l’Oppio dei Popoli supplemento al numero 1 - Anno III - gennaio 2011 di Piazza del Grano - www.piazzadelgrano.org
“La religione è l’oppio del popolo” (Karl Marx)
Questo inserto è dedicato al tema della religione, o più esattamente al passaggio dalla religiosità alla religione, alle innumerevoli religioni intese come organizzazioni strutturate del potere spirituale, cioè di quel potere che domina i corpi soggiogandone le menti. A queste “organizzazioni” si riferisce precisamente l’affermazione di Marx. Altra cosa è la religiosità quale tensione, quasi naturale, dell’uomo a trascendere dalla materialità contingente e quotidiana verso aspirazioni per così dire più elevate, emotive e sentimentali. Credere è legittimo e naturale come mangiare o pensare; istituzionalizzare, disciplinare, catechizzare le credenze, qualunque esse siano (profezie, divinità, extraterrestri) è innaturale, è contro natura, come violentare, sottomettere e sfruttare. Questo inserto, come tutti gli altri d'altronde, non ha alcuna pretesa scientifica in termini di esaustività e completezza espositiva dei diversi argomenti che verranno di seguito trattati. Come tutti gli inserti si propone un obiettivo molto più modesto ma, almeno a giudizio dell’estensore, assai più importante: quello di “provocare”, di stimolare interessi e curiosità, ma anche dibattiti e confronti. Il taglio è inequivoco e rispecchia l’impostazione culturale e morale dell’editore, può quindi essere legittimamente considerato “di parte”, ma tutti gli argomenti, i dati, le notizie, le informazioni utilizzate hanno un preciso riscontro documentale. Ben vengano repliche e contestazioni purché assistite dallo stesso rigore mentale e documentale (documentato). Ancora una avvertenza e una considerazione. Potrà sembrare che un tema così vasto e importante venga affrontato con eccessiva semplicità, non sostenuta da una adeguata competenza di studi e di titoli accademici. La religione, o più correttamente in questo caso la religiosità, è patrimonio comune e uguale di tutti gli esseri umani, come la vita o la libertà; possono esserci sicuramente degli studiosi dell’una o dell’altra materia più preparati e ferrati, ma nessuno studio, nessun titolo accademico sposta di un’unghia (uno “iota” direbbero gli studiosi della Bibbia) l’eguaglianza dei diritti di credo, pensiero e negazione (se del caso). Infine, non se ne abbiamo a male gli studiosi delle scienze divine (teologi, teosofi, ayatollah, guru o quanti altri) ma per chi scrive, comunista e quindi inconciliabilmente ateo, appare assai difficile riconoscere una pur minima dignità scientifica a discipline fondate su “ciò che non esiste”.
Dalla religiosità alla religione L’eterno (e alterno) scontro tra il potere laico e il potere religioso Pressoché tutti i testi sulla storia delle religioni affermano che lo spirito religioso comincia a manifestarsi nel momento del passaggio dall’uomo “habilis” a quello “sapiens” sotto la spinta di due sentimenti: lo stupore e la paura. Stupore davanti alla consapevolezza di fenomeni misteriosi: il sole che rinasce tutte le mattine, il fuoco che illumina e scalda; paura davanti magari a quegli stessi fenomeni, ma visti dal lato negativo: il sole che muore al tramonto e viene sopraffatto dalla notte buia, il fuoco che brucia e devasta. L’evoluzione, anche organica, del corpo e della mente dell’uomo “sapiens” divenuto “sapiens sapiens” (la nostra specie attuale) nel tempo ha svelato la naturalità di alcuni misteri e dissipato talune paure dell’ignoto, ma nello stesso tempo ha fatto spazio a uno stupore e a una paura sempre più grandi: il mistero della vita e il dramma della morte. L’atteggiamo dell’uomo di fronte a questi fenomeni, tanto magici che paurosi, è
tuttavia sostanzialmente rimasto lo stesso: gratitudine per le cose belle; paura e soggezione per quelle brutte. Il canto, la danza, la festa in segno di gratitudine per le cose belle; il pianto, la preghiera, il sacrificio per la paura di quelle brutte. Alla madre terra, a Cerere o Vesta e ancora a Maria precristiana il ringraziamento per la fertilità, cioè per la bellezza della vita; ai vari demoni del cielo e degli inferi i sacrifici di sangue, cioè l’offerta del bene massimo della vita, sia essa animale o umana (Abramo che offre a Jehovah la vita del figlio legittimo Isacco, sino allo stesso Dio dei cristiani che sacrifica a se stesso la vita del proprio figlio Cristo). Gestire questi sentimenti, soprattutto quelli dettati dalla paura, è ben presto apparso un elemento di potere per il governo laico degli uomini. E’ in quel momento che la religiosità si è (è stata) trasformata in religione, in un sistema, cioè, di regole e di riti dialetticamente creati e creatori di loro interpreti, depositari e tutori.
Nascono così le figure e i ruoli culturali e sociali degli “intermediari” con le divinità: i “religiosi”. Resta l’aspetto politico, la relazione cioè tra il potere laico del governo delle comunità con il nuovo potere religioso che di quelle comunità, ovvero dei singoli componenti di quelle comunità, governa il lato emotivo delle menti. La storia ha tramandato, con alterna fortuna ancora oggi assolutamente attuale, almeno tre modelli principali di relazioni tra i due poteri laico e religioso. Un primo modello, certamente il più remoto, vede il potere laico controllare il potere religioso e farne strumento di consolidamento per il proprio controllo sulle comunità. E’ questo, tra i tanti, il modello adottato dai romani che, dal secondo re di Roma Numa Pompilio creatore della istituzione religiosa del “pontefice massimo” nel 700 circa avanti Cristo, sino all’imperatore Costantino artefice e supervisore del primo Concilio ecumenico di Nicea del 325 dopo Cri-
sto, hanno sottoposto la religione al controllo del potere statuale laico, tecnicamente aggiungendo alla massima carica laica (reale, consolare o imperiale) anche quella religiosa. In epoca molto più recente lo stesso modello è stato adottato dall’Inghilterra, che non a caso è la più diretta e fedele erede della cultura giuridica romana occidentale, con lo scisma della chiesa anglicana voluto nel 1.500 da Enrico VIII, proclamatosi ad uno stesso tempo re d’Inghilterra e capo della chiesa cristiana anglicana. Il secondo modello consiste nell’esatto opposto, e cioè nel potere religioso che si fa anche potere laico o temporale, a volte sovrapponendo a tutti gli effetti le due funzioni, altre volte sminuendo quella laica in dipendenza assoluta da quella religiosa. E’ questo il modello adottato, sempre tra i tanti, dalla Chiesa cattolica romana con il Papa Re, dal buddhismo tibetano con il Dalai Lama, da taluni stati d’area musulmana con ayatollah, capi supremi religiosi, sovraordinati ai po-
teri politici anche laddove di origine elettiva. Nel terzo modello di relazioni laico/religiose i due poteri, giuridicamente e strutturalmente ben distinti e reciprocamente autonomi nei loro specifici ambiti, convivono in un regime di costante scontro/confronto che vede il primo potere, quello laico, cercare ripetutamente il necessario supporto del potere religioso per il rafforzamento del proprio controllo della comunità amministrata e, viceversa o reciprocamente, quest’ultimo tentare continuamente di interferire nelle prerogative e nell’autonomia del primo per indirizzarne la condotta verso i propri precetti morali/religiosi, pur senza realizzare una totale confessionalità del potere laico. E’ questo il modello adottato, tra i tanti, dallo Stato italiano con la sottoscrizione nel 1929 dei Patti lateranensi tra la Chiesa cattolica romana e lo stato fascista, poi rimasti confermati dall’art. 7 della Costituzione repubblicana, in virtù del quale, ad esempio, l’attuale presidente della Conferenza Episco-
pale Italiana (CEI), di nomina diretta del Papa romano, è anche un generale (a tutti gli effetti anche retributivi e pensionistici) dell’esercito italiano quale comandante dell’ordine (arma?) dei cappellani militari. C’è però anche un quarto modello che circa un ventennio fa sembrava sconfitto, ma che invece conferma il suo valore sempre più valido ed esemplare, che vede in uno Stato laico e aconfessionale la possibilità della libera espressione di qualsiasi pratica religiosa, alla sola condizione che resti rigorosamente confinata nel proprio ambito puramente spirituale, esterna ed estranea rispetto a qualsiasi interferenza nella vita sociale laica. In questo caso, diversamente dal citato modello romano, lo Stato non assume alcuna posizione, né stabilisce alcuna relazione organica con le varie religioni e le loro chiese, restandone esterno ed estraneo nello stesso modo reciprocamente imposto a queste ultime rispetto alle questioni non religiose. E’ questo il modello applicato, con maggiore o minore attenzione e successo, nelle esperienze dei dissolti sistemi del socialismo reale, ma pienamente riuscito e funzionante in quelli emergenti del comunismo dell’estremo oriente e centro-sudamerica.
