Mensile di informazione, politica e cultura dell’Associazione Luciana Fittaioli - Anno IV, n. 2-3 luglio - agosto 2012 - distribuzione gratuita
“Prima di giudicare (e per la storia in atto o politica il giudizio è l’azione) occorre conoscere e per conoscere occorre sapere tutto ciò che è possibile sapere” (Antonio Gramsci) “Faremo il possibile per esporre in forma semplice e popolare, senza presupporre la conoscenza nemmeno dei concetti più elementari. Vogliamo farci comprendere dagli operai.” (Karl Marx)
Neo-fascismo Tecnico
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Petizione
Una risposta forte alla iniziativa dell’Onorevole Ciccioli per la riforma della legge 180 (833/78)
Il Testo Unificato prodotto dal relatore, on. Ciccioli, è stato varato in Commissione circa un mese fa. È scaricabile dal link qui sopra ma probabilmente ne conoscete già i contenuti e credo condividiate almeno la maggior parte delle motivazioni - riportate nel testo della petizione che è qui http://manicomionograzie.it/ - che ci fanno ritenere di fondamentale importanza mobilitarsi per fermarne l’iter parlamentare. Se siamo ancora cittadini, in questo Paese, non possiamo accettare che lo Stato obblighi terapeuti e pazienti ad affrontare sistematicamente cure contro la propria volontà. Questo, invece, prevede l’attuale formulazione della proposta di Legge “Disposizioni in materia di assistenza psichiatrica”, allungando la possibilità di ricoverare i pazienti nelle strutture psichiatriche residenziali fino ad un anno continuativamente anche se non consenzienti e ponendo l’accertamento medico finalizzato al ricovero coatto come prevalente rispetto ai diritti civili dei cittadini. L’obbligo di trattamento, finora riservato a situazioni eccezionali, urgenti e solo per alcuni giorni, diventerebbe applicabile correntemente e fino a un anno di durata. Agire contro la volontà del paziente non sarà più un caso eccezionale, ma una regola. Un anno di trattamento senza consenso è un tempo infinito, inutile e sfibrante per tutti: per la persona, per i familiari e per chi presta le proprie cure come medico, psicologo, infermiere o educatore, per le altre persone accolte nella struttura di cura. Chiunque abbia avuto rapporti di cura con persone ricoverate negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, oggi in corso di soppressione per il loro plateale fallimento sia nella cura che nell’applicazione della giustizia, conosce bene l’abominio delle cure obbligatorie, il mefitico mescolamento di controllo giudiziario e terapia psichica. Questa iniziativa nasce dall’impegno di gruppi di colleghi ma anche di comuni cittadini in cui io personalmente mi riconosco e credo, alla luce di quanto conosco del vostro impegno, potrete riconoscervi anche voi. Vi chiedo, quindi, di dare diffusione a questo messaggio presso i vostri contatti con l’invito a prendere visione ed a firmare la petizione on line al sito http://manicomionograzie.it/ che, partita appena ieri, con il solo passa parola dei promotori ha già superato le 2.500 firme. Conto sulla vostra attenzione e vi ringrazio per tutto quello che vorrete fare. Felice Torricelli Psicologo, psicoterapeuta. Responsabile Centro Diurno Associazione Reverie Comunità 1
L’Editoriale
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Fascismo: “dittatura terroristica aperta degli elementi più reazionari, più sciovinisti e più imperialisti del capitale finanziario” (Georgi Dimitrov, Terza Internazionale Comunista) di SANDRO RIDOLFI
“Non siamo stati chiamati qui a distribuire caramelle. Se c'erano da distribuire caramelle, l'avrebbero fatto loro, i politici. Noi siamo stati chiamati a fare cose dure, spiacevoli". “Se fosse un settore privato, questo sarebbe motivo per riconsiderare i vertici. Siamo in un settore pubblico, ci sono le leggi, c'é un Parlamento e tutte queste procedure vanno rispettate». Con queste due frasi il Ministro del lavoro e delle politiche sociali Elsa Fornero ha chiarito la sua “missione” di governo: “caramelle” il posto di lavoro, le pensioni, le tutele sociali; “licenziamenti” per tutti, anche per i vertici dell’INPS che si sono permessi di comunicare dati estremamente peggiori di quelli falsamente propagandati dalla Ministro, peccato che sono organi tutelati dalla legge e (per ora!) anche lei deve rispettarla. Se questo non è fascismo... Definiamo “fascismo”. Lasciando da parte le manifestazioni folcloristiche, a volte ridicole come i fez col pennacchio sugli occhi della parodia italiana, a volte terrificanti come le aquile romane e le svastiche naziste, il fascismo è un sistema di governo (peraltro estremamente diffuso nella storia e in diversi luoghi della terra) caratterizzato dalla concentrazione del potere politico ed economi-
co nelle mani di ristretti gruppi, spesso capeggiati da un “unto del Signore”, che fondano la propria legittimazione (illegittimazione!) sul terrore fisico e psicologico, per azzerare dapprima l’intelligenza e quindi la volontà del popolo “bue”, dei sudditi. I fascisti non chiedono consenso, ma ammirazione; non consentono confronto nè offrono rendiconto, ma pretendono affidamento cieco e obbedienza e passiva. Chi si oppone è un sovversivo, ma prima ancora è uno stupido, uno che non sa e non capisce l’alta scienza e i grandi progetti dei governanti (duce, rais, tiranno, leader di turno). La propaganda delle televisioni (n.b. anche queste sono state oggi occupate dagli emissari del capitale finanziario!) ci informa che il mondo è pieno di regimi antidemocratici che non consentono ai popoli di scegliere liberamente tra liste elettorali dai diversi colori e candidati dai diversi nomi. Partiti unici, potentati economici o militari che raccolgono consensi plebiscitari truccati, rais e tiranni dai vari nomi e definizioni che restano al potere per decenni e generazioni. Questo non succede da noi, nella nostra splendida democrazia parlamentare, un poco malconcia ma pur sempre “democratica”. Da noi si può scegliere tra tante sigle ed eleggere sempre gli stessi politici da oltre quaranta anni, entrati in politica adolescenti e incanutiti en-
trando e uscendo a ritmo alternato dalle stanze del governo del Paese. Un pregio ce l’hanno però i nostri politici “a vita”, quello di spostarsi frequentemente lungo il così detto “arco costituzionale”, un po’ più a destra o un po’ più a sinistra, ma quasi sempre verso il centro, a seconda se in quel momento si trovano dentro o fuori da un governo che, perfetto, intelligente e attivo nel loro turno, diventa disastroso in quello successivo e via di seguito un altro giro. Venti anni fa uno dei personaggi più ricchi del mondo ha rotto gli indugi, come ha detto lui stesso “è sceso in campo”, comprando e vendendo “a mazzi” i così detti rappresentanti del popolo, ha strappato anche il modesto velo dell’ipocrisia della democrazia parlamentare, aprendo la strada al fascismo che oggi governa il nostro Paese. Complice un Capo dello Stato frastornato e disorientato che “naviga a vista” (questo, va chiarito, non per l’età avanzata che anzi è sempre fonte indispensabile di esperienza e saggezza, ma per la perdita di ogni riferimento storico e culturale dopo l’abiura dell’etica ideologica sulla quale aveva costruito la sua passione e vicenda politica), un parlamento di peones (che solo pochi mesi prima avevano votato a larga maggioranza che la giovane marocchina Ruby era la nipote del rais egiziano Mubarak!) ha alzato le mani (ma non il se-
Nota: la scelta della coertina della riivista e del titolo è responsabilità dell’Editore
dere dalle poltrone) e ha consegnato non il solo governo, ma l’intero potere politico legislativo a una banda di dipendenti del sistema finanziario sostanzialmente mondiale. Governo, dalla rivoluzione francese in avanti, identifica il potere esecutivo, quello che deve dare attuazione alle direttive politiche dettate dal potere legislativo, il Parlamento. Questo “governo tecnico” non governa, ma legifera. Non gestisce la funzione pubblica dello Stato lasciando il Paese allo sbando, ma produce leggi che un Parlamento di peones, obbedienti di buon grado o sotto minaccia costante di fiducia, approva. Questo Governo non sta salvando il Paese dal baratro economico finanziario (e sarebbe assai strano dato che in questo disastro sono stati proprio i potentati finanziari che li hanno nominati a portarci); questo Governo sta cambiando la nostra storia, sta cancellando il passato per riscrivere un futuro diverso e peggiore. Peggiore per chi? Non certo per loro e per i loro mandanti, ma per la massa degli “sfigati”, come li ha definiti un altro “alto” esponente di questa banda tecnica, di quelli che non trovano lavoro, che non ce la fanno a vivere con stipendi sempre più bassi e pensioni da fame. Stiamo vivendo uno scontro di civiltà (o di inciviltà) sotto le costanti minacce terroristiche dell’imperialismo finanziario. Se non è fascismo questo...
