Inserto "Quale onore" - Giugno 2011

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supplemento al numero 6 - Anno III - giugno 2011 di Piazza del Grano - www.piazzadelgrano.org

Quale Onore?

La guerra è un’attività bestiale che trasforma gli uomini in bestie Dalla Libia alla Libia, passando per Etiopia, Amba Aradam, Slovenia, Grecia, Jugoslavia, Somalia e Iraq una strage italiana nascosta Viviamo in un secolo di pace, si sente spesso ripetere, la guerra è lontana, appartiene al nostro passato e non ci toccherà più. Non ci toccherà più, appunto, perché toccherà altri popoli, altre realtà, una volta lontanissime ma via via sempre più vicine a noi. La guerra ci sta girando intorno. Viviamo ancora in un’ “isola felice”, ma sino a quando? E soprattutto, quanta parte di responsabilità abbiamo noi stessi in quelle guerre, nel provocarle, nel sostenerle, nell’entrarci dentro, anche! A noi non può accadere, si sente ancora ripetere, noi non scivoleremo mai nelle barbarie delle pulizie etniche, dei massacri religiosi, delle dittature militari, noi siamo “diversi”, noi siamo più “civili”, noi siamo “buoni”. La storia non ci dice affatto questo. La nostra storia ci tramanda al contrario testimonianze di un’indole violenta e sanguinaria del popolo italiano che nulla ha da invidiare (se si può usare questo termine) alla ferocia nazista, al razzismo dei colonialisti inglesi, francesi, portoghesi e altri, o all’odierno bestiale all’imperialismo nord americano. In questo inserto vogliamo ricordare alcuni episodi che dimostrano come la guerra, le situazioni cioè in cui alla politica negoziata si sostituisce quella combattuta, è stata in grado di tra-

sformare dei “normali” contadini, operai, giovani studenti, in bestie feroci e sanguinarie. “Eseguivo gli ordini”, “Difendevo la mia patria”, “Lo imponeva la mia religione”, sono alcune tra le tante giustificazioni che i criminali di guerra hanno sempre cercato di addurre a discriminante delle loro inescusabili responsabilità, fino a giungere alla più grave, perché più subdola e ipocrita giustificazione: “Lo facevano anche loro, anzi loro erano peggiori”, che pone le basi per la finale conclusione “liberatoria”: “tutti i morti sono uguali e tutti i morti vanno onorati”, meglio ancora se “ignoti”. La foto che apre questa pagina è forse l’esempio più espressivo ad uno stesso della bestialità della guerra e della follia della sue (di qualsiasi) giustificazioni. Per cinque anni dal 1914 al 1918 milioni di europei si sono massacrati lungo le linee di immaginari confini dei rispettivi Stati, tutti e ciascuno per difendere il sacro territorio delle rispettive patrie. Quelle linee immaginarie e innaturali sono state “santificate” da milioni di ragazzi morti e oggi non esistono neppure più; i popoli dei due versanti appartengono (o almeno aspirano ad appartenere) a un unico grande Stato/patria unitario. Perché allora quel massacro? E ancora perché tutti quegli altri in-

numerevoli e interminabili massacri che insanguinano la storia dell’umanità? Per questa volta, in questo inserto, non parleremo delle ragioni economiche che ne costituiscono le reali ragioni storiche. Vogliamo guardare all’indole umana, alla “sovrastruttura” culturale ed etica che muove e condiziona i comportamenti degli esseri umani. Se è vero, come dice il Presidente Mao, che almeno il 90 cento degli uomini sono “buoni”, dobbiamo concludere che é la guerra che, segnando la fine della convivenza civile e sociale, produce questa “mutazione genetica”. Se è la guerra che trasforma l’uomo in bestia, allora nella guerra non può esserci alcun onore, ma solo miseria, disgusto e vergogna. Nel 1910 l’Italia invase la Libia e diede inizio a un massacro delle popolazioni indigene che si protrasse per decenni, dalla monarchia costituzionale illuminata (governo Giolitti), alla conversione fascista dei re piemontesi. Nel 2011 l’Italia sta di nuovo bombardando la Libia, uccidendo uomini, donne e bambini. Allora si parlava di una di una missione “civilizzatrice”, oggi si parla di una missione “democratica e umanitaria”. Le bombe e i proiettili sono sempre gli stessi. Domani onoreremo altri morti, tutti uguali, tutti eroi, tutti ignoti.

Peggio di Marzabotto, perché non fu rappresaglia. Peggio di Sebrenica perché morirono anche donne, vecchi e bambini. Tra il 9 e l’11 aprile 1939 una carovana di «salmerie» dei partigiani di Abebè Aregai, leader del movimento di liberazione etiope, si era rifugiata in un sistema di grotte nella località di Amba Aradam dopo essere stata individuata dall’aviazione italiana. Lì venne circondata da truppe italiane in misura soverchiante per numero ed armamenti. Circa 800 etiopi uscirono dalle grotte e si arresero, ma vennero tutti subito fucilati o gettati vivi in un burrone. Gli altri, in prevalenza vecchi, donne e bambini, che provvedevano alla cura dei feriti e al sostentamento dei partigiani alla macchia, in numero non ancora stimato, rimasero all’interno delle grotte. L’ordine da Roma fu perentorio: stroncare la ribellione che perdurava sulle montagne ancora dopo tre anni dall´ingresso di Badoglio ad Addis Abeba. Ma stanare i ribelli era impossibile, così il 9 aprile la grotta venne attaccata con bombe a gas d’arsina e con la micidiale iprite che devastò le trincee della Grande Guerra. L’Italia aveva firmato il bando internazionale

di queste armi letali, ma le ha poi usate in grande stile nella guerra d’Etiopia. Nella grotta il “bombardamento speciale” venne eseguito dal “plotone chimico” della divisione Granatieri di Savoia, da sempre ritenuta una delle più “nobili” delle Forze Armate italiane, per ordine diretto del generale Ugo Cavallero o dello stesso Amedeo di Savoia, pure lui di “nobile” reputazione. A completare il massacro, nel tentativo di “bonificare” il reticolo di grotte, le