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Tenzin Gyatso
Paolo, l’uomo che inventò il cristianesimo Ricostruire la vicenda della nascita e della strutturazione della religione cristiana è una operazione estremamente difficile e dagli esiti assai incerti, anzitutto perché i materiali documentali, tanto quelli acquisiti all’ufficialità delle innumerevoli chiese cristiane, quanto quelli giudicati apocrifi, sono tutti molto successivi agli eventi narrati e, soprattutto, fortemente e più volte manipolati nel tempo. La ragione di questa difficoltà è proprio nella peculiarità di una religione che, nata da un sentimento di intolleranza etnica e di ribellione politica, diviene invece patrimonio universale plurietnico e soprattutto viene acquisita proprio da coloro che all’origine ne erano i nemici destinati. Tale evoluzione ha comportato la necessità di apportare ripetute modifiche sia ai contenuti dei messaggi religiosi, che alle stesse vicende storiche o leggendarie presupposte. Del Gesù di Nazaret, poi identificato con il Cristo, non v’è alcuna documentazione storica; circostanza che non colpisce trattandosi della vita e della morte del figlio di un falegname, avvenuta peraltro in circostanze e con modalità assai diffuse in quel contesto geo-politico caratterizzato da diffusi focolai di rivolta, prevalentemente attuata con tecniche terroristiche e fanatismo religioso sacrificale. Se è mai esistito un Gesù di Nazaret, o forse meglio i tanti Gesù realmente vissuti in quell’epoca, erano sicuramente dei ribelli, o terroristi secondo la legge degli invasori romani, che predicavano,
anzi incitavano sino al martirio, la lotta armata di liberazione dagli invasori. Di questo (o questi) Gesù ribelle e combattente sino alla pena della crocifissione applicata agli insorti (terroristi, secondo la lingua degli occupanti che, come sempre nella storia, non riconoscono la dignità di combattenti ai sudditi ribelli), vi sono ancora testimonianze sino quasi alla definitiva omologazione del cristianesimo come religione di Stato da parte dell’imperatore Costantino. La figura del Gesù propagandata dall’attuale religione cristiana, predicatore mite e pacifico, vittima di un tragico errore giudiziario incolpevolmente commesso dei dominatori romani ingannati dalla falsità e dal tradimento degli ebrei irriducibili, è una creazione attenta, consapevole e lungamente elaborata proprio da Paolo, Saul di Tarso, l’apostolo “non apostolo”, l’ebreo cosmopolita convertito alla cultura della convivenza con i “gentili”. Con Paolo, Gesù, da icona di rivolta, diviene messaggero di convivenza, termine che per le classi e per i sistemi politici dominanti significa sottomissione e obbedienza delle classi e dei popoli dominati.
L’opera di revisione e ricostruzione della figura universalistica del Gesù ebreo, divenuto il Cristo figlio di dio, si realizza proprio con la collocazione a Roma, nel cuore e nel cervello dell’impero dominatore, della sede della chiesa cristiana strutturata e militarizzata. Il modello di organizzazione gerarchica militarizzata e soprattutto la tecnica dell’oc-
cultamento e dell’infiltrazione Paolo la trae proprio dalla sua precedente esperienza di ebreo ribelle, aderente a una delle diverse formazioni insurrezionali terroristiche operanti nella Palestina all’epoca della sua giovinezza (anche se in verità, e anche
XIV Dalai Lama, ultimo “Papa Re” del Tibet questo è un mistero non di poco conto, della vita di Saul/Paolo si sa bene poco e la sua vicenda storica scompare d’improvviso, così com’era apparsa, senza lasciare tracce). La costruzione dell’organismo strutturato della chiesa universale cristiana si compie trecento anni dopo il presunto evento della predicazione del Cristo, a opera dell’imperatore Costantino che, da universale, rende la religione, cioè la chiesa cristiana, unica e che, con il primo concilio di Nicea da lui stesso organizzato e presieduto, da il via alla persecuzione delle eresie, con tale termine indicandosi tutte le altre correnti del cristianesimo non omologate alla lettura e nella chiesa ufficiale. Come la storia successiva ci ha insegnato la pretesa della affermazione e della conservazione della unicità e unitarietà della chiesa cristiana è stata fonte di violenze indescrivibili che forse non hanno avuto paragone in alcuna altra vicenda di estremismo etnico o politico: dai barbari invasori dell’impero romano, ai mongoli di Gengis Kahn, sino all’ultima follia collettiva fascista e nazista. Chissà se Paolo quando ha creato la religione/chiesa cristiana poteva immaginarne le tremende conseguenze.
Dalla luce della ragione all’oscurità del fanatismo religioso. La lunga parabola della civiltà araba
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ché, persa la conoscenza della lingua greca, gli occidentali non erano stati più in grado di leggere quei testi. Fu grazie agli arabi, che avevano imparato il greco, che quelle opere vennero recuperate e tradotte anche in latino, per poter poi tornare alla conoscenza dell’occidente ancora latino. Straordinaria fu in quel tempo e a quel fine l’opera di due grandi studiosi e scienziati arabi: il medico Avicenna, in arabo Ibn Sina, e il filosofo e matematico Avveroè, in arabo Abu I-Walid Muhammad, ritenuto il più grande studioso di Aristotele. La fioritura della civiltà arabo-islamica, che si era estesa dal nord Africa al sud dell’Europa, nelle isole mediterranee e nel sud della Spagna, per quanto grandiosa fu tuttavia di breve durata, il giusto tempo per consentire all’occidente imbarbarito di recuperare la storia e la cultura greco-latina e uscire dal suo Medio evo per intraprendere il proprio Rinascimento, nuovamente sotto la “stella” della cultura ellenistica e di Aristotele in particolare.
Nel frattempo l’Islam precipitava sotto le devastanti penetrazioni dei nuovi barbari: turchi, mongoli e berberi.
Statua di Avicenna in Tagikistan
E’ in questo contesto di collasso economico, sociale e culturale che si fa avanti e si impone in tutto il mondo arabo, e convertito all’Islam, il predominio della religione che, come primo effetto, si ritorce contro la stessa storia del suo popolo, aggredendo radicalmente il patrimonio
L’idea di Dio è un prodotto della conformazione organica e del funzionamento elettro-chimico del nostro cervello (tratto da un articolo di Sharon Begley pubblicato su La Repubblica il 31 gennaio 2001)
Da Aristotele e Komeini Dopo aver completato la conquista militare e politica del medio oriente, giungendo sino alle porte di Bisanzio, il mondo arabo-islamico si lanciò alla conquista della civiltà, della scienza e della filosofia greche. Tutte le opere scientifiche e filosofiche greche vennero tradotte e persino, come nel caso di Platone, commentate e parafrasate. Aristotele, in particolare, venne riconosciuto dalla cultura e dalla scienza araba come la figura di riferimento per eccellenza. Il mondo arabo allora si sentiva e si proclamava erede e continuatore del mondo ellenistico. Iniziava allora la civiltà del Medio evo arabo che, in verità, era un vero e proprio Rinascimento, mentre l’occidente era sprofondato nel più oscuro Medio evo cristiano, avendo perso, salvo rarissime eccezioni, la memoria della precedente storia e cultura latina e in particolare completamente di quella greca. I romani, infatti, conoscevano il greco e quindi moltissime opere greche all’epoca non vennero tradotte in latino sic-
Dio nel cervello Le nuove frontiere della neuroteologia
acquisito della cultura ellenistica e demonizzandone la filosofia, la scienza, l’arte e la letteratura quali cause di allontanamento e di negazione della divinità. Il Medio oriente si impoverisce e cade quindi sotto la dominazione degli Ottomani, etnia caucasica convertita all’Islam, che riesce a conquistare Bisanzio ponendo fine a quel che restava dell’Impero Romano d’Oriente. La fede religiosa restò così l’ultimo collante del vastissimo mondo arabo e, grazie soprattuto ai turchi, si diffuse anche oltre il Medio oriente sino a raggiungere il cuore dell’Asia caucasica, sino in Siberia, nella penisola indiana e negli arcipelaghi dell’oceania. La crisi economica, sociale e culturale del nord Africa e del Medio oriente non è ancora terminata e dunque ancora forte è il ruolo retrivo della religione, pronto a riaffiorare in tale forma anche nelle altre realtà islamizzate centro asiatiche di recente ricadute nel caos e nella povertà in seguito al collasso dell’Unione Sovietica.
