruito quella figura storica, quel soggetto politico della modernità che si chiama movimento operaio. E lo ha fatto, generando coscienza e organizzazione delle masse e al tempo stesso creando pensiero, teoria, cultura alta. Analisi scientifica delle leggi di movimento dei meccanismi di produzione e riproduzione sociale e insieme progetti di liberazione politica.


Ed ito ri ali



Odio gli indifferenti Credo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire essere partigiani”. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. E’ la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall’impresa eroica. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. E’ la fatalità; e ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che si ribella all’intelligenza e la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare, non è tanto dovuto all’iniziativa dei pochi che operano, quanto all’indifferenza, all’assenteismo dei molti. Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo. Dei fatti maturano nell’ombra, poche mani, non sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa. I destini di un’epoca sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi immediati, delle ambizioni e passioni personali di piccoli gruppi attivi, e la massa degli uomini ignora, per- pag. 15 ché non se ne preoccupa. Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare; ma la tela tessuta nell’ombra arriva a com-


pimento: e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto, del quale rimangono vittima tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. E questo ultimo si irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli non è responsabile. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch’io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo? Ma nessuno o pochi si fanno una colpa della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per evitare quel tal male, combattevano, di procurare quel tal bene si proponevano. I più di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano così la loro assenza da ogni responsabilità. E non già che non vedano chiaro nelle cose, e che qualche volta non siano capaci di prospettare bellissime soluzioni dei problemi più urgenti, o di quelli che, pur richiedendo ampia preparazione e tempo, sono tuttavia altrettanto urgenti. Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente infeconde, ma questo contributo alla vita collettiva non è animato da alcuna luce morale; è prodotto di curiosità intellettuale, non di pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti attivi nella vita, che non ammette agnosticismi e indifferenze di nessun genere. Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l’attività della città


futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano nel sacrifizio; e colui che sta alla finestra, in agguato, voglia usufruire del poco bene che l’attività di pochi procura e sfoghi la sua delusione vituperando il sacrificato, lo svenato perché non è riuscito nel suo intento. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.

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Cos’è l’uomo È questa la domanda prima e principale della filosofia. Come si può rispondere. La definizione si può trovare nell’uomo stesso; e cioè in ogni singolo uomo. Ma è giusta? In ogni singolo uomo si può trovare che cosa è ogni «singolo uomo ». Ma a noi non interessa che cosa è ogni singolo uomo, che poi significa che cosa è ogni singolo uomo in ogni singolo momento. Se ci pensiamo, vediamo che ponendoci la domanda che cosa è l’uomo vogliamo dire: che cosa l’uomo può diventare, se cioè l’uomo può dominare il proprio destino, può «farsi», può crearsi una vita. Diciamo dunque che l’uomo è un processo e precisamente è il processo dei suoi atti. Se ci pensiamo, la stessa domanda: cosa è l’uomo? Non è una domanda astratta, o «obbiettiva». Essa è nata da ciò che abbiamo riflettuto su noi stessi e sugli altri e vogliamo sapere, in rapporto a ciò che abbiamo riflettuto e visto, cosa siamo e cosa possiamo diventare, se realmente ed entro quali limiti, siamo «fabbri di noi stessi», della nostra vita, del nostro destino. E ciò vogliamo saperlo «oggi», nelle condizioni date oggi, della vita «odierna» e non di una qualsiasi vita e di un qualsiasi uomo. La domanda è nata, riceve il suo contenuto da speciali, cioè determinati modi di considerare la vita e l’uomo: il più importante di questi modi è la «religione» ed una determinata religione, il cattolicismo. In realtà, domandandoci: «cos’è l’uomo», quale importanza ha la sua volontà e la sua concreta attività nel creare se stesso e la vita che vive, vogliamo dire: «è il cattolicismo una concezione esatta dell’uomo e della vita? essendo cattolici, cioè facendo del cattolicismo una norma di vita, sbagliamo o siamo nel vero?». Tutti hanno la vaga intuizione che facendo del cattolicismo una norma di vita sbagliano, tanto è vero che nessuno si attiene al cattolicismo come norma di vita, pur dichiarandosi cattolico. Un cattolico integrale, che cioè applicasse in ogni atto della vita le norme cattoliche, sembrerebbe un mostro, ciò che è, a pensarci, la critica più rigo- pag. 19 rosa del cattolicismo stesso e la più perentoria. I cattolici diranno che nessuna altra concezione è seguita puntualmen-


te, ed hanno ragione, ma ciò dimostra solo che non esiste di fatto, storicamente, un modo di concepire ed operare uguale per tutti gli uomini e niente altro; non ha nessuna ragione favorevole al cattolicismo, sebbene questo modo di pensare ed operare da secoli sia organizzato a questo scopo, ciò che ancora non è avvenuto per nessun’altra religione con gli stessi mezzi, con lo stesso spirito di sistema, con la stessa continuità e centralizzazione. Dal punto di vista «filosofico» ciò che non soddisfa nel cattolicismo è il fatto che esso, nonostante tutto, pone la causa del male nell’uomo stesso individuo, cioè concepisce l’uomo come individuo ben definito e limitato. Tutte le filosofie finora esistite può dirsi che riproducono questa posizione del cattolicismo, cioè concepiscono l’uomo come individuo limitato alla sua individualità e lo spirito come tale individualità. È su questo punto che occorre riformare il concetto dell’uomo. Cioè occorre concepire l’uomo come una serie di rapporti attivi (un processo) in cui se l’individualità ha la massima importanza, non è però il solo elemento da considerare. L’umanità che si riflette in ogni individualità è composta di diversi elementi: 1) l’individuo; 2) gli altri uomini; 3) la natura. Ma il 2° e il 3° elemento non sono così semplici come potrebbe apparire. L’individuo non entra in rapporti con gli altri uomini per giustapposizione, ma organicamente, cioè in quanto entra a far parte di organismi dai più semplici ai più complessi. Così l’uomo non entra in rapporto con la natura semplicemente, per il fatto di essere egli stesso natura, ma attivamente, per mezzo del lavoro e della tecnica. Ancora. Questi rapporti non sono meccanici. Sono attivi e coscienti, cioè corrispondono a un grado maggiore o minore d’intelligenza che di essi ha il singolo uomo. Perciò si può dire che ognuno cambia se stesso, si modifica, nella misura in cui cambia e modifica tutto il complesso di rapporti di cui egli è il centro di annodamento. In questo senso il filosofo reale è e non può non essere altri che il politico, cioè l’uomo attivo che modifica l’ambiente, inteso per ambiente l’insieme dei rapporti di cui ogni singolo entra a far parte. Se la propria indi-


vidualità è l’insieme di questi rapporti, farsi una personalità significa acquistare coscienza di tali rapporti, modificare la propria personalità significa modificare l’insieme di questi rapporti. Ma questi rapporti, come si è detto, non sono semplici. Intanto, alcuni di essi sono necessari, altri volontari. Inoltre averne coscienza più o meno profonda (cioè conoscere più o meno il modo con cui si possono modificare) già li modifica. Gli stessi rapporti necessari in quanto sono conosciuti nella loro necessità, cambiano d’aspetto, e d’importanza. La conoscenza è potere, in questo senso. Ma il problema è complesso anche per un altro aspetto: che non basta conoscere l’insieme dei rapporti in quanto esistono in un momento dato come un dato sistema, ma importa conoscerli geneticamente, nel loro moto di formazione, poiché ogni individuo non solo è la sintesi dei rapporti esistenti ma anche della storia di questi rapporti, cioè è il riassunto, di tutto il passato. Si dirà che ciò che ogni singolo può cambiare è ben poco, in rapporto alle sue forze. Ciò che è vero fino a un certo punto. Poiché il singolo può associarsi con tutti quelli che vogliono lo stesso cambiamento e, se questo cambiamento è razionale, il singolo, può moltiplicarsi per un numero imponente di volte e ottenere un cambiamento ben più radicale di quelle, che a prima vista può sembrare possibile. Società alle quali un singolo può partecipare: sono molto numerose, più di quanto, può sembrare. È attraverso queste «società» che il singolo fa parte del genere umano. Così sono molteplici i modi con cui il singolo entra in rapporto, colla natura, poiché per tecnica, deve intendersi non solo quell’insieme di nozioni scientifiche applicate industrialmente che di solito s’intende, ma anche gli strumenti «mentali», la conoscenza filosofica che l’uomo non possa concepirsi altro che vivente in società è luogo comune, tuttavia non se ne traggono tutte le conseguenze necessarie anche individuali: che una determinata società umana presupponga una determinata società delle cose e che la socie- pag. 21 tà umana sia possibile solo in quanto esiste una determinata società delle cose è anche luogo comune. È vero che fino-


ra a questi organismi oltre individuali è stato dato un significato meccanicistico e deterministico (sia la societas hominum che la societas rerum): quindi la reazione. Bisogna elaborare una dottrina in cui tutti questi rapporti sono attivi e in movimento, fissando ben chiaro che sede di questa attività è la coscienza dell’uomo singolo che conosce, vuole, ammira, crea, in quanto già conosce, vuole, ammira, crea ecc. e si concepisce non isolato ma ricco di possibilità offertegli dagli altri uomini e dalla società delle cose, di cui non può non avere una certa conoscenza. (Come ogni uomo è filosofo, ogni uomo è scienziato ecc.).


Progresso e divenire Si tratta di due cose diverse o di aspetti diversi di uno, stesso concetto? Il progresso è una ideologia, il divenire è una concezione filosofica. Il «progresso» dipende da una determinata mentalità, a costituire la quale entrano certi elementi culturali storicamente determinati; il «divenire» è un concetto filosofico, da cui può essere assente il «progresso». Nell’idea di progresso è sottintesa la possibilità di una misurazione quantitativa e qualitativa: più e meglio. Si suppone quindi una misura «fissa» o fissabile, ma questa misura è data dal passato, da una certa fase del passato, o da certi aspetti misurabili ecc. (Non che si pensi a un sistema metrico del progresso). Come è nata l’idea del progresso? Rappresenta questa nascita un fatto culturale fondamentale, tale da fare epoca? Pare di sì. La nascita e lo sviluppo dell’idea del progresso corrisponde alla coscienza diffusa che è stato raggiunto un certo rapporto tra la società e la natura (incluso nel concetto di natura quello di caso e di «irrazionalità») tale per cui gli uomini, nel loro complesso, sono più sicuri del loro avvenire, possono concepire «razionalmente» dei piani complessivi della loro vita. Per combattere l’idea di progresso il Leopardi deve ricorrere alle eruzioni vulcaniche, cioè a quei fenomeni naturali che sono ancora «irresistibili » e senza rimedio. Ma nel passato c’erano ben più numerose forze irresistibili: carestie, epidemie, ecc. che entro certi limiti sono state dominate. Che il progresso sia stata una ideologia democratica è indubbio; che abbia servito politicamente alla formazione dei moderni Stati costituzionali ecc. pure. che oggi non sia più in auge, anche; ma in che senso? Non in quello che si sia perduto la fede nella possibilità di dominare razionalmente la natura e il caso, ma in senso «democratico»; cioè che i «portatori» ufficiali del progresso sono divenuti incapaci di questo dominio, perché hanno suscitato forze distruttive attuali altrettanto pericolose e angosciose che quelle del passato (ormai dimenticate «social- pag. 23 mente » se non da tutti gli elementi sociali, perché i contadini continuano a non comprendere il «progresso» cioè cre-


dono di essere, e sono ancora troppo in balia delle forze naturali e del caso, conservano quindi una mentalità «magica», medioevale, «religiosa») come le «crisi», la disoccupazione ecc. La crisi dell’idea di progresso non è quindi crisi dell’idea stessa, ma crisi dei portatori di essa idea, che sono diventati «natura» da dominare essi stessi. Gli assalti all’idea di progresso, sono molto interessati e tendenziosi. Può disgiungersi l’idea di progresso da quella di divenire? Non pare. Esse sono nate insieme, come politica (in Francia), come filosofia (in Germania, poi sviluppata in Italia). Nel «divenire » si è cercato di salvare ciò che di più concreto è nel «progresso», il movimento e anzi il movimento dialettico (quindi anche un approfondimento, perché il progresso è legato alla concezione volgare dell’evoluzione). Da un articoluccio di Aldo Capasso nell’«Italia Letteraria» del 4 dicembre 1932 riporto alcuni brani che presentano i dubbi volgari su questi problemi: «Anche da noi è comune l’irrisione verso l’ottimismo umanitario e democratico di stile ottocentesco, e Leopardi non è un solitario quando parla delle “sorti progressive” con ironia; ma s’è escogitato quell’astuto travestimento del “Progresso” che è l’idealistico “Divenire”: idea che resterà nella storia, crediamo, più ancora come italiana che come tedesca. Ma che senso può avere un Divenire che si prosegue ad infinitum, un miglioramento che non sarà mai paragonabile ad un bene fisico? Mancando il criterio di un ultimo gradino stabile, manca, del “miglioramento”, l’unità di misura. E inoltre non si può arrivare nemmeno a pascersi della fiducia di essere, noi uomini reali e viventi, migliori, che so io, dei Romani o dei primi Cristiani, perché il “miglioramento” andando inteso in un senso tutto ideale, è perfettamente ammissibile che noi oggi siamo tutti “decadenti” mentre, allora, fossero quasi tutti uomini pieni o magari santi. Sicché, dal punto di vista etico, l’idea d’ascesa ad infinitum implicita nel concetto di divenire resta alquanto ingiustificabile, dato che il “melioramento” etico, è fatto individuale e che nel piano individuale è proprio possibile concludere, procedendo caso per caso, che tutta l’epoca ultima