truppe italiane fecero uso di lanciafiamme e infine, fecero saltare gli ingressi delle grotte, sigillando dentro per sempre ogni eventuale superstite. I meticolosi telegrammi scambiati tra i comandi italiani sono istantanee dall’inferno. «Si prevede che fetore cadaveri et carogne impediscano portare at termine esplorazione caverna che in questo sarà ostruita facendo brillare mine. Accertati finora 800 cadaveri, uccisi altri sei ribelli. Risparmiate

altre 12 donne et 9 bambini. Rinvenuti 16 fucili, munizioni et varie armi bianche». La rappresaglia delle Fosse Ardeatine di Kappler non fu peggiore. Il governatore della regione di Gondar, Alessandro Pirzio Biroli, di rinomata famiglia di esploratori, “usava” buttare i capitribù ribelli nelle acque del Lago Tana con un masso legato al collo; Achille Starace ammazzava i prigionieri di persona in un sadico tiro al bersaglio e, poiché non soffrivano abbastanza, prima li feriva con un colpo ai testicoli. Non fu certamente una “missione civilizzatrice” quella italiana in Etiopia, ma il collaudo del razzismo finito poi nei forni di Birkenau. Il generale Badoglio, già tra i responsabili della “rotta di Caporetto” nella prima guerra mondiale e poi, dopo la deposizione di Mussolini da parte del re piemontese e l’armistizio con gli alleati, capo del governo italiano, fece agli etiopi ciò che Saddam fece ai Curdi. Solo che Saddam è stato portato in giudizio, condannato e giustiziato, l’Italia non ha mai risposto dei suoi crimini. E così ancora oggi “ambaradam”, nel lessico familiare, è una parola che fa ridere: vuol dire “allegra confusione” e una importate via di Roma è ancora intitolata a quell’ “allegro” episodio!

I


Un esercito di “morti di fame” che rubava le scarpe ai deportati per non andare a piedi scalzi

II

Nella primavera del 1941 l’esercito tedesco travolge le difese del Regno di Jugoslavia che viene frammentato in una serie di stati e distretti distinti a seconda dell’etnia e dell’influenza politica degli alleati dell’Asse. All’Italia, accorsa con il suo esercito dopo il collasso della Jugoslavia, viene assegnata la Slovenia, parte delle coste dalmate sino a Cattaro e il Montenegro in “onore” della regina Elena. La Croazia viene costituita in regno formalmente incoronando il “nobile” Aimone di Savoia Aosta duca di Spoleto, che in verità non salirà mai al trono, e affidata concretamente al governo del criminale nazista Ante Pavelic. Al momento dell’ingresso dell’esercito italiano nel territorio jugoslavo la presenza di cittadini di origine e lingua italiana era estremamente modesta ed essenzialmente concentrata nell’Istria. Nessuna presenza significativa italiana, così come nessuna influenza economica, commerciale o cultuale intercorreva tra l’Italia e la confinante Slovenia. Nella follia imperiale propria del fascismo, ma pienamente condivisa dalla casa reale piemontese e dalle classi dominanti italiane, nacque allora l’idea della creazione di una provincia slovena parte integrante del territorio del Regno d’Italia. Ebbe così inizio un processo italianizzazione di quei territori che, da culturale con la soppressione della lingua slovena e l’imposizione di quella italiana, l’allontanamento dei non italiani da ogni impiego pubblico e soprattutto dell’insegnamento, ben presto si trasformò in una vera e propria pulizia etnica, portata all’estremo di una folle proposta avanzata a Mussolini da Italo Sauro, figlio dell’eroe Nazario della prima guerra mondiale, di deportare tutti i giovani sloveni ultra quattordicenni in Germania, soluzione “per fortuna” respinta dagli stessi tedeschi. La brutalità e la violenza dell’occupazione italiana provocò una reazione di resistenza nei territori occupati dagli italiani non minore di quella sorta nei restanti territori della ex Jugoslavia sotto il dominio tedesco. L’esercito italiano, nonostante l’impiego di truppe scelte dei granatieri di Sardegna e un consistente numero di Carabinieri Reali, non riuscì mai a tenere testa alla resistenza slava, nonostante tre successive offensive a vasto raggio, alcune con l’impiego dei mercenari cetnici e l’aiuto di reparti tede-

schi. La risposta a tale impotenza fu l’avvio di una strategia di “terra bruciata”, con il sistematico saccheggio dei paesi, la distruzione di interi villaggi e la deportazione massiccia di civili presunti sostenitori della resistenza. Nella quasi totalità si trattava di donne, bambini e anziani non in grado di unirsi alla resistenza. A tal fine vennero creati numerosi

campi di concentramento, taluni anche nell’Italia centrale in Toscana e in Umbria, dove vennero concentrati circa 30.000 deportati. Nel febbraio 1942, al massimo dell’impotenza della guerra contro la resistenza slava sempre più forte e sostenuta dalla popolazione, l’esercito italiano circondò la capitale della provincia, Lubiana, con un reticolato di filo spinato in cerchi concentrici lungo circa 41 chilometri, passando al setaccio quartiere per quartiere la città. Nel corso dei circa 29 me-

si di occupazione italiana della Slovenia, tra fucilati e morti nei campi di concentramento, vennero uccisi circa 13.000 sloveni pari al 2,6% della popolazione. Già prima dell’armistizio dell’8 settembre 1943 i rapporti di forza tra l’esercito occupante e la resistenza jugoslava unificata sotto la guida di Tito e del partito comunista, erano totalmente cambiati ed ebbe inizio una rotta disastrosa dell’esercito italiano che venne fermata solo dalla durezza dello scontro ancora in corso tra l’esercito di liberazione ju-

goslavo e le truppe tedesche (va ricordato che i partigiani jugoslavi in quegli anni impegnarono da soli un numero di divisione tedesche equivalente a quello di quelle impegnate dal fronte alleato in Italia). Il successivo passaggio dell’Italia dalla parte degli alleati e, soprattutto gli accordi di Yalta, all’epoca rispettati dai comunisti jugoslavi, impedirono l’an-

nessione dell’area di Trieste alla nuova Repubblica Jugoslava, ma invertirono totalmente il processo di italianizzazione della Dalmazia e della Slovenia a vantaggio del ritorno nelle loro case e territori degli slavi deportati dall’esercito italiano. Il revisionismo storico, forte della sottrazione della nuova Italia antifascista e repubblicana ai processi per i crimini di guerra intrapresi a carico dei nazisti tedeschi, ha cercato di “pareggiare” il conto della barbarie dell’occupazione italiana con