Andrew Newberg, dell'Università di Pennsylvania, ha sottoposto un giovane monaco tibetano a un esperimento rigorosamente scientifico. Al monaco è stato iniettato un liquido di contrasto idoneo a evidenziare, attraverso un apparecchio diagnostico denominato Spect, le variazioni delle attività dei singoli lobi del cervello nel corso di una seduta di meditazione religiosa. Al culmine della concentrazione meditativa del monaco la regione dell'encefalo posteriore, che compone i dati sensori che danno la sensazione di dove finisce l’ “io” e inizia invece il resto del mondo, sembra essere stata vittima di un black out. Privata degli input sensori perché l'uomo è concentrato sulla sua interiorità, questa "zona di orientamento" non può svolgere il suo compito di marcare il confine tra l' “io” e il mondo. "Il cervello non aveva scelta", ha spiegato Newberg, "percepiva l' “io” come infinito, un tutt'uno con il creato”. Newberg insieme a Eugene d'Aquili, ha chiamato questo campo della scienza neurologica: neuroteologia. Le conclusioni alle quali sono giunti i due studiosi affermano che le pulsioni spirituali sono l'inevitabile conseguenza della configurazione cerebrale: "Il cervello umano è stato geneticamente configurato per incoraggiare la fede religiosa". Anche la semplice preghiera ha un effetto particolare a livello
cerebrale. Nelle immagini cerebrali registrate dalla Spect riferite a suore francescane in preghiera si è rilevato un rallentamento di attività nell'area deputata all'orientamento, che dava alle suore un senso tangibile di unione con Dio. "L'assorbimento dell' “io” all'interno di qualcosa di più vasto, non deriva da una costruzione emotiva o da un pensiero pio", scrivono Newberg e d'Aquili "scaturisce invece da eventi neurologici". La neuroteologia spiega come il comportamento rituale susciti stati cerebrali da cui deriva una vasta gamma di sensazioni, dal sentirsi parte di una comunità, all'avvertire un'unione spirituale profonda. Le nenie infondono un senso di quiete che i credenti interpretano come serenità spirituale. Al contrario, le danze dei mistici Sufi provocano una ipereccitazione che può dare ai partecipanti la sensazione di incamerare l'energia dell'universo. Questi rituali riescono ad attingere proprio a quei meccanismi cerebrali che fanno sì che i fedeli interpretino le sensazioni come prove dell'esistenza di Dio. I rituali quindi tendono a focalizzare l'attenzione sulla mente, bloccando le percezioni sensoriali, incluse quelle che la zona deputata all'orientamento utilizza per stabilire i confini dell' “io”. Ecco perché persino i non credenti talune volte possono anche commuoversi durante riti religiosi ai quali non credono. "Finché il nostro cervello avrà questa struttura", conclude Newberg, "Dio non andrà via".
La manna, il cibo di Dio che porta alla visione di Dio (tratto da John Allegro – “Il fungo sacro e la croce”) Più volte nell’Antico Testamento viene citata la “manna”, in riferimento al cibo di cui si nutrì il popolo d’Israele durante il cammino nel deserto dopo la liberazione dalla schiavitù in Egitto. Il primo riferimento della Bibbia alla manna è nel libro dell'Esodo. Qui infatti è scritto che dopo sei settimane di vagabondaggio gli ebrei iniziarono a lamentarsi con Mosè di essere stanchi ed affamati. Allora il Signore disse a Mosè: "Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno, perché io lo metta alla prova, per vedere se cammina secondo la mia legge o no” (16:4). “Poi lo strato di rugiada svanì ed ecco che sulla superficie del deserto vi era una cosa minuta e granulosa, minuta come è la brina sulla terra. A tale vista i figli d'Israele si chiesero l'un l'altro: “Che cos'è questo?” perché non sapevano che cosa fosse. E Mosè disse loro: “Questo è il pane che il Signore vi ha dato per cibo”. (16:14,15) La descrizione della manna coincide facilmente con la
descrizione dei funghi psilocibinici. I funghi magici sono piccoli e rotondi e poiché germogliano così velocemente sembrerebbero comparire durante la notte, come se venissero dal cielo. Inoltre, chiunque li raccolga immediatamente noterebbe che si colorano d'azzurro e non hanno radici, ragioni in più per pensare che i funghi fossero d'origine celeste. Si noti che la manna non cade dal cielo, ma è descritta come un qualcosa che viene con il gelo e l'umidità, durante le stagioni delle piogge. Queste sono le condizioni atmosferiche precise affinché i funghi prosperino. E' inoltre interessante notare che Mosè dica agli ebrei che la manna viene direttamente dal cielo e se non la mangeranno non cammineranno nella legge del Dio. Questa è la prova che la manna è dotata di un potere spirituale insolito. Tuttavia, la manna non conferisce automaticamente potere spirituale. Invece, serve da prova. I funghi magici fornirebbero le esperienze visionarie che certamente assicurerebbero che tutti se ne sono cibati. Mosè inoltre ha detto che la manna è letteralmente "pane del signore", il che è notevolmente simile al nome azteco per i
funghi psilocybe: "carne degli dei". Che cosa è stato detto da Mosè a proposito della manna che deve essere messa da parte per le generazioni future? In Ebrei 9:3-4 troviamo: Dietro il secondo velo poi c'era una Tenda, detta Santo dei Santi, con l'altare d'oro per i profumi e l'arca dell'alleanza tutta ricoperta d'oro, nella quale si trovavano un'urna d'oro contenente la manna. La manna doveva essere mantenuta nel più santo di tutti i luoghi: l'arca del patto! Gli ebrei, i cristiani e i musulmani devono dunque le loro radici ai figli d'Israele, che per quaranta anni hanno mangiato la manna e si sono visti come il popolo scelto da Dio. Se la manna è effettivamente un fungo psilocibinico, allora questo significa che il Corano, la Bibbia e la Torah sono stati ispirati dalle esperienze indotte dai funghi magici. E i fondamenti stessi su cui queste religioni si basano derivano dall'esperienza col fungo. Mosè ed i figli d'Israele avrebbero usato i funghi come sacramento per comunicare con una più alta potenza, anche conosciuta come Allah, Dio e Yahweh.