4 Sommario del mese di luglio-agosto Economia La ricetta a base di tasse di “nonno Mario” di Andrea Tofi
pagina 9
Finanza La Piramide di Ponzi e i derivati di Draghi di Sandro Ridolfi
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Lavoro Precari, una vita con la data di scadenza di Loretta Ottaviani
pagina 17
Burocrazia Le interferenze della politica nell’amministrazione di Vincenzo Lazzaroni
pagina 21
Futuro Il mondo sta cambiando di Autori Vari
pagina 25
Vita e Società Donare il sangue per continuare a vivere di Luca Tonti
pagina 29
Salute e Società Intorno alla riforma psichiatrica di Giampiero Di Leo
pagina 33
Musica La quarta dimensione dell’esistenza di Antonio Bandini
pagina 37
Letteratura Trotzky, la politica culturale del partito comunista di @barberini.it
pagina 41
Fiorire Due soldi, un pane, un fiore di Sara Mirti
pagina 45
Arte Moda e ceramiche della Collezione Zuccari di Maura Donati
pagina 49
Omaggio 35 anni dalla scomparsa di Maria Callas di Jacopo Feliciani
pagina 53
Inediti “Il Sogno”, un racconto di Paride Trampetti
pagina 55
Redazione: Corso Cavour n. 39 06034 Foligno redazionepiazzadelgrano@yahoo.it
Autorizzazione: tribunale di Perugia n. 29/2009 Editore: Sandro Ridolfi Direttore Responsabile: Maura Donati Direttore Sito Internet:
Andrea Tofi Stampa: GTP Srl Città di Castello Chiuso: 30 giugno 2012 Tiratura: 3.000 copie Periodico dell’Associazione “Luciana Fittaioli”
Democrazia
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Le forme della Democrazia La “democrazia costituzionale” dopo l’orrore del nazi-fascismo
La Carta delle Nazioni Unite (ONU) del 1945, la promulgazione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo del 1948 e la Costituzione Italiana che sono state varate all'indomani dell'orrore del nazi-fascismo e della guerra hanno comportato una svolta decisiva per quello che siamo noi oggi, una svolta che possiamo considerare, alla luce dei recenti sviluppi della politica, quasi un miracolo: la considerazione che la maggioranza parlamentare non legittima l'onnipotenza di chi vuole scavalcare le norme e leggi 'razionalmente' decise a difesa della dignità umana.
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Democrazia
Intervento del costituzionalista prof. Luigi Ferrajoli all’incontro promoso da “Città Nuova” sul tema “Il Futuro della Democrazia Costituzionale” presso la Sala consiliare del Comune di Spoleto il 31 maggio 2012 A CURA DI
DANILO SANTI All'indomani dell'Europa distrutta la Politica si assunse il ruolo fondamentale di costruire uno Stato Sociale che difendesse questa dignità, facendo investimenti nella Scuola, nella Sanità e nei Servizi ai Cittadini e favorendo in maniera determinante il successivo progresso economico. Allo stesso modo nella Cooperazione Internazionale verso i paesi più arretrati dal punto di vista dei Diritti Umani inizialmente si decise di operare in questo senso, tanto che l'Africa, per esempio, cominciò a progredire anche in senso economico; poi però la strada appena iniziata venne spazzata via dagli interessi delle grandi Multinazionali che intendevano invece abbassare il livello dei Diritti per poter usufruire di manodopera non consapevole e sfruttata, e ricavarne sopra un vantaggio economico esclusivamente per loro stesse. Ormai stiamo attraversando una Crisi di Democrazia a livello globale con una piccola speranza legata ai paesi del Sud America, di cui parleremo poi – che comporta una subalternità degli Stati ai mercati. Le grandi imprese, infatti, decidono dove investire in base alle “peggiori condizioni legate ai Diritti Sindacali, Umani ed Ambientali” presenti in quello Stato, mettendo così in
concorrenza gli Stati tra loro in base a queste valutazioni e i vari tecnocrati sono l'espressione e la causa di questa situazione, avendo imposto, a livello mondiale, una visione dell'economica come 'legge di natura' nella quale appunto è il più forte a vincere e non il più rispettoso dei Diritti. Questa situazione ci ha portato alla crisi attuale, che non è soltanto economica ma soprattutto politica ed etica. I movimenti degli 'Indignatos', di Occupy Wall Street e di tanti altri in giro per il mondo ci dicono appunto questo; che ormai siamo governati dal solo 1% della popolazione, quella che rappresenta i grandi potentati economico-finanziari e criminali, che stanno facendo introiti eccezionali durante questa crisi e che stanno portando il resto del mondo alla rovina. Stiamo vivendo una crisi della Democrazia, innanzitutto, in quanto i 'poteri forti' hanno tutto l'interesse ad abbattere i Diritti per aumentare i loro guadagni e la diseguaglianza del livello economico tra i diversi strati della popolazione ha raggiunto vette mai raggiunte prima nell'epoca moderna e questo è un impedimento gravissimo alla Democrazia, che, come dice l'etimologia della parola stessa, significa il Governo del Popolo. La prima frattura con il passato è l'ormai scomparso Diritto del Lavoro, devastato con l'introduzione del lavoro precario. Recentemente
Luigi Ferrajoli Nel 2007 ha scritto il saggio Teoria della Democrazia, pubblicato in Italia dall'editore Laterza. Nel volume disegna un preciso modello normativo di democrazia non limitato alla già conosciuta accezione formale della stessa piuttosto approfondendo quella che definisce come accezione sostanziale della democrazia. Egli articola la sua teoria in quattro dimensioni (politica, civile, liberale, sociale) speculari ad altrettante classi di diritti costituzionalmente impressi. A particolareggiare la sua "Teoria della Democrazia" è il carattere normativamente concreto, secondo l'autore l'unica alternativa per un futuro privo di guerre, devastazioni, disuguaglianza. Attualmente insegna presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi Roma Tre, detenendo la cattedra di professore ordinario in Filosofia del Diritto e Teoria Generale del Diritto. Ha scritto per il quotidiano Il Manifesto e, periodicamente, collabora con varie testate periodiche di diritto italiane, spagnole, argentine. Pubblicazioni: L'Europa e i paesi terzi: i diritti degli extracomunitari, Roma, Fondazione internazionale Lelio Basso, 1989; Teoria della democrazia, Laterza, Bari, 2009. ISBN 9788842082637; Diritto e ragione: teoria del garantismo penale, Laterza, Bari, 1990. ISBN 8842034819. il Governo Italiano ha fatto passare, sotto silenzio dei mezzi di comunicazione, la legge del Premierato che rompe i rapporti di fiducia tra il Governo e il Parlamento; secondo questa legge la sfiducia data da questo ultimo organo al Governo non comporta più lo scioglimento del Governo stesso, ma lo scioglimento del Parlamento! Delegittimando così in maniera decisiva il
voto popolare e rompendo con il patto di solidarietà che legava i cittadini al Governo del Paese. Questa mancanza del senso di responsabilità è l'ultimo tassello di una crisi politica che sta attraversando ormai l'Italia da trenta anni a questa parte; dove la Politica si è ritirata dal suo ruolo di governare i processi ed è diventata “consapevolmente” un ingranaggio degli
Democrazia stessi, facendo retrocedere la sfera Pubblica a livelli sempre più minimali. Per cercare di rimediare a questa situazione non sono più sufficienti provvedimenti a livelli statuali ma occorre ampliare la Sfera Pubblica a livelli internazionali, propugnando nuovi strumenti che abbiano la valenza di influire a livello globale sui problemi, come i tribunali internazionali sui diritti umani, sociali ed ambientali, gli unici in grado di controbattere al potere delle multinazionali. Inoltre possiamo vedere come buon esempio da imitare le esperienze di governo dei paesi del Sud America che, ribellandosi al potere Americano dei grandi potentati economici, hanno posto nelle loro Costituzioni il 'Pareggio di Bilancio' ma in maniera positiva, cioè devolvendo una buona fetta del
Il Centro Culturale "Città Nuova" è nato a Spoleto tra il Novembre e il Dicembre del 1986 con l'intento di misurarsi sulle grandi tematiche nazionali e sulle problematiche cittadine, confrontandosi in modo aperto e costruttivo con le associazioni a carattere nazionale e locale, per tenere sempre viva l'attenzione delle forze culturali e sociali operanti sul territorio in merito alla sua crescita civile. In occasione della sua presentazione pubblica, che coincise con l'organizzazione del pri-
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patrimonio pubblico a favore dei servizi sociali (40% alla Pubblica Istruzione, 30% alla Salute e così via); diversamente da come succede da noi, dove i soldi pubblici sono devoluti alle Banche e agli operatori della Finanza per le loro speculazioni. Dopo 68 anni di Democrazia Costituzionale e i progressi sui Diritti Umani, Ambientali, Sociali e Sindacali all'indomani delle grande sciagura del totalitarismo e della guerra, stiamo vivendo una regressione del senso di responsabilità dove a scapito del caposaldo della ragione sta prendendo piede una fanciullesco sentire delle vicende umane, quasi che il crescere delle nuove generazioni sulla bambagia del benessere abbia portato ad un assopimento delle coscienze. Tutto questo, però, ha la sua origine nella mancata at-
tuazione del Diritto Internazionale in enti istituzionali che garantiscano il suo rispetto. Di qui l'espansione della criminalità e dei potentati internazionali che hanno invaso la sfera pubblica dei singoli Stati influenzando la loro Politica nella gestione della Società. Ora, purtroppo, la Politica è considerata nel migliore dei casi un affare 'ignobile' e 'spregevole' e non come il più alto degli incarichi a cui può assurgere il 'cittadino', e si è creata una campagna di 'antipolitica' che ha un facile gioco nel catturare il consenso della popolazione. Ma il futuro della Politica non può essere diverso dal perseguire quei valori di cui si sono fatti portavoce associazioni come la 'Tavola della Pace', 'Libera' ed altre che vedono nella Sfera Internazionale come l'unica sfera necessaria del
loro campo di azione, l'unica in grado di far rispettare i Diritti Umani a livello Globale. Solo in questo modo essa acquisterà il consenso necessario per ottenere l'approvazione della popolazione anche se si tratterà di non perseguire innanzitutto gli interessi più vicini ai cittadini, consapevoli ormai che viviamo tutti noi in un Villaggio Globale e laddove questi non siano rispettati in un luogo imprecisato del Mondo le conseguenze le vivremmo anche noi, nel nostro piccolo. Questo pianeta è l'unico che abbiamo e va rispettato, e una foresta che va abbattuta nella lontana Amazzonia non è un discorso di lana caprina, ma che riguarda tutti noi, tutti noi nel profondo, così come i diritti sociali e sindacali calpestati di una oscura terra dell'Africa o dell'Europa dell'Est.