le reazioni, certamente non meno dure e vendicative, della resistenza jugoslava vincitrice. E’ nata così la retorica delle “foibe” (cavità naturali del terreno carsico istriano) nelle quali sarebbero state sepolte collettivamente le vittime delle vendetta slava. E’ sicuramente un dato storico e assolutamente (quanto bestialmente) coerente con la barbarie dei tempi, quello di una sanguinosa vendetta della resistenza slava tornata nel possesso dei propri territori liberati dall’occupazione militare straniera, anche se non vi

sono dati certi, cioè reali e verificati, dei numeri di tali ritorsioni (includendovi peraltro anche quelle legittimate dalle responsabilità criminali di molti degli occupanti italiani). Non si tratta qui (e comunque mai) di confrontare numeri, né di cercare giustificazioni di azione/reazione (che pure hanno un loro indubbio significato politico ed etico), quanto di voler richiamare la memoria e la consapevolezza di una responsabilità storica che se non riconosciuta, ammessa e denunciata, può riprodurre nel futuro analoghe, se non proprio identiche, vicende di violenza e bestialità, e questo, purtroppo, è accaduto e non una sola volta e neppure in un remoto passato, anzi forse proprio oggi si sta ripetendo con la follia della guerra “umanitaria” in Libia. Un’ultima nota non di poca importanza. Le vicende narrate sono, come ogni notizia, dato o informazione pubblicata da questo giornale, verificate e verificabili. Se andrete negli appositi siti internet le troverete narrate anche una crudezza e violenza assai maggiore. In quei siti (o almeno in taluni di essi) troverete però anche una “imbarazzante” tesi giustificativa del comportamento della “brava gente” italiana che in brevissima sintesi afferma: gli italiani non sono stati da meno dei tedeschi nel compiere atti di violenza ai danni dei popoli invasi, i tedeschi tuttavia lo facevano perché era nella loro “natura criminale”, gli italiani no, gli italiani lo facevano perché erano dei pezzenti come e forse persino di più dei popoli violentati. Così quando i “bravi” soldati italiani durante un rastrellamento dei villaggi sloveni saccheggiavano le case prima di bruciarle e inviavano ai loro parenti in Italia vecchie scarpe, vestiti usati, pentole e posate, e poi facevano morire di freddo, malattie e fame i vecchie e i bambini nei campi di concentramento, lo facevano perché erano così poveri da dover rubare le scarpe per non andare a piedi nudi e certamente non potevano dividere un pane che non bastava neppure per loro. Domanda: è una giustificazione? O è l’espressione più chiara ed evidente di quanto una guerra può trasformare degli esseri umani, quanto meno normali in condizioni normali, in bestie?

Grecia: una faccia una razza? La strage di Domenikon Dal giugno 1940, al settembre 1943, l'esercito italiano combatté la stessa guerra di aggressione della Germania nazista.! La lotta contro i "banditi" slavi o greci, fu condotta con modalità di guerra dure, talvolta spietate, che in Grecia furono rese ancor più aspre dalla penuria alimentare. Le autorità greche segnalarono stupri di massa. Il comando tedesco in Macedonia arrivò a protestare con gli italiani per il ripetersi delle violenze contro i civili. Il capo della polizia di Elassona, Nikolaos Bavaris, scrisse una lettera di denuncia ai comandi italiani e alla Croce rossa internazionale: "Vi vantate di essere il Paese più civile

d'Europa, ma crimini come questi sono commessi solo da barbari". Fu internato, torturato, deportato in Italia. Il 16 febbraio 1943 a Domenikon, un piccolo villaggio della Grecia centrale situato in Tessaglia, l'intera popolazione maschile tra i 14 e gli 80 anni venne trucidata. Nei dintorni di Domenikon, poco prima della strage, un attacco partigiano aveva provocato la morte di 9 soldati italiani. Il generale della divisione Pinerolo Cesare Benelli, ordinò la repressione: centinaia di uomini circondarono il villaggio, rastrellarono la popolazione e catturarono più di 150 uomini dai 14 agli 80 anni. Li tennero in ostaggio

fino a che, nel cuore della notte, procedettero alla fucilazione. L'episodio rappresenta uno dei più efferati crimini di guerra commessi dall'Italia durante la Seconda guerra mondiale.! Questo episodio non fu sporadico: secondo la storica Lidia Santarelli fu il primo di una serie di episodi repressivi nella primavera-estate 1943 conseguenti a una circolare del generale Carlo Geloso, comandante delle forze italiane di occupazione, in cui per ciò che concerne la lotta ai ribelli si adottò il principio cardine della responsabilità collettiva; per annientare il movimento partigiano, quindi, andavano annientate le comunità locali.

Somalia 1993 Missione “umanitaria” 1

Non è Buchenwald, non è Mauthausen, non è Auschwitz. Le foto provengono dal campo di concetramento e sterminio creato dall’Esercito Italiano nell’isola di Arbe (Rab) durante il tentativo di genocidio etnico del popolo sloveno nella follia della “italianizzazione” delle aree della Slovenia e della Dalmazia lasciate al governo italiano dall’esercito tedesco che aveva travolto le difese serbe. Arbe era uno dei campi “nascosti” d’internamento della popolazione civile slovena creati dall’esercito italiano per rappresaglia alla resistenza partigiana iugoslava che continuava a infliggere pesanti perdite agli invasori. La particolarità di Arbe, come degli altri simili campi di stermino, era data dalla presenza solamente di bambini, donne e anziani, perchè i giovani partigiani non venivano mai catturati. Dalle tombe censite ad Arbe sono stati stimati 1.500 morti su una popolazione di circa 15.000 internati. Simon Wiesenthal, tuttavia, ha stimato le morti in oltre 4.000, circa un terzo degli internati. Le cause delle morti furono essenzialmente la fame, il freddo e le malattie epidemiche per mancanza di qualsiasi cura, considerando che l’occultamento dei campi impediva alla Croce Rossa ogni intervento umanitario. La shoah è stata una tragedia indiscutibilmente enorme alla quale non sono stati estranei il governo e il popolo italiano, il genocidio sloveno è però un fatto totalmente italiano che l’opportunismo del cambio di alleanze da parte dei “reali” piemontesi in fuga e l’eroica resistenza dei partigiani italiani, sottraendo l’Italia al tribunale per i crimini di guerra, ha impedito di accertare e punire. E’ giusto celebrare il “giorno della memoria” dello sterminio ebraico e ricordarlo incessantemente alle nostre nuove generazioni, ma è fuori discussione che ai “figli dei figli” dei criminali di Arbe dovrebbero anzitutto essere ricordati i crimini commessi dai loro avi, motivatamente e documentalmente rifiutando la aberrante logica del “conto pari” delle asseite foibe jugoslave.

