Inserto "Partito comunista" - Febbraio 2011

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PARTITO COMUNISTA supplemento al numero 2 - Anno III - febbraio 2011 di Piazza del Grano - www.piazzadelgrano.org

“Sono stato comunista non solo perché avevo in tasca una tessera di partito. E oggi non sono un ex comunista solo perché non ho in tasca una tessera di partito” (Diego Novelli)

Il 21 gennaio del 1921 si consuma la scissione della Frazione Comunista dal Partito socialista italiano. Nello stesso giorno nasce il Partito Comunista dItalia, sezione dellInternazionale Comunista. Livorno è la città che ospita il congresso del Partito socialista. Il teatro Goldoni è lo scenario nel quale avviene la clamorosa rottura che era da tempo nellaria. Sarà la minoranza comunista a lasciare la sede del congresso per trasferirsi in un altro teatro, il San Marco. La minoranza del Partito socialista rappresentava 58.783 iscritti su 216.337, faceva capo ad Amedeo Bordiga che guidò per primo il nuovo partito, al gruppo dellOrdine Nuovo di Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Umberto Terracini e Angelo Tasca, e alla corrente massimalista di Andrea Marabini e Antonio Graziadei, con la stragrande maggioranza della Federazione giovanile socialista con il suo segretario, Luigi Polano, che qualche giorno dopo darà vita alla Federazione giovanile comunista.

Partigiano, Partito, Comunista: Partito Comunista Premessa Con questo inserto vogliamo iniziare a ricordare, anzitutto (via via la criticheremo anche), la grande storia del Partito Comunista in Italia. Inizieremo con brevi articoli su alcuni personaggi ed eventi che hanno segnato con maggiore forza la storia del comunismo italiano. Lo scopo è quello di stimolare l’interesse e l’attenzione su questo tema imprescindibile nella storia del nostro paese e quindi anche nel nostro presente e per il nostro futuro. In successivi inserti procederemo a più accurati approfondimenti. A questo fine vogliamo sollecitare il contributo e la partecipazione di quanti siano in grado di apportare i propri ricordi, documenti e conoscenze. Gli inserti, com’è stato sempre doverosamente chiarito, rispecchiano la posizione ideologica dell’editore e quindi fanno esclusivamente capo alla sua responsabilità morale e, all’occorrenza, giuridica. Ciò non di meno anche gli inserti, come ogni altra rubrica del giornale, sono aperti alla partecipazione e collaborazione di chiunque lo voglia e si faccia parte diligente nel farlo. La pagina si apre con la foto dei fondatori del Partito Comunista d’Italia sezione dell’In-

ternazionale Comunista, avvenuta a Livorno il 21 gennaio del 1921. La storia del comunismo in Italia non nasce con quell’evento, né finisce con le leggi fasciste del 1926 che hanno sciolto (messo fuori legge) il PCd’I, né con il Congresso del 1991 che ha (di)sciolto il Partito Comunista Italiano, né tanto meno con l’esperienza suicida dell’Arcobaleno bertinottiano. Del pari la storia del comunismo in Italia non corre solo dentro quella del partito che ne ha portato il nome e a volte (almeno per taluni e non pochi) non ne ha invece più interpretato le idee. L’universo del pensiero e del movimento comunista è assai più ampio, vasto e variegato. Nel procedere degli inserti cercheremo di dare conto anche di questo “altro” enorme patrimonio storico,

“Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.” (Gramsci) Essere comunisti significa essere partigiani, significa avere deciso di stare con una parte e contro un’altra parte. Stare con la parte dei “più”, con la “maggioranza”, con le grandi masse di esseri umani che vivono, o comunque vogliono vivere una vita sostenibile e dignitosa con il lavoro, con il proprio lavoro. Significa stare contro quei “meno”, quei “pochi”, quella “minoranza” che vive sulle spalle e sulla pelle della maggioranza. La Storia, con la “S” maiuscola è storia di scelte di parte; chi non “parteggia”, chi non sceglie e partecipando non si espone non solo non fa la Storia, quella con la “S” maiuscola, ma non fa neppure la propria di storia, per quanto piccola sia comunque parte dell’unica grande Storia dell’umanità, ma si limita a sopravvivere trascinato dalla corrente delle scelte degli altri. Per essere parte occorre partecipare e quindi divenire partigiani di una idea, di un progetto, di una speranza, di un diritto. E questo fa paura a coloro che vogliono governare le scelte (non scelte) degli altri. La storia ci ha insegnato due scenari (perfettamente intercambiabili in relazione alle condi-

zioni di contesto): il primo è quello di un divieto formale alla partecipazione che si esprime con la dittatura; il secondo è quello di una espropriazione surrettizia del diritto di partecipazione che si realizza con la così detta democrazia delegata. E’ in questo secondo scenario che emerge la figura, irragionevole e antistorica, del “super partes”, di colui (coloro, persone fisiche o giuridiche, individui o collettività) che non si schiera con alcuna delle parti in campo e ciò non per affermare e difendere una propria specifica parte, ma per neutralizzare tutte le altre. Ma se è possibile che vi siano realmente figure, istituzioni, funzioni o ruoli “super partes”, allora vuol dire che le parti in campo in realtà tali non sono, non sono cioè antagoniste portatrici di differenti posizioni, ma semplici “frazioni”, “sette”, “club” di una stessa parte sostanziale. Giacomo Brodolini, il ministro al quale si deve lo Statuto dei Lavoratori, non era il “Ministro del Lavoro”, ma lui stesso si definiva il “Ministro dei Lavoratori”; Cordero di Montezemolo, semmai dovesse ricoprire quella stessa carica, parimenti non sarebbe il “Ministro del Lavoro”, ma il “Ministro dei datori di lavoro”, cioè dei padroni. Perché

un Ministro del lavoro possa qualificarsi tal quale senza ulteriori distinzioni, e dunque sentirsi o almeno affermarsi “super partes” rispetto al mondo del lavoro, occorre che lo stesso (o gli stessi sia che si chiamino Damiano o Sacconi) abbia già scelto di stare da una sola parte e certamente non da quella dei lavoratori. Un partito raccoglie i partigiani sostenitori delle istanze di una parte e se ne fa portatore collettivo. Ma se non ci sono più partigiani, perché è una sola parte ad esprimere le proprie istanze, allora i partiti non hanno più senso d’esistere nella loro funzione e identità storica. Nel 1991 la sinistra parlamentare italiana ha iniziato un percorso di “restyling” formale (che in verità svelava una sostanziale mutazione genetica già completata) che la ha portata dapprima a sostituire il termine “comunista” con la più “moderna” definizione di “democratico”, poi a cancellare totalmente il termine “partito” (PCI-PDS-DS), con ciò allineandosi all’altra grande componente della politica parlamentare italiana che sin dall’immediato dopo guerra aveva “abiurato” il termine “partito” (popolare) per assumere una definizione “ecumenica”, aperta a tutti i credenti, Democrazia Cri-

stiana. Gradualmente sono poi scomparse anche le indicazioni per così di orientamento (destra, sinistra, centro), sostituite da immagini di vegetali o animali (querce, margherite, trifogli, asinelli, ecc.) o descrizioni più diverse (alleanze, unioni, popoli, ecc.). Il tempo è passato e ha cancellato la memoria della definizione lessicale del termine “partito” che oggi può riapparire (PD, PdL) ma non più per identificare una “parte”, un insieme di istanze e progetti di cambiamento o almeno di sviluppo della società, bensì per essere lui stesso la “parte”, non più antagonista ma semplicemente alternativa ad un’altra “parte”. Partito Comunista identifica un insieme di uomini e donne che hanno una loro storia, un loro presente e un loro progetto ben definito. Partito Comunista identifica una comunità di partigiani che propone una scelta antagonista e progetta il cambiamento rivoluzionario del futuro. Se quella comunità di uomini e di donne sottomessi, sfruttati, esclusi ed emarginati non si è “dissolta”, ed è evidente che non lo è, allora il ruolo e la funzione storica del Partito Comunista non è cessata e il suo spirito vive immutato nei bisogni delle masse. Riaffiorerà!