mo convegno su "I quarantanni della Repubblica e la salute della democrazia", intervenne anche l'onorevole Stefano Rodotà che ne è stato primo presidente e poi presidente onorario. Tuttavia la genesi del Centro culturale si deve alla volontà di Pietro Conti che fu Sindaco di Spoleto ed è stato Presidente della Regione Umbria. Il Centro, anche dopo la morte di Conti, ha cercato di porsi in continuità con la linea di indirizzo del suo ispiratore, sempre al servizio delle istituzioni,
nell'intento di interpretare, al di sopra delle parti, i bisogni dei cittadini. Pietro Conti, "era convinto - scriveva la stessa Maria Antonietta Albanese - che il bisogno fondamentale dei nostri tempi è la partecipazione attiva e consapevole, da parte di tutti, alla vita pubblica: le istituzioni democratiche non devono rappresentare strutture centralistiche o burocratiche, ma essere le interpreti dei bisogni e dei problemi di tutti; ad esse tutti devono dare un contributo con proposte, sollecitazioni, iniziative dal basso, intendendo il “basso” come base e non come subalternità al potere. Partecipare, condividere, comunicare, interrogare e interrogarsi, riuscire a scrivere in un orizzonte nazionale e sopranazionale i problemi della realtà locale: in una parola, produrre cultura, realizzare giorno per giorno democrazia e libertà: questa la neces-
sità di tutti noi, oggi, in un mondo sempre più aperto ma sempre più complesso e contraddittorio, diviso tra riflusso nel privato e ansia di solidarietà planetaria". Si può dire che, fin dalla sua nascita, proprio in virtù di tale impostazione, il Centro culturale "Città Nuova" abbia strutturato il suo lavoro su tre cardini fondamentali: l'informazione, il dibattito e le proposte. "Città Nuova" ha sempre inteso la cultura come processo, non come prodotto, convinta che la cultura stessa dovesse tornare tra la gente come strumento di miglioramento della realtà quotidiana. Da qui l'attività che ha contraddistinto "Città Nuova" e che si è tradotta in un vero e proprio metodo di lavoro, dal quale è scaturita l'esigenza di indagare, confrontarsi, discutere. Per poi, consapevolmente, orientare le proprie scelte politiche, sociali e civili.
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Democrazia Costituzione della Repubblica Italiana Principi Fondamentali Art. 1 L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Art. 2 La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Art. 3 Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Art. 4 La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società. Art. 5 La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento. Art. 6 La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche. Art.7 Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale. Art. 8 Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze. Art. 9 La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Art. 10 L'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali. Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge. Non è ammessa l'estradizione dello straniero per reati politici. Art. 11 L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
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Rigore ed austerity La ricetta a base di tasse di “nonno Mario”
La crisi mondiale del capitalismo, nata negli USA e sbarcata poi in Europa non ci ha risparmiato. Il nostro salvatore della patria Mario Monti ha chiesto agli italiani di fare dei sacrifici per evitare il fallimento del nostro paese, ma ha fatto come la dea bendata, ha chiuso gli occhi ed ha puntato il dito verso coloro che dovrebbo subire i costi della recessione. Guarda caso la “sfiga” ha prevalso di nuovo sulla fortuna, perchè ha pagare sono sempre gli stessi: operai, pensionati, precari, ma più in generale le famiglie che vedono diminuire i servizi ed aumentare le tasse. In questo clima di evidente sopraffazione dell’imperialismo dettato dalle banche, la risposta della classe operaia dove? Non possiamo pensare che i sindacati (per anni complici di questo sistema), possano assovere alle nostre istanze. Il loro tenativo di re-union (CGIL-CISL-UIL), è solo un effimero tentativo di salvare la propria pelle, perchè hanno capito che i “Padroni” non hanno più bisogno di loro, hanno trovato sistemi di ricatto ben più efficaci dell’opera di convincimento svolta dal sindaclismo moderno (vedi i recenti casi FIAT di Mirafiori e Pomigliano).
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Economia
Uniti per lo spread Mentre l’Europa sta affondando sotto le grinfie degli speculatori, la cancelliera tedesca Angela Merkel resiste alle insistenze degli altri paesi membri che tentano di condividere il debito attraverso gli eurobond DI
ANDREA TOFI
Alcuni dati sulla situazione economica stilati da Bankitalia Bankitalia stima che nel momento di massimo impatto della crisi sul mercato del lavoro italiano, circa 480 mila famiglie abbiano sostenuto almeno un figlio convivente che aveva perso il lavoro nei dodici mesi precedenti.. Le risorse impiegate in questa forma di sostegno familiare secondo Bankitalia - sono venute non solo dai redditi da lavoro dei genitori, ma spesso anche da quelli da pensione. Secondo la dirigente di via Nazionale, la crisi ha reso ancora più forte la dipendenza dei membri più deboli dalla famiglia d'origine, riducendo ulteriormente la propensione dei giovani di intraprendere percorsi autonomi, a passare dalla condizione di figlio a quella di genitore, a partecipare attivamente non solo alla vita economica, ma anche a quella sociale. Ma sono sopratutto quelle degli operai che ne risentono maggiormente, il reddito medio, sempre in base ai dati di Bankitalia, ha subito un taglio di 1.236 euro (-8,5 per cento). In dieci anni, fra il 2000 e il 2010, hanno perso oltre 400 euro. Nel 2000 il reddito medio di un operaio era pari all'equivalente di 13.691 euro, nel 2010 è sce-
so a 13.249 (-442 euro); considerando però la differenza tra il 2006 (ultimo anno prima della crisi monitorato da palazzo Koch) e il 2010, il taglio è stato di 1.236 euro (-8,5 per cento). Crescono inoltre, in modo pressoché costante, lavoratori senza cosiddetto "posto fisso". Sono 2,2 milioni, infatti, gli occupati a tempo determinato nel primo trimestre 2012, il dato più alto dal primo trimestre del 1993. Di questi, 1,25 milioni sono giovani sotto i 34 anni, mentre gli over 34 sono 969 mila. Tutto questo mentre, sempre secondo fonti di bankitalia, in Italia l'economia sommersa rappresenta il 31,1% del Pil. Un "tesoretto" da 490 miliardi, 290 dei quali dovuti all'evasione fiscale e contributiva e circa 187 all'economia criminale legata alla prostituzione e alla vendita di stupefacenti. A questo punto è ora di dire basta, è ora di mettere fine a questa lunga serie di soprusi messi in atto dal sisitema bancario con il placido benestare di tutte le forze politiche, sia quelle che fanno parte della maggioranza di governo che quelle d’opposizione. E’ ora di tornare al voto e dare la parola agli elettori, anche con l’amara consapevolezza che non c’è più nè in parlamento, nè fuori una forza antagonista di sinistra che sia in grado rappresentare la voce del movimento operaio e di tutte le categorie più deboli.