Nel 1993 l’Italia partecipò con il suo esercito alla missione IBIS deliberata dall’ONU per ripristinare la pace nella Somalia del dopo Siad Barre, incendiata dalle guerre tribali e religiose. L’Italia vi partecipò dapprima con la divisione di paracadutisti della Folgore, comandata dal colonnello Loi, poi sostituita dal battaglione S. Marco dei Lagunari. L’esito della missione militare, che oltre l’Italia vide l’impiego anche di truppe di altri paesi, fu sostanzialmente nullo nel breve periodo, disastroso in quello lungo che, com’è noto, ci mostra ancora oggi una situazione di guerra civile per bande mercenarie, intrise di fondamentalismi religiosi, fino alla comparsa di stabili e vaste organizzazioni di pirati del mare. Le responsabilità politiche della disastro somalo sono enormi e risalgono già prima della guerra mondiale e poi al decennio di protettorato italiano post bellico. Più gravi ancora le responsabilità morali che hanno visto sotto un forte legame politico tra i socialismo italiano e il sedicente socialismo somalo, una enormità di intrighi econo-

mici, finanziari e commerciali con il pesante coinvolgimento di importanti società italiane. Per chi lo ricorda ancora fu proprio nel corso dell’indagine su queste connivenze trasversali politico economiche italiane che venne uccisa la giornalista Ilaria Alpi. Ma se questo non fosse sufficiente occorrerà ancora ricordare la vergogna del comportamento delle nostre truppe ai danni della popolazione “soccorsa”. Già durante l’intervento “umanitario” emersero documenti che provavano il compimento da parte di soldati italiani di crimini di violenza, torture, sevizie, stupri. Sui fatti ven-

nero aperte diverse inchieste giudiziarie sia da parte della magistratura militare che da quella civile italiano, nonché costituita una commissione d’inchiesta parlamentare. Tutte le inchieste vennero insabbiate. I due comandanti del contingente italiano dapprima si auto sospesero, poi, placate le acque, vennero perfino promossi. L’unico condannato in primo grado, poi prescritto in appello, fu il soldato Emilio Ercole (18 mesi per “abuso d’autorità”) in quanto indiscutibilmente “immortalato” in una foto mentre applicava dei cavi elettrici ai genitali di un ragazzo somalo legato a terra

Iraq 2004 Missione “umanitaria” 2 Sulle ragioni della partecipazione del nostro esercito all’aggressione, invasione e devastazione dell’Iraq abbiamo già scritto in un precedente inserto specificamente dedicato al massacro iracheno. Nel breve articolo dedicato alla presenza del contingente italiano in Iraq abbiamo spiegato, richiamando informazioni rese note dalla stessa ENI, il perché dell’assegnazione proprio agli italiani dell’area di Nassirya dove la compagnia petrolifera italiana aveva ottenuto dal perfido “rais” delle importantissime concessioni per l’estrazione del petrolio. Che non si è trattato di una missione umanitaria, semmai qualcuno avesse avuto all’epoca dei dubbi, i fatti di poi hanno dimo-

strato la sfacciata pretestuosità delle giustificazioni inventate dagli USA. Così com’è oggi chiaro il disastro che l’invasione ha provocato all’intero paese ridotto in miseria, sprofondato nel caos, nell’illegalità e nella violenza praticamente assoluta. Ma che non si era trattato di una missione umanitaria era stato ben chiaro subito anche a nostri soldati, calati una realtà di vera propria guerra di resistenza contro gli eserciti invasori e questo indifferentemente dalle simpatie della popolazione “liberata” dalla dittatura per il rais Saddam. E di vera e propria guerra fu l’approccio della nostre truppe nel controllo del territorio, culminato con la così detta “battaglia dei ponti” quan-

do, nella notte tra il 5 e il 6 agosto del 2004, i soldati italiani, in preda al panico e nella totale impreparazione e disordine organizzativo dei comandi si trovarono a fare fuoco su civili, facendo saltare un’ambulanza e un autobus. Anche questi fatti furono sempre negati dai comandi e dai politici italiani, ma le registrazioni delle comunicazioni audio tra i nostri soldati testimoniano senza ombra di dubbio che vi fu l’ordine di sparare su qualsiasi cosa si muovesse, anzi “annichilire” come ebbe modo di gridare trionfalmente uno dei tiratori italiani dopo avere “steso” qualcuno, qualcuno uomo, donna, civile, terrorista, qualcuno, uno qualsiasi insomma, comunque un iracheno.

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Un esercito di “morti di fame” che rubava le scarpe ai deportati per non andare a piedi scalzi