Una endemica ignoranza della cultura occidentale per tutto ciò che non è, per l’appunto, occidentale, ha condotto a uno scarso interesse e attenzione per il pensiero buddhista che, nei duemilacinquecento anni dalla predicazione del Buddha, si è diffuso e ha permeato l’intero continente orientale, vasto almeno la metà dell’intera popolazione mondiale. Il buddhismo, erroneamente inteso come una religione alternativa a quelle monoteiste mediorientali e politeiste diffuse un poco in tutto il mondo (il buddhismo è una filosofia e Buddha non è divino, né profeta di un dio), è stato sostanzialmente scoperto dall’occidente dopo la fuga del Dalai Lama dal Tibet integrato nell’ “unico cielo” della Cina Popolare. Ambasciatore e propagatore del buddhismo in occidente è stato proprio l’ultimo Dalai Lama Tenzin Gyatsu, grazie anche alla sua conoscenza della lingua inglese e all’ambiguo ruolo svolto, consapevolmente o meno, nel complesso giochi della politica mondiale. Il buddhismo propagandato dal Dalai Lama è, tuttavia, solo una versione assolutamente minore del vastissimo universo delle scuole di pensiero che si rifanno all’insegnamento di Siddhartha Gautama, il Buddha storico nato nel 566 avanti Cristo. Per dare un ordine di misura si potrebbe dire che il buddhismo tibetano, quello che fa capo al Dalai Lama, sta all’intero buddhismo come la Chiesa valdese sta al cristianesimo nella somma delle sue innumerevoli sette. Nessun rapporto organico, fatta eccezione per il riferimento al comune “maestro”, sussiste infatti tra la guida del Dalai Lama e i monaci birmani, tailandesi o giapponesi. Il buddhismo tibetano è sostanzialmente diffuso solamente in Tibet e negli stati limitrofi dove, alcune centinaia di anni prima, migrarono un grande numero di tibetani sotto la spinta dell’invasione mongola che fece del Tibet una provincia dell’impero mongolo e istituì, per la prima volta nel 1578, la figura del primo Dalai Lama, Sonam Gyatso, feudatario del sovrano mongolo Altan Khan. Fu proprio quest’ultimo che, nello scegliere quale governatore del Tibet il monaco buddhista di più alto rango e riconoscimento locale, coniò il termine Dalai Lama, variamente tradotto in “oceano di saggezza”. Da allora il feudatario dei monarchi mongoli conservò, anche durante le alterne vicende dell’impero mongolo, il ruolo di suprema autorità politica e amministrativa e, nello stesso tempo, quello di suprema autorità spirituale; in sostanza un ruolo e un potere affatto simile a quello del “Papa Re” della chiesa cattolica romana sino alla “breccia di porta Pia”. Diversamente dalla vicenda italiana, tuttavia, quando l’esercito del Popolo cinese aprì la “breccia” dell’altopiano tibetano, il Dalai Lama non venne rinchiuso nel suo palazzo del Potala, come avvenne per Pio IX dentro le mura del Vaticano, ma, deposto come autocrate, venne inserito nel governo dello Stato autonomo del Tibet, parte in-
scindibile della Repubblica Popolare cinese. In tale ruolo il giovane Dalai Lama, appena incoronato monarca all’età di 15 anni, restò per 9 anni, dal 1950 al 1959, quando si mise (o fu messo) a capo di una rivolta nazionalista tibetana che provocò la reazione cinese e lo costrinse a emigrare in India con poche centinaia di seguaci dei ranghi più alti del vecchio regime. Proseguendo con il parallelismo con le analogie di “casa nostra” va detto che, se quando i bersaglieri italiani entrarono con le baionette in canna nella città santa (eterna), Roma era poco più di un grande paesone tutto all’interno delle mura aureliane, il Tibet era sostanzialmente ancora in pieno medio evo. A parte una spaventosa povertà, in qualche modo coerente con l’asperità e la povertà agricola e produttiva dell’immenso ma sterile altipiano tibetano, nel 1950 (per intenderci gli anni del boom economico italiano) in Tibet vigeva la “servitù della gleba”, un regime di sostanziale schiavitù che legava a vita uomini e famiglie ai terreni, e quindi ai proprietari dei terreni, nei quali vivevano e lavoravano. Non c’era alcun sistema sanitario, l’istruzione era esclusivamente riservata ai monaci (o percorsi di istruzione simili a quelli dei seminari cristiani) e comunque dalla stessa erano escluse le donne. Vigeva in sostanza un sistema pienamente feudale dove i feudatari, i padroni delle terre, degli armenti, degli esseri umani dedicati alla coltivazione o all’allevamento, erano i monaci buddhisti, secondo un sistema rigorosamente gerarchico che conduceva al potere assoluto, temporale e spirituale, del Dalai Lama. Oggi il Tibet, lo Stato Autonomo del Tibet, è forse uno dei territori più sviluppati del mondo grazie a investimenti enormi fatti dalla Repubblica Popolare in quella come nelle altre regioni a minoranza etnica, collegato alla capitale Pechino con treni pressurizzati come aeroplani che viaggiano a 5.000 metri di altitudine, autostrade e aeroporti internazionali collocati a oltre 4.000 metri di quota (come dire... in cima al Monte Rosa). Un solo dato sarà sufficiente per dare l’idea dello sviluppo di cui il Tibet ha goduto negli oramai 60 anni dall’unificazione con la Repubblica Popolare cinese: l’aspettativa di vita della popolazione tibetana è salita dai 30 anni del 1950 agli attuali 70 anni (e oltre). Il Tibet, o meglio la questione tibetana/cinese, è stato tuttavia da subito un terreno di aspro scontro, ancorché indiretto e sotterraneo, tra la visione politica del mondo delle vecchie e nuove potenze colonialiste occidentali, e la emergente politica rivoluzionaria della Cina comunista. Attorno alla figura e al ruolo “carismatico” del Dalai Lama sono state giocate molte “partite politiche”, che a volte lo hanno visto docile strumento, altre volte parte consapevole e attiva. E’ un dato certo che il Dalai Lama ha ripetutamente accettato consistenti aiuti economici dalla CIA americana per sostenere e finanziare un
irredentismo etnico, potenzialmente capace di destabilizzare la presenza cinese in quella vastissima area a ridosso del sub continente indiano. Al Dalai Lama, critiche interne allo stesso movimento buddhista tibetano, hanno più volte imputato il vizio, per così dire “tipico” della chiesa cattolica, della vendita delle indulgenze necessarie a finanziare il sostentamento economico della sua vasta organizzazione religiosa, ma anche opportune per entrare nelle stanze del potere occidentale, pur sempre nella speranza di riuscire e rinegoziare un rientro ufficiale nel nuovo Tibet cinese. Se al Dalai Lama si può riconoscere l’oggettiva debolezza di una condotta sovente molto ondivaga (in passato in occasione di negoziati con il governo cinese che sembravano riaprirgli le porte del Tibet il Dalai Lama si era perfino dichiarato un buddhista marxista), assai più grave è la sfacciata ipocrisia della grande parte della politica occidentale, prima tra le quali quella italiana. Encomiato di lodi per la sua lotta pacifica, premiato con Nobel, lauree honoris causa e cittadinanze (Roma e Torino), il Dalai Lama è stato altrettante volte “scartato” quando la sua vicinanza poteva mettere in discussione gli interessi economici e di setta dei così detti poteri forti; e ciò tanto dal governo Prodi che dal sindaco di Milano Moratti, sino soprattutto al Papa cattolico, assai più interessato a concordare i termini di convivenza della chiesa cattolica con il governo popolare cinese che a difendere la altrui libertà religiosa (concorrente). Il più eclatante esempio di ipocrisia lo ha comunque rappresentato la “martire dei diritti civili”, tale Emma Bonino, ministro dei governi di destra come di sinistra, commissaria europea dei governi di destra e candidata governatrice del Lazio per la sinistra, eroica combattente per i diritti del popolo tibetano sotto la luce dei riflettori delle Olimpiadi di Pechino e poi, a fotoelettriche spente, ...in fin dei conti in Italia siamo cattolici, ai monaci tibetani ci pensino i buddhisti... Queste falsità dell’occidente l’oramai settantacinquenne Tenzin Gyatso forse le ha capite quando, avendo probabilmente perso la speranza di rientrare in Tibet da Dalai Lama, ha annunciato che forse non rinascerà più e che questo è il suo ultimo ciclo di vita terrena. Speriamo.