è deteriore... E allora il concetto del Divenire ottimistico si fa in questa situazione, inafferrabile tanto sul piano ideale quanto nel piano reale (...). È noto come il Croce negasse il valore raziocinativo del Leopardi, asserendo che pessimismo e ottimismo sono atteggiamenti sentimentali, non filosofici. Ma il pessimista (...) potrebbe osservare che, per l’appunto, la concezione del Divenire idealistica, è un fatto d’ottimismo e di sentimento: perché il pessimista e l’ottimista (se non animati di fede nel Trascendente) concepiscono allo stesso modo la Storia: come lo scorrere di un fiume senza foce; e poi collocare l’accento sulla parola “fiume” o sulle parole “senza foce”, secondo il loro stato sentimentale. Dicono gli uni: non c’è foce, ma, come in un fiume armonioso, c’è la continuità delle onde e la sopravvivenza, sviluppata, nell’oggi, dello ieri... E gli altri: c’è la continuità di un fiume, ma non c’è la foce... Insomma, non dimentichiamo che l’ottimismo è sentimento, non meno del pessimismo. Resta che ogni “filosofia” non può fare a meno, di atteggiarsi sentimentalmente, come pessimismo o come ottimismo» ecc. ecc. Non c’è molta coerenza nel pensiero del Capasso, ma il suo modo di pensare è espressivo di uno stato d’animo diffuso, molto snobistico e incerto, molto sconnesso e superficiale e talvolta anche senza molta onestà e lealtà intellettuale e senza la necessaria logicità formale. La questione, è sempre la stessa: cos’è l’uomo? cos’è la natura umana? Se si definisce l’uomo come individuo, psicologicamente e speculativamente, questi problemi del progresso e del divenire sono insolubili o rimangono di mera parola. Ma se si concepisce l’uomo come l’insieme dei rapporti sociali, intanto appare che ogni paragone tra uomini nel tempo è impossibile, perché si tratta di cose diverse, se non eterogenee. D’altronde, poiché l’uomo è anche l’insieme delle sue condizioni di vita, si può misurare quantitativamente la differenza tra il passato e il presente, poiché si può misurare la misura in cui l’uomo domina la natura e il caso. La possibilità non pag. 25 è la realtà, ma è anch’essa una realtà: che l’uomo possa fare una cosa o non possa farla, ha la sua importanza per valu-


tare ciò che realmente si fa. Possibilità vuol dire «libertà». La misura delle libertà entra nel concetto d’uomo. Che ci siano le possibilità obbiettive di non morire di fame, e che si muoia di fame ha la sua importanza, a quanto pare. Ma l’esistenza delle condizioni obbiettive, o possibilità o libertà non è ancora sufficiente: occorre «conoscerle» e sapersene servire. Volersene servire. L’uomo, in questo senso, è volontà concreta, cioè applicazione effettuale dell’astratto volere o impulso vitale ai mezzi concreti che tale volontà realizzano. Si crea la propria personalità: 1) dando un indirizzo determinato e concreto («razionale») al proprio impulso vitale o volontà; 2) “identificando i mezzi che rendono tale volontà concreta e determinata e non arbitraria; 3) contribuendo a modificare l’insieme delle condizioni concrete che realizzano questa volontà nella misura dei propri limiti di potenza e nella forma più fruttuosa. L’uomo è da concepire come un blocco storico di elementi puramente individuali e soggettivi e di elementi di massa e oggettivi o materiali coi quali l’individuo è in rapporto attivo. Trasformare il mondo esterno, i rapporti generali, significa potenziare se stesso, sviluppare se stesso. Che il «miglioramento» etico sia puramente individuale è illusione ed errore: la sintesi degli elementi costitutivi dell’individualità è «individuale», ma essa non si realizza e sviluppa senza una attività verso l’esterno, modificatrice dei rapporti esterni, da quelli verso la natura a quelli verso gli altri uomini in vari gradi, nelle diverse cerchie sociali in cui si vive, fino al rapporto massimo, che abbraccia tutto il genere umano. Perciò si può dire che l’uomo è essenzialmente «politico», poiché l’attività per trasformare e dirigere coscientemente gli altri uomini realizza la sua «umanità», la sua «natura umana».


Sincerità e spontaneità “Sincerità (o spontaneità) e disciplina. La sincerità (o spontaneità) è sempre un pregio e un valore? È un pregio e un valore se disciplinata. Sincerità (e spontaneità) significa massimo di individualismo, ma anche nel senso di idiosincrasia (originalità in questa caso è uguale a idiotismo). L’individuo è originale storicamente quando dà il massimo di risalto e di vita alla «socialità», senza cui egli sarebbe un «idiota» (nel senso etimologico, che però non si allontana dal senso volgare e comune). C’è dell’originalità, della personalità, della sincerità un significato romantico, e questo significato è giustificato storicamente in quanto nacque in opposizione a un certo conformismo essenzialmente «gesuitico»: cioè un conformismo artificioso, fittizio, creato superficialmente per gli interessi di un piccolo gruppo o cricca, non di una avanguardia. C’è un conformismo «razionale» cioè rispondente alla necessità, al minimo sforzo per ottenere un risultato utile e la disciplina di tale conformismo è da esaltare e promuovere, è da fare diventare «spontaneità» e «sincerità». Conformismo, significa poi niente altro che «socialità», ma piace impiegare la parola «conformismo» appunto, per urtare gli imbecilli. Ciò non toglie la possibilità di formarsi una personalità e di essere originali, ma rende più difficile la cosa. È troppo facile essere originali facendo il contrario di ciò che fanno tutti; è una cosa meccanica. Ê troppo facile parlare diversamente dagli altri, essere neolaici, il difficile è distinguersi dagli altri senza perciò fare delle acrobazie. Avviene proprio oggi che si cerca una originalità e personalità a poco prezzo. Le carceri e i manicomi sono pieni di uomini originali e di forte personalità. Battere l’accento sulla disciplina, sulla socialità, e tuttavia pretendere sincerità, spontaneità, originalità, personalità: ecco, ciò che è veramente difficile e arduo. Né si può dire che il conformismo è troppo facile e riduce il mondo a un convento. Intanto, qual è il «vero conformismo», cioè qual è la condotta «razionale» più pag. 27 utile, più libera, in quanto ubbidisce alla «necessità»? Cioè qual è la «necessità»? Ognuno è portato a fare di sé l’arche-


tipo della «moda», della «socialità» e a porsi come «esemplare». Pertanto la socialità, il conformismo, è il risultato di una lotta culturale (e non solo culturale); è un dato «oggettivo» o universale, così come non può non essere oggettiva e universale la «necessità» su cui si innalza l’edificio della libertà.”


Uomini in carne e ossa Gli operai della Fiat sono ritornati al lavoro. Tradimento? Rinnegamento delle idealità rivoluzionarie? Gli operai della Fiat sono uomini in carne e ossa. Hanno resistito per un mese. Sapevano di lottare e resistere non solo per sé, non solo per la restante massa operaia torinese, ma per tutta la classe operaia italiana. Hanno resistito per un mese. Erano estenuati fisicamente perché da molte settimane e da molti mesi i loro salari erano ridotti e non erano più sufficienti al sostentamento familiare, eppure hanno resistito per un mese. Erano completamente isolati dalla nazione, immersi in un ambiente generale di stanchezza, di indifferenza, di ostilità, eppure hanno resistito per un mese. Sapevano di non poter sperare aiuto alcuno dal di fuori: sapevano che ormai alla classe operaia italiana erano stati recisi i tendini, sapevano di essere condannati alla sconfitta, eppure hanno resistito per un mese. Non c’è vergogna nella sconfitta degli operai della Fiat. Non si può domandare a una massa di uomini che è aggredita dalle più dure necessità dell’esistenza, che ha la responsabilità dell’esistenza di una popolazione di 40.000 persone, non si può domandare più di quanto hanno dato questi compagni che sono ritornati al lavoro, tristemente, accoratamente, consapevoli della immediata impossibilità di resistere più oltre o di reagire. Specialmente noi comunisti, che viviamo gomito a gomito con gli operai, che ne conosciamo i bisogni, che della situazione abbiamo una concezione realistica, dobbiamo comprendere il perché di questa conclusione della lotta torinese. Da troppi anni le masse lottano, da troppi anni esse si esauriscono in azioni di dettaglio, sperperando i loro mezzi e le loro energie. E’ stato questo il rimprovero che fin dal maggio 1919 noi dell’ “Ordine Nuovo” abbiamo incessantemente mosso alle centrali del movimento operaio e socialista: non abusate troppo della resistenza e della virtù di sacrificio del proletariato; si tratta di uomini comuni, uomini reali, sottoposti alle stesse pag. 29 debolezze di tutti gli uomini comuni che si vedono passare nelle strade, bere nelle taverne, discorrere a crocchi sulle


piazze, che hanno frame e freddo, che si commuovono a sentir piangere i loro bambini e lamentarsi acremente le loro donne. Il nostro ottimismo rivoluzionario è stato sempre sostanziato da questa visione crudamente pessimistica della realtà umana, con cui inesorabilmente bisogna fare i conti. Già un anno fa noi avevamo previsto quale sbocco fatalmente avrebbe avuto la situazione italiana, se i dirigenti responsabili avessero continuato nella loro tattica di schiamazzo rivoluzionario e di pratica opportunistica. E abbiamo lottato disperatamente per richiamare questi responsabili a una visione più reale, a una pratica più congrua e più adeguata allo svolgersi degli avvenimenti. Oggi scontiamo il fio, anche noi, dell’inettitudine e della cecità altrui; oggi anche il proletariato torinese deve sostenere l’urto dell’avversario, rafforzato dalla non resistenza degli altri. Non c’è nessuna vergogna nella resa degli operai della Fiat. Ciò che doveva avvenire è avvenuto implacabilmente. La classe operaia italiana è livellata sotto il rullo compressore della reazione capitalistica. Per quanto tempo? Nulla è perduto se rimane intatta la coscienza e la fede, se i corpi si arrendono ma non gli animi. Gli operai della Fiat per anni e anni hanno lottato strenuamente, hanno bagnato del loro sangue le strade, hanno sofferto la fame e il freddo; essi rimangono, per questo loro passato glorioso, all’avanguardia del proletariato italiano, essi rimangono militi fedeli e devoti della rivoluzione. Hanno fatto quanto è dato fare a uomini di carne ed ossa; togliamoci il cappello dinanzi alla loro umiliazione, perché anche in essa è qualcosa di grande che si impone ai sinceri e agli onesti.