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Nella primavera del 1941 l’esercito tedesco travolge le difese del Regno di Jugoslavia che viene frammentato in una serie di stati e distretti distinti a seconda dell’etnia e dell’influenza politica degli alleati dell’Asse. All’Italia, accorsa con il suo esercito dopo il collasso della Jugoslavia, viene assegnata la Slovenia, parte delle coste dalmate sino a Cattaro e il Montenegro in “onore” della regina Elena. La Croazia viene costituita in regno formalmente incoronando il “nobile” Aimone di Savoia Aosta duca di Spoleto, che in verità non salirà mai al trono, e affidata concretamente al governo del criminale nazista Ante Pavelic. Al momento dell’ingresso dell’esercito italiano nel territorio jugoslavo la presenza di cittadini di origine e lingua italiana era estremamente modesta ed essenzialmente concentrata nell’Istria. Nessuna presenza significativa italiana, così come nessuna influenza economica, commerciale o cultuale intercorreva tra l’Italia e la confinante Slovenia. Nella follia imperiale propria del fascismo, ma pienamente condivisa dalla casa reale piemontese e dalle classi dominanti italiane, nacque allora l’idea della creazione di una provincia slovena parte integrante del territorio del Regno d’Italia. Ebbe così inizio un processo italianizzazione di quei territori che, da culturale con la soppressione della lingua slovena e l’imposizione di quella italiana, l’allontanamento dei non italiani da ogni impiego pubblico e soprattutto dell’insegnamento, ben presto si trasformò in una vera e propria pulizia etnica, portata all’estremo di una folle proposta avanzata a Mussolini da Italo Sauro, figlio dell’eroe Nazario della prima guerra mondiale, di deportare tutti i giovani sloveni ultra quattordicenni in Germania, soluzione “per fortuna” respinta dagli stessi tedeschi. La brutalità e la violenza dell’occupazione italiana provocò una reazione di resistenza nei territori occupati dagli italiani non minore di quella sorta nei restanti territori della ex Jugoslavia sotto il dominio tedesco. L’esercito italiano, nonostante l’impiego di truppe scelte dei granatieri di Sardegna e un consistente numero di Carabinieri Reali, non riuscì mai a tenere testa alla resistenza slava, nonostante tre successive offensive a vasto raggio, alcune con l’impiego dei mercenari cetnici e l’aiuto di reparti tede-

schi. La risposta a tale impotenza fu l’avvio di una strategia di “terra bruciata”, con il sistematico saccheggio dei paesi, la distruzione di interi villaggi e la deportazione massiccia di civili presunti sostenitori della resistenza. Nella quasi totalità si trattava di donne, bambini e anziani non in grado di unirsi alla resistenza. A tal fine vennero creati numerosi

campi di concentramento, taluni anche nell’Italia centrale in Toscana e in Umbria, dove vennero concentrati circa 30.000 deportati. Nel febbraio 1942, al massimo dell’impotenza della guerra contro la resistenza slava sempre più forte e sostenuta dalla popolazione, l’esercito italiano circondò la capitale della provincia, Lubiana, con un reticolato di filo spinato in cerchi concentrici lungo circa 41 chilometri, passando al setaccio quartiere per quartiere la città. Nel corso dei circa 29 me-

si di occupazione italiana della Slovenia, tra fucilati e morti nei campi di concentramento, vennero uccisi circa 13.000 sloveni pari al 2,6% della popolazione. Già prima dell’armistizio dell’8 settembre 1943 i rapporti di forza tra l’esercito occupante e la resistenza jugoslava unificata sotto la guida di Tito e del partito comunista, erano totalmente cambiati ed ebbe inizio una rotta disastrosa dell’esercito italiano che venne fermata solo dalla durezza dello scontro ancora in corso tra l’esercito di liberazione ju-

goslavo e le truppe tedesche (va ricordato che i partigiani jugoslavi in quegli anni impegnarono da soli un numero di divisione tedesche equivalente a quello di quelle impegnate dal fronte alleato in Italia). Il successivo passaggio dell’Italia dalla parte degli alleati e, soprattutto gli accordi di Yalta, all’epoca rispettati dai comunisti jugoslavi, impedirono l’an-

nessione dell’area di Trieste alla nuova Repubblica Jugoslava, ma invertirono totalmente il processo di italianizzazione della Dalmazia e della Slovenia a vantaggio del ritorno nelle loro case e territori degli slavi deportati dall’esercito italiano. Il revisionismo storico, forte della sottrazione della nuova Italia antifascista e repubblicana ai processi per i crimini di guerra intrapresi a carico dei nazisti tedeschi, ha cercato di “pareggiare” il conto della barbarie dell’occupazione italiana con

le reazioni, certamente non meno dure e vendicative, della resistenza jugoslava vincitrice. E’ nata così la retorica delle “foibe” (cavità naturali del terreno carsico istriano) nelle quali sarebbero state sepolte collettivamente le vittime delle vendetta slava. E’ sicuramente un dato storico e assolutamente (quanto bestialmente) coerente con la barbarie dei tempi, quello di una sanguinosa vendetta della resistenza slava tornata nel possesso dei propri territori liberati dall’occupazione militare straniera, anche se non vi

sono dati certi, cioè reali e verificati, dei numeri di tali ritorsioni (includendovi peraltro anche quelle legittimate dalle responsabilità criminali di molti degli occupanti italiani). Non si tratta qui (e comunque mai) di confrontare numeri, né di cercare giustificazioni di azione/reazione (che pure hanno un loro indubbio significato politico ed etico), quanto di voler richiamare la memoria e la consapevolezza di una responsabilità storica che se non riconosciuta, ammessa e denunciata, può riprodurre nel futuro analoghe, se non proprio identiche, vicende di violenza e bestialità, e questo, purtroppo, è accaduto e non una sola volta e neppure in un remoto passato, anzi forse proprio oggi si sta ripetendo con la follia della guerra “umanitaria” in Libia. Un’ultima nota non di poca importanza. Le vicende narrate sono, come ogni notizia, dato o informazione pubblicata da questo giornale, verificate e verificabili. Se andrete negli appositi siti internet le troverete narrate anche una crudezza e violenza assai maggiore. In quei siti (o almeno in taluni di essi) troverete però anche una “imbarazzante” tesi giustificativa del comportamento della “brava gente” italiana che in brevissima sintesi afferma: gli italiani non sono stati da meno dei tedeschi nel compiere atti di violenza ai danni dei popoli invasi, i tedeschi tuttavia lo facevano perché era nella loro “natura criminale”, gli italiani no, gli italiani lo facevano perché erano dei pezzenti come e forse persino di più dei popoli violentati. Così quando i “bravi” soldati italiani durante un rastrellamento dei villaggi sloveni saccheggiavano le case prima di bruciarle e inviavano ai loro parenti in Italia vecchie scarpe, vestiti usati, pentole e posate, e poi facevano morire di freddo, malattie e fame i vecchie e i bambini nei campi di concentramento, lo facevano perché erano così poveri da dover rubare le scarpe per non andare a piedi nudi e certamente non potevano dividere un pane che non bastava neppure per loro. Domanda: è una giustificazione? O è l’espressione più chiara ed evidente di quanto una guerra può trasformare degli esseri umani, quanto meno normali in condizioni normali, in bestie?