Le misure del piano salva Italia o per meglio dire “salvabanche” L’immagine è emblematica: il nostro amato premier chiede alla cancelliera di condividere la situazione con equità e comprensione e la Merkel gli risponde con garbo “niente Eurobond finchè vivrò!” Ebbene sì, finalmente abbiamo compreso che tutti i sacrifici che Monti e il suo esecutivo tecnico ci hanno imposto in questo breve lasso di tempo, ci permetteranno di far crescere ancor di più l’economia tedesca, che lentamente dopo aver affossato la Grecia ed altri piccoli stati si spianerà la strada anche verso il nostro bel paese e non solo. Daltronde a che cosa ci hanno chiesto di rinunciare questi “genteleman della finanza”, a cose di poco conto: la pensione, che sarà mai, ha 70 anni ancora si è giovani, forti, sani, che cosa ci vuole a montare su di un palco da muratore, una scala da 10 metri o ancor meglio lavorare in fabbrica (dove ancora esistano!) magari davan-
to ad un altoforno piuttosto che svolgere un lavoro a catena; l’Iva al 23% che mica fa paura, tanto la versano i commercianti non i consumatori, qual’è il problema? L’IMU per la prima casa, è giusto pagarla perchè negli stati più importanti dell’Unione tutti la pagano e noi chi siamo per esentarci? (poi se succede che un appartamento di un genitore, di 80-100 mq. in cui risiede un figlio venga a pagare 1000 Euro perchè condiderata seconda casa che importa!); che vengano reintrodotti i ticket sanitari sulle ricette e sulle prestazione mediche (faccio notare che prima dell’avvento di Monti una visita specialista su struttura convenzionata ASL, costava 145 Euro adesso la stessa ne costa 195 di Euro, la giustificazione assorta dalla segretaria: sono aumentate le spese!). L’elenco mio caro Monti potrebbe essere lunghissimo, ma non ha senso protrarsi ancora su tale argomento perchè mi sembra ovvio che ha subire i pesi maggiori di questi provvedimenti finanziari sono sicuramente le famiglie considerate da sempre un pilastro per l'economia del nostro Paese.
Economia
Le principali vertenze aziendali nazionali volgono drammaticamente al capolinea Termini Imerese - In un momento così difficile per il mercato del lavoro, ci si accorge che la gestione delle crisi aziendali, seguite dal precedente governo e dall’attuale Ministero dello Sviluppo Economico, si è rivelata superficiale ed in alcuni casi suscettibile di vizi di forma e non solo. A Termini Imerese, proprio in questi in giorni gli ex dipendenti del gruppo FIAT, trovano la strada spianata verso la disoccupazione. Le capacità finanziarie del gruppo “Dr Motor”, di proprietà di Massimo Di Risio, si sono rilevate insoddisfacenti ed inadeaguate al progetto industriale che avrebbe portato alla produzione di autovetture nell’ex stabilimento della FIAT, che intanto sta proceduto allo smantellamento di parte dei macchinari per trasferirli in altre sedi non italiane. Il risultato di questa vicenda gestita con leggerezza dallo scorso governo rischia di lasciare a casa oltre 2000 operai, di cui ben 640 in base ai vecchi accordi, avrebbero dovuto accingersi alla pensione attraverso gli ammortizzatori sociali. Ma dopo la riforma
della “Fornero”, i 640 operai di Termini Imerese sono finiti fra gli esodati, cioè tutti coloro che erano prossimi alla pensione attraverso meccanismi di accompagnamento economico, ma che ha seguito dell’innalzamento dell’età previdenziale, non hanno più nè un lavoro, nè una pensione. Ora Di Risio ha chiesto altri giorni di tempo per trovare investitori esteri capaci di ricapitalizzare la società e iniziare la fase di reindustrializzazione dello stabilimento. Quello che mi chiedo è come possa aver fatto l’organo ministeriale per le infrastrutture e lo sviluppo, ha credere in un progetto senza basi economiche, come poteva il signor De Risio che è più un venditore che un produttore d’auto, acquistare uno stabilimento di un gigante come la FIAT, con una capacità lavorativa di oltre 2000 addetti. Antonio Merloni - Stessa cosa è successa anche per la vertenza “Antonio Merloni”, dopo oltre 3 anni di amministrazione straordinaria, dopo aver respinto due offerte provenienti da investitori cinesi ed iraniani, han-
no optato per “regalare” l’intero patrimonio immobilare al piccolo imprenditore marchigiano Porcarelli. Sottolineo con fermezza il “regalare”, perchè di un dono vero e prorpio si è trattato, tant’è che sia le banche creditrici, che gli oltre 1500 operai rimasti fuori dall’accordo, hanno intentato una causa per impugnare la vendita avvenuta con numerosi vizi procedurali. Ora siamo in attesa di una sentenza che forse rimetterà in gioco tutto, ma purtroppo potrebbe essere tardi per cercare strade alternative. Un’altra volta ancora mi chiedo come sia possibile che avvengano queste cose, i tre comminissari che hanno gestito la vertenza Merloni, hanno ritenuto insufficienti le garanzie della MDM, gruppo iraniano al quale avevano essi stessi ceduto nel 2010 la Tecnogas di Reggio Emilia, che attualmente lavora in modo continuativo, ed hanno optato per svendere il gruppo per solo 10 milioni di Euro al signor Porcarelli, titolare di un’azienda di soli 300 dipendenti, con un fatturato di appena 32 milioni ed un’esposizione bancaria che si aggira ben oltre i 20 milioni. Ricordo solo che il fatturato dell’ex Antonio Merloni navigava attorno ai 8-900 milioni di Euro, sarebbe stato sufficiente paragonare i due fatturati 8900 contro 32, ha far venire qualche pensiero nella testa dei tre commissari! Nel mondo della finanza e dell’economia, come nel resto delle attività c’è sempre un grande gruppo che rileva un assett industriale in crisi, non succede mai che un piccolo imprenditore locale sia capace di assorbire un colosso da oltre 2500 dipendenti. Altre vertenze - a Genova, un anno fa veniva firmato dalle Istituzioni Locali, dalla
11 Fincantieri e dal Governo l’accordo per far partire il ribaltamento a mare del cantiere navale di Sestri Ponente. L’Autorità Portuale e la Regione Liguria hanno lavorato affinché l’opera potesse partire ma il Governo non ha mantenuto i suoi impegni. Senza i 50 milioni la gara per le opere del ribaltamento non partono, sono soldi già annunciati ma mai arrivati nelle casse dell’Autorità Portuale. Il Governo parla di sviluppo ma non mantiene neanche gli investimenti già firmati come quello per la Fincantieri di Sestri (nota della Fiom). Sono 700 gli operai della Irisbus di Flumeri ex controllata del gruppo FIAT, che rischiano il posto di lavoro. Gli addetti chiedono che vengaribadita la necessità di non sottovalutare la vertenza Irisbus, riproponendo il problema al tavolo con il Ministero, per verificare, prima della scadenza della Cassa integrazione, prevista per il mese di ottobre, la presenza reale di acquirenti dello stabilimento, alternativi alla Fiat. Saranno ancora migliaia le vertenze aperte, ma di cui è difficile parlarne, sta di fatto che mi sembra piuttosto evidente che coloro ai quali viene chiesto, dal governo Monti, di fare sacrifici si trovano sempre più in difficoltà economica. Secondo dati forniti da uno studio di Confindustria, che sicuramente non è di parte, nel 2013 i disoccupati al netto della cgi saranno il 12,4% della forza lavoro. Si perderanno 1 milione e 482 mila posti di lavoro dall’inizio della crisi, fissato al 2008, la capacità di spesa delle famiglie anche a causa dell’incremento della pressione fiscale crollerà vertiginosamente. Queste prospettive sicuramente non sono di buon auspicio per la ripresa economica tanto acclamata da che ci governa.
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Folklore
IL FOLKLORE ITALIANO
Così il grande manager della Fiat di Detroit ha definito la sentenza del Tribunale del Lavoro di Roma che ha condannato la Fiat a riassumere 145 operai dello stabilimento di Pomigliano iscritti alla FIOM, ritenendo discriminatoria la selezione dei ri-assunti con la quale la nuova società della Fiat Amerikana ha escluso tutti gli iscritti al sindacato che non aveva voluto sottoscrivere il contratto capestro voluto da Marchionne. Ebbene se l’Italia, oltre a essere il paese di Pulcinella, della tarantella, della pizza e degli spaghetti, è anche il paese della magistratura indipendente in grado di condannare giganti come la Fiat, La Thyssen e la Eternit, siamo orgogliosi (almeno per questo) di essere italiani. Se qualcuno è folkloristico è chi va in giro, estate e inverno, a passeggio come al Quirnale, con un ridicolo maglioncino giro collo. Provi a dire a Obama che è folkloristico (oltre che “abbronzato”)
Finanza
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da Charles Ponzi a Mario Draghi un’applicazione della “catena di Sant’Antonio” i “derivati” di Goldman Sachs
Aristotele per primo definì la pratica di trarre denaro dal denaro come una aberrazione immorale; due millenni più tardi Marx ha analizzato il fenomeno della trasformazione del denaro da mezzo di intermediazione in merce produttiva di rendita, sviluppando la teoria del plusvalore alla base dell’accumulazione capitalistica. Millenni di storia e ricorrenti disastri economici e finanziari non sono serviti tuttavia a scalfire una delle più gravi debolezze (o nefandezze) del senso della vita occidentale: quella di immaginare di vivere di rendita sfruttando il lavoro altrui. Poiché è questo che la così detta “finanza” propone: far rendere un bene di per sé naturalmente improduttivo, il denaro. Il meccanismo, sostanzialmente “elementare”, consiste nel moltoplicare il valore dei beni reali sottostanti costruendovi al di sopra una piramide di beni viruali dai nomi più fantasiosi; gli ultimi, ma i più importanti per le dimensioni gigantesche della loro quantità in circolazione, sono i “derivati”, tecnicamente delle scommesse sulla crescita del valore del bene reale sottostante moltiplicate all’infinito sul presupposto della crescita infinita e dunque del “non incasso” della scommessa. Ma se la crescita si ferma e lo scommettitore pretende l’incasso? E’ il default! Ma chi paga il default? Charles Ponzi è finito in galera e così decenni più tardi Madoff. La scommessa sui titoli della Grecia è stata posta all’incasso e ovviamente non è stata onorata; ma non è Goldman Sachs a pagare, bensì il popolo greco e non da solo...