La conquista dello Stato La concentrazione capitalistica, determinata dal modo di produzione, produce una corrispondente concentrazione di masse umane lavoratrici. In questo fatto bisogna cercare l’origine di tutte le tesi rivoluzionarie del marxismo, bisogna cercare le condizioni del costume nuovo proletario, dell’ordine nuovo comunista destinato a sostituire il costume borghese, il disordine capitalistico generato dalla libera concorrenza e dalla lotta di classe. Nella sfera dell’attività generale capitalistica, anche il lavoratore opera sul piano della libera concorrenza, è un individuo-cittadino. Ma le condizioni di partenza della lotta non sono uguali per tutti; nello stesso tempo: l’esistenza della proprietà privata porta la minoranza sociale in condizioni di privilegio, rende impari la lotta. Il lavoratore è continuamente esposto ai rischi più micidiali: la sua vita stessa elementare, la sua cultura, la vita e l’avvenire della sua famiglia sono esposti ai contraccolpi bruschi delle variazioni del mercato di lavoro. Il lavoratore tenta allora di uscire dalla sfera della concorrenza e dell’individualismo. Il principio associativo e solidaristico diventa essenziale della classe lavoratrice, muta la psicologia e i costumi degli operai e contadini. Sorgono istituti e organi nei quali questo principio si incarna; sulla base di essi si inizia il processo di sviluppo storico che conduce al comunismo dei mezzi di produzione e di scambio. L’associazionismo può e deve essere assunto come il fatto essenziale della rivoluzione proletaria. Dipendentemente da questa tendenza storica sono sorti nel periodo precedente all’attuale (che possiamo chiamare periodo della I e II Internazionale o periodo di reclutamento) e si sono sviluppati i Partiti socialisti e i sindacati professionali. Lo sviluppo di queste istituzioni proletarie e di tutto il movimento proletario in genere non fu però autonomo, non ubbidiva a leggi proprie immanenti nella vita e nella esperienza storica della classe lavoratrice sfruttata. Le leggi della storia erano dettate dalla classe pro- pag. 31 prietaria organizzata nello Stato. Lo Stato è sempre stato il protagonista della storia, perché nei suoi organi si accentra


la potenza della classe proprietaria, nello Stato la classe proprietaria si disciplina e si comporta in unità, sopra i dissidi e i cozzi della concorrenza, per mantenere intatta la condizione di privilegio nella fase suprema della concorrenza stessa: la lotta di classe per il potere, per la preminenza nella direzione e nel disciplinamento della società. In questo periodo il movimento proletario fu solo una funzione della libera concorrenza capitalistica. Le istituzioni proletarie dovettero assumere una forma non per legge interna, ma per legge esterna, sotto la pressione formidabile di avvenimenti e di coercizioni dipendenti dalla concorrenza capitalistica. Da ciò hanno tratto origine gli intimi conflitti, le deviazioni, i tentennamenti, i compromessi che caratterizzano tutto il periodo di vita del movimento proletario precedente all’attuale e che hanno culminato nella bancarotta della Il Internazionale. Alcune correnti del movimento socialista e proletario avevano posto esplicitamente come fatto essenziale della rivoluzione l’organizzazione operaia di mestiere e su questa base fondavano la loro propaganda e la loro azione. Il movimento sindacalista parve, per un momento, essere il vero interprete del marxismo, vero interprete della verità. L’errore del sindacalismo consiste in ciò: nell’assumere come fatto permanente, come forma perenne dell’associazionismo, il sindacato professionale nella forma e con le funzioni attuali, che sono imposte e non proposte, e quindi non possono avere una linea costante e prevedibile di sviluppo. Il sindacalismo, che si presentò come iniziatore di una tradizione liberista “spontaneista”, è stato in verità uno dei tanti camuffamenti dello spirito giacobino e astratto. Da ciò gli errori della corrente sindacalista, che non riuscì a sostituire il Partito socialista nel compito di educare alla rivoluzione la classe lavoratrice. Gli operai e i contadini sentivano che, per tutto il periodo in cui la classe proprietaria e lo Stato democratico-parlamentare dettano le leggi della storia, ogni tentativo di evasione dalla sfera di queste leggi è inane e ridicolo. È certo che nella configurazione generale assunta dalla società colla produzione industriale, ogni uo-


mo può attivamente partecipare alla vita e modificare l’ambiente solo in quanto opera come individuo-cittadino, membro dello Stato democratico-parlamentare. L’esperienza liberale non è vana e non può essere superata se non dopo averla fatta. L’apoliticismo degli apolitici fu solo una degenerazione della politica: negare e combattere lo Stato è fatto politico tanto quanto inserirsi nella attività generale storica che si unifica nel Parlamento e nei comuni, istituzioni popolari dello Stato. Varia la qualità del fatto politico: i sindacalisti lavoravano fuori della realtà e quindi la loro politica era fondamentalmente errata; i socialisti parlamentaristi lavoravano nell’intimo delle cose, potevano sbagliare (commisero anzi molti e pesanti sbagli), ma non errarono nel senso della loro azione e perciò trionfarono nella “concorrenza”; le grandi masse, quelle che con il loro intervento modificano obbiettivamente i rapporti sociali, si organizzarono intorno al Partito socialista. Nonostante tutti gli sbagli e le manchevolezze, il Partito riuscì, in ultima analisi, nella sua missione: far diventare qualcosa il proletario che prima era nulla, dargli una consapevolezza, dare al movimento di liberazione un senso diritto e vitale che corrispondeva, nelle linee generali, al processo di sviluppo storico della società umana. Lo sbaglio più grave del movimento socialista è stato di natura simile a quello dei sindacalisti. Partecipando all’attività generale della società umana nello Stato, i socialisti dimenticarono che la loro posizione doveva mantenersi essenzialmente di critica, di antitesi. Si lasciarono assorbire dalla realtà, non la dominarono. I comunisti marxisti devono caratterizzarsi per una psicologia che possiamo chiamare “maieutica”. La loro azione non è di abbandono al corso degli avvenimenti determinati dalle leggi della concorrenza borghese, ma di partecipazione critica. La storia è un continuo farsi, è quindi essenzialmente imprevedibile. Ma ciò non significa che “tutto” sia imprevedibile nel farsi della storia, che cioè la storia sia dominio dell’arbitrio e del capriccio ir- pag. 33 responsabile. La storia è insieme libertà e necessità. Le istituzioni, nel cui sviluppo e nella cui attività la storia si incar-


na, sono sorte e si mantengono perché hanno un compito e una missione da realizzare. Sono sorte e si sono sviluppate determinate condizioni obbiettive di produzione dei beni materiali e di consapevolezza spirituale degli uomini. Se queste condizioni obbiettive, che per la loro natura meccanica sono commensurabili quasi matematicamente, mutano, muta anche la somma di rapporti che regolano e informano la società umana, muta il grado di consapevolezza degli uomini; la configurazione sociale si trasforma, le istituzioni tradizionali si immiseriscono, sono inadeguate al loro compito, diventano ingombranti e micidiali. Se nel farsi della storia l’intelligenza fosse incapace a cogliere un ritmo, a stabilire un processo, la vita della civiltà sarebbe impossibile: il genio politico si riconosce appunto da questa capacità di impadronirsi del maggior numero possibile di termini concreti necessari e sufficienti per fissare un processo di sviluppo e dalle capacità quindi di anticipare il futuro prossimo e remoto e sulla linea di questa intuizione impostare l’attività di uno Stato, arrischiare la fortuna di un popolo. In questo senso Carlo Marx è stato di gran lunga il più grande dei geni politici contemporanei. I socialisti hanno, supinamente spesso, accettato la realtà storica prodotto dell’iniziativa capitalistica; sono caduti nell’errore di psicologia degli economisti liberali: credere alla perpetuità delle istituzioni dello Stato democratico, alla loro fondamentale perfezione. Secondo loro la forma delle istituzioni democratiche può essere corretta, qua e là ritoccata, ma deve essere rispettata fondamentalmente. Un esempio di questa psicologia angustamente vanitosa è dato dal giudizio minossico di Filippo Turati, secondo il quale il parlamento sta al Soviet come la città sta all’orda barbarica. Da questa errata concezione del divenire storico, dalla pratica annosa del compromesso e da una tattica “cretinamente” parlamentarista, nasce la formula odierna sulla “conquista dello Stato”. Noi siamo persuasi, dopo le esperienze rivoluzionarie della Russia, dell’Ungheria e della Germania, che lo Stato socialista non può incarnarsi nelle istituzioni dello Stato capitalista, ma è


una creazione fondamentalmente nuova per rispetto ad esse, se non per rispetto alla storia del proletariato. Le istituzioni dello Stato capitalista sono organizzate ai fini della libera concorrenza: non basta mutare il personale per indirizzare in un altro senso la loro attività. Lo Stato socialista non è ancora il comunismo, cioè l’instauramento di una pratica e di un costume economico solidaristico, ma è lo Stato di transizione che ha il compito di sopprimere la concorrenza con la soppressione della proprietà privata, delle classi, delle economie nazionali: questo compito non può essere attuato dalla democrazia parlamentare. La formula “conquista dello Stato” deve essere intesa in questo senso: creazione di un nuovo tipo di Stato, generato dalla esperienza associativa della classe proletaria e sostituzione di esso allo Stato democratico-parlamentare. La creazione dello Stato proletario non è, insomma, un atto taumaturgico: è anch’essa un farsi, è un processo di sviluppo. Presuppone un lavoro preparatorio di sistemazione e di propaganda. Bisogna dare maggior sviluppo e maggiori poteri alle istituzioni proletarie di fabbrica già esistenti, farne sorgere di simili nei villaggi, ottenere che gli uomini che le compongono siano dei comunisti consapevoli della missione rivoluzionaria che l’istituzione deve assolvere. Altrimenti tutto il nostro entusiasmo, tutta la fede delle masse lavoratrici non riuscirà a impedire che la rivoluzione si componga miseramente in un nuovo Parlamento di imbroglioni, di fatui e di irresponsabili e che nuovi e più spaventosi sacrifizi siano resi necessari per l’avvento dello Stato dei proletari.

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Tre principi, tre ordini L’ordine e il disordine sono le due parole che più frequentemente ricorrono nelle polemiche di carattere politico. Partiti dell’ordine, uomini dell’ordine, ordine pubblico... Tre parole avvicinate ad un cardine unico: l’ordine, sul quale le parole si basano e girano con maggiore o minore aderenza a seconda della concreta forma storica che gli uomini, i partiti e lo stato assumono nella molteplice possibile loro incarnazione. La parola ordine ha un potere taumaturgico; la conservazione degli istituti politici è affidata in gran parte a questo potere. L’ordine presente si presenta come qualcosa di armonicamente coordinato, di stabilmente coordinato; e la moltitudine dei cittadini esita e si spaura nell’incertezza di ciò che un cambiamento radicale potrebbe apportare. Il senso comune, il balordissimo senso comune, predica al solito che è meglio un uovo oggi che una gallina domani. E il senso comune è un terribile negriero degli spiriti. Tanto più quando per aver la gallina bisogna rompere il guscio dell’uovo. Si forma nella fantasia l’immagine di qualcosa di lacerato violentemente; non si vede l’ordine nuovo possibile, meglio organizzato del vecchio, più vitale del vecchio, perché al dualismo contrappone l’unità, all’immobilità statica dell’inerzia la dinamica della vita semoventesi. Si vede solo la lacerazione violenta, e l’animo pavido arretra nella paura di tutto perdere, di aver dinanzi a sé il caos, il disordine ineluttabile. Le profezie utopistiche erano costituite appunto in vista di questa paura. Si voleva, con l’utopia, prospettare un assetto nel futuro che fosse ben coordinato, ben lisciato, e togliesse l’impressione del salto nel buio. Ma le costruzioni sociali utopistiche sono crollate tutte, perché essendo appunto così lisciate e assettatuzze, bastava dimostrarne infondato un particolare, per farle crollare nella loro totalità. Non avevano base queste costruzioni, perché troppo analitiche, perché fondate su un’infinità di fatti, e non su un unico principio morale. Ora i fatti concreti dipendono da tante pag. 37 cause, che finiscono per non aver più causa, e per essere imprevedibili. E l’uomo ha bisogno, per operare, di poter al-