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Tenzin Gyatso
Paolo, l’uomo che inventò il cristianesimo Ricostruire la vicenda della nascita e della strutturazione della religione cristiana è una operazione estremamente difficile e dagli esiti assai incerti, anzitutto perché i materiali documentali, tanto quelli acquisiti all’ufficialità delle innumerevoli chiese cristiane, quanto quelli giudicati apocrifi, sono tutti molto successivi agli eventi narrati e, soprattutto, fortemente e più volte manipolati nel tempo. La ragione di questa difficoltà è proprio nella peculiarità di una religione che, nata da un sentimento di intolleranza etnica e di ribellione politica, diviene invece patrimonio universale plurietnico e soprattutto viene acquisita proprio da coloro che all’origine ne erano i nemici destinati. Tale evoluzione ha comportato la necessità di apportare ripetute modifiche sia ai contenuti dei messaggi religiosi, che alle stesse vicende storiche o leggendarie presupposte. Del Gesù di Nazaret, poi identificato con il Cristo, non v’è alcuna documentazione storica; circostanza che non colpisce trattandosi della vita e della morte del figlio di un falegname, avvenuta peraltro in circostanze e con modalità assai diffuse in quel contesto geo-politico caratterizzato da diffusi focolai di rivolta, prevalentemente attuata con tecniche terroristiche e fanatismo religioso sacrificale. Se è mai esistito un Gesù di Nazaret, o forse meglio i tanti Gesù realmente vissuti in quell’epoca, erano sicuramente dei ribelli, o terroristi secondo la legge degli invasori romani, che predicavano,
anzi incitavano sino al martirio, la lotta armata di liberazione dagli invasori. Di questo (o questi) Gesù ribelle e combattente sino alla pena della crocifissione applicata agli insorti (terroristi, secondo la lingua degli occupanti che, come sempre nella storia, non riconoscono la dignità di combattenti ai sudditi ribelli), vi sono ancora testimonianze sino quasi alla definitiva omologazione del cristianesimo come religione di Stato da parte dell’imperatore Costantino. La figura del Gesù propagandata dall’attuale religione cristiana, predicatore mite e pacifico, vittima di un tragico errore giudiziario incolpevolmente commesso dei dominatori romani ingannati dalla falsità e dal tradimento degli ebrei irriducibili, è una creazione attenta, consapevole e lungamente elaborata proprio da Paolo, Saul di Tarso, l’apostolo “non apostolo”, l’ebreo cosmopolita convertito alla cultura della convivenza con i “gentili”. Con Paolo, Gesù, da icona di rivolta, diviene messaggero di convivenza, termine che per le classi e per i sistemi politici dominanti significa sottomissione e obbedienza delle classi e dei popoli dominati.
L’opera di revisione e ricostruzione della figura universalistica del Gesù ebreo, divenuto il Cristo figlio di dio, si realizza proprio con la collocazione a Roma, nel cuore e nel cervello dell’impero dominatore, della sede della chiesa cristiana strutturata e militarizzata. Il modello di organizzazione gerarchica militarizzata e soprattutto la tecnica dell’oc-
cultamento e dell’infiltrazione Paolo la trae proprio dalla sua precedente esperienza di ebreo ribelle, aderente a una delle diverse formazioni insurrezionali terroristiche operanti nella Palestina all’epoca della sua giovinezza (anche se in verità, e anche
XIV Dalai Lama, ultimo “Papa Re” del Tibet questo è un mistero non di poco conto, della vita di Saul/Paolo si sa bene poco e la sua vicenda storica scompare d’improvviso, così com’era apparsa, senza lasciare tracce). La costruzione dell’organismo strutturato della chiesa universale cristiana si compie trecento anni dopo il presunto evento della predicazione del Cristo, a opera dell’imperatore Costantino che, da universale, rende la religione, cioè la chiesa cristiana, unica e che, con il primo concilio di Nicea da lui stesso organizzato e presieduto, da il via alla persecuzione delle eresie, con tale termine indicandosi tutte le altre correnti del cristianesimo non omologate alla lettura e nella chiesa ufficiale. Come la storia successiva ci ha insegnato la pretesa della affermazione e della conservazione della unicità e unitarietà della chiesa cristiana è stata fonte di violenze indescrivibili che forse non hanno avuto paragone in alcuna altra vicenda di estremismo etnico o politico: dai barbari invasori dell’impero romano, ai mongoli di Gengis Kahn, sino all’ultima follia collettiva fascista e nazista. Chissà se Paolo quando ha creato la religione/chiesa cristiana poteva immaginarne le tremende conseguenze.
Dalla luce della ragione all’oscurità del fanatismo religioso. La lunga parabola della civiltà araba
II
ché, persa la conoscenza della lingua greca, gli occidentali non erano stati più in grado di leggere quei testi. Fu grazie agli arabi, che avevano imparato il greco, che quelle opere vennero recuperate e tradotte anche in latino, per poter poi tornare alla conoscenza dell’occidente ancora latino. Straordinaria fu in quel tempo e a quel fine l’opera di due grandi studiosi e scienziati arabi: il medico Avicenna, in arabo Ibn Sina, e il filosofo e matematico Avveroè, in arabo Abu I-Walid Muhammad, ritenuto il più grande studioso di Aristotele. La fioritura della civiltà arabo-islamica, che si era estesa dal nord Africa al sud dell’Europa, nelle isole mediterranee e nel sud della Spagna, per quanto grandiosa fu tuttavia di breve durata, il giusto tempo per consentire all’occidente imbarbarito di recuperare la storia e la cultura greco-latina e uscire dal suo Medio evo per intraprendere il proprio Rinascimento, nuovamente sotto la “stella” della cultura ellenistica e di Aristotele in particolare.
Nel frattempo l’Islam precipitava sotto le devastanti penetrazioni dei nuovi barbari: turchi, mongoli e berberi.
Statua di Avicenna in Tagikistan
E’ in questo contesto di collasso economico, sociale e culturale che si fa avanti e si impone in tutto il mondo arabo, e convertito all’Islam, il predominio della religione che, come primo effetto, si ritorce contro la stessa storia del suo popolo, aggredendo radicalmente il patrimonio
L’idea di Dio è un prodotto della conformazione organica e del funzionamento elettro-chimico del nostro cervello (tratto da un articolo di Sharon Begley pubblicato su La Repubblica il 31 gennaio 2001)
Da Aristotele e Komeini Dopo aver completato la conquista militare e politica del medio oriente, giungendo sino alle porte di Bisanzio, il mondo arabo-islamico si lanciò alla conquista della civiltà, della scienza e della filosofia greche. Tutte le opere scientifiche e filosofiche greche vennero tradotte e persino, come nel caso di Platone, commentate e parafrasate. Aristotele, in particolare, venne riconosciuto dalla cultura e dalla scienza araba come la figura di riferimento per eccellenza. Il mondo arabo allora si sentiva e si proclamava erede e continuatore del mondo ellenistico. Iniziava allora la civiltà del Medio evo arabo che, in verità, era un vero e proprio Rinascimento, mentre l’occidente era sprofondato nel più oscuro Medio evo cristiano, avendo perso, salvo rarissime eccezioni, la memoria della precedente storia e cultura latina e in particolare completamente di quella greca. I romani, infatti, conoscevano il greco e quindi moltissime opere greche all’epoca non vennero tradotte in latino sic-
Dio nel cervello Le nuove frontiere della neuroteologia
acquisito della cultura ellenistica e demonizzandone la filosofia, la scienza, l’arte e la letteratura quali cause di allontanamento e di negazione della divinità. Il Medio oriente si impoverisce e cade quindi sotto la dominazione degli Ottomani, etnia caucasica convertita all’Islam, che riesce a conquistare Bisanzio ponendo fine a quel che restava dell’Impero Romano d’Oriente. La fede religiosa restò così l’ultimo collante del vastissimo mondo arabo e, grazie soprattuto ai turchi, si diffuse anche oltre il Medio oriente sino a raggiungere il cuore dell’Asia caucasica, sino in Siberia, nella penisola indiana e negli arcipelaghi dell’oceania. La crisi economica, sociale e culturale del nord Africa e del Medio oriente non è ancora terminata e dunque ancora forte è il ruolo retrivo della religione, pronto a riaffiorare in tale forma anche nelle altre realtà islamizzate centro asiatiche di recente ricadute nel caos e nella povertà in seguito al collasso dell’Unione Sovietica.