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Il tempo “sbagliato”

Il Partito “intellettuale organico” delle classi subalterne La conquista del potere attraverso la conquista dell’ “egemonia” “Le idee – scrive Gramsci non nascono da altre idee, le filosofie non sono partorite da altre filosofie, esse sono l'espressione rinnovata dello sviluppo storico.” “Le forze materiali non sarebbero concepibili storicamente senza forma, e le ideologie sarebbero ghiribizzi individuali senza le forze materiali.” Le idee nascono dallo sviluppo storico del reale, ne sono l'espressione, ma nello stesso tempo hanno il potere di cambiare la storia. Ecco perché le idee non sono figlie di idee, ma nascono da rapporti storici reali. Nel momento in cui il capitalismo è entrato nella fase monopolistica e le grandi masse sulla scena della storia, il problema della sovrastruttura diviene determinante. Prendere il potere significa, innanzitutto, occupare le "casematte dello Stato", cioè quegli apparati della società civile, come la scuola, i partiti, i sindacati, la stampa, che hanno il compito di inculcare nelle menti delle grandi masse i valori della classe dominante. La supremazia di un gruppo sociale non può attuarsi solo col dominio e con la forza, deve avvalersi degli apparati egemonici della società civile, deve evocare il consenso più am-

pio. Il potere non è dominio, è egemonia, intesa essenzialmente come capacità di direzione intellettuale e morale. Ogni classe sociale tende a produrre i propri intellettuali organici connessi ai propri bisogni e alla propria mentalità. Le masse dei lavoratori e degli sfruttati debbono dotarsi di una loro guida intellettuale e l’ “intellettuale organico” alle classi subalterne è il partito comunista che, rap-

presentando la totalità degli interessi e delle aspirazioni della classe lavoratrice, si configura come la sua guida politica, morale ed ideale. Per questa sua capacità unificatrice delle istanze popolari e per il suo fermo tendere ver-

so un supremo fine politico, Gramsci denomina il partito comunista "moderno Principe", con l'avvertenza che, mentre per Machiavelli esso si identifica in un individuo concreto, per i comunisti si tratta di un organismo in cui si concreta la volontà collettiva della classe rivoluzionaria. In un sistema capitalistico organico e globalizzato la strategia rivoluzionaria non può essere frontale, cioè alla "fac-

ciata dello Stato", deve invece dirigersi in profondità, mediante una "snervante guerra di posizione", contro le "fortezze" e le "casematte" del nemico, ossia contro l'insieme delle istituzioni della società civile. Si tratta di logorare pro-

gressivamente la supremazia di classe della borghesia, conquistando i punti strategici della società civile, e ponendo così le premesse per la conquista del potere e la realizzazione della propria egemonia. La conquista dello Stato borghese deve avvenire dunque dall'interno della società, attraverso una "battaglia delle idee" e sulla base di una prospettiva sociale, economica, politica, intellettuale e morale, che sia in grado di ottenere il consenso delle masse. Il Partito “intellettuale organico” deve ricucire la frattura tra cultura e vita, tra cultura e masse, operata dall'intellettuale tradizionale membro di una casta separata dal popolo-nazione e, dunque, deve essere portatore di una "cultura nazional-popolare" che rappresenta il cemento del rapporto tra dirigenti e diretti, tra governanti e governati. Solo se riesce ad ottenere il consenso di tutte masse subalterne e sfruttate, il partito comunista può creare un sistema di alleanze di classe che gli permetta di mobilitare contro lo Stato borghese la maggioranza della popolazione lavoratrice e diventare classe dirigente e dominante.

Le Internazionali Dalla Prima Internazionale fondata da Marx nel 1864 alla Terza Internazionale fondata da Lenin nel 1919

II

Nell'anno 1864 fu fondata a Londra la prima Associazione internazionale degli operai, la Prima Internazionale. Negli Statuti generali di quest'Associazione internazionale degli operai è detto che: a) l'emancipazione della classe operaia deve essere l'opera della classe operaia stessa; b) la lotta per l'emancipazione della classe operaia non è una lotta per privilegi di classe e monopoli, ma per stabilire eguali diritti e doveri e per abolire ogni dominio di classe; c) la soggezione economica del lavoratore a colui che gode del monopolio dei mezzi di lavoro, cioè delle fonti della vita, forma la base della servitù in tutte le sue forme, la base di ogni miseria sociale, di ogni degradazione spirituale e dipendenza politica; d) di conseguenza, l'emancipazione economica della classe operaia è il grande fine cui deve essere subordinato, come mezzo, ogni movimento politico; e) tutti gli sforzi per raggiungere questo grande fine sono finora falliti per la mancanza di solidarietà tra le molteplici categorie di operai di ogni paese e per l'assenza di un'unione fraterna fra le classi operaie dei diversi paesi; e) l'emancipazione

degli operai non è un problema locale né nazionale, ma un problema sociale che abbraccia tutti i paesi in cui esiste la società moderna, e la cui soluzione dipende dalla collaborazione pratica e teorica dei paesi più progrediti; f) il presente risveglio della classe operaia nei paesi industrialmente più progrediti d'Europa, mentre ridesta nuove speranze ed è in pari tempo un serio ammonimento a non ricadere nei vecchi errori, esige l'unione immediata dei movimenti ancora disuniti. La Seconda Internazionale, che fu fondata nel 1889 a Parigi, s'impegnò a proseguire l'opera della Prima Internazionale. Ma nel 1914, all'inizio del massacro mondiale, subì un crollo completo. Soffocata dall'opportunismo, disgregata dal tradimento dei dirigenti che erano passati dalla parte della borghesia, la Seconda Internazionale si

spezzò. La Terza Internazionale comunista, fondata nel marzo 1919 a Mosca, capitale della Repubblica socialista federativa sovietica russa, proclama solennemente a tutto il mondo di assumere su di sé la grand'opera iniziata dalla prima Associazione internazionale degli operai, di volerla continuare e portare a termine e per compiere, secondo le parole di Lenin, il primo passo verso la Repubblica internazionale dei soviet e la vittoria mondiale del comunismo. Dopo questo primo atto formale di costituzione, l'Internazionale comunista tenne nel luglio-agosto del 1920 il suo secondo congresso, cui parteciparono delegazioni di trentasette paesi e che tracciò le basi ideali e programmatiche accogliendo i ventuno punti proposti da Lenin: i partiti che intendevano aderire si impegnavano a

darsi una struttura analoga a quella del Partito comunista sovietico, a sostenere l'Urss, a rispettare le direttive del Comintern, a lottare contro la socialdemocrazia per favorire la nascita di autonomi partiti rivoluzionari. A dirigere l'Internazionale venne designato un comitato esecutivo permanente, con sede a Mosca, il cui primo presidente fu G.E. Zinov'ev. Negli anni successivi il Comintern risentì pesantemente dei conflitti interni al gruppo dirigente del Partito comunista dell'Urss, che condizionò le scelte politiche subordinando in più di un'occasione agli interessi nazionali sovietici le esigenze dei partiti comunisti dei vari stati, soprattutto negli anni di Stalin e della sua teoria del socialismo in un solo paese. Anche lo scioglimento dell'organizzazione, nel maggio 1943, maturò come conseguenza della politica estera sovietica che, durante la guerra contro il nazismo, volle lanciare agli alleati occidentali un segnale di riconciliazione accantonando, con l'Internazionale, il progetto della rivoluzione mondiale di cui questa doveva essere lo strumento operativo.