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Finanza
Lo “Schema Ponzi”, il trucco della “piramide rovesciata” che per sostenersi ha necessità di una crescita infinita, e dunque impossibile, della sua base DI
SANDRO RIDOLFI
Lo schema di Ponzi permette a chi comincia la catena e ai primi coinvolti di ottenere alti ritorni economici a breve termine, ma richiede continuamente nuove vittime disposte a pagare le quote. I guadagni derivano infatti esclusivamente dalle quote pagate dai nuovi investitori e non da attività produttive o finanziarie. Il sistema è naturalmente destinato a terminare con perdite per la maggior parte dei partecipanti, perché i soldi "investiti" non danno alcuna vera rendita né interesse, essendo semplicemente incamerati dai primi coinvolti nello schema che li useranno inizialmente per rispettare le promesse. Le caratteristiche tipiche sono: promessa di alti guadagni a breve termine; ottenimento dei guadagni da escamotage finanziari o da investimenti di "alta finanza" documentati in modo poco chiaro; offerta rivolta a un pubblico non competente in materia finanziaria. Risulta evidente che il rischio di investimento in operazioni che sfruttano questa pratica è molto elevato. Il rischio è crescente al crescere del numero degli iscritti, essendo sempre più difficile trovare nuovi adepti. La tecnica prende il nome da Charles Ponzi, un immigrato italiano negli Stati Uniti che divenne famigerato per avere applicato una simile truffa su larga scala nei confronti della comunità d’immigrati prima e poi in tutta la nazione. Ponzi non fu il primo a usare questa tecnica, ma ebbe tanto suc-
cesso da legarvi il suo nome. Con la sua truffa coinvolse infatti 40.000 persone e, partendo dalla modica cifra di due dollari, arrivò a raccoglierne oltre 15 milioni. Lo schema di Ponzi si è sviluppato nel tempo in varianti più complesse, pur mantenendo la stessa base teorica e continuando a sfruttare l'avidità delle persone. E’ tornato alla ribalta internazionale il 12 dicembre 2008, a causa dell'arresto di Bernard Madoff, ex presidente del NASDAQ e uomo molto famoso nell'ambiente di Wall Street. L'accusa nei suoi confronti è di aver creato una truffa compresa tra i 50 e i 65 miliardi di dollari proprio sul modello dello schema di Ponzi, attirando nella sua rete molti fra i maggiori istituti finanziari mondiali. Il 12 marzo 2009 Bernard Madoff si dichiarò colpevole di tutti gli undici capi d'accusa a lui ascritti e fu condannato a 150 anni di carcere. I “prodotti finanziari” denominati “derivati” possono essere inquadrati nello stesso schema piramidale ora descritto, solo che a crescere in questo caso non è il numero degli investitori, comunque necessariamente altissimo, ma quello dei prodotti, o meglio dei “cloni” di quel primo prodotto che ha trasformato un determinato bene reale in un titolo finanziario virtuale, astratto. Tra gli investitori continua dunque a girare sostanzialmente lo stesso bene reale sottostante, solo che a ogni passaggio, per mantenere fede alla promessa di eccezionale redditività (che è l’esca che determina il coinvolgimento dell’investitore), il suo doppione finanziario si accresce di valore, sino a
che il primo degli investitori non è più disposto ad accettare l’ennesimo clone, mette all’incasso il proprio titolo e... la piramide crolla! E’ il disastro per tutti, tranne che per uno, per colui che ha inventato la piramide e l’ha gestita nella sua apparente illimitata crescita lucrando provvigioni, margini, premi, ecc. ma, categoricamente, senza mai investirci nulla di proprio. Quando i prodotti derivati si fondano su titoli del debito pubblico di uno Stato a subire le conseguenze del tracollo sono gli stessi cittadini, ancorché, per altro verso e comunque in parte spesso modesta rispetto al volume dei coloni finanziari
generati, ne hanno precedentemente tratto beneficio per il tramite di un eccesso di spesa pubblica sostenuta con il ricorso a un indebitamento sproporzionato alle reali potenzialità economiche (cioè di rimborso) di quello stesso Paese. Ma anche in questo caso a restare indenni da ogni conseguenza, anche a volte (e lo stiamo vivendo) catastrofica, sono proprio coloro che hanno organizzato l’artificio abilmente sollecitando la “fame” di mezzi finanziari di amministrazioni e classi politiche sempre assolutamente impreparate, oltre che di dubbia condotta morale (e tralasciamo il penale...)
Secondo una definizione data dalla Banca d’Italia, sono derivati quei contratti che insistono su elementi di altri schemi negoziali (quali valute, tassi di interessi, tassi di cambio, indici di borsa) e il cui valore economico deriva dal valore del titolo sottostante o degli altri elementi di riferimento. Una particolare caratteristica dei contratti derivati è quella di prevedere il differimento nel tempo dell’esecuzione del contratto. Ciò significa che la consegna del titolo sottostante e il relativo pagamento non avvengono contestualmente alla stipula del contratto derivato, ma ad (o entro) una data successiva. La definizione del prezzo avviene, invece, all’atto della stipula del contratto. (Ci avete capito nulla? Non Vi preoccupate... è fatto apposta!)
Finanza
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Angela Merkel, identità etnica (linguistica e culturale) e senso dello Stato E’ davvero il “mostro” che viene dipinto, oppure è l’unico vero politico che resiste (e prova a reagire) alla violenza del sistema finanziario mondiale? DI
SANDRO RIDOLFI
A pensare male dei tedeschi non si sbaglia mai. La storia, e non solo quella più recente, ci ha insegnato che il senso di appartenenza a una nazione, intesa come popolazione di unità linguistica e culturale, è stato interpretato dalla nazione (popolo) tedesco in termini di superiorità che ha travalicato – sempre – nella violenza estrema, oltre ogni ragionevole immaginazione. Il fondamentalismo etnico e culturale tedesco non ha avuto paragoni nella storia, non solo in quella più remota del pur violentissimo impero romano, ma anche in quella più recente di matrice ideologica o religiosa medio orientale. Eppure la Germania è stato uno dei motori principali della storia e della cultura dell’Europa continentale in ogni campo: politico, scientifico, culturale e artistico. Promotrice, con “al traino” le due maggiori nazioni latine Francia e Italia, del progetto di costruzione di una nuova unica nazione europea, ne ha ben presto snaturato lo spirito paritario, pluralistico e multiculturale, cercando di imporre la supremazia tedesca al costo di sopportare gli oneri pesantissimi dell’unificazione del suo Est e quelli,
anche umani, della disintegrazione della Yugoslavia per attrarre nella propria orbita la più prossima etnia croata, separandola da quella serba slava. Oggi nuovamente la Germania si pone al centro di un’Europa frammentata nelle tante diversità etnico linguistiche di antica e nuova appartenenza, ulteriormente indebolite dal solito “battitore libero”: l’Inghilterra, di appartenenza assai più anglosassone (anglo-americana) che non europea. Vi si pone con la consueta prepotenza, intolleranza e presupponenza. Ma è tutto sbagliato, è tutto negativo, oppure dietro c’è un senso della nazione (popolo) che difetta a tutti gli altri Stati geopolitici europei, inclusa la stessa iper-nazionalista Francia? Occorre ammettere di sì. Che questa, quella tedesca, sia la via giusta, occorre subito dire categoricamente di no! Ma per giudicarla bisogna comprenderla e vedere se “là dentro” ci può essere qualcosa di valido da recuperare, ovviamente una volta depurato dal congenito fondamentalismo etnico tedesco. La crisi gravissima che sta attraversando il capitalismo occidentale non è economica, intesa in termini di incapacità quali-quantitativa di produzione di beni e