Andrew Newberg, dell'Università di Pennsylvania, ha sottoposto un giovane monaco tibetano a un esperimento rigorosamente scientifico. Al monaco è stato iniettato un liquido di contrasto idoneo a evidenziare, attraverso un apparecchio diagnostico denominato Spect, le variazioni delle attività dei singoli lobi del cervello nel corso di una seduta di meditazione religiosa. Al culmine della concentrazione meditativa del monaco la regione dell'encefalo posteriore, che compone i dati sensori che danno la sensazione di dove finisce l’ “io” e inizia invece il resto del mondo, sembra essere stata vittima di un black out. Privata degli input sensori perché l'uomo è concentrato sulla sua interiorità, questa "zona di orientamento" non può svolgere il suo compito di marcare il confine tra l' “io” e il mondo. "Il cervello non aveva scelta", ha spiegato Newberg, "percepiva l' “io” come infinito, un tutt'uno con il creato”. Newberg insieme a Eugene d'Aquili, ha chiamato questo campo della scienza neurologica: neuroteologia. Le conclusioni alle quali sono giunti i due studiosi affermano che le pulsioni spirituali sono l'inevitabile conseguenza della configurazione cerebrale: "Il cervello umano è stato geneticamente configurato per incoraggiare la fede religiosa". Anche la semplice preghiera ha un effetto particolare a livello
cerebrale. Nelle immagini cerebrali registrate dalla Spect riferite a suore francescane in preghiera si è rilevato un rallentamento di attività nell'area deputata all'orientamento, che dava alle suore un senso tangibile di unione con Dio. "L'assorbimento dell' “io” all'interno di qualcosa di più vasto, non deriva da una costruzione emotiva o da un pensiero pio", scrivono Newberg e d'Aquili "scaturisce invece da eventi neurologici". La neuroteologia spiega come il comportamento rituale susciti stati cerebrali da cui deriva una vasta gamma di sensazioni, dal sentirsi parte di una comunità, all'avvertire un'unione spirituale profonda. Le nenie infondono un senso di quiete che i credenti interpretano come serenità spirituale. Al contrario, le danze dei mistici Sufi provocano una ipereccitazione che può dare ai partecipanti la sensazione di incamerare l'energia dell'universo. Questi rituali riescono ad attingere proprio a quei meccanismi cerebrali che fanno sì che i fedeli interpretino le sensazioni come prove dell'esistenza di Dio. I rituali quindi tendono a focalizzare l'attenzione sulla mente, bloccando le percezioni sensoriali, incluse quelle che la zona deputata all'orientamento utilizza per stabilire i confini dell' “io”. Ecco perché persino i non credenti talune volte possono anche commuoversi durante riti religiosi ai quali non credono. "Finché il nostro cervello avrà questa struttura", conclude Newberg, "Dio non andrà via".
La manna, il cibo di Dio che porta alla visione di Dio (tratto da John Allegro – “Il fungo sacro e la croce”) Più volte nell’Antico Testamento viene citata la “manna”, in riferimento al cibo di cui si nutrì il popolo d’Israele durante il cammino nel deserto dopo la liberazione dalla schiavitù in Egitto. Il primo riferimento della Bibbia alla manna è nel libro dell'Esodo. Qui infatti è scritto che dopo sei settimane di vagabondaggio gli ebrei iniziarono a lamentarsi con Mosè di essere stanchi ed affamati. Allora il Signore disse a Mosè: "Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno, perché io lo metta alla prova, per vedere se cammina secondo la mia legge o no” (16:4). “Poi lo strato di rugiada svanì ed ecco che sulla superficie del deserto vi era una cosa minuta e granulosa, minuta come è la brina sulla terra. A tale vista i figli d'Israele si chiesero l'un l'altro: “Che cos'è questo?” perché non sapevano che cosa fosse. E Mosè disse loro: “Questo è il pane che il Signore vi ha dato per cibo”. (16:14,15) La descrizione della manna coincide facilmente con la
descrizione dei funghi psilocibinici. I funghi magici sono piccoli e rotondi e poiché germogliano così velocemente sembrerebbero comparire durante la notte, come se venissero dal cielo. Inoltre, chiunque li raccolga immediatamente noterebbe che si colorano d'azzurro e non hanno radici, ragioni in più per pensare che i funghi fossero d'origine celeste. Si noti che la manna non cade dal cielo, ma è descritta come un qualcosa che viene con il gelo e l'umidità, durante le stagioni delle piogge. Queste sono le condizioni atmosferiche precise affinché i funghi prosperino. E' inoltre interessante notare che Mosè dica agli ebrei che la manna viene direttamente dal cielo e se non la mangeranno non cammineranno nella legge del Dio. Questa è la prova che la manna è dotata di un potere spirituale insolito. Tuttavia, la manna non conferisce automaticamente potere spirituale. Invece, serve da prova. I funghi magici fornirebbero le esperienze visionarie che certamente assicurerebbero che tutti se ne sono cibati. Mosè inoltre ha detto che la manna è letteralmente "pane del signore", il che è notevolmente simile al nome azteco per i
funghi psilocybe: "carne degli dei". Che cosa è stato detto da Mosè a proposito della manna che deve essere messa da parte per le generazioni future? In Ebrei 9:3-4 troviamo: Dietro il secondo velo poi c'era una Tenda, detta Santo dei Santi, con l'altare d'oro per i profumi e l'arca dell'alleanza tutta ricoperta d'oro, nella quale si trovavano un'urna d'oro contenente la manna. La manna doveva essere mantenuta nel più santo di tutti i luoghi: l'arca del patto! Gli ebrei, i cristiani e i musulmani devono dunque le loro radici ai figli d'Israele, che per quaranta anni hanno mangiato la manna e si sono visti come il popolo scelto da Dio. Se la manna è effettivamente un fungo psilocibinico, allora questo significa che il Corano, la Bibbia e la Torah sono stati ispirati dalle esperienze indotte dai funghi magici. E i fondamenti stessi su cui queste religioni si basano derivano dall'esperienza col fungo. Mosè ed i figli d'Israele avrebbero usato i funghi come sacramento per comunicare con una più alta potenza, anche conosciuta come Allah, Dio e Yahweh.
Una endemica ignoranza della cultura occidentale per tutto ciò che non è, per l’appunto, occidentale, ha condotto a uno scarso interesse e attenzione per il pensiero buddhista che, nei duemilacinquecento anni dalla predicazione del Buddha, si è diffuso e ha permeato l’intero continente orientale, vasto almeno la metà dell’intera popolazione mondiale. Il buddhismo, erroneamente inteso come una religione alternativa a quelle monoteiste mediorientali e politeiste diffuse un poco in tutto il mondo (il buddhismo è una filosofia e Buddha non è divino, né profeta di un dio), è stato sostanzialmente scoperto dall’occidente dopo la fuga del Dalai Lama dal Tibet integrato nell’ “unico cielo” della Cina Popolare. Ambasciatore e propagatore del buddhismo in occidente è stato proprio l’ultimo Dalai Lama Tenzin Gyatsu, grazie anche alla sua conoscenza della lingua inglese e all’ambiguo ruolo svolto, consapevolmente o meno, nel complesso giochi della politica mondiale. Il buddhismo propagandato dal Dalai Lama è, tuttavia, solo una versione assolutamente minore del vastissimo universo delle scuole di pensiero che si rifanno all’insegnamento di Siddhartha Gautama, il Buddha storico nato nel 566 avanti Cristo. Per dare un ordine di misura si potrebbe dire che il buddhismo tibetano, quello che fa capo al Dalai Lama, sta all’intero buddhismo come la Chiesa valdese sta al cristianesimo nella somma delle sue innumerevoli sette. Nessun rapporto organico, fatta eccezione per il riferimento al comune “maestro”, sussiste infatti tra la guida del Dalai Lama e i monaci birmani, tailandesi o giapponesi. Il buddhismo tibetano è sostanzialmente diffuso solamente in Tibet e negli stati limitrofi dove, alcune centinaia di anni prima, migrarono un grande numero di tibetani sotto la spinta dell’invasione mongola che fece del Tibet una provincia dell’impero mongolo e istituì, per la prima volta nel 1578, la figura del primo Dalai Lama, Sonam Gyatso, feudatario del sovrano mongolo Altan Khan. Fu proprio quest’ultimo che, nello scegliere quale governatore del Tibet il monaco buddhista di più alto rango e riconoscimento locale, coniò il termine Dalai Lama, variamente tradotto in “oceano di saggezza”. Da allora il feudatario dei monarchi mongoli conservò, anche durante le alterne vicende dell’impero mongolo, il ruolo di suprema autorità politica e amministrativa e, nello stesso tempo, quello di suprema autorità spirituale; in sostanza un ruolo e un potere affatto simile a quello del “Papa Re” della chiesa cattolica romana sino alla “breccia di porta Pia”. Diversamente dalla vicenda italiana, tuttavia, quando l’esercito del Popolo cinese aprì la “breccia” dell’altopiano tibetano, il Dalai Lama non venne rinchiuso nel suo palazzo del Potala, come avvenne per Pio IX dentro le mura del Vaticano, ma, deposto come autocrate, venne inserito nel governo dello Stato autonomo del Tibet, parte in-