I partititi comunisti e la difesa dell’URSS

1919-1920 il “Biennio Rosso”, nascono i “Consigli di Fabbrica”, i “soviet” italiani La FIOM, alla guida di 500mila operai metal- Ai Commissari di reparto delle meccanici, occupa le fabbriche del nord e da Officine Fiat Centro e Brevetti vita ad esperimenti di autogestione più saldo disciplinarsi, nell'ofCompagni! La nuova forma La storia del Biennio Rosso iniziò a Torino il 13 settembre 1919 con la pubblicazione sulla rivista Ordine Nuovo del manifesto “Ai commissari di reparto delle officine Fiat Centro e Brevetti”, nel quale si ufficializzava l’esistenza e il ruolo dei Consigli di fabbrica quali nuclei di gestione autonoma delle industrie da parte degli operai. Già tre mesi prima Gramsci e Togliatti avevano affrontato il problema, sempre sulla stessa rivista, in un articolo chiamato “Democrazia operaia”. Torino, culla dell’industrializzazione italiana, si prefigurava così come il centro propulsore del bolscevismo, in quanto la struttura dei Consigli proposta dagli ordinovisti ricalcava, seppur con peculiarità proprie, quella dei Soviet russi. Le proteste iniziarono nelle fabbriche di meccanica, per poi continuare nelle ferrovie, trasporti e in altre industrie, mentre i contadini occupavano le terre. Le agitazioni si diffusero anche nelle campagne della pianura padana, innescando duri scontri fra proprietari e braccianti. Nelle fabbriche di Torino e Milano gli operai, però, fecero molto più che un’occupazione, sperimentando per la prima volta forme di autogestione operaia: 500.000 metalmeccanici lavoravano e producevano da se stessi e per se stessi. Il fenomeno si estese rapidamente ad altre fabbriche del Nord, coinvolse il movimento anarchico ma venne solo in parte appoggiato dal P.S.I., che in quel momento era diviso tra riformisti e massimalisti. Gramsci avvertì l’incapacità dei

politici socialisti di fronte a queste manifestazioni di autogoverno proletario, e cercò di dare sistemazione, teorica prima, e pratica poi, al movimento operaio. Nulla potè, però, contro la reazione degli industriali, appoggiati dal governo e da questo aiutati con migliaia di militari in assetto di guerra. Dal 28 marzo 1920 si delinearono i due blocchi, da una parte gli operai con lo sciopero ad oltranza, dall’altra i proprietari, che adottarono la serrata come reazione alle richieste operaie. Dopo alcuni mesi di trattative sugli aumenti salariali, sempre respinti dalla Confederazione Generale dell’Industria, si alzò il livello del conflitto con l’occupazione armata delle fabbriche da parte degli operai, il 30 agosto del 1920. Giolitti rifiutò di far intervenire la polizia e l'esercito nelle fabbriche e aspettò che il movimento si esaurisse da sé, che terminassero le scorte di materie prime nei magazzini delle aziende occupate, che gli stessi operai si rendessero conto che l'occupazione non poteva durare più a lungo. Nello stesso tempo favorì le trattative fra gli industriali e sindacati e, praticamente, obbligò gli industriali a concedere ai lavoratori i miglioramenti di salario richiesti. Così all’inizio di ottobre del 1920 Giolitti riuscì a far accettare un compromesso tra le parti sociali, avendo anche predisposto un progetto di legge per controllo operaio su fabbriche, mai attuato. Le agitazioni operaie ebbero risultati economici positivi: i lavoratori ottennero miglioramenti nel salario e nelle con-

Medaglia commemorativa della FIOM delle occupazioni del 1920 dizioni di lavoro; la durata massima della giornata lavorativa passò da 11 ore a 8 ore. Assai diverse furono invece le conseguenze sul piano politico. La mancanza di un forte partito in grado di guidare gli operai e i contadini verso la conquista del potere politico non solo fece retrocedere il movimento, ma di fatto aprì la porta alla reazione padronale, industriale e agraria, che a tal fine utilizzò, sostenendolo e finanziandolo, l’emergente fascismo. Grandissima fu allora la responsabilità non solo dei liberali (fu lo stesso Giolitti a favorire l'ascesa del fascismo quando, in occasione delle elezioni del maggio 1921, cercando di assorbire i fascisti nella normale prassi parlamentare, li inserì nei Blocchi nazionali), ma dello stesso partito popolare di don Sturzo che più preoccupato dall’avanzata dei socialisti e comunisti sottovalutò il pericolo del fascismo che poi, dopo il Concordato con il Vaticano, metterà fuori legge anche il partito dei cattolici.

che la commissione interna ha assunto nella vostra officina con la nomina dei commissari di reparto e le discussioni che hanno preceduto e accompagnato questa trasformazione non sono passate inavvertite nel campo operaio e padronale torinese. Da una parte si accingono a imitarvi le maestranze di altri stabilimenti della città e della provincia, dall'altra i proprietari e i loro agenti diretti, gli organizzatori delle grandi imprese industriali, guardano a questo movimento con interesse crescente e si chiedono e chiedono a voi quale può essere lo scopo cui esso tende, quale il programma che la classe operaia torinese si propone di realizzare. ... Il bisogno, l'aspirazione da cui trae la sua origine il movimento rinnovatore dell'organizzazione operaia da voi iniziato, sono, crediamo noi, nelle cose stesse, sono una conseguenza diretta del punto cui è giunto, nel suo sviluppo, l'organismo sociale ed economico basato sull'appropriazione privata dei mezzi di scambio e di produzione. ... E se è vero che la società nuova sarà basata sul lavoro e sul coordinamento delle energie dei produttori, i luoghi dove si lavora, dove i produttori vivono e operano in comune, saranno domani i centri dell'organismo sociale e dovranno prendere il posto degli enti direttivi della società odierna. ... La massa operaia deve prepararsi effettivamente all'acquisto della completa padronanza di se stessa, e il primo passo su questa via sta nel suo

ficina, in modo autonomo, spontaneo e libero. Né si può negare che la disciplina che col nuovo sistema verrà instaurata condurrà a un miglioramento della produzione, ma questo non è altro che il verificarsi di una tesi del socialismo: quanto più le forze produttive umane, emancipandosi dalla schiavitù cui il capitalismo le vorrebbe per sempre condannate, prendono coscienza di sé, si liberano e liberamente si organizzano, tanto migliore tende a diventare il modo della loro utilizzazione: l'uomo lavorerà sempre meglio dello schiavo. A coloro poi che obiettano che in questo modo si viene a collaborare con i nostri avversari, con i proprietari delle aziende, noi rispondiamo che invece questo è l'unico mezzo di dominio, perché la classe operaia concepisce la possibilità di fare da sé e di fare bene: anzi, essa acquista di giorno in giorno più chiara la certezza di essere sola capace di salvare il mondo intiero dalla rovina e dalla desolazione. ... Eletti da una maestranza nella quale sono ancora numerosi gli elementi disorganizzati, vostra prima cura sarà certamente quella di farli entrare nelle file dell'organizzazione, opera che del resto vi sarà facilitata dal fatto che essi troveranno in voi chi sarà sempre pronto a difenderli, a guidarli, ad avviarli alla vita della fabbrica. Voi mostrerete loro con l'esempio che la forza dell'operaio è tutta nell'unione e nella solidarietà coi suoi compagni. Antonio Gramsci Ordine Nuovo - 1919

Il Partito Comunista d’Italia, come peraltro molti dei nuovi partiti comunisti occidentali, nasce nel momento sbagliato. Paradossalmente l’ala rivoluzionaria del partito socialista si stacca e si costituisce in partito autonomo nel momento in cui la spinta rivoluzionaria che ha aveva sconvolto grande parte dell’Europa occidentale all’indomani della fine del massacro della prima guerra mondiale, anche sull’emozione del successo della rivoluzione russa, si stava esaurendo e veniva repressa sempre più violentemente, mentre si stavano aprendo le porte alle nuove dittature fascista e nazista, ma anche a forti irrigidimenti antidemocratici negli altri grandi paesi europei. La fine dell’ottocento, grazie anche alla prima esperienza di governo popolare della Comune di Parigi del 1870, ma soprattutto in seguito alla forte industrializzazione che aveva interessato quasi tutti gli Stati europei, Russia inclusa, creando la nuova classe operaia, aveva visto una crescita esponenziale dei partiti e dei movimenti socialisti. Era quest’ultimo un magna assai eterogeneo che includeva componenti fortemente rivoluzionarie, ma anche buona parte della nuova borghesia industriale e cittadina che ambiva a conquistare, dopo quello economico, anche il potere politico, liquidando i residui della vecchia aristocrazia terriera e parassitaria. La guerra mondiale aveva fortemente incrementato la industrializzazione, inevitabilmente anche in funzione bellica, aumentando nello stesso tempo il peso della nuova classe capitalista e la dimensione di massa di quella operaia. In molti Stati, Russia inclusa, erano i nuovi partiti socialisti o socialdemocratici ad avere messo in discussione il potere delle vecchie oligarchie facendo base anche sulla nuova classe dei lavoratori dell’industria e delle città. In Russia era però avvenuto un “salto”. Con la rivoluzione d’ottobre, che segue di pochi mesi quella di febbraio che aveva portato al potere la borghesia socialdemocratica costringendo lo zar alla abdicazione ai propri poteri assoluti, la “massa di manovra”, la classe operaia prende lei stessa l’iniziativa e scalza la borghesia assumendo tutto il potere politico. L’evento è culturalmente devastante per le nuove classi capitaliste dell’occidente industrializzato, persino più grave della stessa guerra mondiale che aveva bensì violentemente opposto una borghesia nazionale a un’altra, ma mai messo in discussione il sistema di potere economico, cioè di dominio sulle classi lavoratrici. Non farà in tempo a finire la prima guerra mondiale con la disfatta degli imperi centroeuropei, che le nazioni vincitrici, consapevoli del pericolo del “contagio” bolscevico, passeranno ad aggredire la neonata Unione Sovietica sostenendo, finanziando e in taluni casi anche con interventi diretti, le diverse “armate bianche” che per tre anni semineranno per l’immenso territorio russo le