servizi; la crisi è finanziaria, indotta dalla supremazia che da oltre un decennio la finanza virtuale ha assunto sull’economia reale. Da un lato c’è il mondo della produzione, dei beni, dei servizi reali, consistenti, tangibili, persino abbondante (ovviamente per il primo mondo occidentale) e di qualità; dall’altro c’è un mondo “impalpabile”, volatile, fisicamente non identificabile, né territorializzabile, di una ricchezza finanziaria del tutto astratta e dunque virtuale. Da un lato c’è una fabbrica che produce beni di quantità e qualità; dall’altro c’è una borsa che magicamente moltiplica senza limiti e logica il valore delle azioni che dovrebbero rappresentare il valore reale di quella fabbrica, generando e mettendo in circolazione ricchezza immaginaria e irreale. I due mondi hanno proceduto per numerosi anni separatamente, crescendo con i suoi alti e bassi reali/realistici il primo, letteralmente esplodendo nel moltiplicarsi di sempre più fantasiosi così detti “strumenti finanziari” (prodotti finanziari!?) il secondo. I due mondi oggi si sono “toccati”: la mezza mela dell’economia reale si è trovata a dover sostenere il peso di un mezzo cocomero finanziario. Il coco-
mero non accetta di essere un (mezzo) pallone gonfiato e chiede (pretende) che la mezza mela lo sorregga per intero. Usciamo di metafora e andiamo in Grecia (ma lo stesso discorso, in scala molto più grande, vale per qualsiasi altra nazione europea, Germania inclusa!). Il mondo della finanza (per non fare nomi... ma solo i cognomi... Goldman Sachs) ha gonfiato la modestissima economia reale greca moltiplicandola per mille “prodotti finanziari”, che poi ha sparso per tutto il mondo gonfiando le pance delle banche (anche tedesche, vedi di seguito). La magia si è disvelata e ora appare chiaro che l’economia greca non può soddisfare quelle fantastiche moltiplicazioni del proprio debito. Se così fosse, ovvero se fosse come dovrebbe essere in qualsiasi “normale” situazione di dissesto economico-finanziario, i titoli/prodotti finanziari artificiosamente creati sul debito greco dovrebbero semplicemente essere distrutti, gettati nel cestino dei rifiuti come carta straccia quale effettivamente sono. Cosa accadrebbe allora alle banche che ne detengono enormi quantità nei loro così detti portafogli? Il defaul delle banche e non della Grecia. Se le banche falliscono
16 entra in crisi l’intera economia del Paese al quale appartengono, quel paese dovrebbe allora sobbarcarsi l’onere di salvare le banche finanziandole, come? Con il prelievo fiscale dai propri cittadini. Dunque, riassumendo, la Grecia non paga il debito, le banche tedesche falliscono (o stanno per dichiarare il fallimento), lo Stato tedesco le finanzia, i cittadini tedeschi pagano con i tributi il debito delle banche. Ed ecco i due volti della Cancelliera tedesca: uno “sano”, l’altro squisitamente tedesco, cioè “vio-
Finanza lento”. Il primo: lo Stato Germania non intende far pagare ai propri cittadini i debiti causati dalla follia (speculazione, sciacallaggio, ecc.) del sistema finanziario mondiale e, dunque, non intende finanziarie (coprire) i buchi delle banche private (n.b. le banche sono tutte “private”, ivi incluse quelle così dette nazionali, tipo Banca d’Italia per intenderci, la stessa BCE e la FED degli Usa e, dunque, anche il Fondo Monetario Internazionale, sono “privati”). Il secondo: il debito causato dalle banche (incluse ovviamente,
se non per prime, quelle tedesche) lo deve pagare il popolo greco, razza mediterranea non di lingua ed etnia tedesca. Il punto è allora: è possibile provare a coniugare e rendere civilmente coerenti i due aspetti? E’ possibile resistere alla prepotenza del sistema finanziario rifiutandosi di far pagare ai propri cittadini i debiti contratti da altri e nello stesso tempo conservare con il senso dello Stato anche quello di società degli uomini? E’ escluso che questo tentativo possa provenire da Italia e Grecia i cui governi
sono interamente nelle mani della finanza mondiale, lo stesso vale per la Banca Centrale Europea diretta da un funzionario di Goldman Sachs. Per un cambiamento politico del genere occorre disporre di una base culturale e ideologica statale e sociale “forte”. Sarà il socialista storico Hollande? Le caratteristiche ci sono, ma da solo ce la potrà fare? Chissà, se riuscisse a mediare il suo socialismo con il nazionalismo della Merkel, forse c’è qualche speranza. Scordiamoci comunque i nostri politici da operetta!
La Banca dAffari (propri) La The Goldman Sachs Group, Inc. è una delle più grandi banche d'affari del mondo, che si occupa principalmente di investimenti bancari e azionari, di risparmio gestito e di altri servizi finanziari, prevalentemente con investitori istituzionali (multinazionali e governi), ha filiali nei principali centri finanziari mondiali. Fondata nel 1869 da Marcus Goldman, un tedesco di origini ebraiche immigrato negli Stati Uniti, la società acquisisce il nome Sachs quando nel 1896 a Marcus Goldman si unisce il genero Samuel Sachs. A seguito del grande crack del 1929 la banca rischia quasi il collasso per via della grande esposizione assunta sul finire degli anni '20 sul mercato azionario tramite fondi d'investimento venduti al pubblico dal funzionamento simile allo schema di Ponzi. Sul punto John Kenneth Galbraith scrisse: "l'autunno del 1929 fu forse la prima occasione in cui gli uomini riuscirono a truffare se stessi”. Negli anni ottanta la banca diviene consulente di molti governi intenti ad avviare processi di privatizzazione di aziende statali. Proprio sotto questultimo profilo apparve immediatamente estremamente grave, e fu lungamente quanto inutilmente denunciato, il fenomeno conosciuto come revolving doors (in inglese: "porte girevoli"), per cui molti personaggi passavano da responsabilità pubbliche a ruoli manageriali all'interno della banca d'affari e viceversa, con evidente conflitto di interessi. I casi più noti riguardano il ruolo di diversi dirigenti nel contesto della crisi economica del 20082010, come ad esempio Henry Paulson, Segretario del Tesoro degli Stati Uniti dal 2006 al 2009; Robert Rubin, Segretario al Tesoro degli Stati Uniti dal 1995 al 1999; Robert Zoellick, presidente della Banca Mondiale dal 2007; Joshua Bolten, capo di gabinetto della Casa Bianca 2006-2009; inoltre è documentato che Goldman Sachs nel 2008 ha intensamente finanziato la campagna presidenziale di Obama. Il dibattito sulle "porte girevoli" di Goldman Sachs si è aperto anche in Europa in occasione delle crisi di governo nazionali di fine 2011, in particolare in Grecia e Italia. I personaggi più
noti sono: Mario Draghi, Governatore della Banca d'Italia dal 2006 al 2011 e della Banca centrale europea dal 2011; Gianni Letta, sottosegretario di Stato dei governi Berlusconi; Mario Monti, Commissario europeo dal 1994 al 2004 e Presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica Italiana dal 2011; Lucas Papademos, primo ministro della Grecia dal 2011. A questultimo riguardo va sottolineato (vedi articolo sopra) che lindebitamento della Grecia è stato interamente gestito dalla stessa Goldman Sachs. P.S. …per non essere secondi a nessuno… (come dire “a noi italiani non ci devono insegnare niente”) Per chi ne ha memoria. Verso la fine degli anni 70, quando ancora la grande maggioranza del sistema bancario italiano era in mano pubblica (BNL, Comit, MPS, e in genere il sistema delle Casse di Risparmio), cera una banca privata che si differenziava dalle altre e veniva qualificata come “banca daffari” perché non si limitava a prestare denaro, ma entrava nella valutazione dellaffare del cliente, lo consigliava, lo guidava, lo assisteva in via generale e non solo sul piano della finanza. Era il Banco Ambrosiano di Guido Calvi. La fine di quella “banca daffari”, del suo Presidente, ma anche del suo avversario Michele Sindona, la conosciamo, anzi no! Una parte è stata appesa a un cappio sotto un ponte di Londra, unaltra si è strozzata in un caffè allaresenico, la terza, la più importante, è ancora chiusa nei forzieri dello IOR dellallora Cardinale Marcinkus.
Lavoro
Precari una vita con la data di scadenza
La precarietà lavorativa: tema attualissimo, problema vischioso in cui rimangono intrappolate sempre più persone. La precarietà lavorativa non è più una situazione passeggera ma è diventata una condizione permanente, con la consapevolezza che ormai non ci sono alternative: per entrare nel mondo del lavoro il percorso è lungo e bisogna imparare a convivere con la propria data di scadenza, il giorno in cui il contratto di lavoro finisce e poi chissà. Scadenza che si rinnova per anni, e poi ancora anni, in un percorso che rischia di diventare infinito.