meno in parte prevedere. Non si concepisce volontà che non sia concreta, che cioè non abbia uno scopo. Non si concepisce volontà collettiva che non abbia uno scopo universale concreto. Ma questo non può essere un fatto singolo, o una serie di fatti singoli. Può essere solo un’idea, o un principio morale. Il difetto organico delle utopie è tutto qui. Credere che la previsione possa essere previsione di fatti, mentre essa può solo esserlo di principi, o di massime giuridiche. Le massime giuridiche (il diritto, il giure è la morale attuata) sono creazione degli uomini come volontà. Se volete dare a queste volontà una certa direzione, ponete loro come scopo ciò che solo può esserlo: altrimenti, dopo un primo entusiasmo, le vedrete abbiosciarsi e dileguare. Gli ordini attuali sono stati suscitati per la volontà di attuare totalmente un principio giuridico. I rivoluzionari dell’89 non prevedevano l’ordine capitalistico. Volevano attuare i diritti dell’uomo, volevano che fossero riconosciuti ai componenti la collettività determinati diritti. Questi, dopo la lacerazione iniziale del vecchio guscio, andarono affermandosi, andarono concretandosi e, divenuti forze operose sui fatti, li plasmarono, li caratterizzarono e ne sbocciò la civiltà borghese, l’unica che potesse sbocciarne, perché la borghesia era l’unica energia sociale fattiva e realmente operante nella storia. Gli utopisti furono sconfitti anche allora, perché nessuna delle loro particolari previsioni si realizzò. Ma si realizzò il principio, e da questo fiorirono gli ordinamenti attuali, l’ordine attuale. Era un principio universale quello affermatosi nella storia attraverso la rivoluzione borghese? Certamente sì. Eppure si è soliti dire che se J.-J. Rousseau potesse vedere quale foce hanno avuto le sue predicazioni, probabilmente le rinnegherebbe. In questa affermazione paradossale è contenuta una critica implicita del liberalismo. Ma essa è paradossale, cioè afferma in modo ingiusto una cosa giusta. Universale non vuol dire assoluto. Nella storia niente vi è di assoluto e di rigido. Le affermazioni del liberalismo sono delle idee-limiti che, riconosciute razionalmente necessarie, sono diventate idee-forze, si sono realizzate nello stato borghese,


hanno servito a suscitare a questo stato un’antitesi nel proletariato, e si sono logorate. Universali per la borghesia, non lo sono abbastanza per il proletariato. Per la borghesia erano idee-limiti, per il proletariato sono idee-minimi. E infatti il programma liberale integrale è diventato il programma minimo del partito socialista. Il programma cioè che ci serve a vivere giorno per giorno, in attesa che si giudichi giunto l’istante più utile. Come idea-limite il programma liberale crea lo stato etico, uno stato cioè che idealmente sta al disopra delle competizioni di classe, del vario intrecciarsi ed urtarsi degli aggruppamenti che ne sono la realtà economica e tradizionale. E’ un’aspirazione politica questo stato, più che una realtà politica; esiste solo come modello utopistico, ma è appunto questo suo essere un miraggio che lo irrobustisce e ne fa una forza di conservazione. Nella speranza che finalmente esso si realizzi nella sua compiuta perfezione, molti trovano la forza per non rinnegarlo, e non cercare quindi di sostituirlo (...) E’ la forma mentis venutasi creando attraverso questi movimenti. E’ la convinzione venutasi formando nel sempre maggior numero di cittadini che vennero attraverso queste lotte a partecipare all’attività pubblica, che nella libera manifestazione dei propri convincimenti, nel libero esplicarsi delle forze produttive e legislative del paese era il segreto della felicità. Della felicità, naturalmente, intesa nel senso che di tutto ciò che succede di male, non possa andare la colpa a singoli, e di tutto ciò che non riesce debba ricercarsi la ragione solo nel fatto che gli iniziatori non possedevano ancora la forza per affermare vittoriosamente il loro programma. Per l’Inghilterra il liberismo ha trovato, per citare un esempio, prima della guerra, il suo propugnatore teoricopratico in Lloyd George, che, ministro di stato, in un comizio pubblico, e sapendo che le sue parole acquistavano significato di programma di governo, dice press’a poco agli operai: - Noi non siamo socialisti, cioè non addiveniamo subito alla socializzazione della produzione. pag. 39 Ma non abbiamo pregiudiziali teoriche contro il socialismo. A ognuno il suo compito. Se la società attuale è ancora ca-


pitalista, ciò vuol dire che il capitalismo è ancora una forza storicamente non esaurita. Voi socialisti dite che il socialismo è maturo. Provatelo. Provate di essere la maggioranza, provate di essere non solo potenzialmente, ma anche in atto, la forza capace di reggere le sorti del paese. E noi vi lasceremo il posto pacificamente. Parole che a noi, abituati a vedere nel governo qualcosa di sfingico, astratto completamente dal paese e da ogni polemica viva su idee e fatti, sembrano strabilianti. Ma che non lo sono, e non sono neppure retorica vuota, se si pensa che è da più di 200 anni che in Inghilterra si combattono delle lotte politiche nella piazza, e che il diritto alla libera affermazione di tutte le energie è un diritto conquistato, e non un diritto naturale, che si presume tale in sé e per sé (...) Questa forma di socialismo di stato borghese, cioè socialismo non socialista, faceva si che anche il proletariato non vedesse molto di cattivo occhio lo stato come governo, e persuaso, a torto o a ragione, di essere tutelato, conducesse la lotta di classe con discrezione e senza quell’esasperazione morale che caratterizza il movimento operaio. La concezione dello stato germanico è agli antipodi di quella inglese, ma produce gli stessi effetti. Lo stato tedesco è protezionista per forma mentis. Fichte ha dato il codice dello stato chiuso. Cioè dello stato retto dalla ragione. Dello stato che non deve essere lasciato in balia delle forze libere spontanee degli uomini, ma deve in ogni cosa, in ogni atto imprimere il suggello di una volontà, di un programma stabilito, preordinato dalla ragione. E perciò in Germania il parlamento non ha quei poteri che ha altrove. E’ semplice ente consultivo, da mantenere solo perché razionalmente non si può ammettere l’infallibilità dei poteri esecutivi, e anche dal parlamento, dalla discussione può scoccare la verità. Ma la maggioranza non ha diritto riconosciuto alla verità. Arbitro rimane il Ministero (l’Imperatore), che giudica e sceglie, e non è sostituito che per volontà imperiale. Ma le classi hanno la convinzione, non retorica, non supina, ma formatasi attraverso decenni di esperienze di retta amministrazione, di osservata giustizia distributiva, che i loro di-


ritti alla vita sono tutelati e che la loro attività deve consistere nel cercare di diventar maggioranza, per i socialisti, e di conservarsi maggioranza e dimostrare continuamente la loro necessità storica, per i conservatori. Un esempio: la votazione, approvata anche dai socialisti, del miliardo per maggiori spese militari, avvenuta nel 1913 (...) Questi due tipi di ordine costituito sono il modello base dei partiti d’ordine d’Italia. I liberali e i nazionalisti dicono (o dicevano) rispettivamente di volere che in Italia si creasse qualcosa di simile allo stato inglese e allo stato germanico. La polemica contro il socialismo è tutta tessuta sull’aspirazione di questo stato etico potenziale in Italia. Ma in Italia è mancato completamente quel periodo di svolgimento che ha reso possibile l’attuale Germania e Inghilterra. Pertanto se portate alle ultime conseguenze i ragionamenti dei liberali e dei nazionalisti italiani, ottenete come risultato nel presente questa formula: il sacrifizio da parte del proletariato. Sacrifizio dei propri bisogni, sacrifizio della propria personalità, della propria combattività per dare tempo al tempo, per permettere che la ricchezza si moltiplichi, per permettere che l’amministrazione si purifichi. I nazionalisti e i liberali non arrivano fino a sostenere che in Italia esista un ordine qualsiasi. Sostengono che quest’ordine dovrà esistere, purché i socialisti non intralcino la fatale sua instaurazione. Questo stato di fatto delle cose italiane è per noi fonte di maggiore energia e di maggiore combattività. Se si pensa quanto sia difficile convincere a muoversi un uomo che non abbia delle ragioni immediate per farlo, si comprende quanto sia più difficile convincere una moltitudine negli stati dove non esiste, come in Italia, da parte del governo, il partito preso di soffocarne le aspirazioni, di taglieggiarne in tutti i modi la pazienza e la produttività. Nei paesi dove non succedono i conflitti di piazza, dove non si vedono calpestate le leggi fondamentali dello stato, né si vede l’arbitrio essere il dominatore, la lotta di classe perde della sua asprezza, lo pag. 41 spirito rivoluzionario perde di slancio e si abbioscia. La cosiddetta legge del minimo sforzo, che è la legge dei poltroni,


e vuol dire spesso non far niente, diventa popolare. In quei paesi la rivoluzione è meno probabile. Dove esiste un ordine, è più difficile che ci si decida a sostituirlo con un ordine nuovo. I socialisti non devono sostituire ordine ad ordine. Devono instaurare l’ordine in sé. La massima giuridica che essi vogliono realizzare è: possibilità di attuazione integrale della propria personalità umana concessa a tutti i cittadini. Con il concretarsi di questa massima cadono tutti i privilegi costituiti. Essa porta al massimo della libertà col minimo della costrizione. Vuole che regola della vita e delle attribuzioni sia la capacità e la produttività, all’infuori di ogni schema tradizionale. Che la ricchezza non sia strumento di schiavitù, ma essendo di tutti impersonalmente, dia a tutti i mezzi per tutto il benessere possibile. Che la scuola educhi gli intelligenti da chiunque nati, e non rappresenti il premio. Da questa massima dipendono organicamente tutti gli altri principi del programma massimo socialista. Esso, ripetiamo, non è utopia. E’ universale concreto, può essere attuato dalla volontà. E’ principio d’ordine, dell’ordine socialistico.


Margini Lo sforzo fatto per conquistare una verità, fa apparire un po’ come propria la verità stessa, anche se alla sua nuova enunciazione non si è aggiunto nulla di veramente proprio, non s’è data neppure una lieve colorazione personale. Ecco perché spesso si plagiano gli altri inconsciamente, e si rimane disillusi per la freddezza con cui vengono accolte affermazioni che riputavamo capaci di scuotere, di entusiasmare. Amico mio, ci ripetiamo sconsolatamente, il tuo era l’uovo di Colombo. Ebbene, non mi importa di essere lo scopritore dell’uovo di Colombo. Preferisco ripetere una verità già conosciuta al cincischiarmi l’intelligenza per fabbricare paradossi brillanti, spiritosi giochi di parole, acrobatismi verbali, che fanno sorridere, ma non fanno pensare. La giardiniera plebea è sempre la minestra più nutriente e più appetitosa appunto perché preparata con le civaie più usuali. Mi piace vederla ingoiare a larghe cucchiaiate dagli uomini gagliardi e ricchi di succhi gastrici che contengono nella forza della loro volontà e dei loro muscoli l’avvenire. La più trita verità non è mai stata ripetuta quanto basti perché essa diventi massima e stimolo all’azione in tutti gli uomini. Quando discuti con un avversario, prova a metterti nei suoi panni. Lo comprenderai meglio e forse finirai con l’accorgerti che ha un po’, o molto, di ragione. Ho seguito per qualche tempo questo consiglio dei saggi. Ma i panni dei miei avversari erano così sudici che ho concluso: è meglio essere ingiusto qualche volta che provare di nuovo questo schifo che fa svenire. Le diserzioni dal socialismo di molti cosiddetti intellettuali (a proposito: intellettuale vuol sempre dire intelligente?) sono diventate per gli sciocchi la miglior prova della povertà morale della nostra idea. Il fatto è che fenomeni simili sono avvenuti e avvengono per il positivismo, per il nazionalismo, per il futurismo, e per tutti gli altri “ismi”. Ci sono i crisaioli, le animucce sempre in cerca di un punto fermo, che si buttano sulla prima idea che si presenti con pag. 43 l’apparenza di poter diventare un ideale e se ne nutrono fino a quando dura lo sforzo per impossessarcene. Quando