Grecia: una faccia una razza? La strage di Domenikon Dal giugno 1940, al settembre 1943, l'esercito italiano combatté la stessa guerra di aggressione della Germania nazista.! La lotta contro i "banditi" slavi o greci, fu condotta con modalità di guerra dure, talvolta spietate, che in Grecia furono rese ancor più aspre dalla penuria alimentare. Le autorità greche segnalarono stupri di massa. Il comando tedesco in Macedonia arrivò a protestare con gli italiani per il ripetersi delle violenze contro i civili. Il capo della polizia di Elassona, Nikolaos Bavaris, scrisse una lettera di denuncia ai comandi italiani e alla Croce rossa internazionale: "Vi vantate di essere il Paese più civile

d'Europa, ma crimini come questi sono commessi solo da barbari". Fu internato, torturato, deportato in Italia. Il 16 febbraio 1943 a Domenikon, un piccolo villaggio della Grecia centrale situato in Tessaglia, l'intera popolazione maschile tra i 14 e gli 80 anni venne trucidata. Nei dintorni di Domenikon, poco prima della strage, un attacco partigiano aveva provocato la morte di 9 soldati italiani. Il generale della divisione Pinerolo Cesare Benelli, ordinò la repressione: centinaia di uomini circondarono il villaggio, rastrellarono la popolazione e catturarono più di 150 uomini dai 14 agli 80 anni. Li tennero in ostaggio

fino a che, nel cuore della notte, procedettero alla fucilazione. L'episodio rappresenta uno dei più efferati crimini di guerra commessi dall'Italia durante la Seconda guerra mondiale.! Questo episodio non fu sporadico: secondo la storica Lidia Santarelli fu il primo di una serie di episodi repressivi nella primavera-estate 1943 conseguenti a una circolare del generale Carlo Geloso, comandante delle forze italiane di occupazione, in cui per ciò che concerne la lotta ai ribelli si adottò il principio cardine della responsabilità collettiva; per annientare il movimento partigiano, quindi, andavano annientate le comunità locali.

Somalia 1993 Missione “umanitaria” 1

Non è Buchenwald, non è Mauthausen, non è Auschwitz. Le foto provengono dal campo di concetramento e sterminio creato dall’Esercito Italiano nell’isola di Arbe (Rab) durante il tentativo di genocidio etnico del popolo sloveno nella follia della “italianizzazione” delle aree della Slovenia e della Dalmazia lasciate al governo italiano dall’esercito tedesco che aveva travolto le difese serbe. Arbe era uno dei campi “nascosti” d’internamento della popolazione civile slovena creati dall’esercito italiano per rappresaglia alla resistenza partigiana iugoslava che continuava a infliggere pesanti perdite agli invasori. La particolarità di Arbe, come degli altri simili campi di stermino, era data dalla presenza solamente di bambini, donne e anziani, perchè i giovani partigiani non venivano mai catturati. Dalle tombe censite ad Arbe sono stati stimati 1.500 morti su una popolazione di circa 15.000 internati. Simon Wiesenthal, tuttavia, ha stimato le morti in oltre 4.000, circa un terzo degli internati. Le cause delle morti furono essenzialmente la fame, il freddo e le malattie epidemiche per mancanza di qualsiasi cura, considerando che l’occultamento dei campi impediva alla Croce Rossa ogni intervento umanitario. La shoah è stata una tragedia indiscutibilmente enorme alla quale non sono stati estranei il governo e il popolo italiano, il genocidio sloveno è però un fatto totalmente italiano che l’opportunismo del cambio di alleanze da parte dei “reali” piemontesi in fuga e l’eroica resistenza dei partigiani italiani, sottraendo l’Italia al tribunale per i crimini di guerra, ha impedito di accertare e punire. E’ giusto celebrare il “giorno della memoria” dello sterminio ebraico e ricordarlo incessantemente alle nostre nuove generazioni, ma è fuori discussione che ai “figli dei figli” dei criminali di Arbe dovrebbero anzitutto essere ricordati i crimini commessi dai loro avi, motivatamente e documentalmente rifiutando la aberrante logica del “conto pari” delle asseite foibe jugoslave.

Nel 1993 l’Italia partecipò con il suo esercito alla missione IBIS deliberata dall’ONU per ripristinare la pace nella Somalia del dopo Siad Barre, incendiata dalle guerre tribali e religiose. L’Italia vi partecipò dapprima con la divisione di paracadutisti della Folgore, comandata dal colonnello Loi, poi sostituita dal battaglione S. Marco dei Lagunari. L’esito della missione militare, che oltre l’Italia vide l’impiego anche di truppe di altri paesi, fu sostanzialmente nullo nel breve periodo, disastroso in quello lungo che, com’è noto, ci mostra ancora oggi una situazione di guerra civile per bande mercenarie, intrise di fondamentalismi religiosi, fino alla comparsa di stabili e vaste organizzazioni di pirati del mare. Le responsabilità politiche della disastro somalo sono enormi e risalgono già prima della guerra mondiale e poi al decennio di protettorato italiano post bellico. Più gravi ancora le responsabilità morali che hanno visto sotto un forte legame politico tra i socialismo italiano e il sedicente socialismo somalo, una enormità di intrighi econo-

mici, finanziari e commerciali con il pesante coinvolgimento di importanti società italiane. Per chi lo ricorda ancora fu proprio nel corso dell’indagine su queste connivenze trasversali politico economiche italiane che venne uccisa la giornalista Ilaria Alpi. Ma se questo non fosse sufficiente occorrerà ancora ricordare la vergogna del comportamento delle nostre truppe ai danni della popolazione “soccorsa”. Già durante l’intervento “umanitario” emersero documenti che provavano il compimento da parte di soldati italiani di crimini di violenza, torture, sevizie, stupri. Sui fatti ven-

nero aperte diverse inchieste giudiziarie sia da parte della magistratura militare che da quella civile italiano, nonché costituita una commissione d’inchiesta parlamentare. Tutte le inchieste vennero insabbiate. I due comandanti del contingente italiano dapprima si auto sospesero, poi, placate le acque, vennero perfino promossi. L’unico condannato in primo grado, poi prescritto in appello, fu il soldato Emilio Ercole (18 mesi per “abuso d’autorità”) in quanto indiscutibilmente “immortalato” in una foto mentre applicava dei cavi elettrici ai genitali di un ragazzo somalo legato a terra