scindibile della Repubblica Popolare cinese. In tale ruolo il giovane Dalai Lama, appena incoronato monarca all’età di 15 anni, restò per 9 anni, dal 1950 al 1959, quando si mise (o fu messo) a capo di una rivolta nazionalista tibetana che provocò la reazione cinese e lo costrinse a emigrare in India con poche centinaia di seguaci dei ranghi più alti del vecchio regime. Proseguendo con il parallelismo con le analogie di “casa nostra” va detto che, se quando i bersaglieri italiani entrarono con le baionette in canna nella città santa (eterna), Roma era poco più di un grande paesone tutto all’interno delle mura aureliane, il Tibet era sostanzialmente ancora in pieno medio evo. A parte una spaventosa povertà, in qualche modo coerente con l’asperità e la povertà agricola e produttiva dell’immenso ma sterile altipiano tibetano, nel 1950 (per intenderci gli anni del boom economico italiano) in Tibet vigeva la “servitù della gleba”, un regime di sostanziale schiavitù che legava a vita uomini e famiglie ai terreni, e quindi ai proprietari dei terreni, nei quali vivevano e lavoravano. Non c’era alcun sistema sanitario, l’istruzione era esclusivamente riservata ai monaci (o percorsi di istruzione simili a quelli dei seminari cristiani) e comunque dalla stessa erano escluse le donne. Vigeva in sostanza un sistema pienamente feudale dove i feudatari, i padroni delle terre, degli armenti, degli esseri umani dedicati alla coltivazione o all’allevamento, erano i monaci buddhisti, secondo un sistema rigorosamente gerarchico che conduceva al potere assoluto, temporale e spirituale, del Dalai Lama. Oggi il Tibet, lo Stato Autonomo del Tibet, è forse uno dei territori più sviluppati del mondo grazie a investimenti enormi fatti dalla Repubblica Popolare in quella come nelle altre regioni a minoranza etnica, collegato alla capitale Pechino con treni pressurizzati come aeroplani che viaggiano a 5.000 metri di altitudine, autostrade e aeroporti internazionali collocati a oltre 4.000 metri di quota (come dire... in cima al Monte Rosa). Un solo dato sarà sufficiente per dare l’idea dello sviluppo di cui il Tibet ha goduto negli oramai 60 anni dall’unificazione con la Repubblica Popolare cinese: l’aspettativa di vita della popolazione tibetana è salita dai 30 anni del 1950 agli attuali 70 anni (e oltre). Il Tibet, o meglio la questione tibetana/cinese, è stato tuttavia da subito un terreno di aspro scontro, ancorché indiretto e sotterraneo, tra la visione politica del mondo delle vecchie e nuove potenze colonialiste occidentali, e la emergente politica rivoluzionaria della Cina comunista. Attorno alla figura e al ruolo “carismatico” del Dalai Lama sono state giocate molte “partite politiche”, che a volte lo hanno visto docile strumento, altre volte parte consapevole e attiva. E’ un dato certo che il Dalai Lama ha ripetutamente accettato consistenti aiuti economici dalla CIA americana per sostenere e finanziare un
irredentismo etnico, potenzialmente capace di destabilizzare la presenza cinese in quella vastissima area a ridosso del sub continente indiano. Al Dalai Lama, critiche interne allo stesso movimento buddhista tibetano, hanno più volte imputato il vizio, per così dire “tipico” della chiesa cattolica, della vendita delle indulgenze necessarie a finanziare il sostentamento economico della sua vasta organizzazione religiosa, ma anche opportune per entrare nelle stanze del potere occidentale, pur sempre nella speranza di riuscire e rinegoziare un rientro ufficiale nel nuovo Tibet cinese. Se al Dalai Lama si può riconoscere l’oggettiva debolezza di una condotta sovente molto ondivaga (in passato in occasione di negoziati con il governo cinese che sembravano riaprirgli le porte del Tibet il Dalai Lama si era perfino dichiarato un buddhista marxista), assai più grave è la sfacciata ipocrisia della grande parte della politica occidentale, prima tra le quali quella italiana. Encomiato di lodi per la sua lotta pacifica, premiato con Nobel, lauree honoris causa e cittadinanze (Roma e Torino), il Dalai Lama è stato altrettante volte “scartato” quando la sua vicinanza poteva mettere in discussione gli interessi economici e di setta dei così detti poteri forti; e ciò tanto dal governo Prodi che dal sindaco di Milano Moratti, sino soprattutto al Papa cattolico, assai più interessato a concordare i termini di convivenza della chiesa cattolica con il governo popolare cinese che a difendere la altrui libertà religiosa (concorrente). Il più eclatante esempio di ipocrisia lo ha comunque rappresentato la “martire dei diritti civili”, tale Emma Bonino, ministro dei governi di destra come di sinistra, commissaria europea dei governi di destra e candidata governatrice del Lazio per la sinistra, eroica combattente per i diritti del popolo tibetano sotto la luce dei riflettori delle Olimpiadi di Pechino e poi, a fotoelettriche spente, ...in fin dei conti in Italia siamo cattolici, ai monaci tibetani ci pensino i buddhisti... Queste falsità dell’occidente l’oramai settantacinquenne Tenzin Gyatso forse le ha capite quando, avendo probabilmente perso la speranza di rientrare in Tibet da Dalai Lama, ha annunciato che forse non rinascerà più e che questo è il suo ultimo ciclo di vita terrena. Speriamo.
III
Una grande proposta per la PACE nel Mondo
ABOLIAMO LE RELIGIONI
La critica della religione è il presupposto La religione è una forma di oppressione di ogni critica spirituale che grava sulle masse KARL MARX L'esistenza profana dell'errore è compromessa dacché è stata confutata la sua celeste oratio pro aris et focis. L'uomo il quale nella realtà fantastica del cielo, dove cercava un superuomo, non ha trovato che l'immagine riflessa di se stesso, non sarà più disposto a trovare soltanto l'immagine apparente di sé, soltanto il non-uomo, là dove cerca e deve cercare la sua vera realtà. Il fondamento della critica irreligiosa è: l'uomo fa la religione, e non la religione l'uomo. Infatti, la religione è la coscienza di sé e il sentimento di sé dell'uomo che non ha ancora conquistato o ha già di nuovo perduto se stesso. Ma l'uomo non è un essere astratto, posto fuori del mondo. L'uomo è il mondo dell'uomo, Stato, società. Questo Stato, questa società producono la religione, una coscienza capovolta del mondo, poiché essi sono un mondo capovolto. La religione è la teoria generale di questo mondo, il suo compendio enciclopedico, la sua logica in forma popolare, il suo point d'honneur spiritualistico, il suo entusiasmo, la sua sanzione morale, il suo solenne compimento, il suo universale fondamento di consolazione e di giustificazione. Essa è la realizzazione fantastica dell'essenza umana, poiché l'essenza umana non possie-
de una realtà vera. La lotta contro la religione è dunque mediatamente la lotta contro quel mondo, del quale la religione è l'aroma spirituale. La miseria religiosa è insieme la espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l'oppio del popolo. Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigerne la felicità reale. L'esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua condizione è l'esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni. La critica della religione, dunque, è, in germe, la critica della valle di lacrime, di cui la religione è l'aureola. La critica ha strappato dalla catena i fiori immaginari, non perché l'uomo porti la catena spoglia e sconfortante, ma affinché egli getti via la catena e colga i fiori vivi. La critica della religione disinganna l'uomo affinché egli pensi, operi, configuri la sua realtà come un uomo disincantato e giunto alla ragione, affinché egli si muova intorno a se stesso e perciò, intorno al suo sole reale. La religione è soltanto il sole illu-
sorio che si muove intorno all'uomo, fino a che questi non si muove intorno a se stesso. È dunque compito della storia, una volta scomparso l'al di là della verità, quello di ristabilire la verità dell'al di
L’impotenza della classe sfruttata nella lotta condotta contro gli sfruttatori inevitabilmente rafforza la credenza
qua. È innanzi tutto compito della filosofia, la quale sta al servizio della storia, una volta smascherata la figura sacra dell'autoestraneazione umana, quello di smascherare l'autoestraneazione nelle sue figure profane. La critica del cielo si trasforma così nella critica della terra, la critica della religione nella critica del diritto, la critica della teologia nella critica della politica.
in una vita migliore dopo la morte, così come l’impotenza dell’uomo primitivo nella battaglia con la natura rafforza la credenza nell’esistenza di dei, demoni, miracoli, e così via. Coloro che lavorano duramente e vivono nel bisogno sono persuasi dalla religione a essere pazientemente sottomessi su questa terra, e a trarre conforto dalla speranza nella ricompensa divina.