si è arrivati alla fine dello sforzo e ci si accorge (ma questo è effetto della poca profondità spirituale, del poco ingegno, in fondo) che essa non basta a tutto, che ci sono problemi la cui soluzione (se pur esiste) è fuori di quella ideologia (ma forse è ad essa coordinata in un piano superiore), ci si butta su qualche altra cosa che sia una verità, che rappresenti ancora un incognito e quindi presenti probabilità di soddisfazioni nuove. Gli uomini cercano sempre fuori di sé la ragione dei propri fallimenti spirituali; non vogliono convincersi che la causa ne è sempre e solo la loro animuccia, la loro mancanza di carattere e di intelligenza. Ci sono i dilettanti della fede, così come i dilettanti del sapere. Ciò nella migliore delle ipotesi. Per molti la crisi di coscienza non è che una cambiale scaduta o il desiderio di aprire un conto corrente. Si dice che in Italia ci sia il peggior socialismo d’Europa. E sia pure: l’Italia avrebbe il socialismo che si merita. Il progresso non consiste per lo più che nella partecipazione di un sempre maggior numero di individui a un bene. L’egoismo è il collettivismo degli appetiti e dei bisogni di un singolo: il collettivismo è l’egoismo di tutti i proletari del mondo. I proletari non sono certo altruisti nel significato che a questa parola danno gli umanitari frolli. Ma l’egoismo del proletariato è nobilitato dalla coscienza che il proletariato ha di non poterlo totalmente appagare senza che lo abbiano appagato nello stesso tempo tutti gli altri individui della sua classe. E perciò l’egoismo proletario crea immediatamente la solidarietà di classe. E’ stato detto: il socialismo è morto nel momento stesso in cui è stato dimostrato che la società futura che i socialisti dicevano di star creando era solo un mito buono per le folle. Anch’io credo che il mito si sia dissolto nel nulla. Ma la sua dissoluzione era necessaria. Il mito si era venuto formando quando era ancor viva la superstizione scientifica, quando si aveva una fede cieca in tutto ciò che era accompagnato dall’attributo scientifico. Il raggiungimento di questa società modello era un postulato del positivismo filosofico, della filosofia scientifica. Ma questa concezione non era scientifica, era solo meccanica, arida-


mente meccanica. Ne è rimasto il ricordo scolorito nel riformismo teorico di Claudio Treves, un balocco di fatalismo positivista le cui determinanti sono energie sociali astratte dall’uomo e dalla volontà, incomprensibili e assurde: una forma di misticismo arido e senza scatti di passione dolorante. Era questa una visione libresca, cartacea, della vita; si vede l’unità, l’effetto, non si vede il molteplice, l’uomo di cui l’unità è la sintesi. La vita è per costoro come una valanga che si osserva da lontano, nella sua irresistibile caduta. Posso io fermarla?, si domanda l’homunculus: no, dunque essa non segue una volontà. Perché la valanga umana obbedisce ad una logica che caso per caso può non essere la mia individuale, ed io individuo non ho la forza di fermarla o di farla deviare, mi convinco che essa non ha una logica interiore, ma ubbidisce a delle leggi naturali infrangibili. E’ avvenuta la débâcle della scienza, o per meglio dire, la scienza si è limitata ad assolvere il solo compito che le era concesso; si è perduta la cieca fiducia nelle sue deduzioni ed è quindi tramontato il mito che essa aveva contribuito potentemente a suscitare. Ma il proletariato si è rinnovato; nessuna delusione vale ad essiccare la sua convinzione, come nessuna brinata distrugge il virgulto ricolmo di succhi vitali. Ha riflettuto sulle proprie forze, e su quanta forza è necessaria per il raggiungimento dei suoi fini. Si è maggiormente nobilitato nella coscienza delle sempre maggiori difficoltà che ora vede, e nel proposito dei sempre maggiori sacrifizi che sente di dover fare. E’ avvenuto un processo di interiorizzamento: si è trasportato dall’esterno all’interno il fattore della storia: a un periodo di espansione ne succede sempre uno di intensificazione. Alla legge naturale, al fatale andare delle cose degli pseudo scienziati è stata sostituita: la volontà tenace dell’uomo. Il socialismo non è morto, perché non sono morti per esso gli uomini di buona volontà (...) E’ più facile convincere chi non ha mai partecipato alla vita politica di chi ha già appartenuto a un partito già sagomato e ricco di tradi- pag. 45 zioni. E’ immensa la forza che la tradizione esercita sugli animi. Un clericale, un liberale che diventano socialisti, sono


altrettante macchine a sorpresa che possono da un momento all’altro esplodere con effetti letali per la nostra compagine. Le anime vergini degli uomini di campagna, quando si convincono di una verità, si sacrificano per essa, fanno tutto il possibile per attuarla. Chi si è convertito, è sempre un relativista. Ha esperimentato in se stesso una volta quanto sia facile sbagliarsi nello scegliere la propria via. Pertanto gliene rimane un fondo di scetticismo. Chi è scettico non ha il coraggio necessario per l’azione. Preferisco che al movimento si accosti un contadino più che un professore d’università. Solo che il contadino dovrebbe cercare di farsi tanta esperienza e tanta larghezza di mente quanta ne può avere un professore d’università, per non rendere sterile la sua azione e il possibile suo sacrifizio. Accelerare l’avvenire. Questo è il bisogno più sentito nella massa socialista. Ma cos’è l’avvenire? Esiste esso come qualcosa di veramente concreto? L’avvenire non è che un prospettare nel futuro la volontà dell’oggi come già avente modificato l’ambiente sociale. Pertanto accelerare l’avvenire significa due cose. Essere riusciti a far estendere questa volontà a un numero tale di uomini quanto si presume sia necessaria per far diventare fruttuosa la volontà stessa. E questo sarebbe un progresso quantitativo. Oppure: essere riusciti a far diventare questa volontà talmente intensa nella minoranza attuale, che sia possibile l’equazione: 1 = 1 000 000 . E questo sarebbe un progresso qualitativo. Arroventare la propria anima e farne sprizzare miriadi di scintille. Ciò è necessario [...]. Aspettare di essere diventati la metà più uno è il programma delle anime pavide che aspettano il socialismo da un decreto regio controfirmato da due ministri.


Lett er e d al ca rc er e



Ai figli (Delio è il primogenito nato nel 1924. Julik/Giuliano è il secondogenito nato nel 1926)

Studiare è difficile Carissimo Giuliano, ti faccio tanti auguri per l’andamento del tuo anno scolastico. Sarei molto contento se tu mi spiegassi in che consistono le difficoltà che trovi nello studiare. Mi pare che se tu stesso riconosci di avere delle difficoltà, queste non devono essere molto grandi e potrai superarle con lo studio: questo non è sufficiente per te? Forse sei un po’ disordinato, ti distrai, la memoria non funziona e tu non sai farla funzionare? Dormi bene? Quando giochi pensi a ciò che hai studiato o quando studi pensi al gioco? Ormai sei un ragazzo già formato e puoi rispondere alle mie domande con esattezza. Alla tua età io ero molto disordinato, andavo molte ore a scorrazzare nei campi, però studiavo anche molto bene perché avevo una memoria molto forte e pronta e non mi sfuggiva nulla di ciò che era necessario per la scuola: per dirti tutta la verità debbo aggiungere che ero furbo e sapevo cavarmela anche nelle difficoltà pur avendo studiato poco. Ma il sistema di scuola che io ho seguito era molto arretrato; inoltre la quasi totalità dei condiscepoli non sapeva parlare l’italiano che molto male e stentatamente e ciò mi metteva in condizioni di superiorità perché il maestro doveva tener conto della media degli allievi e il saper parlare l’italiano era già una circostanza che facilitava molte cose (la scuola era in un paese rurale e la grande maggioranza degli allievi era di origine contadina). Carissimo, sono certo che mi scriverai senza interruzione e mi terrai al corrente della tua vita. Ti abbraccio. Antonio

Il regalo del babbo Caro Giuliano, così ti sei liberato dal collettivo e vai al cam- pag. 49 po. Tornerai a scuola. Perché scrivere proprio all’ultimo momento, in attesa della macchina? Ti abbraccio tanto per la tua festa e ti mando un orologino, sperando che ti faccia


riflettere al tempo e quindi ... scrivere non all’ultimo momento. Ti bacio. Antonio

Studiar bene Caro Giuliano, come va il tuo cervellino? La tua lettera mi è piaciuta molto. Il tuo modo di scrivere è più fermo di prima, ciò che mostra che tu stai diventando una persona grande. Mi domandi, ciò che mi interessa di più. Devo rispondere che non esiste niente che «mi interessi di più», cioè che molte cose mi interessano molto nello stesso tempo. Per esempio, per ciò che ti riguarda, mi interessa che tu studi bene e con profitto, ma anche che tu sia forte e robusto e moralmente pieno di coraggio e di risolutezza; ecco quindi che m’interessa che tu riposi bene, mangi con appetito ecc...: tutto è collegato e intessuto strettamente; se un elemento del tutto viene a mancare o fa difetto, l’intiero si spappola. Per ciò mi è dispiaciuto che tu abbia scritto di non poter rispondere alla quistione se vai con risolutezza verso la tua meta, che in questo caso significa studiar bene, esser forte ecc. Perché non puoi rispondere, se dipende da te il disciplinarti, il resistere agli impulsi negativi ecc.? Ti scrivo seriamente, perché ormai vedo che non sei più un ragazzino, e anche perché tu stesso una volta mi hai scritto che vuoi essere trattato con serietà. A me pare che tu abbia molte forze latenti nel cervello; la tua stessa espressione che non puoi rispondere alla domanda, significa che rifletti e sei responsabile di ciò che fai e scrivi. Eppoi, si vede anche dalla fotografia che ho ricevuto che c’è molta energia in te. Evviva Giuliano! Ti voglio molto bene. Antonio

Impara a star seduto Caro Delio, i tuoi bigliettini diventano sempre più corti e stereotipati. Io credo che tu abbia abbastanza tempo per scrivere più a lungo e in modo più interessante; non c’è nessun bisogno di scrivere all’ultimo momento, in fretta in fretta, prima di andare a spasso. Ti pare? Non credo neppure che ti possa far piacere che il tuo babbo ti giudichi dai tuoi


bigliettini come uno stupidello che si interessa solo della sorte del suo pappagalluccio, e fa sapere che sta leggendo un libro qualsiasi. Io credo che una delle cose più difficili alla tua età è quella di star seduto dinanzi a un tavolino per mettere in ordine i pensieri (e per pensare addirittura) e per scriverli con un certo garbo; questo è un «apprendissaggio» talvolta più difficile di quello di un operaio che vuole acquistare una qualifica professionale, e deve incominciare proprio alla tua età. Ti abbraccio forte. Antonio

Mantenere le promesse Caro Giuliano, ho ricevuto tue notizie dalle lettere della mamma e di nonna. Ma perché tu non scrivi qualche parola? Io sono molto contento quando ricevo una tua lettera, e chi sa quante cose tu potresti scrivermi sulla scuola, sui tuoi compagni, suoi tuoi insegnanti, sugli alberi che vedi, sui tuoi giochi ecc. E poi ... tu avevi promesso di scrivermi qualche cosa ogni giorno di vacanza. Bisogna sempre mantenere le promesse, anche se costa qualche sacrifizio e immagino che per te non deve essere un grande sacrifizio scrivere qualche cosa ... Caro, ti abbraccio. Antonio

Impara a essere ordinato Caro Giuliano, questa volta non ho ricevuto nessuna tua lettera. Mi dispiace. Sarei contento se tu mi scrivessi molto, anzi avevi promesso (mi pare) di scrivere qualche cosa ogni giorno di vacanza e poi mandarmi lo scritto insieme alla lettera di Delio. Si vede che sei un po’ disordinato e che dimentichi ciò che era per te un impegno. Puoi scrivermi di tutto, e io ti risponderò seriamente. Ormai sei un ragazzo già grandetto e devi avere un certo senso di responsabilità. Che ne pensi? Scrivimi ciò che fai nella scuola, se impari con facilità, ciò che ti interessa. Ma se una cosa non ti interessa e tuttavia devi impararla, come fai? E quali giochi preferisci? pag. 51 Caro Giuliano, ogni momento della tua vita interessa me. Ti abbraccio. Antonio