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Lavoro
Una nuova classe sociale: i precari DI
LORETTA OTTAVIANI
E’ da tempo ormai che la precarietà è divenuto il tema centrale dei dibattiti sul mercato del lavoro del nostro paese, ma se ne parla in modo confuso come se si trattasse di un universo omogeneo e vi fosse una linea verticale di separazione tra i precari e gli stabili ma soprattutto come se fosse unicamente il frutto dell’attuale crisi, come se fosse nato con essa. E’ doveroso ricordare che già prima della crisi il capitale aveva saccheggiato il lavoro salariato e i redditi dei ceti medi, senza risolvere il drammatico problema della disoccupazione, diffondendo la precarietà. In Italia, dopo decenni di asservimento del ceto politico alle ragioni dell'impresa c’è stata una deliberata volontà di scaricare sul lavoro i rischi dell'impresa, rendendo il lavoratore flessibilmente subordinato alle sue necessità. In questo scenario il governo Monti ha varato delle misure che rappresenteranno un’ulteriore accelerazione nella guerra di classe del capitale contro il lavoro, con l’effetto di scaricare la crisi economica sulle spalle di giovani e lavoratori. Il precariato è un fenomeno molto complesso e occorre chiedersi quand’è che si diventa precari: certamente non quando si viene assunti con un contratto temporaneo in fase di primo inserimento nel mercato del lavoro. Queste sono, anzi, espe-
rienze utili, specialmente per i giovani non è solo un periodo necessario per l'inserimento lavorativo, Si diventa precari quando le assunzioni temporanee si succedono e la condizione di instabilità diventa uno stato permanente, un ghetto da cui non si riesce più ad uscire, quando diventa una condizione permanente, è la situazione dei precari cronici, quelli che non riescono più nemmeno ad intravedere il miraggio di un'assunzione. Ed è qui che si determina una pericolosa frattura sociale: perché a questo punto il lavoro non è più uno strumento, una forma di integrazione e sicurezza, ma il suo contrario, una fonte di incertezza, di ansia, di impossibilità di programmare la propria vita. Questo fenomeno riguarda tutti i settori, dai dipendenti della pubblica amministrazione, a seguito del blocco della spesa per il personale specialmente negli enti locali, alle decine di migliaia di precari della scuola, della università, dei giornali, dell’editoria, del vario mondo collegato alla disoccupazione intellettuale nei settori della cultura e delle arti, ma riguarda anche e sempre più i lavoratori di aziende private, dove abbondano i contratti atipici usati impropriamente, come per esempio il contratto a progetto, per situazioni in cui il lavoratore non progetta un bel nulla perché è un semplice dipendente che svolge mansioni subordinate, che un qualche superiore gli dice di svolgere. Coinvolge
tanto i giovani che i meno giovani, ognuno con propri aspetti peculiari e differenti perché diversi sono i motivi che stanno all’origine della nascita del fenomeno. Si può parlare di un diffuso precariato “alto”, fatto soprattutto di giovani laureati, che aspirano a collocazioni professionali difficilmente disponibili. Ma accanto a questo universo ce n’è un altro quasi invisibile, il precariato “basso”, che transita per il
lavoro interinale, nel commercio, nell’industria alberghiera e turistica, nella assistenza agli anziani, nelle collaborazioni domestiche e nell’agricoltura. Ma una cosa è certa, tutte queste forme di lavoro precario hanno un comune denominatore: è frutto di semi diversi, radici che affondano nel terreno di riforme ma soprattutto di mancate riforme del mercato del lavoro che lo hanno favorito.
I nuovi vocaboli del lavoro Da una decina di anni si utilizzano nuovi vocaboli per indicare nuove forme di lavoro: flessibilità e precarietà, lavoro flessibile, lavoro precario. In un caso e nell’altro si tratta di vocaboli che si riferiscono a nuove tipologie di contratti di lavoro, gradatamente sviluppatisi per legge a partire da una ventina di anni fa. Tali vocaboli, tuttavia, sostanzialmente distinguono e contrappongono il contratto di lavoro tipico (quello a tempo indeterminato) ai contratti di lavoro atipici (a tempo determinato o anche variabile) introdotti successivamente. Lavoro flessibile e lavoro precario non sono contrattualmente del tutto sovrapponibili tra loro, anche se presentano larghe coincidenze. Flessibilità, (da flettere) mette l’accento sulla opportunità per il lavoratore di mutare lavoro nel corso della vita, di crescere e svilupparsi senza restare ancorato al posto fisso a tempo indeterminato. Precarietà mette l’accento sugli aspetti degenerativi del contratto di lavoro flessibile (intermittenza lavorativa, limitazione di alcuni diritti tradizionali, incertezza previsionale con riflessi sulla pianificazione della vita personale e familiare). Il vocabolo precario deriva etimologicamente da prece (preghiera) e significa ottenuto per preghiera, per grazia dunque e non per diritto.
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Lavoro La genesi del precariato
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er il settore privato il percorso di annientamento del lavoro (e dei lavoratori) ha un preciso inizio: il Patto per il lavoro interconfederale (1) siglato nel luglio ’93 dai sindacati e tramite cui si introduceva il cosiddetto lavoro interinale. Un accordo che sarebbe poi confluito nei fatti nella legge n. 196/1997, più nota come Pacchetto Treu, varata dal primo governo Prodi. La legge dava per la prima volta la possibilità a società private di costituirsi in “imprese fornitrici di prestatori di lavoro temporaneo per il soddisfacimento delle esigenze di imprese utilizzatrici”, sancendo così l’abolizione dei vecchi uffici di collocamento e introducendo una sorta di caporalato legalizzato tramite le esternalizzazioni lavorative. Legge che fu votata anche dai parlamentari di Rifondazione Comunista, con la giustificazione di andare contro le destre (che in effetti votarono contro per preservare il solito teatrino del bipolarismo). La riforma Treu è considerata la prima legge che ha creato precariato nel mondo del lavoro e non a caso è stata partorita da un governo di centrosinistra con il falso intento di assorbire la disoccupazione. Ma il punto di svolta al lavoro precario si è avuto nel 2003 (secondo governo Berlusconi) con l’approvazione della Legge 30, elaborata dal giuslavorista Marco Biagi e firmata dall’allora ministro alle politiche sociali, Roberto Maroni. Questa legge ha reso il mondo del lavoro una giungla selvaggia, fitta di una moltitudine di tipologie contrattuali, l’una più precaria dell’altra e ha ridot-
to drasticamente diritti e tutele del lavoratore. lcun i contratti atipici introdotti o modificati ricordiamo: il contratto di inserimento con cui un’azienda può assumere un lavoratore a due livelli retributivi più bassi rispetto a quello che spetta ad un lavoratore stabile per le stesse mansioni e la cui durata può raggiungere un massimo di 18 mesi; il contratto di lavoro intermittente in cui il lavoratore si mette a disposizione del datore di lavoro per prestazioni
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completamento del progetto contrattuale ma ha operato una profonda modifica nei diritti del lavoratore stesso, abolisce completamente le ferie, la malattia, i permessi , la maternità, persino i versamenti pensionistici non hanno lo stesso valore di un eguale lavoratore a tempo indeterminato; il famigerato apprendistato che nelle sue varie forme non supera la durata di sei anni e il cui compenso è ugualmente inferiore di due livelli se confrontato con un contratto
determinazione di nuove risorse economiche e nuovi investimenti produttivi tendenti a diminuire la disoccupazione né tanto meno a una nuova politica di welfare, in grado di assicurare adeguate coperture a tutti i lavoratori caratterizzati da lavoro discontinuo, precario e che si trovano quindi in una situazione di estremo disagio e di incertezza. Sicché una situazione di lavoro flessibile è divenuta sotto alcuni profili una situazione precaria e ciò soprattutto in un contesto economico nel quale non è facile e rapido il ricollocamento nel mondo del lavoro. a critica che si può fare è quella di una legge incompiuta che ha colpito in maniera massiccia i giovani lavoratori che dal 2003 si affacciano al mondo del lavoro diminuendo la loro sicurezza e stabilità lavorativa e senza un "futuro" certo, il posto di lavoro con i diritti sanciti dallo statuto del lavoratore e dai contratti collettivi. Per invertire la tendenza bisognerebbe abolire definitivamente tutta questa normativa che ha prodotto solo lavoro a termine e finte opportunità occupazionali e attuare una gamma di interventi complessi e diversificati, tenendo conto in particolare delle radicali differenze che esistono sul piano territoriale, tra aree più e meno sviluppate, tra Nord e Sud del Paese. Tutte cose che non possono essere messe in carico a un governo di emergenza e transizione, ma a un progetto strategico di alternativa politica. Se ciò non accadrà, l’Italia continuerà a restare il paese delle chiacchiere e dei precari senza futuro.