Iraq 2004 Missione “umanitaria” 2 Sulle ragioni della partecipazione del nostro esercito all’aggressione, invasione e devastazione dell’Iraq abbiamo già scritto in un precedente inserto specificamente dedicato al massacro iracheno. Nel breve articolo dedicato alla presenza del contingente italiano in Iraq abbiamo spiegato, richiamando informazioni rese note dalla stessa ENI, il perché dell’assegnazione proprio agli italiani dell’area di Nassirya dove la compagnia petrolifera italiana aveva ottenuto dal perfido “rais” delle importantissime concessioni per l’estrazione del petrolio. Che non si è trattato di una missione umanitaria, semmai qualcuno avesse avuto all’epoca dei dubbi, i fatti di poi hanno dimo-

strato la sfacciata pretestuosità delle giustificazioni inventate dagli USA. Così com’è oggi chiaro il disastro che l’invasione ha provocato all’intero paese ridotto in miseria, sprofondato nel caos, nell’illegalità e nella violenza praticamente assoluta. Ma che non si era trattato di una missione umanitaria era stato ben chiaro subito anche a nostri soldati, calati una realtà di vera propria guerra di resistenza contro gli eserciti invasori e questo indifferentemente dalle simpatie della popolazione “liberata” dalla dittatura per il rais Saddam. E di vera e propria guerra fu l’approccio della nostre truppe nel controllo del territorio, culminato con la così detta “battaglia dei ponti” quan-

do, nella notte tra il 5 e il 6 agosto del 2004, i soldati italiani, in preda al panico e nella totale impreparazione e disordine organizzativo dei comandi si trovarono a fare fuoco su civili, facendo saltare un’ambulanza e un autobus. Anche questi fatti furono sempre negati dai comandi e dai politici italiani, ma le registrazioni delle comunicazioni audio tra i nostri soldati testimoniano senza ombra di dubbio che vi fu l’ordine di sparare su qualsiasi cosa si muovesse, anzi “annichilire” come ebbe modo di gridare trionfalmente uno dei tiratori italiani dopo avere “steso” qualcuno, qualcuno uomo, donna, civile, terrorista, qualcuno, uno qualsiasi insomma, comunque un iracheno.

III


La guerra, questo mostro che porta gli uomini a massacrarsi gli uni con gli altri, finirà con l'essere eliminata dallo sviluppo della società umana, e in un futuro non molto lontano. Ma per eliminarla vi è un solo mezzo: opporre la guerra alla guerra. La storia conosce solo due tipi di guerre: le guerre giuste e le guerre ingiuste. Tutte le guerre rivoluzionarie sono giuste. ( Mao) Spagna 1937, battaglia di Guadalajara, la prima sconfitta del fascismo da parte della resistenza comunista Di tutti i popoli, di tutte le razze, veniste a noi come fratelli, figli della Spagna immortale, e nei giorni più duri della nostra guerra, quando la capitale della Repubblica spagnola era minacciata, foste voi, valorosi compagni delle Brigate Internazionali, che contribuiste a salvarla con il vostro entusiasmo combattivo, il vostro eroismo e il vostro spirito di sacrificio (Dolores Ibarruri, la “Pasionaria”)

Luigi Longo, Comandante Brigate Internazionali fu il nome collettivo dato ai gruppi di volontari che si recarono in Spagna, per appoggiare l'esercito repubblicano e combattere le forze fasciste comandate dal generale Francisco Franco, durante la guerra civile spagnola. Le Brigate Internazionali si distinsero nella difesa di Madrid e in particolare nella battaglia di Guadalajara. Il 21 settembre 1938 il primo ministro spagnolo Juan Negrín, su pressione delle democrazie occidentali impegnate nella politica di non intervento, decise il ritiro dal fronte delle Brigate internazionali. Il totale dei volontari intervenuti in Spagna sotto l'egida delle Brigate internazionali fu di circa 59.000 unità, di cui circa la metà risultarono alla fine della guerra “dispersi” (verosimilmente passati nelle file dell’esercito regolare o comunque in clandestinità). I primi contingenti delle Brigate Internazionali furono sostenuti logisticamente dal Comintern. I volontari

giunsero da ben 53 nazioni dei cinque continenti. Ogni Brigata era suddivisa in battaglioni. Prima delle Brigate Internazionali si costituirono delle spontanee co“Gallo” lonne, come la Colonna Italiana di ispirazione prevalentemente libertaria e giellista (Giustizia e Libertà) creata da Carlo Rosselli, Mario Angeloni e Camillo Berneri o come la Centuria Gastone Sozzi formata da comunisti che, al suo scioglimento, confluì nel Battaglione Garibaldi formato a fine ottobre '36. Occorre anche ricordare che diversi anarchici, come quelli della Colonna Italiana, non vollero entrare nel ricostituito Esercito Popolare e lasciarono la Spagna. I contingenti più numerosi erano costituiti da: francesi (circa 9.000) tedeschi (circa 5000), Italiani (circa 4050), statunitensi (circa 3000), britannici (circa 2.000) e canadesi (circa 1.000). In rapporto al numero della popolazione del paese d'origine, il contingente più numeroso fu quello cubano: 800 volontari. Fra loro va ricordato l'intellettuale Pablo de la Torriente Brau, caduto in battaglia, che lasciò scritta una delle più calzanti frasi circa l'epopea internazionalista e combattente

in Spagna, "Per noi, oggi, il concetto di Patria è Universale." Nelle Brigate Internazionali militarono molti noti personaggi della politica e della cultura: gli inglesi George Orwell e Stephen Spender, John Cornford; i francesi Tristan Tzara, Simone Weil e André Malraux, organizzatore di una squadriglia aerea di caccia; gli statunitensi Ernest Hemingway e Dos Passos. Molti altri intellettuali appoggiarono le Brigate Internazionali, pur senza intervenire militarmente nella guerra civile, fra questi Samuel Beckett, Bertolt Brecht, Pearl Buck, William Faulkner, Pablo Neruda, Stephen Spender, John Steinbeck e Virginia Woolf. Molti furono gli ebrei che combatterono tra le file delle Brigate Internazionali. Un Battaglione fu formato completamente da ebrei per lo più comunisti. La battaglia più significativa per la difesa di Madrid fu quella di Guadalajara (8 marzo23 marzo 1937). Fu combattuta tra le forze della seconda repubblica spagnola e numerose unità delle Brigate internazionali da una parte, e i nazionalisti di Francisco Franco affiancati dalle unità del Corpo truppe volontarie italiane (CTVI) dall'altra. La battaglia si concluse con il successo dei repubblicani che impedì la caduta di Madrid. La batta-