Ogni cosa è seria Carissimo Giuliano, tu vuoi che ti scriva di cose serie. Molto bene. Ma cosa sono le «cose serie» che vuoi leggere nelle mie lettere? Tu sei un ragazzo, e per un ragazzo anche le cose per i ragazzi sono molto serie, perché sono in rapporto con la sua età, con le sue esperienze, con le capacità che le esperienze e la riflessione su di esse gli hanno procurato. Del resto prometti di scrivermi qualche cosa ogni cinque giorni: sono molto contento se lo farai, dimostrandomi di aver così molta forza di volontà. Io ti risponderò sempre (se potrò) e molto seriamente. Caro, io ti conosco solo per le tue lettere e per le notizie che mi mandano di te i grandi: so che sei un bravo ragazzo, ma perché non mi hai scritto nulla del tuo viaggio al mare? Credi che non sia una cosa seria? Tutto ciò che ti riguarda è per me molto serio e mi interessa molto; anche i tuoi giochi. Ti abbraccio. Antonio

Studia la storia Carissimo Delio, mi sento un po’ stanco e non posso scriverti molto. Tu scrivimi sempre e di tutto ciò che ti interessa nella scuola. Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono fra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi, non può non piacerti più di ogni altra cosa. Ma è così? Ti abbraccio. Antonio

I cinque minuti del babbo Caro Delio, aspetto che tu risponda alla questione su Puskìn, senza fretta; tu devi ferrarti bene e fare del tuo meglio. Come va la scuola per te e per Giuliano? Adesso che avete le annotazioni ogni mese, sarà più facile il controllo sull’andamento dei corsi. Ti ringrazio di avere abbracciato forte forte la mamma per parte mia: penso che devi farlo ogni giorno, ogni mattino. Io penso sempre a voi; così immaginerò ogni mattino: ecco i miei figli e Giulia pensano a me in questo


momento. Tu sei il fratello maggiore, ma devi dirlo anche a Giuliano, cosĂŹ ogni giorno avrete i ÂŤcinque minuti del babboÂť. Cosa ne pensi? Ti bacio. Antonio

pag. 53



Alla moglie e ai parenti (Julca/Giulia è Julca Schucht, la moglie di Gramsci, di nazionalità russa, conosciuta nel 1922. Tatiana/Tania è Tatiana Schucht (1888-1943), sorella maggiore di Julca, segue Gramsci negli anni del carcere e del confino. La madre è Giuseppina Marcias (1861-1932). Piero Sraffa (1898 - 1983) è un celebre economista italiano: torinese, insegna economia politica a Cagliari fino al 1927, quando si trasferisce all’università di Cambridge, in Inghilterra)

Roma, 20 novembre 1926 Mia carissima Julca, ricordi una della tue ultime lettere? (era almeno l’ultima lettera che io ho ricevuto e letto). Mi scrivevi che noi due siamo ancora abbastanza giovani per poter sperare di vedere insieme crescere i nostri bambini. Occorre che tu ora ricordi fortemente questo, che tu ci pensi fortemente ogni volta che pensi a me e mi associ ai bambini. Io sono sicuro che tu sarai forte e coraggiosa, come sempre sei stata. Dovrai esserlo ancora di più che nel passato, perché i bambini crescano bene e siano in tutto degni di te. Ho pensato molto, molto, in questi giorni. Ho cercato di immaginare come si svolgerà tutta la vostra vita avvenire, perché rimarrò certamente a lungo senza vostre notizie; e ho ripensato al passato, traendone ragione di forza e di fiducia infinita. Io sono e sarò forte; ti voglio tanto bene e voglio rivedere e vedere i nostri piccoli bambini. Mi preoccupa un po’ la questione materiale: potrà il tuo lavoro bastare a tutto? Penso che non sarebbe né meno degno di noi né troppo, domandare un po’ di aiuti. Vorrei convincerti di ciò, perché tu mi dia retta e ti rivolga ai miei amici. Sarei più tranquillo e più forte, sapendoti al riparo da ogni brutta evenienza. Le mie responsabilità di genitore serio mi tormentano ancora, come vedi. Carissima mia, non vorrei in modo alcuno turbarti: sono un po’ stanco, perché dormo pochissimo, e non riesco perciò a scrivere tutto ciò che vorrei e come vorrei. pag. 55 Voglio farti sentire forte forte tutto il mio amore e la mia fiducia. Abbraccia tutti di casa tua; ti stringo con la più gran-


de tenerezza insieme coi bambini. Antonio

Ustica, 19 dicembre 1926 Carissima Tania, arrestato l’8 sera alle 10 e mezzo e condotto immediatamente in carcere, sono partito da Roma il mattino prestissimo del 25 novembre. La permanenza a Regina Coeli è stato il periodo brutto della detenzione: 16 giorni di isolamento assoluto in cella, disciplina rigorosissima. Ho potuto avere la camera a pagamento solo negli ultimi giorni. I primi tre giorni li ho trascorsi in una cella abbastanza luminosa di giorno e illuminata di notte; il letto era però molto sudicio, le lenzuola erano già adoperate; formicolavano gli insetti più diversi; non mi è stato possibile avere qualcosa da leggere, neanche la «Gazzetta dello Sport», perché non ancora prenotata: ho mangiato la minestra del carcere che era abbastanza buona. Sono quindi passato a una nuova cella, più oscura di giorno e senza illuminazione la notte, ma che è stata disinfettata con la fiamma di benzina e il cui letto aveva biancheria di bucato. Ho incominciato a comprare qualcosa dal bettolino del carcere: le steariche per la notte, il latte per il mattino, una minestra con brodo di carne e un pezzo di lesso, formaggio, vino, mele, sigarette, giornali e riviste illustrate. Sono passato dalla cella comune alla camera a pagamento senza preavviso, cosa per cui rimasi un giorno senza mangiare, dato che il carcere passa il vitto solo agli abitatori delle celle comuni, mentre quelli delle camere a pagamento devono “vittarsi” (termine carcerario) del proprio. La camera a pagamento consistette per me nel fatto che aggiunsero un materasso di lana e un cuscino idem al saccone di crine, e che la cella fu arredata di un lavabo con catinella e boccale e di una sedia. Avrei dovuto avere anche un tavolino, un reggipanni e un armadietto ma l’amministrazione mancava di “casermaggio” (altro termine carcerario): ebbi anche la luce elettrica ma senza interruttore, sicché tutta la notte mi rigiravo per proteggere gli occhi dalla luce. La vita trascorreva così: alle 7 del mattino sveglia e pulizia della camera; verso le 9 il latte, che poi divenne caffè e


latte quando incominciai a ricevere il vitto dalla trattoria. Il caffè giungeva di solito ancora tiepido, il latte invece era sempre freddo, ma io facevo allora una abbondantissima zuppa. Dalle nove a mezzogiorno capitava l’ora del passeggio: un’ora o dalle nove alle dieci, o dalle dieci alle undici, o dalle undici alle dodici; ci facevano uscire isolati, con la proibizione di parlare e di salutare chiunque, e si andava in un cortile diviso a raggi con muri divisori altissimi e con una cancellata sul resto del cortile. Eravamo sorvegliati da una guardia issata su un terrazzino, dominante la raggera e da una seconda guardia che passeggiava dinanzi ai cancelli; il cortile era incassato tra muri altissimi e da una parte era dominato dalla bassa ciminiera di una piccola officina interna; talvolta l’aria era fumo, una volta dovemmo rimanere circa mezz’ora sotto uno scroscio di pioggia. A mezzogiorno circa arrivava il pranzo; la minestra era spesso tiepida ancora, il resto era sempre freddo. Alle 3 c’era la visita alla cella col collaudo delle sbarre dell’inferriata; la visita si ripeteva alle dieci di sera e alle tre del mattino. Io dormivo un po’ tra queste due ultime visite: una volta svegliato dalla visita delle tre non riuscivo ad addormentarmi; era però obbligatorio stare a letto dalle 7 e mezzo di sera fino all’alba. Lo svago era dato dalla voci diverse e dai brani di conversazione che talvolta si riusciva a cogliere dalle celle vicine o prospicienti. Io non incorsi mai in nessuna punizione: Maffi invece ebbe tre giorni di pane e acqua in una cella di punizione. In verità non sentii mai nessun malessere: quantunque non abbia mai consumato tutto il pasto, tuttavia mangiai sempre con appetito superiore a quello della trattoria. Avevo solo un cucchiaio di legno; né forchetta, né bicchiere. Un boccale e un boccaletto di terraglia per l’acqua e per il vino; una grossa scodella di terraglia per la minestra e un’altra per catino, prima della concessione della camera a pagamento. Il 19 novembre mi fu comunicata l’ordinanza che mi infliggeva 5 anni di confino in colonia, senza altra spiegazione. I giorni pag. 57 successivi mi giunse la voce che sarei partito per la Somalia. Seppi che avrei scontato il confino in un’isola italiana solo


la sera del 24, indirettamente: la destinazione esatta mi fu comunicata ufficialmente solo a Palermo; potevo andare a Ustica ma anche a Favignana, a Pantelleria o a Lampedusa; erano escluse le Tremiti perché altrimenti avrei viaggiato da Caserta a Foggia. [...]

2 gennaio 1927 Carissimo [ Sraffa], la vita scorre senza novità e sorprese; unica preoccupazione è l’arrivo del vaporetto che non sempre riesce a fare le quattro corse settimanali (lunedì, mercoledì, venerdì, sabato) con grande dispiacere di ognuno di noi che aspetta sempre con ansia la corrispondenza. Siamo già una sessantina, dei quali 36 amici di località diverse; predominano relativamente i romani. Abbiamo già iniziato una scuola, divisa in vari corsi: 1° corso (prima e seconda elementare), 2° corso (terza elementare), 3° corso (quarta e quinta elementare), corso complementare, due corsi di francese (inferiore e superiore), un corso di tedesco. I corsi sono stabiliti in relazione alla coltura nelle materie che possono ridursi ad un certo corredo di nozioni esattamente determinabili (grammatica e matematica), perciò gli allievi dei corsi elementari frequentano le lezioni di storia e geografia del corso complementare, per esempio. Insomma, abbiamo cercato di contemperare la necessità di un ordine scolastico graduale col fatto che gli allievi, anche se talvolta semianalfabeti, sono intellettualmente sviluppati. I corsi sono seguiti con grande diligenza e attenzione. Con la scuola, che è frequentata anche da alcuni funzionari e abitanti dell’isola, abbiamo evitato i pericoli di demoralizzazione che sono grandissimi.

Milano, 12 febbraio 1927 Carissime [ Tania e Giulia], vi voglio dare un’impressione d’insieme della traduzione. Immaginate che da Palermo a Milano si snodi un immenso verme, che si compone e si decompone continuamente, lasciando in ogni carcere una parte dei suoi anelli, ricostituendone dei nuovi, vibrando a de-


stra e a sinistra delle formazioni e incorporandosi le estrazioni di ritorno. Questo verme ha dei covili, in ogni carcere, che si chiamano transiti, dove si rimane dai 2 agli 8 giorni, e che accumulano, raggrumandole, la sozzurra e la miseria delle generazioni. Si arriva, stanchi, sporchi, coi polsi addolorati per le lunghe ore di ferri, con la barba lunga, coi capelli in disordine, con gli occhi infossati e luccicanti per l’esaltazione della volontà e per l’insonnia; ci si butta per terra su pagliericci che hanno chissà quale vetustà, vestiti, per non aver contatti col sudiciume, avvolgendosi la faccia e le mani nei propri asciugamani, coprendosi con coperte insufficienti tanto per non gelare. Si riparte ancora più sporchi e stanchi, fino al nuovo transito, coi polsi ancora più lividi per il freddo dei ferri e il peso delle catene e per la fatica di trasportare, cosi agghindati, i propri bagagli: ma, pazienza, ora tutto è passato e mi sono già riposato. Sto qui, in una cella buona, riscaldata dal sole, coperto da un maglione che ho acquistato subito e finalmente ho cacciato il freddo dalle mie vecchie ossa. [...]