devastazioni di una violentissima guerra civile. L’esistenza e la sopravvivenza dell’Unione Sovietica, il primo grande Stato governato dai lavoratori, svolge quindi un ruolo di grandissima importanza nel provocare la nascita dei partiti comunisti nell’Europa occidentale, ma anche nel condizionarne le loro strategie politiche. La principale chiave di lettura va ricercata proprio nella costituzione della Terza Internazionale, voluta da Lenin e poi sempre diretta dall’Unione Sovietica. L’internazionale Comunista nasce con una chiara intenzione, sancita dai 21 punti del secondo Congresso di Mosca del 1920, di creare una rete di partiti gerarchicamente legati a un organismo unitario centralizzato, il Comintern, sostanzialmente costruito a baluardo dello Stato proletario. Per alcuni anni, si usa dire dopo alla morte Lenin ma è forse assai più corretto dire ancora vivente Lenin, ci sarà un aspro dibattito, sia all’interno dell’Unione Sovietica che negli Stati e nei partiti occidentali, sul modo di interpretare il termine “difesa”. Per le correnti più estreme, che poi lo stesso Lenin chiamerà “estremiste” definendo con tale termine una “malattia infantile” del comunismo, la difesa veniva intesa in forma “aggressiva”, attraverso l’espansione mondiale dell’esperienza rivoluzionaria russa. Per altre correnti, che poi si definiranno almeno nella storia del PCdI “il centro”, la difesa ben presto verrà interpretata esattamente al contrario, nel senso della protezione dell’Unione Sovietica. Nella “vulgata” comune la prima tesi viene riferita a Trotskj, la seconda a Stalin, ma, come sopra accennato, è da credere che già Lenin, dopo il fallimento di talune rivolte pre-rivoluzionarie, quali ad esempio il movimento Spartachista in Germania e i Consigli di Fabbrica in Italia, avesse compreso la impossibilità della “ripetizione” pura e semplice dell’esperienza rivoluzionaria russa negli altri Stati capitalisti europei e, quindi, avesse lui stesso condiviso la necessità di una scelta strategica prioritariamente difensiva dell’Unione Sovietica. D'altronde è lo stesso Lenin che vara la NEP, Nuova Politica Economica, restituendo temporaneamente parte del potere economico alla classe borghese e contrattando con gli industriali occiden-

tali (emblematico il caso della Ford che costruisce un proprio stabilimento di trattori nell’Unione Sovietica), assumendo la priorità della ricostruzione dell’economia, soprattutto industriale, russa distrutta dalla guerra mondiale prima e da quella civile poi. Non stupisce quindi che sarà proprio Gramsci, ben prima o comunque in piena condivisione con Togliatti (poi segretario del Cominter), a fare proprie, con le tesi del Congresso di Lione del 1926 (ove verrà liquidata la componete più estremista di Bordiga), le strategie dei “fronti uniti” con i partiti socialisti, del parlamentarismo democratico, ecc., richieste dall’Unione Sovietica a tutti i partiti comunisti dell’occidente. L’Unione Sovietica riconoscerà il primo governo Mussolini e il PCdI parteciperà alle ultime elezioni politiche libere, anche se totalmente truccate da un sistema di “superpremio” maggioritario (assai simile a quello oggi in vigore), dissociandosi poi dalla sterile opposizione dell’ “Aventino” piegata sulla speranza dell’intervento di un re oramai votato alla subordinazione fascista, cercando di resistere in Parlamento alla deriva dittatoriale che poi metterà fuori legge tutti i partiti, non solo i comunisti di Gramsci, ma anche popolari di Don Sturzo e liberali di Giolitti. Alcuni anni più tardi, nel 1939, l’Unione Sovietica negozierà il trattato MolotovRibbentrop di non aggressione con la Germania nazista, cercando di allontanare il tempo di una aggressione comunque certa per meglio preparare le proprie difese. Certamente, dunque, i partiti comunisti dell’occidente furono fortemente condizionati dalla priorità della difesa della “cittadella assediata”, ma in quella “cittadella” trovarono tutti, italiani, francesi, tedeschi, spagnoli, ecc., rifugio dalle persecuzioni del loro Paesi e spazi e strumenti per riorganizzare i loro partiti clandestini e prepararsi a rientrare nelle rispettive nazioni una volta finita la guerra e cadute le dittature. Yalta non cambierà queste logiche, ma assai più grande sarà lo spazio di difesa dei popoli sfruttati del Mondo. E’ dentro questo complesso scenario geo-politico che occorre valutare quella che viene “incoltamente” definita la dittatura stalinista, ma su questo “difficile” tema torneremo prossimamente.

III


Il tempo “sbagliato”

Il Partito “intellettuale organico” delle classi subalterne La conquista del potere attraverso la conquista dell’ “egemonia” “Le idee – scrive Gramsci non nascono da altre idee, le filosofie non sono partorite da altre filosofie, esse sono l'espressione rinnovata dello sviluppo storico.” “Le forze materiali non sarebbero concepibili storicamente senza forma, e le ideologie sarebbero ghiribizzi individuali senza le forze materiali.” Le idee nascono dallo sviluppo storico del reale, ne sono l'espressione, ma nello stesso tempo hanno il potere di cambiare la storia. Ecco perché le idee non sono figlie di idee, ma nascono da rapporti storici reali. Nel momento in cui il capitalismo è entrato nella fase monopolistica e le grandi masse sulla scena della storia, il problema della sovrastruttura diviene determinante. Prendere il potere significa, innanzitutto, occupare le "casematte dello Stato", cioè quegli apparati della società civile, come la scuola, i partiti, i sindacati, la stampa, che hanno il compito di inculcare nelle menti delle grandi masse i valori della classe dominante. La supremazia di un gruppo sociale non può attuarsi solo col dominio e con la forza, deve avvalersi degli apparati egemonici della società civile, deve evocare il consenso più am-

pio. Il potere non è dominio, è egemonia, intesa essenzialmente come capacità di direzione intellettuale e morale. Ogni classe sociale tende a produrre i propri intellettuali organici connessi ai propri bisogni e alla propria mentalità. Le masse dei lavoratori e degli sfruttati debbono dotarsi di una loro guida intellettuale e l’ “intellettuale organico” alle classi subalterne è il partito comunista che, rap-

presentando la totalità degli interessi e delle aspirazioni della classe lavoratrice, si configura come la sua guida politica, morale ed ideale. Per questa sua capacità unificatrice delle istanze popolari e per il suo fermo tendere ver-

so un supremo fine politico, Gramsci denomina il partito comunista "moderno Principe", con l'avvertenza che, mentre per Machiavelli esso si identifica in un individuo concreto, per i comunisti si tratta di un organismo in cui si concreta la volontà collettiva della classe rivoluzionaria. In un sistema capitalistico organico e globalizzato la strategia rivoluzionaria non può essere frontale, cioè alla "fac-

ciata dello Stato", deve invece dirigersi in profondità, mediante una "snervante guerra di posizione", contro le "fortezze" e le "casematte" del nemico, ossia contro l'insieme delle istituzioni della società civile. Si tratta di logorare pro-

gressivamente la supremazia di classe della borghesia, conquistando i punti strategici della società civile, e ponendo così le premesse per la conquista del potere e la realizzazione della propria egemonia. La conquista dello Stato borghese deve avvenire dunque dall'interno della società, attraverso una "battaglia delle idee" e sulla base di una prospettiva sociale, economica, politica, intellettuale e morale, che sia in grado di ottenere il consenso delle masse. Il Partito “intellettuale organico” deve ricucire la frattura tra cultura e vita, tra cultura e masse, operata dall'intellettuale tradizionale membro di una casta separata dal popolo-nazione e, dunque, deve essere portatore di una "cultura nazional-popolare" che rappresenta il cemento del rapporto tra dirigenti e diretti, tra governanti e governati. Solo se riesce ad ottenere il consenso di tutte masse subalterne e sfruttate, il partito comunista può creare un sistema di alleanze di classe che gli permetta di mobilitare contro lo Stato borghese la maggioranza della popolazione lavoratrice e diventare classe dirigente e dominante.