VLADIMIR ILIC LENIN
Lettera sulla Felicità Abbiamo già pubblicato questo capolavoro di Epicuro nell’inserto del mese di luglio. La bellezza e l’eternità del suo messaggio ci spinge a riproporlo, a quanti non avessero avuto l’occasione di leggerlo o l’attenzione di apprezzarlo, come augurio finale di questo, indubbiamente difficile, ma intenso inserto sulla inutilità delle religioni
IV
Non si è mai troppo giovani o troppo vecchi per la conoscenza della felicità. A qualsiasi età è bello occuparsi del benessere dell'anima. Chi sostiene che non è ancora giunto il momento di dedicarsi alla conoscenza di essa, o che ormai è troppo tardi, è come se andasse dicendo che non è ancora il momento di essere felice, o che ormai è passata l'età. Da giovani come da vecchi è giusto che noi ci dedichiamo a conoscere la felicità. Per sentirci sempre giovani quando saremo avanti con gli anni in virtù del grato ricordo della felicità avuta in passato, e da giovani, irrobustiti in essa, per prepararci a non temere l'avvenire. Cerchiamo di conoscere allora le cose che fanno la felicità, perché quando essa c'è tutto abbiamo, altrimenti tutto facciamo per averla. Pratica e medita le cose che ti ho sempre raccomandato: sono fondamentali per una vita felice. Prima di tutto considera l'essenza del divino materia eterna e felice, come rettamente suggerisce la nozione di divinità che ci è innata. Non attribuire alla divinità niente che sia diverso dal sempre viven-
te o contrario a tutto ciò che è felice, vedi sempre in essa lo stato eterno congiunto alla felicità. Gli dei esistono, è evidente a tutti, ma non sono come crede la gente comune, la quale è portata a tradire sempre la nozione innata che ne ha. Perciò non è irreligioso chi rifiuta la religione popolare, ma colui che i giudizi del popolo attribuisce alla divinità. Tali giudizi, che non ascoltano le nozioni ancestrali, innate, sono opinioni false. A seconda di come si pensa che gli dei siano, possono venire da loro le più grandi sofferenze come i beni più splendidi. Ma noi sappiamo che essi sono perfettamente felici, riconoscono i loro simili, e chi non è tale lo considerano estraneo. Poi abituati a pensare che la morte non costituisce nulla per noi, dal momento che il godere e il soffrire sono entrambi nel sentire, e la morte altro non è che la sua assenza. L'esatta coscienza che la morte non significa nulla per noi rende godibile la mortalità della vita, togliendo l'ingannevole desiderio dell'immortalità. Non esiste nulla di terribile nella vita per chi dav-
vero sappia che nulla c'è da temere nel non vivere più. Perciò è sciocco chi sostiene di aver paura della morte, non tanto perché il suo arrivo lo farà soffrire, ma in quanto l'affligge la sua continua attesa. Ciò che una volta presente non ci turba, stoltamente atteso ci fa impazzire. La morte, il più atroce dunque di tutti i mali, non esiste
per noi. Quando noi viviamo la morte non c'è, quando c'è lei non ci siamo noi. Non è nulla né per i vivi né per i morti. Per i vivi non c'è, i morti non sono più. Invece la gente ora fugge la morte come il peggior male, ora la invoca come requie ai mali che vive. Per questo noi riteniamo il piacere principio e fine della vita felice, perché lo abbiamo
La religione è l’oppio dei popoli, una sorta di “liquore” spirituale in cui gli schiavi del capitale fanno annegare la loro immagine umana, la loro richiesta di una vita più o meno dignitosa. Ma uno schiavo che è divenuto conscio della propria schiavitù ed ha alzato la testa nella lotta per la propria emancipazione, non è più uno schiavo. Il lavoratore moderno, con un’elevata coscienza di classe, cresciuto dall’industria su larga scala e illuminato dalla vita di città, con sdegno mette da parte i pregiudizi religiosi, lascia il paradiso al clero e ai borghesi bigotti, e cerca di ottenere per sé una vita migliore, su questa terra. Il proletariato moderno difende le ragioni del socialismo, che combatte la nebbia della religione con la scienza, e libera i lavoratori dalle loro credenze in una vita dopo la morte, unendoli nella lotta presente per una vita migliore sulla terra. La religione deve essere dichiarata affare privato. Lo Stato non deve occuparsi della religione, e le associazioni religiose non devono avere alcun legame con le autorità di governo. Quello che richiede
il proletariato socialista è la completa separazione della Chiesa dallo Stato. Ma per quanto ci riguarda, la battaglia ideologica non è un affare privato, è questione di tutto il Partito, dell’intero proletariato. Il nostro programma è interamente basato su una concezione del mondo scientifica, e, in particolare, materialista. Dunque, una spiegazione del nostro programma include necessariamente un’analisi delle reali radici storiche ed economiche della nebbia che la religione diffonde. Ma in nessuna circostanza dobbiamo cadere nell’errore di porre la questione religiosa in forme astratte ed idealiste, come dibattito intellettuale slegato dalla lotta di classe, come fatto di dibattito tra i radicali e la borghesia. L’unità delle classi oppresse in questa lotta rivoluzionaria per la creazione del paradiso in terra è molto più importante per noi dell’unità del pensiero del proletariato riguardo al paradiso nei cieli. Il proletariato rivoluzionario otterrà che la religione diventi un affare privato, per ciò che concerne lo Stato. E in questo sistema politico, privato da residui medievali, il proletariato intraprenderà una lotta di ampio respiro per l’eliminazione dell’oppressione economica, la prima fonte delle menzogne con cui la religione confonde l’uomo.
riconosciuto bene primo e a noi congenito. Ad esso ci ispiriamo per ogni atto di scelta o di rifiuto, e scegliamo ogni bene in base al sentimento del piacere e del dolore. E' bene primario e naturale per noi, per questo non scegliamo ogni piacere. Talvolta conviene tralasciarne alcuni da cui può venirci più male che bene, e giudicare alcune sofferenze preferibili ai piaceri stessi se un piacere più grande possiamo provare dopo averle sopportate a lungo. Ogni piacere dunque è bene per sua intima natura, ma noi non li scegliamo tutti. Allo stesso modo ogni dolore è male, ma non tutti sono sempre da fuggire. Bisogna giudicare gli uni e gli altri in base alla considerazione degli utili e dei danni. Certe volte sperimentiamo che il bene si rivela per noi un male, invece il male un bene. Consideriamo inoltre una gran cosa l'indipendenza dai bisogni non perché sempre ci si debba accontentare del poco, ma per godere anche di questo poco se ci capita di non avere molto, convinti come siamo che l'abbondanza si gode con più dolcezza se meno da essa dipendiamo. In fondo ciò che veramente serve non è difficile a trovarsi, l'inutile è difficile. Quando dunque diciamo che il bene è il piacere, non intendiamo il semplice piacere dei
goderecci, come credono coloro che ignorano il nostro pensiero, o lo avversano, o lo interpretano male, ma quanto aiuta il corpo a non soffrire e l'animo a essere sereno. Di tutto questo, principio e bene supremo è la saggezza, perciò questa è anche più apprezzabile della stessa filosofia, è madre di tutte le altre virtù. Essa ci aiuta a comprendere che non si dà vita felice senza che sia saggia, bella e giusta, né vita saggia, bella e giusta priva di felicità, perché le virtù sono connaturate alla felicità e da questa inseparabili. La fortuna per il saggio non è una divinità come per la massa - la divinità non fa nulla a caso - e neppure qualcosa priva di consistenza. Non crede che essa dia agli uomini alcun bene o male determinante per la vita felice, ma sa che può offrire l'avvio a grandi beni o mali. Però è meglio essere senza fortuna ma saggi che fortunati e stolti, e nella pratica è preferibile che un bel progetto non vada in porto piuttosto che abbia successo un progetto dissennato. Medita giorno e notte tutte queste cose e altre congeneri, con te stesso e con chi ti è simile, e mai sarai preda dell'ansia. Vivrai invece come un dio fra gli uomini. Non sembra più nemmeno mortale l'uomo che vive fra beni immortali.