glia iniziò con un'offensiva fascista italiana; secondo i piani del comandante italiano, generale Mario Roatta, le forze italiane avrebbero dovuto circondare le difese di Madrid da nord-ovest e, dopo essersi riunite con i nazionalisti sul fiume Jarama, insieme avrebbero attaccato la capitale. Dopo 30 minuti di cannoneggiamenti e attacchi aerei gli italiani iniziarono ad avanzare verso la 50ma brigata repubblicana. Grazie anche ai carri leggeri, riuscirono a spezzare le linee nemiche, ma arrivò in rinforzo la XII Brigata internazionale com-

preda al panico e fu solo per la maggiore resistenza della divisione Littorio che i contingente italiano si salvò dal disastro completo, organizzando una ritirata ordinata. La battaglia di Guadalajara fu l'ultima vittoria repubblicana di una certa importanza, anche se inutile per le sorti del conflitto, ed ebbe un grande effetto sul morale delle truppe. Sul piano strategico, la vittoria repubblicana evitò l'accerchiamento di Madrid, mettendo fine alla speranza di Franco di schiacciare la Repubblica con un assalto decisivo alla sua capitale.

posta dai battaglioni Jarosaw Dabrowski e Giuseppe Garibaldi. A Torija le truppe italiane del CTVI si scontrarono con il battaglione italiano Garibaldi subendo una pesante sconfitta. La controffensiva repubblicana mise in fuga le truppe italiane in

Guadalajara fu invece un duro colpo per il morale dei fascisti italiani, e una pesante perdita di prestigio personale per il dittatore Benito Mussolini, che aveva personalmente orchestrato lo schieramento delle sue truppe, sperando di ricavare gloria in caso di

La Divisione Ravenna “Armata Bulow””

IV

All’inizio nel 1944 nell’area di Ravenna cominciarono a formarsi numerose brigate partigiane che progressivamente confluirono nella 28 Brigata Garibaldi “Mario Gordini”. A organizzarla e comandarla fu Arrigo Boldrini, nome di battaglia “Bulow”. La novità della tecnica di combattimento della 28 Brigata fu nella scelta della discesa dalle montagne in pianura. La Divisione Ravenna, o Armata Bulow, forte di circa 1.000 uomini affrontò ripetutamente scontri in campo aperto con le forze tedesche e le brigate di camice nere che infestavano la Romagna.

La forza di combattimento e la capacità militare dell’Armata fece sì che fu proprio la divisione partigiana a liberare Ravenna con una operazione ideata e diretta dal Comandante Bulow e appoggiata in seconda linea dalle truppe alleate. Con l’avanzare del fronte alleato oltre la “linea gotica”, le brigate partigiane che già operavano dietro le linee tedesche confluivano nel ricostituito esercito italiano, ancora chiamato Corpo dei Volontari della Libertà, costituendo i due gruppi di combattimento Friuli e Cremona (il terzo, Legnano, non farà in tempo a en-

L’ “Armata Bulow” sfila per le vie di Ravenna liberata trare in battaglia). Queste truppe volontarie venivano equipaggiate e armate dagli alleati, ma organizzate e disciplinate sotto il comando di ufficiali del vecchio esercito italiano. Il loro ruolo fu strategico, non solo sotto il profilo politico e morale per dimostra-

te agli alleati che l’Italia, che aveva appena rinnegato l’alleanza con i tedeschi con l’armistizio del settembre 1943 e la fuga del re da Roma, aveva anche un’ “anima” non fascista, ma soprattutto per evitare in moltissimi casi devastazioni alle cittadine occupa-

te dalle truppe tedesche sottoposte a massicci bombardamenti terrestri e aerei dall’esercito alleato. Agli ex partigiani, infatti, gli alleati affidarono compiti di avanguardia e di “stanamento” delle più arroccate postazioni tedesche e fasciste con combattimenti ravvicinati che evitavano l’uso delle armi pesanti nei centri abitati. Per la sua capacità organizzativa e operativa gli alleati consentirono all’ “Armata Bulow” di rimanere inquadrata autonomamente con i propri ufficiali, ai quali riconobbero la parità dei gradi. L’Armata Bulow affiancò la divisione canadese e il gruppo di combattimento Cremona per tutta la risalita del fronte alleato sino all’ultima battaglia del Sennio

successo. Gli italiani persero circa 6.000 uomini e un considerevole numero di carri leggeri e aerei. Inoltre, l'esercito repubblicano catturò una grossa quantità di equipaggiamenti di cui aveva un grande bisogno. Le lezioni tattiche della battaglia furono ambigue e male interpretate. Il fallimento dell'offensiva italiana fu inteso come una dimostrazione della vulnerabilità di attacchi portati avanti da unità corazzate in condizioni sfavorevoli e contro una difesa di fanteria ben organizzata. I comandi militari francesi conclusero che le truppe meccanizzate non fossero un elemento decisivo nella guerra moderna con un'eccezione degna di nota in Charles de Gaulle. I tedeschi, invece, non commisero questo errore, ritenendo il fallimento di Guadalajara frutto di errori ed incompetenze da parte dei comandanti italiani. Gli unici grandi protagonisti della battaglia furono i volontari delle Brigate Internazionali, unitamente agli uomini delle unità repubblicane. In particolare Guadalajara resta negli annali della 12ª Brigata - Battaglione Garibaldi formato dai volontari antifascisti comunisti italiani come la prima vittoria della resistenza italiana contro il fascismo.

Arrigo Boldrini “Bulow” decorato con la medaglia d’oro dal comandante delle truppe alleate che determinò il collasso delle difese tedesche. Dopo il famoso “pernacchio” al re (al luogotenente Umberto) tutte le formazioni di combattimento composte da partigiani comunisti vennero disarmate e smobilitate senza neppure fogli di congedo.


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