Le Internazionali Dalla Prima Internazionale fondata da Marx nel 1864 alla Terza Internazionale fondata da Lenin nel 1919

II

Nell'anno 1864 fu fondata a Londra la prima Associazione internazionale degli operai, la Prima Internazionale. Negli Statuti generali di quest'Associazione internazionale degli operai è detto che: a) l'emancipazione della classe operaia deve essere l'opera della classe operaia stessa; b) la lotta per l'emancipazione della classe operaia non è una lotta per privilegi di classe e monopoli, ma per stabilire eguali diritti e doveri e per abolire ogni dominio di classe; c) la soggezione economica del lavoratore a colui che gode del monopolio dei mezzi di lavoro, cioè delle fonti della vita, forma la base della servitù in tutte le sue forme, la base di ogni miseria sociale, di ogni degradazione spirituale e dipendenza politica; d) di conseguenza, l'emancipazione economica della classe operaia è il grande fine cui deve essere subordinato, come mezzo, ogni movimento politico; e) tutti gli sforzi per raggiungere questo grande fine sono finora falliti per la mancanza di solidarietà tra le molteplici categorie di operai di ogni paese e per l'assenza di un'unione fraterna fra le classi operaie dei diversi paesi; e) l'emancipazione

degli operai non è un problema locale né nazionale, ma un problema sociale che abbraccia tutti i paesi in cui esiste la società moderna, e la cui soluzione dipende dalla collaborazione pratica e teorica dei paesi più progrediti; f) il presente risveglio della classe operaia nei paesi industrialmente più progrediti d'Europa, mentre ridesta nuove speranze ed è in pari tempo un serio ammonimento a non ricadere nei vecchi errori, esige l'unione immediata dei movimenti ancora disuniti. La Seconda Internazionale, che fu fondata nel 1889 a Parigi, s'impegnò a proseguire l'opera della Prima Internazionale. Ma nel 1914, all'inizio del massacro mondiale, subì un crollo completo. Soffocata dall'opportunismo, disgregata dal tradimento dei dirigenti che erano passati dalla parte della borghesia, la Seconda Internazionale si

spezzò. La Terza Internazionale comunista, fondata nel marzo 1919 a Mosca, capitale della Repubblica socialista federativa sovietica russa, proclama solennemente a tutto il mondo di assumere su di sé la grand'opera iniziata dalla prima Associazione internazionale degli operai, di volerla continuare e portare a termine e per compiere, secondo le parole di Lenin, il primo passo verso la Repubblica internazionale dei soviet e la vittoria mondiale del comunismo. Dopo questo primo atto formale di costituzione, l'Internazionale comunista tenne nel luglio-agosto del 1920 il suo secondo congresso, cui parteciparono delegazioni di trentasette paesi e che tracciò le basi ideali e programmatiche accogliendo i ventuno punti proposti da Lenin: i partiti che intendevano aderire si impegnavano a

darsi una struttura analoga a quella del Partito comunista sovietico, a sostenere l'Urss, a rispettare le direttive del Comintern, a lottare contro la socialdemocrazia per favorire la nascita di autonomi partiti rivoluzionari. A dirigere l'Internazionale venne designato un comitato esecutivo permanente, con sede a Mosca, il cui primo presidente fu G.E. Zinov'ev. Negli anni successivi il Comintern risentì pesantemente dei conflitti interni al gruppo dirigente del Partito comunista dell'Urss, che condizionò le scelte politiche subordinando in più di un'occasione agli interessi nazionali sovietici le esigenze dei partiti comunisti dei vari stati, soprattutto negli anni di Stalin e della sua teoria del socialismo in un solo paese. Anche lo scioglimento dell'organizzazione, nel maggio 1943, maturò come conseguenza della politica estera sovietica che, durante la guerra contro il nazismo, volle lanciare agli alleati occidentali un segnale di riconciliazione accantonando, con l'Internazionale, il progetto della rivoluzione mondiale di cui questa doveva essere lo strumento operativo.

I partititi comunisti e la difesa dell’URSS

1919-1920 il “Biennio Rosso”, nascono i “Consigli di Fabbrica”, i “soviet” italiani La FIOM, alla guida di 500mila operai metal- Ai Commissari di reparto delle meccanici, occupa le fabbriche del nord e da Officine Fiat Centro e Brevetti vita ad esperimenti di autogestione più saldo disciplinarsi, nell'ofCompagni! La nuova forma La storia del Biennio Rosso iniziò a Torino il 13 settembre 1919 con la pubblicazione sulla rivista Ordine Nuovo del manifesto “Ai commissari di reparto delle officine Fiat Centro e Brevetti”, nel quale si ufficializzava l’esistenza e il ruolo dei Consigli di fabbrica quali nuclei di gestione autonoma delle industrie da parte degli operai. Già tre mesi prima Gramsci e Togliatti avevano affrontato il problema, sempre sulla stessa rivista, in un articolo chiamato “Democrazia operaia”. Torino, culla dell’industrializzazione italiana, si prefigurava così come il centro propulsore del bolscevismo, in quanto la struttura dei Consigli proposta dagli ordinovisti ricalcava, seppur con peculiarità proprie, quella dei Soviet russi. Le proteste iniziarono nelle fabbriche di meccanica, per poi continuare nelle ferrovie, trasporti e in altre industrie, mentre i contadini occupavano le terre. Le agitazioni si diffusero anche nelle campagne della pianura padana, innescando duri scontri fra proprietari e braccianti. Nelle fabbriche di Torino e Milano gli operai, però, fecero molto più che un’occupazione, sperimentando per la prima volta forme di autogestione operaia: 500.000 metalmeccanici lavoravano e producevano da se stessi e per se stessi. Il fenomeno si estese rapidamente ad altre fabbriche del Nord, coinvolse il movimento anarchico ma venne solo in parte appoggiato dal P.S.I., che in quel momento era diviso tra riformisti e massimalisti. Gramsci avvertì l’incapacità dei

politici socialisti di fronte a queste manifestazioni di autogoverno proletario, e cercò di dare sistemazione, teorica prima, e pratica poi, al movimento operaio. Nulla potè, però, contro la reazione degli industriali, appoggiati dal governo e da questo aiutati con migliaia di militari in assetto di guerra. Dal 28 marzo 1920 si delinearono i due blocchi, da una parte gli operai con lo sciopero ad oltranza, dall’altra i proprietari, che adottarono la serrata come reazione alle richieste operaie. Dopo alcuni mesi di trattative sugli aumenti salariali, sempre respinti dalla Confederazione Generale dell’Industria, si alzò il livello del conflitto con l’occupazione armata delle fabbriche da parte degli operai, il 30 agosto del 1920. Giolitti rifiutò di far intervenire la polizia e l'esercito nelle fabbriche e aspettò che il movimento si esaurisse da sé, che terminassero le scorte di materie prime nei magazzini delle aziende occupate, che gli stessi operai si rendessero conto che l'occupazione non poteva durare più a lungo. Nello stesso tempo favorì le trattative fra gli industriali e sindacati e, praticamente, obbligò gli industriali a concedere ai lavoratori i miglioramenti di salario richiesti. Così all’inizio di ottobre del 1920 Giolitti riuscì a far accettare un compromesso tra le parti sociali, avendo anche predisposto un progetto di legge per controllo operaio su fabbriche, mai attuato. Le agitazioni operaie ebbero risultati economici positivi: i lavoratori ottennero miglioramenti nel salario e nelle con-

Medaglia commemorativa della FIOM delle occupazioni del 1920 dizioni di lavoro; la durata massima della giornata lavorativa passò da 11 ore a 8 ore. Assai diverse furono invece le conseguenze sul piano politico. La mancanza di un forte partito in grado di guidare gli operai e i contadini verso la conquista del potere politico non solo fece retrocedere il movimento, ma di fatto aprì la porta alla reazione padronale, industriale e agraria, che a tal fine utilizzò, sostenendolo e finanziandolo, l’emergente fascismo. Grandissima fu allora la responsabilità non solo dei liberali (fu lo stesso Giolitti a favorire l'ascesa del fascismo quando, in occasione delle elezioni del maggio 1921, cercando di assorbire i fascisti nella normale prassi parlamentare, li inserì nei Blocchi nazionali), ma dello stesso partito popolare di don Sturzo che più preoccupato dall’avanzata dei socialisti e comunisti sottovalutò il pericolo del fascismo che poi, dopo il Concordato con il Vaticano, metterà fuori legge anche il partito dei cattolici.