19 febbraio 1927 Carissima Tania, ti immagino seria e tetra, senza un sorriso neanche fuggevole. Vorrei farti rallegrare in qualche modo. Ti racconterò delle storielle; che te ne pare? Ti voglio, per esempio, come intermezzo alla descrizione del mio viaggio in questo mondo così grande e terribile, dire qualcosa intorno a me stesso e alla mia fama, di molto divertente. Io non sono conosciuto all’infuori di una cerchia abbastanza ristretta; il mio nome è storpiato perciò in tutti i modi più inverosimili: Gramasci, Granusci, Gramisci, Granisci, Gramàsci, fino a Garàmascon, con tutti gli intermedi più bizzarri. A Palermo, durante una certa attesa per il controllo dei bagagli, incontrai in un deposito un gruppo di operai torinesi diretti al confino; insieme a loro era un formidabile tipo di anarchico ultra individualista, noto coll’indicazione di «Uni- pag. 59 co » che rifiuta di confidare a chiunque, ma specialmente alla polizia e alle autorità in generale, le sue generalità: «sono


l’Unico e basta», ecco la sua risposta. Nella folla che attendeva, l’Unico riconobbe tra i criminali comuni (mafiosi) un altro tipo, siciliano (l’Unico deve essere napoletano o giù di lì) arrestato per motivi compositi, tra il politico e il comune, e si passò alle presentazioni. Mi presentò: l’altro mi guardò a lungo, poi domandò: «Gramsci, Antonio?» Sì, Antonio, risposi. «Non può essere, replicò, perché Antonio Gramsci deve essere un gigante e non un uomo così piccolo». Non disse più nulla, si ritirò in un angolo, si sedette su uno strumento innominabile e stette, come Mario sulle rovine di Cartagine, a meditare sulle proprie illusioni perdute. Evitò accuratamente di parlare ancora con me durante il tempo in cui restammo ancora nello stesso camerone e non mi salutò quando ci separarono. Un altro episodio simile mi successe più tardi, ma, credo, ancor più interessante e complesso. Stavamo per partire; i carabinieri di scorta ci avevano già messo i ferri e le catene; ero stato legato in un modo nuovo e spiacevolissimo, poiché i ferri mi tenevano i polsi rigidamente, essendo l’osso del polso fuori del ferro e battendo contro il ferro stesso in modo doloroso. Entrò il capo scorta, un brigadiere gigantesco, che nel fare l’appello si fermò al mio nome e mi domandò se ero parente del «famoso deputato Gramsci.». Risposi che ero io stesso quell’uomo e mi osservò con sguardo compassionevole e mormorando qualcosa di incomprensibile. A tutte le fermate lo sentii che parlava di me, sempre qualificandomi come il «famoso deputato », nei crocchi che si formavano intorno al cellulare (devo aggiungere che mi aveva fatto mettere i ferri in modo più sopportabile), tanto che, dato il vento che spira, pensavo che, oltre a tutto, potevo avere anche qualche bastonata da qualche esaltato. [...] A un certo punto cominciò a chiamarmi «maestro». Mi sono divertito un mondo, come puoi immaginare. E così ho fatto l’esperienza della mia «fama». Che te ne pare?

11 aprile 1927 Carissima Tania, [...] lo scrivere mi è anche diventato un tor-


mento fisico, perché mi danno degli orribili pennini, che grattano la carta e domandano un’attenzione ossessionante alla parte meccanica dello scrivere. Credevo di poter ottenere l’uso permanente della penna e mi ero proposto di scrivere i lavori ai quali ti ho accennato; non ho però ottenuto il permesso e mi dispiace insistere. Perciò scrivo solo nelle due ore e  o tre ore in cui si sbriga la corrispondenza settimanale (2 lettere); naturalmente non posso prendere appunti, cioè in realtà non posso studiare ordinatamente e con profitto. Leggicchio. Tuttavia il tempo passa molto rapidamente, più di quanto pensassi. [...]

8 agosto 1927 Carissima Tania, vorrei fare qualcosa per farti sorridere almeno. Ti racconterò la storia dei miei passerotti. Devi dunque sapere che ho un passerotto e che ne ho avuto un altro che è morto, credo avvelenato da qualche insetto (una blatta o un millepiedi). Il primo passerotto era molto più simpatico dell’attuale. Era molto fiero e di una grande vivacità. L’attuale è modestissimo, di animo servile e senza iniziativa. Il primo divenne subito padrone della cella. Credo che avesse uno spirito eminentemente goethiano, come ho letto in una biografia a proposito dell’uomo biografato. Ueber allen Gipfeln [Sopra ogni vetta]. Conquistava tutte le cime esistenti nella cella e quindi si assideva per qualche minuto ad assaporarne la sublime pace. Salire sul tappo di una bottiglietta di tamarindo era il suo perpetuo assillo; e perciò una volta cadde in un recipiente pieno dei rifiuti della caffettiera e fu lì lì per affogare. Ciò che mi piaceva in questo passero è che non voleva essere toccato. Si rivoltava ferocemente, con le ali spiegate e beccava la mano con grande energia. Si era addomesticato, ma senza permettere troppe confidenze. Il curioso è che la sua relativa famigliarità non fu graduale, ma improvvisa. Si muoveva per la cella, ma sempre nell’estremo opposto a me. Per attirarlo gli offrivo una mosca in una sca- pag. 61 toletta di fiammiferi; non la prendeva se non quando io ero lontano. Una volta invece di una, nella scatoletta erano cin-


que o sei mosche; prima di mangiarle danzò freneticamente intorno per qualche secondo; la danza fu ripetuta sempre per le mosche numerose. Un mattino, rientrando dal passeggio, mi trovai il passero vicinissimo; non si staccò più, nel senso che da allora mi stava sempre vicino, guardandomi attentamente e venendo ogni tanto a beccarmi le scarpe per farsi dare qualcosa. Ma non si lasciò mai prendere in mano senza rivoltarsi e cercare subito di scappare. È morto lentamente, cioè ha avuto un colpo improvviso, di sera, mentre era accovacciato sotto il tavolino, ha strillato proprio come un bambino, ma è morto solo il giorno dopo: era paralizzato dal lato destro e si trascinava penosamente per mangiare e bere, poi di colpo morì. L’attuale passero invece è di una domesticità nauseante; vuole essere imboccato, quantunque mangi da sé benissimo: viene sulla scarpa e si mette nella piega dei calzoni: se avesse le ali intiere volerebbe sul ginocchio; si vede che vuol farlo perché si allunga, freme, poi va sulla scarpa. Penso che morirà anch’esso, perché ha l’abitudine di mangiare le capocchie bruciate dei fiammiferi, oltre al fatto che il mangiare sempre pane mollo deve procurare a questi uccelli dei disordini mortali. Per adesso è abbastanza sano, ma non è vivace; non corre, sta sempre vicino e si è già involontariamente preso alcune pedate. Ed ecco la storia dei miei passerini. [...]

21 novembre 1927 Carissima Giulia, nel cortile, dove con altri due detenuti vado a fare il passeggio regolamentare, è stata tenuta una esposizione di fotografie dei bambini rispettivi. Delio ha avuto un grande successo di ammirazione. Da qualche giorno non sono più isolato, ma sto in una cella comune con un altro detenuto politico, che ha una graziosa e gentile bimbetta, di tre anni, che si chiama Maria Luisa. Secondo un costume sardo, abbiamo deciso che Delio sposerà Maria Luisa appena i due siano giunti all’età matrimoniale; che te ne pare? Naturalmente attendiamo il consenso delle due mamme, per dare al contratto un valore più impegnativo, sebbene ciò


costituisca una grave deroga ai costumi e ai principi del mio paese. Immagino che tu sorrida e ciò mi rende felice; non riesco che con grande difficoltà a immaginarti sorridente. Ti abbraccio teneramente, cara. Antonio

30 aprile 1928 Carissima mamma, ti spedisco la fotografia di Delio. Il mio processo è fissato per il 28 maggio: questa volta la partenza deve essere prossima. Ad ogni modo vedrò di telegrafarti. La salute è abbastanza buona. Il vicino processo mi fa star meglio, perché almeno uscirò da questa monotonia. Non preoccuparti e non spaventarti qualsiasi condanna mi diano: io credo sarà dai 14 ai 17 anni, ma potrebbe essere anche più grave, appunto perché contro di me non ci sono prove: cosa non posso aver commesso, senza lasciar prove? Sta’ di buon animo. Ti abbraccio. Nino

15 dicembre 1930 Carissima mamma, ecco il quinto natale che passo in privazione di libertà e il quarto che passo in carcere. Veramente la condizione di coatto in cui passai il natale del 26 ad Ustica era ancora una specie di paradiso della libertà personale in confronto alla condizione di carcerato. Ma non credere che la mia serenità sia venuta meno. Sono invecchiato di quattro anni, ho molti capelli bianchi, ho perduto i denti, non rido più di gusto come una volta, ma credo di essere diventato più saggio e di avere arricchito la mia esperienza degli uomini e delle cose. Del resto non ho perduto il gusto della vita; tutto mi interessa ancora e sono sicuro che se anche non posso più «zaccurrare sa fae arrostia» [sgranocchiare le fave arrostite], tuttavia non proverei dispiacere a vedere e sentire gli altri a zaccurrare. Dunque non sono diventato vecchio, ti pare? Si diventa vecchi quando si incomincia a temere la morte e quando si prova dispiacere a vedere gli altri fare ciò che noi non possiamo più fare. In que- pag. 63 sto senso sono sicuro che neanche tu sei diventata vecchia nonostante la tua età. Sono sicuro che sei decisa a vivere a


lungo, per poterci rivedere tutti insieme e per poter conoscere tutti i tuoi nipotini: finché si vuol vivere, finché si sente il gusto della vita e si vuole raggiungere ancora qualche scopo, si resiste a tutti gli acciacchi e a tutte le malattie. [...]

9 febbraio 1931 Carissima Giulia, penso che la nostra più grande disgrazia è stata quella di essere stati insieme troppo poco, e sempre in condizioni generali anormali, staccate dalla vita reale e concreta di tutti i giorni. Dobbiamo ora, nelle condizioni di forza maggiore in cui ci troviamo, rimediare a queste manchevolezze del passato, in modo da mantenere alla nostra unione tutta la sua saldezza morale e salvare dalla crisi ciò che di bello c’è pure stato nel nostro passato e che vive nei bambini nostri. Ti pare? Io voglio aiutarti, nelle mie condizioni, a superare la tua attuale depressione, ma bisogna anche che tu un po’ mi aiuti e mi insegni il modo migliore di aiutarti efficacemente, indirizzando la tua volontà, strappando tutte le ragnatele di false rappresentazioni del passato che possono incepparla, aiutandomi a conoscere sempre meglio i due bambini e a partecipare alla loro vita, alla loro formazione, alla affermazione della loro personalità, in modo che la mia “paternità” diventi più concreta e sia sempre attuale e così diventi una paternità vivente e non solo un fatto del passato sempre più lontano. Aiutandomi così anche a conoscere meglio la Julca di oggi che è Julca + Delio Giuliano, somma in cui il più non indica solo un fatto quantitativo, ma soprattutto una nuova persona qualitativa. Cara, ti abbraccio stretta stretta e aspetto che mi scriva a lungo. Antonio

1 giugno 1931 Carissima Giulia, [...] vorrei raccontare a Delio una novella del mio paese che mi pare interessante. Te la riassumo e tu gliela svolgerai, a lui e a Giuliano. — Un bambino dorme. C’è un bricco di latte pronto per il suo risveglio. Un topo si beve il latte. Il bambino, non avendo il latte, strilla e la mamma


strilla. Il topo disperato si batte la testa contro il muro, ma si accorge che non serve a nulla e corre dalla capra per avere del latte. La capra gli darà il latte se avrà l’erba da mangiare. Il topo va dalla campagna per l’erba e la campagna arida vuole acqua. Il topo va dalla fontana. La fontana è stata rovinata dalla guerra e l’acqua si disperde: vuole il mastro muratore che la riatti. Il topo va dal mastro muratore: vuole le pietre. Il topo va dalla montagna e avviene un sublime dialogo tra il topo e la montagna che è stata disboscata dagli speculatori e mostra dappertutto le sue ossa senza terra. Il topo racconta tutta la storia e promette che il bambino cresciuto ripianterà pini, querce, castagni, ecc. Così la montagna dà le pietre ecc. e il bimbo ha tanto latte che si lava anche col latte. Cresce, pianta gli alberi, tutto muta; spariscono le ossa della montagna sotto nuovo humus, la precipitazione atmosferica ridiventa regolare perché gli alberi trattengono vapori e impediscono ai torrenti di devastare la pianura ecc. Insomma il topo concepisce una vera e propria piatilietca [quinquennale]. È una novella propria di un paese rovinato dal disboscamento. Carissima Giulia, devi proprio raccontare questa novella e poi comunicarmi le impressioni dei bimbi. Ti abbraccio teneramente. Antonio

7 settembre 1931 Carissima Tatiana, devi sapere che io sono morto una volta e poi sono resuscitato, ciò che dimostra che ho sempre avuto la pelle dura. Da bambino, a 4 anni, ho avuto delle emorragie per tre giorni di seguito, che mi avevano completamente dissanguato, accompagnate da convulsioni. Il medico mi aveva dato per morto e mia madre ha conservato fino al 914 circa la piccola bara e il vestitino speciale che dovevano servire per seppellirmi; una zia sosteneva che ero resuscitato quando lei mi unse i piedini con l’olio di una lampada dedicata a una madonna e perciò quando mi rifiutavo di compiere gli atti religiosi mi rimproverava aspramente ricordan- pag. 65 do che alla madonna dovevo la vita, cosa che mi impressionava poco, a dir la verità. Da allora in poi, quantunque non


sia mai stato molto forte, non ho però più avuto nessun grave malore, all’infuori degli esaurimenti nervosi e delle dispepsie.