che la commissione interna ha assunto nella vostra officina con la nomina dei commissari di reparto e le discussioni che hanno preceduto e accompagnato questa trasformazione non sono passate inavvertite nel campo operaio e padronale torinese. Da una parte si accingono a imitarvi le maestranze di altri stabilimenti della città e della provincia, dall'altra i proprietari e i loro agenti diretti, gli organizzatori delle grandi imprese industriali, guardano a questo movimento con interesse crescente e si chiedono e chiedono a voi quale può essere lo scopo cui esso tende, quale il programma che la classe operaia torinese si propone di realizzare. ... Il bisogno, l'aspirazione da cui trae la sua origine il movimento rinnovatore dell'organizzazione operaia da voi iniziato, sono, crediamo noi, nelle cose stesse, sono una conseguenza diretta del punto cui è giunto, nel suo sviluppo, l'organismo sociale ed economico basato sull'appropriazione privata dei mezzi di scambio e di produzione. ... E se è vero che la società nuova sarà basata sul lavoro e sul coordinamento delle energie dei produttori, i luoghi dove si lavora, dove i produttori vivono e operano in comune, saranno domani i centri dell'organismo sociale e dovranno prendere il posto degli enti direttivi della società odierna. ... La massa operaia deve prepararsi effettivamente all'acquisto della completa padronanza di se stessa, e il primo passo su questa via sta nel suo

ficina, in modo autonomo, spontaneo e libero. Né si può negare che la disciplina che col nuovo sistema verrà instaurata condurrà a un miglioramento della produzione, ma questo non è altro che il verificarsi di una tesi del socialismo: quanto più le forze produttive umane, emancipandosi dalla schiavitù cui il capitalismo le vorrebbe per sempre condannate, prendono coscienza di sé, si liberano e liberamente si organizzano, tanto migliore tende a diventare il modo della loro utilizzazione: l'uomo lavorerà sempre meglio dello schiavo. A coloro poi che obiettano che in questo modo si viene a collaborare con i nostri avversari, con i proprietari delle aziende, noi rispondiamo che invece questo è l'unico mezzo di dominio, perché la classe operaia concepisce la possibilità di fare da sé e di fare bene: anzi, essa acquista di giorno in giorno più chiara la certezza di essere sola capace di salvare il mondo intiero dalla rovina e dalla desolazione. ... Eletti da una maestranza nella quale sono ancora numerosi gli elementi disorganizzati, vostra prima cura sarà certamente quella di farli entrare nelle file dell'organizzazione, opera che del resto vi sarà facilitata dal fatto che essi troveranno in voi chi sarà sempre pronto a difenderli, a guidarli, ad avviarli alla vita della fabbrica. Voi mostrerete loro con l'esempio che la forza dell'operaio è tutta nell'unione e nella solidarietà coi suoi compagni. Antonio Gramsci Ordine Nuovo - 1919

Il Partito Comunista d’Italia, come peraltro molti dei nuovi partiti comunisti occidentali, nasce nel momento sbagliato. Paradossalmente l’ala rivoluzionaria del partito socialista si stacca e si costituisce in partito autonomo nel momento in cui la spinta rivoluzionaria che ha aveva sconvolto grande parte dell’Europa occidentale all’indomani della fine del massacro della prima guerra mondiale, anche sull’emozione del successo della rivoluzione russa, si stava esaurendo e veniva repressa sempre più violentemente, mentre si stavano aprendo le porte alle nuove dittature fascista e nazista, ma anche a forti irrigidimenti antidemocratici negli altri grandi paesi europei. La fine dell’ottocento, grazie anche alla prima esperienza di governo popolare della Comune di Parigi del 1870, ma soprattutto in seguito alla forte industrializzazione che aveva interessato quasi tutti gli Stati europei, Russia inclusa, creando la nuova classe operaia, aveva visto una crescita esponenziale dei partiti e dei movimenti socialisti. Era quest’ultimo un magna assai eterogeneo che includeva componenti fortemente rivoluzionarie, ma anche buona parte della nuova borghesia industriale e cittadina che ambiva a conquistare, dopo quello economico, anche il potere politico, liquidando i residui della vecchia aristocrazia terriera e parassitaria. La guerra mondiale aveva fortemente incrementato la industrializzazione, inevitabilmente anche in funzione bellica, aumentando nello stesso tempo il peso della nuova classe capitalista e la dimensione di massa di quella operaia. In molti Stati, Russia inclusa, erano i nuovi partiti socialisti o socialdemocratici ad avere messo in discussione il potere delle vecchie oligarchie facendo base anche sulla nuova classe dei lavoratori dell’industria e delle città. In Russia era però avvenuto un “salto”. Con la rivoluzione d’ottobre, che segue di pochi mesi quella di febbraio che aveva portato al potere la borghesia socialdemocratica costringendo lo zar alla abdicazione ai propri poteri assoluti, la “massa di manovra”, la classe operaia prende lei stessa l’iniziativa e scalza la borghesia assumendo tutto il potere politico. L’evento è culturalmente devastante per le nuove classi capitaliste dell’occidente industrializzato, persino più grave della stessa guerra mondiale che aveva bensì violentemente opposto una borghesia nazionale a un’altra, ma mai messo in discussione il sistema di potere economico, cioè di dominio sulle classi lavoratrici. Non farà in tempo a finire la prima guerra mondiale con la disfatta degli imperi centroeuropei, che le nazioni vincitrici, consapevoli del pericolo del “contagio” bolscevico, passeranno ad aggredire la neonata Unione Sovietica sostenendo, finanziando e in taluni casi anche con interventi diretti, le diverse “armate bianche” che per tre anni semineranno per l’immenso territorio russo le

devastazioni di una violentissima guerra civile. L’esistenza e la sopravvivenza dell’Unione Sovietica, il primo grande Stato governato dai lavoratori, svolge quindi un ruolo di grandissima importanza nel provocare la nascita dei partiti comunisti nell’Europa occidentale, ma anche nel condizionarne le loro strategie politiche. La principale chiave di lettura va ricercata proprio nella costituzione della Terza Internazionale, voluta da Lenin e poi sempre diretta dall’Unione Sovietica. L’internazionale Comunista nasce con una chiara intenzione, sancita dai 21 punti del secondo Congresso di Mosca del 1920, di creare una rete di partiti gerarchicamente legati a un organismo unitario centralizzato, il Comintern, sostanzialmente costruito a baluardo dello Stato proletario. Per alcuni anni, si usa dire dopo alla morte Lenin ma è forse assai più corretto dire ancora vivente Lenin, ci sarà un aspro dibattito, sia all’interno dell’Unione Sovietica che negli Stati e nei partiti occidentali, sul modo di interpretare il termine “difesa”. Per le correnti più estreme, che poi lo stesso Lenin chiamerà “estremiste” definendo con tale termine una “malattia infantile” del comunismo, la difesa veniva intesa in forma “aggressiva”, attraverso l’espansione mondiale dell’esperienza rivoluzionaria russa. Per altre correnti, che poi si definiranno almeno nella storia del PCdI “il centro”, la difesa ben presto verrà interpretata esattamente al contrario, nel senso della protezione dell’Unione Sovietica. Nella “vulgata” comune la prima tesi viene riferita a Trotskj, la seconda a Stalin, ma, come sopra accennato, è da credere che già Lenin, dopo il fallimento di talune rivolte pre-rivoluzionarie, quali ad esempio il movimento Spartachista in Germania e i Consigli di Fabbrica in Italia, avesse compreso la impossibilità della “ripetizione” pura e semplice dell’esperienza rivoluzionaria russa negli altri Stati capitalisti europei e, quindi, avesse lui stesso condiviso la necessità di una scelta strategica prioritariamente difensiva dell’Unione Sovietica. D'altronde è lo stesso Lenin che vara la NEP, Nuova Politica Economica, restituendo temporaneamente parte del potere economico alla classe borghese e contrattando con gli industriali occiden-

tali (emblematico il caso della Ford che costruisce un proprio stabilimento di trattori nell’Unione Sovietica), assumendo la priorità della ricostruzione dell’economia, soprattutto industriale, russa distrutta dalla guerra mondiale prima e da quella civile poi. Non stupisce quindi che sarà proprio Gramsci, ben prima o comunque in piena condivisione con Togliatti (poi segretario del Cominter), a fare proprie, con le tesi del Congresso di Lione del 1926 (ove verrà liquidata la componete più estremista di Bordiga), le strategie dei “fronti uniti” con i partiti socialisti, del parlamentarismo democratico, ecc., richieste dall’Unione Sovietica a tutti i partiti comunisti dell’occidente. L’Unione Sovietica riconoscerà il primo governo Mussolini e il PCdI parteciperà alle ultime elezioni politiche libere, anche se totalmente truccate da un sistema di “superpremio” maggioritario (assai simile a quello oggi in vigore), dissociandosi poi dalla sterile opposizione dell’ “Aventino” piegata sulla speranza dell’intervento di un re oramai votato alla subordinazione fascista, cercando di resistere in Parlamento alla deriva dittatoriale che poi metterà fuori legge tutti i partiti, non solo i comunisti di Gramsci, ma anche popolari di Don Sturzo e liberali di Giolitti. Alcuni anni più tardi, nel 1939, l’Unione Sovietica negozierà il trattato MolotovRibbentrop di non aggressione con la Germania nazista, cercando di allontanare il tempo di una aggressione comunque certa per meglio preparare le proprie difese. Certamente, dunque, i partiti comunisti dell’occidente furono fortemente condizionati dalla priorità della difesa della “cittadella assediata”, ma in quella “cittadella” trovarono tutti, italiani, francesi, tedeschi, spagnoli, ecc., rifugio dalle persecuzioni del loro Paesi e spazi e strumenti per riorganizzare i loro partiti clandestini e prepararsi a rientrare nelle rispettive nazioni una volta finita la guerra e cadute le dittature. Yalta non cambierà queste logiche, ma assai più grande sarà lo spazio di difesa dei popoli sfruttati del Mondo. E’ dentro questo complesso scenario geo-politico che occorre valutare quella che viene “incoltamente” definita la dittatura stalinista, ma su questo “difficile” tema torneremo prossimamente.

III


Enrico Berlinguer un marxista-leninista rivoluzionario

rale erano allora patrimonio indiscusso del partito comunista italiano. Come scriveva Pasolini il partito comunista era un paese eccellente in un paese squalificato. Indipendentemente dalla percentuale del consenso elettorale il partito comunista italiano era allora in grado, non solo di influire sulla politica nazionale, ma anche di condizionarne significativamente le scelte. Erano gli anni dell’affermazione

to nella senilità politica, culturale e morale brezneviana, anch’essa affondata nel pantano della guerra afghana. La “guerra fredda” era finita perché erano entrati in crisi ambedue i contendenti; si aprivano allora, o almeno sembravano aprirsi nuovi scenari di liberazione del mondo, tanto in occidente quanto in oriente. I comunisti, marxisti-leninistigramsciani (la Cina era ancora molto lontana dal far sentire il

dei diritti civili, dei diritti dei lavoratori, del diritto alla salute, dello stato sociale in genere, della istruzione e della espansione della cultura nel senso più ampio e vasto. Ma erano anche gli anni del collasso economico degli US A che con Nixon annullarono la parità del dollaro con l’oro e di lì a poco perderanno la guerra del Vietnam; ma anche della quasi speculare implosione del sistema sovietico ingessa-

suo peso politico e ideologico) erano pronti ad assumere il governo anche in sistemi economici capitalisti, in occidente come in oriente. Ad oriente nel 1968 i comunisti cecoslovacchi avevano intrapreso con Dubcek un tentativo di rivoluzione del così detto socialismo reale. In occidente nel 1970 il fronte di Unità Popolare di Salvador Allende aveva vinto le elezioni in Cile è posto mano al progetto di liberazio-

ne del sud America dall’imperialismo USA. Il primo esperimento venne represso dai carri armati della Russia di Brezniev, il secondo dal colpo di stato organizzato, finanziato e diretto dagli USA. Era l’11 settembre 1973, il giorno in cui, con il bombardamento del palazzo della Moneda di Santiago del Cile e l’assassinio del presidente democraticamente eletto Salvador Allende, apparve chiaro che non era possibile cambiare le regole della divisione del mondo sancite negli accordi di Yalta e che non sarebbe mai stato consentito a un partito comunista di assumere il governo di un paese capitalista, anche con la maggioranza dei voti democraticamente espressi. Il percorso della conquista del potere per via parlamentare andava dunque interrotto e questo ha fatto Berlinguer con la “svolta” del compromesso storico. Non si trattava più di inseguire la conquista delle masse dei lavoratori cattolici alla fiducia e alla guida del partito comunista, ma di negoziare con l’altra parte, con l’avversario, cioè di “compromettere”. Individuare gli interlocutori del compromesso nel magma della cupola democristiana non fu difficile per Berlinguer: da un lato la così detta sinistra cristiana sociale e popolare, dall’altro la componente storicamente antiamericana e anti israeliana, quella legata alla chiesa romana; Moro e Andreotti i due interlocutori disponibili. Il progetto sembrava avere avuto successo e il PCI giunse sino a dare l’appoggio esterno a un governo monocolore presieduto da Andreotti. Sembrava ma non era così. Il 16 marzo 1978 gli americani e i loro esecutori italiani fecero sequestrare Aldo Moro da sedi-

denza delle nazioni, e per sviluppare in masse sempre più estese l’impegno democratico e rivoluzionario per modificare ulteriormente, nel mondo e in ogni paese, i rapporti di forza a vantaggio delle classi lavoratrici, dei movimenti di liberazione nazionale e di tutto lo schieramento democratico e antimperialistico. Gli avvenimenti del Cile possono e devono suscitare, insieme a un possente e duraturo movimento di solidarietà con quel popolo, un più generale risveglio delle coscienze democratiche, e soprattutto una azione per l’entrata in campo di nuove forze disposte a lottare concretamente contro l’imperialismo e contro la reazione. A questo fine è indispensabile assolvere anche al compito di una attenta riflessione per trarre dalla tragedia politica del Cile utili insegnamenti relativi a un più ampio e approfondito giudizio sia sul quadro internazionale, sia sulla strategia e tattica del movimento operaio e democratico in vari paesi, tra i quali il nostro [...] Il nostro partito ha sempre tenuto conto del rapporto imprescindibile tra questi due piani. Da una parte, come ci ha abituato a fare Togliatti, abbiamo cercato di valutare freddamente le condizioni complessive dei rapporti mondiali e il

contesto internazionale in cui è collocata l’Italia. Dall’altra parte ci siamo sforzati di individuare esattamente lo stato dei rapporti di forza all’interno del nostro paese. In particolare abbiamo sempre dato il dovuto peso in tutta la nostra condotta al dato fondamentale costituito dall’appartenenza dell’Italia al blocco politico-militare dominato dagli Usa e agli inevitabili condizionamenti che ne conseguono. Ma la consapevolezza di questo dato oggettivo non ci ha certo portato all’inerzia e alla paralisi. Abbiamo reagito e reagiamo con la nostra iniziativa e con la nostra lotta. Tutti i tentativi di schiacciarci o di isolarci li abbiamo respinti. La nostra forza e la nostra influenza fra le masse popolari e nella vita nazionale sono anzi cresciuti. Su questa strada si può e si deve andare avanti. Dunque, anzitutto, si tratta di modificare gli interni rapporti di forza in misura tale da scoraggiare e rendere vano ogni tentativo dei gruppi reazionari interni e internazionali di sovvertire il quadro democratico e costituzionale, di colpire le conquiste raggiunte dal nostro popolo, di spezzarne l’unità e di arrestare la sua avanzata verso la trasformazione della società. [...] Gli avvenimenti cileni ci solleci-