5 ottobre 1931 Carissima Tania, capisco benissimo che tu non parteciperesti a un pogrom, tuttavia perché un pogrom possa avvenire è necessario che sia molto diffusa l’ideologia dei «due mondi » impenetrabili, delle razze ecc. Questo forma quell’atmosfera imponderabile che i Centoneri sfruttano facendo trovare un bambino dissanguato e accusando gli ebrei di averlo assassinato per il sacrificio rituale. Lo scoppio della guerra mondiale ha dimostrato come le classi e i gruppi dirigenti sappiano sfruttare queste ideologie apparentemente innocue per determinare le ondate di opinione pubblica. La cosa mi pare così sorprendente nel caso tuo, che mi parrebbe di non volerti bene se non cercassi di liberarti completamente da ogni preoccupazione della questione stessa. Cosa vuoi dire con l’espressione «due mondi»? Che si tratta come di due terre che non possono avvicinarsi ed entrare in comunicazione tra loro? Se non vuoi dire questo, e si tratta di una espressione metaforica e relativa, essa ha poco significato, perché metaforicamente i «mondi» sono innumerevoli fino a quello che si esprime nel proverbio contadino: «Moglie e buoi dei paesi tuoi». A quante società appartiene ogni individuo? E ognuno di noi non fa continui sforzi per unificare la propria concezione del mondo, in cui continuano a sussistere frantumi eterogenei di mondi culturali fossilizzati? E non esiste un processo storico generale che tende a unificare continuamente tutto il genere umano? Noi due, scrivendoci, non scopriamo continuamente motivi di attrito e nello stesso tempo non troviamo o riusciamo a metterci d’accordo su certe quistioni? E ogni gruppo o partito, o setta o religione, non tende a creare un proprio «conformismo» (non inteso in senso gregario e passivo)? - Ciò che importa nella nostra quistione è che gli ebrei sono stati liberati dal ghetto solo dal 48 e sono rimasti nel ghetto o in ogni


modo segregati dalla società europea per quasi due millenni e non per loro volontà ma per imposizione esterna. Dal 48 in poi il processo di assimilazione nei paesi occidentali è stato così rapido e profondo, da far pensare che solo la segregazione imposta ha impedito la loro completa assimilazione nei vari paesi se fino alla Rivoluzione francese la religione cristiana non fosse stata la «cultura statale» unica che domandava appunto la segregazione degli ebrei religiosamente irriducibili (allora; ora no perché dall’ebraismo passano al deismo puro e semplice o all’ateismo). In ogni caso, è da notare che molti caratteri che passano per essere dovuti alla razza, sono invece dovuti alla vita dei ghetti imposta in forme diverse nei vari paesi, per cui un ebreo inglese non ha quasi nulla di comune con un ebreo di Galizia. Gandhy oggi pare che rappresenti l’ideologia indù; ma gli indù hanno ridotto allo stato di paria i Dravida che prima abitavano l’India, sono stati un popolo bellicoso e solo dopo l’invasione mongola e la conquista inglese, hanno potute esprimere un uomo come Gandhy. Gli ebrei non hanno uno stato territoriale, un’unità di lingua, di cultura, di vita economica da due millenni; come si potrebbe trovare un’aggressività ecc. in loro? Ma anche gli arabi sono semiti, fratelli carnali degli ebrei e hanno avuto il loro periodo di aggressività e di tentativo di impero mondiale. In quanto poi gli ebrei sono banchieri e detentori di capitale finanziario, come si fa a dire che essi non partecipino all’aggressività degli stati imperialisti?

12 ottobre 1931 Carissima Tania, [...] La quistione delle razze fuori dell’antropologia e degli studi preistorici non mi interessa ... Io stesso non ho nessuna razza: mio padre è di origine albanese recente (la famiglia scappò dall’Epiro dopo o durante le guerre del 1821 e si italianizzò rapidamente); mia nonna era una Gonzalez e discendeva da qualche famiglia italo-spa- pag. 67 gnola dell’Italia meridionale (come ne rimasero tante dopo la cessazione del dominio spagnolo); mia madre è sarda per


il padre e per la madre e la Sardegna fu unita al Piemonte solo nel 1847 dopo essere stata un feudo personale e un patrimonio dei principi piemontesi, che la ebbero in cambio della Sicilia che era troppo lontana e meno difendibile. Tuttavia la mia cultura è italiana fondamentalmente e questo è il mio mondo: non mi sono mai accorto di essere dilaniato tra due mondi, sebbene ciò sia stato scritto nel «Giornale d’Italia» del marzo 1920, dove in un articolo di due colonne si spiegava la mia attività politica a Torino, tra l’altro, con l’essere io sardo e non piemontese o siciliano ecc. L’essere oriundo albanese non fu messo in gioco perché anche Crispi era albanese, educato in un collegio albanese e che parlava l’albanese. D’altronde in Italia queste quistioni non sono mai state poste e nessuno in Liguria si spaventa se un marinaio si porta al paese una moglie negra. Non vanno a toccarla col dito insalivato per vedere se il nero va via né credono che le lenzuola rimarranno tinte di nero. [...]

29 agosto 1932 Carissima Tania, ecco il mio punto di vista: - Sono giunto a un punto tale che le mie forze di resistenza stanno per crollare completamente, non so con quali conseguenze. In questi giorni mi sento così male come non sono mai stato; da più di otto giorni non dormo più di tre quarti d’ora per notte e intere notti non chiudo occhio. È certissimo che l’insonnia forzata non determina essa alcuni mali specifici, li aggrava però talmente e li accompagna con tali malesseri concomitanti, che il complesso dell’esistenza diventa insopportabile e qualunque via d’uscita, anche la più pericolosa e accidentata diventa preferibile alla continuazione dello stato presente.

3 ottobre 1932 Cara Tatiana, [...] Del resto non devi credere che io abbia intenzione di suicidarmi o di abbandonarmi, come un cane morto, al filo della corrente. Mi dirigo da me da molto tempo e mi dirigevo da me già da bambino. Ho incominciato a


lavorare da quando avevo 11 anni, guadagnando ben 9 lire al mese (ciò che del resto significava un chilo di pane al giorno) per 10 ore di lavoro al giorno compresa la mattina della domenica e me la passavo a smuovere registri che pesavano più di me e molte notti piangevo di nascosto perché mi doleva tutto il corpo. Ho conosciuto quasi sempre solo l’aspetto più brutale della vita e me la sono sempre cavata, bene o male. Neanche mia madre conosce tutta la mia vita e le traversie che ho passato: a lei ricordo qualche volta quella piccola parte che in prospettiva sembra ora piena di lietezza di spensieratezza. Adesso le addolciscono la vecchiaia perché le fanno dimenticare le traversie ben più gravi e le amarezze ben più profonde che ella ha subito nello stesso tempo. Se ella sapesse che io conosco tutto quello che conosco e che quegli avvenimenti mi hanno lasciato delle cicatrici, le avvelenerei questi anni di vita in cui è bene che dimentichi e che vedendo la vita lieta dei nipotini che ha intorno confonda le prospettive e pensi realmente che le due epoche della sua vita sono la stessa e una. [...]

2 gennaio 1933 Carissima Tania, [...] ti assicuro che non ho aspettato la mezzanotte del 31 dicembre per aver l’impressione di entrare nell’anno nuovo. L’anno vecchio non era precisamente pieno di ricordi piacevoli per me; è stato l’anno più brutto che ho passato in carcere. Né l’anno nuovo si presentava con prospettive allettanti. Se l’anno 32 è stato brutto mi pare che il 33 debba essere peggiore. Sono logorato e nello stesso tempo le gravezze vanno aumentando; il rapporto tra le forze disponibili e lo sforzo da sostenere è ancora peggiorato. Tuttavia non sono demoralizzato, anzi la mia volontà trae alimento proprio dal realismo con cui analizzo gli elementi della mia esistenza e resistenza.

25 gennaio 1936 Cara Julca, [...] Da dieci anni sono tagliato dal mondo (che impressione terribile ho provato in treno, dopo sei anni che

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non vedevo che gli stessi tetti, le stesse muraglie, le stesse facce torve, nel vedere che durante questo tempo il vasto mondo aveva continuato ad esistere coi suoi prati, i suoi boschi, la gente comune, le frotte di ragazzi, certi alberi, certi orti, ma specialmente che impressione ho avuto nel vedermi allo specchio dopo tanto tempo: sono ritornato subito vicino ai carabinieri). Non pensare che voglia commuoverti: voglio dire che dopo tanto tempo, dopo tanti avvenimenti, che in gran parte mi sono sfuggiti forse nello loro significato più reale, dopo tanti anni di vita compressa, meschina, fasciata di buio e di miserie grette, poter parlare con te da amico ad amico, mi sarebbe molto utile. [...]

Dicembre 1936 Cara Julca, [...] Sono molto contento dei figli e delle loro due ultime lettere. Julik è laconico, epigrafico. Non un aggettivo né un riempitivo: stile quasi telegrafico. Delio è molto diverso. E tu, cara, come sei? Non riesco più a immaginarti bene, sebbene pensi sempre al passato. Mandami delle fotografie; sono poca cosa, ma aiutano. Quando ero a Ustica confinato, un beduino mi si era affezionato molto: era confinato anche lui; veniva a trovarmi, si sedeva, prendeva il caffè, mi raccontava novelle del deserto e poi stava zitto per delle ore a guardarmi leggere o scrivere; invidiava le fotografie che io avevo e diceva che sua moglie era così stupida che mai avrebbe pensato a mandargli la fotografia del figlio (non sapeva neanche che i musulmani non possono ritrarre la sembianza umana e non era stupido). Tu non diventerai mica «la moglie del beduino»? Cara, ti abbraccio con grande tenerezza. Antonio


Concludendo la propria requisitoria l’accusa del tribunale fascista aveva chiesto una pena che impedisse “a questo cervello di funzionare per venti anni”. Antonio Gramsci è morto il 27 aprile 1937 ucciso dal carcere fascista, ma in quel carcere, in quei dieci anni di difficilissima sopravvivenza “quel cervello” ha funzionato come non mai, lasciando all’intera cultura del pensiero subalterno mondiale una eredità di idee che è ancora oggi difficile apprezzare nella loro interezza, lucidità e persistente attualità.


Quando discuti con un avversario, prova a metterti nei suoi panni. Lo comprenderai meglio e forse finirai con l’accorgerti che ha un po’, o molto, di ragione. Ho seguito per qualche tempo questo consiglio dei saggi. Ma i panni dei miei avversari erano così sudici che ho concluso: è meglio essere ingiusto qualche volta che provare di nuovo questo schifo che fa svenire. Antonio Gramsci


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