Il “Compromesso Storico” Le ragioni della “svolta” e le conseguenze del suo fallimento La “svolta” del compromesso storico voluta da Enrico Berlinguer non ha rappresentato uno dei passaggi di maggiore rilevanza nella storia del comunismo italiano ed europeo, tuttavia la sua vicinanza nel tempo, il perdurare delle conseguenze del suo fallimento e, soprattutto, il persistere delle condizioni del contesto geopolitico che ebbero allora a produrla, rendono ancora quanto mai attuale la sua analisi. Occorreranno però due premesse molto importanti: una di lessico, la seconda di identificazione politica che, come si vedrà, sono unite da uno stretto legame dialettico. Il lessico riguarda l’interpretazione della parola “svolta” che, nelle vicende del partito comunista, viene usata in modo del tutto improprio. Svolta in lingua italiana significa “mutamento di direzione”, ebbene non ci sono e non si sono mai stati mutamenti di direzione nella oramai secolare vicenda dal partito comunista, anche inteso come un unico movimento mondiale. La storia del partito comunista si è sempre mossa lungo un percorso lineare che muovendo dalla prima definizione scientifica di Marx ed Engels del 1848 si è naturalmente arricchita nel suo procedere con innumerevoli contributi teorici e pratici in coerenza con la sua natura di scienza, né dogmatica, né fideistica. Dalla prima teorizzazione scientifica di Marx all’arricchimento anche empirico di Lenin, un’unica linea costante e coerente ha legato Gramsci a Togliatti a Longo sino a Berlinguer. Questo introduce al secondo punto di

identificazione politica: Berlinguer non è stato soltanto il paladino dell’etica nella politica, caratteristica “ordinaria” per un comunista, Berlinguer è stato l’ultimo segretario di un partito comunista, formatosi alla scuola di Togliatti e di Longo, che si erano a loro volta formati con Gramsci alla scuola di Lenin. Berlinguer era un marxista-leninista, cioè un comunista rivoluzionario che perseguiva il progetto di rivoluzionamento del sistema di dominio capitalista; altre definizioni non ce ne sono. Il comprostorico, messo dunque, non è stata una “svolta”, ma un passaggio di attualizzazione storica del percorso lineare del comunismo che “abolisce lo stato di cose presente” (Marx) intrapreso da Gramsci e proseguito dal suo ultimo allievo (come segretario del partito che ne portava ancora il nome). Erano gli inizi degli anni ’70 e un grande partito comunista, il più grande mai esistito nell’occidente, forte del controllo di un grande sindacato e dialetticamente contestato ma anche arricchito da un fiorire di movimenti e organizzazioni minori comuniste, aveva forse conquistato quell’egemonia politica, etica e culturale prefigurata da Gramsci. La cultura, la scienza, l’arte, l’amministrazione, le competenze in ogni disciplina, l’onestà e la dirittura mo-

Imperialismo e coesistenza alla luce dei fatti cileni Enrico Berlinguer Rinascita, 28 settembre 1973

IV

Gli avvenimenti cileni sono stati e sono vissuti come un dramma da milioni di uomini sparsi in tutti i continenti. Si è avvertito e si avverte che si tratta di un fatto di portata mondiale, che non solo suscita sentimenti di esecrazione verso i responsabili del golpe reazionario e dei massacri di massa, e di solidarietà per chi ne è vittima e vi resiste, ma che propone interrogativi i quali appassionano i combattenti della democrazia in ogni paese e muovono alla riflessione. Non giova nascondersi che il colpo gravissimo inferto alla democrazia cilena, alle conquiste sociali e alle prospettive di avanzata dei lavoratori di quel paese è anche un colpo che si ripercuote sul movimento di liberazione e di emancipazione dei popoli latino-americani e sull’intero movimento operaio e democratico mondiale; e come tale è sentito anche in Italia dai comunisti, dai socialisti, dalle masse lavoratrici, da tutti i democratici e antifascisti. Ma come sempre è avvenuto

di fronte ad altri eventi di tale drammaticità e gravità, i combattenti per la causa della libertà e del socialismo non reagiscono con lo scoramento o solo con la deprecazione e la collera, ma cercano di trarre un ammaestramento. In questo caso l’ammaestramento tocca direttamente masse sterminate della popolazione mondiale, chiamando vasti strati sociali, non ancora conquistati alla nostra visione dello scontro sociale e politico che è in atto nel mondo di oggi, a scorgere e intendere alcuni dati fondamentali della realtà. Ciò costituisce una delle premesse indispensabili per un’ampia e vigorosa partecipazione alla lotta volta a cambiare tali dati. Anzitutto, gli eventi cileni estendono la consapevolezza, contro ogni illusione, che i caratteri dell’imperialismo, e di quello nord-americano in particolare, restano la sopraffazione e la jugulazione economica e politica, lo spirito di aggressione e di conquista, la tendenza a opprimere i popoli e a privarli della loro indipendenza, libertà e unità ogni qualvol-

ta le circostanze concrete e i rapporti di forza lo consentano. In secondo luogo, gli avvenimenti in Cile mettono in piena evidenza chi sono e dove stanno nei paesi del cosiddetto «mondo libero», i nemici della democrazia. L’opinione pubblica di questi paesi, bombardata da anni e da decenni da una propaganda che addita nel movimento operaio, nei socialisti e nei comunisti i nemici della democrazia, ha oggi davanti a sé una nuova lampante prova che le classi dominanti borghesi e i partiti che le rappresentano o se ne lasciano asservire, sono pronti a distruggere ogni libertà e a calpestare ogni diritto civile e ogni principio umano quando sono colpiti o minacciati i propri privilegi e il proprio potere. Compito dei comunisti e di tutti i combattenti per la causa del progresso democratico e della liberazione dei popoli è di far leva sulla più diffusa consapevolezza di queste verità per richiamare la vigile attenzione di tutti sui percoli che l'imperialismo e le classi dominanti borghesi fanno correre alla libertà dei popoli e all’indipen-

centi Brigate Rosse e poi, nonostante l’opposizione del Papa romano, lo condannarono a morte. Il messaggio era inequivoco: neppure il compromesso storico era praticabile in un paese sotto il dominio degli USA. Berlinguer, che pure aveva compreso la lezione del Cile, non volle arrendersi, oppure non fu più capace di “arretrare” il partito, di ricondurlo nell’unico ruolo e spazio politico possibile di grande e forte partito di opposizione, in grado di condizionare dall’esterno le scelte di un governo al quale non aveva diritto di accesso. Il partito comunista si era oramai “votato” al potere, anche perché infiltrato da uno stuolo di non comunisti, comunisti pentiti, “mai” comunisti, opportunisti in genere che avevano intravisto la possibilità di utilizzarlo come veicolo per la conquista del loro potere personale. La morte di Berlinguer, l’ascesa alla guida del partito comunista di una nuova generazione politicamente incolta e moralmente compromessa, fortunosamente aiutata dal crollo di quel che restava dello sclerotizzato regime sovietico, aprì allora la strada alla mutazione genetica di un partito non più comunista, cioè non più antagonista, ma solo alternativo in un condiviso sistema di potere capitalista. Ci sarà infine anche l’ “alleanza” ma non tra le masse popolari, bensì tra le caste (il PD). Riservandoci di tornare con maggiore profondità su questo importante passaggio della vicenda del comunismo italiano, riportiamo di seguito un estratto del primo articolo pubblicato da Berlinguer sulla rivista Rinascita all’indomani del colpo di stato in Cile che così recita: “trarre dalla tragedia politica del Cile utili insegnamenti relativi a un più ampio e approfondito giudizio sia sul quadro internazionale, sia sulla strategia e tattica del movimento operaio e democratico in vari paesi, tra i quali il nostro.”

tano a una riflessione attenta che non riguarda solo il quadro internazionale e i problemi della politica estera, ma anche quelli relativi alla lotta e alla prospettiva della trasformazione democratica e socialista del nostro paese. Non devono sfuggire ai comunisti e ai democratici le profonde differenze tra la situazione del Cile e quella italiana. Il Cile e l’Italia sono situati in due regioni del mondo assai diverse, quali l’America latina e l’Europa occidentale. Differenti sono anche il rispettivo assetto sociale, la struttura economica e il grado di sviluppo delle forze produttive, così come sono diversi il sistema istituzionale (Repubblica presidenziale in Cile, Repubblica parlamentare in Italia) e gli ordinamenti statali. Altre differenze esistono nelle tradizioni e negli orientamenti delle forze politiche, nel loro peso rispettivo e nei loro rapporti. Ma insieme alle differenze vi sono anche delle analogie, e in particolare quella che i comunisti e i socialisti cileni si erano proposti anch’essi di perseguire una via democratica al socialismo. Dal complesso delle differenze e delle analogie occorre dunque trarre motivo per approfondire e precisare meglio in che cosa consiste e come può avanzare la via italiana al socialismo.


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