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di carattere discontinuo o intermittente e i contributi sono legati al compenso effettivamente corrisposto, anche se questo è inferiore al minimale previsto dalla legge; il contratto a progetto finalizzato alla realizzazione di un servizio specifico e che non può essere utilizzato per ottenere dal collaboratore una prestazione a tempo indeterminato. Sostituì il co.co.co, introdotto dalla pacchetto Treu con il co.co.pro, in pratica però abolì ogni forma di diritto per il lavoratore e distinse completamente i diritti di chi lavorava a tempo indeterminato con chi era co.co.pro, questa tipologia di contratto ha come termine il
stabile; e il lavoro per somministrazione che è l’evoluzione del preesistente lavoro interinale. Accanto a questi, molte altre forme di lavoro accomunate tutte dal loro carattere fortemente precario. 'intento del legislatore partiva dal presupposto secondo cui la flessibilità in ingresso nel mercato del lavoro è il mezzo migliore, in quella congiuntura economica, per agevolare la creazione di nuovi posti di lavoro e inoltre che la rigidità del sistema crea spesso alti tassi di disoccupazione. Alla flessibilità del lavoro di fatto non è seguita una riforma perpendicolare sugli ammortizzatori sociali, dalla
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Giovani e Anziani La guerra dei/tra i poveri La “Banda (Banca) dei Quattro” che ha preso il potere nel nostro Paese sta fomentanto l’odio intergenerazionale: giovani sfigati passivi e abbagliati dal miraggio del noiosissimo posto fisso da una parte e dall’altra anziani sfaticati che pensano solo a smettere di lavorare e godersi la rendita parassitaria della pensione, anche se spesso da fame. La colpa non è della crisi finanziaria che taglia i posti di lavoro e abbatte lo Stato sociale, ma di una intollerabile miriade di privilegi: scuole sempre più scadenti ma gratuite, sanità sempre più scadete ma gratuita, solo 40 anni di lavoro e poi il privilegio dell’ozio infinito, ecc. I giovani non vogliono lavorare e gli anziani gravano e compromettono il loro futuro, è guerra tra poveri. Non è e non deve essere così. Tra giovani e anziani intercorre un rapporto dialettico virtuoso che è, ed è sempre stato, il presupposto dell’evoluzione della società degli uomini. I giovani hanno due caratteristiche (né pregi né difetti, solo caratteristiche): sono naturalmente impreparati a svolgere qualsiasi compito, qualunque esso sia, perché la preparazione richiede tempo e sedimentazione di esperienze da accumulare strato su strato, giorno dopo giorno; sono però naturalmente dotati di elasticità mentale, curiosità e, soprattutto, hanno dalla loro parte il tempo per imparare. Un giovane che pensa di essere preparato non si preoccuperà di imparare e così diverrà un anziano incapace e ignorante. I giovani debbono quindi, prima d’ogni cosa, istruirsi perché ci sarà bisogno di tutta la loro intelligenza, come insegna Gramsci. Gli anziani hanno anch’essi due caratteristiche, possono essere naturalmente stanchi e pensare di avere fatto la loro parte nella vita e dunque di dover passare il così detto testimone; ma sono anche un patrimonio di esperienze e conoscenze, qualunque sia il loro campo, che non deve essere negato o disperso. E’ compito dei giovani provocare l’intelligenza degli anziani per indurli a fare il loro principale dovere naturale: trasmettere il loro sapere e non essere mai stanchi di cercare, non essere mai soddisfatti, come insegna Mao. I giovani che chiedono e ascoltano e gli anziani che rispondono e continuano ad approfondire, sono la forza naturale dello sviluppo dell’uomo sociale. La pensione non è un traguardo ma un passaggio da un ruolo a un’altro, dal costruttore al maestro. Così cresce una società armoniosa, dove non c’è conflitto ma sinergia. Chi vuole spezzare questo legame, chi vuole mettere una genrazione contro l’altra, così come un genere o una razza o una credenza contro l’altra, punta a smembrare la solidarietà sociale, perché la solidarietà è la forza più grande di una società consapevole di se stessa, dei propri diritti, del proprio presente e futuro e non tollera padroni.
Burocrazia
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Politica e Burocrazia
‘‘È lo scriba che impone le tasse nell’Alto e nel Basso Egitto ed è lui che le raccoglie; è lui che fa i conti per tutti i vivi. Tutti gli eserciti dipendono da lui. Ed è lui che conduce i magistrati davanti al faraone e regola tutti. È lui che conosce tutto il paese; ogni affare è sotto il suo controllo.” Alle dirette dipendenze del faraone stava un primo ministro e consigliere, il Visir, che aveva di fatto la responsabilità di tutto l'apparato amministrativo; ma il nucleo fondamentale della burocrazia era formato dagli scribi. Erano presenti negli uffici delle amministrazioni centrali e periferiche, sui campi a compiere misurazioni, a censire il bestiame, o misurare i raccolti, alle frontiere a controllare i traffici e gli stranieri e, dovunque, a riscuotere le imposte. Dalla precisione e dalla competenza del loro lavoro poteva dipendere la sopravvivenza stessa del popolo. Lo scriba aveva l’orgoglio delle proprie mansioni.
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Burocrazia
Politica e Burocrazia DI
VINCENZO LAZZARONI
Il desiderio di scrivere questo articolo mi è venuto quando il Governo, per il tramite del Ministro Fornero,ha iniziato a parlare di licenziamenti anche nel pubblico impiego. Il primo impulso dei più è stato: “ bene, era ora che questi dipendenti pubblici, che hanno lo stipendio assicurato e non fanno niente dalla mattina alla sera, siano soggetti alle stesse regole del settore privato”! Ma, come si sa, questo è il Paese dei luoghi comuni e mai è stato tanto vero quello secondo certe categorie, che “ i dipendenti pubblici non fanno niente e li paghiamo con i soldi nostri”.
Mai sentito dire? A mio avviso, in verità, la questione è assai più complessa e merita una riflessione ben più approfondita di come viene comunemente liquidata. Che ci sia bisogno, in uno Stato, di un’organizzazione che regoli il vivere quotidiano dei propri cittadini, è questione certa, a meno che non si voglia vivere come i primitivi nella giungla. Questa organizzazione è sancita nella Costituzione, là dove è stabilito che lo Stato e le sue articolazioni territoriali ( Istituzioni locali), per il perseguimento dei propri fini, cioè per dettare le regole ed erogare servizi ai cittadini, si avvalgono di Organi e Uffici. Agli Organi, che sono di natura elettiva diretta (Parlamento, Consigli Re-
Burocrazia Con burocrazia si intende l'organizzazione di persone e risorse destinate alla realizzazione di un fine collettivo secondo criteri di razionalità, imparzialità, impersonalità. Il termine, definito in maniera sistematica da Max Weber indica il "potere degli uffici" (dal francese bureau): un potere (o, più correttamente, una forma di esercizio del potere) che si struttura intorno a regole impersonali ed astratte, procedimenti, ruoli definiti una volta per tutti e immodificabili dall'individuo che ricopre temporaneamente una funzione. L'etimologia ibrida del termine, dal francese bureau ("ufficio") connesso al greco krátos ("potere") ne rivela l'origine tarda e la derivazione di chiara matrice francofona. Dal punto di vista storico l'introduzione sistematica di un sistema amministrativo suddiviso in numerosi uffici e basato su procedure in qualche modo unificate risale all'imperatore Claudio nel I secolo d.C. - una sostanziale novità rispetto al tradizionale accentramento del potere politico nelle mani del Senato, conseguenza inevitabile di un progressivo svuotamento dei poteri di quest'ultimo. L'interposizione di un corpus di funzionari, seppure inizialmente legati in modo strettissimo al potere imperiale, come intermediario tra il potere e la società romana rappresentò una vera rivoluzione concettuale. L'articolazione e l'importanza della burocrazia continuarono a crescere ed espandersi in epoca imperiale, di pari passo con il potere ed il peso politico dei burocrati:
gionale , Comunali o Provinciali) o indiretta ( Governo e Giunte ) spetta il compito di fare le scelte, di prendere decisioni, fare progetti e programmi. A loro volta gli Organi, sono organizzati in Uffici, che sono l’insieme delle risorse umane, strumentali e finanziarie, attraverso i quali l’Organo persegue i propri progetti e programmi. Per decenni la dottrina si è interessata di tracciare una distinzione tra Organi e Uffici e di stabilire dove iniziava e finiva l’azione dell’uno e dell’altro, evidenziandosi, nella prassi, uno sconfinamento dell’Organo nei compiti dell’Ufficio e viceversa. Da qui la necessità di una riforma del pubblico impiego che ha inizio negli anni ottanta con la legge Quadro sul pubblico Impiego n. 93 del 1983 per prendere corpo agli inizi degli anni novanta con il decreto legislativo n. 29/93 e suc-
cessivi decreti (più nota come riforma Bassanini, ministro della Funzione Pubblica nel Governo Prtodi). Bassanini, tra le altre importanti cose che in questo contesto sarebbe troppo lungo citare, definisce per legge quel confine stabilendo che il compito dell’organo politico si esaurisce con la definizione di progetti, programmi e obiettivi, mentre quello dell’Ufficio deve limitarsi alla loro attuazione. Limitarsi è un termine assolutamente riduttivo se rapportato all’importanza che ha sempre avuto la componente umana dell’Ufficio, la cosiddetta “Burocrazia”, che ha il compito non solo di attuare gli obiettivi, ma di attuarli nel rispetto delle regole e della legalità. E’ la burocrazia il garante dell’imparzialità e della trasparenza dell’azione della pubblica amministrazione, della tutela dell’interesse
un potere formalmente limitato e subordinato a quello imperiale, ma estremamente frammentato, praticamente vitalizio e continuamente espanso nelle sue prerogative da una ininterrotta proliferazione di leggi e regolamenti. Questo modo di procedere divenne un tratto peculiare dell'impero bizantino e del suo complicatissimo cerimoniale: ancora oggi, infatti, il termine bizantinismo come sinonimo di astrusità, cavillosità, pedanteria, tortuosità è utilizzato quasi esclusivamente in riferimento alla burocrazia ed alle sue procedure. In epoca moderna l'introduzione sistematica di una burocrazia rigidamente organizzata risale all'epoca della costituzione dei primi Stati nazionali, con un ruolo di primo piano ricoperto da Napoleone Bonaparte. Napoleone riuscì a realizzare un apparato burocratico estremamente accentrato, fondato sulla funzione dei prefetti, per nulla pachidermico, anzi snello e ben funzionante; tant'è che dopo la restaurazione alcuni governi tentarono di imitarne il funzionamento. In tempi recenti vari fattori, tra i quali i profondi cambiamenti dell'assetto geopolitico ed una migliore consapevolezza dei cittadini, nata anche dal confronto generalizzato con altre realtà oltre i confini nazionali, hanno posto al centro dell'attenzione il tema di una nuova sensibilità nei rapporti con la burocrazia, anche in Paesi tradizionalmente deficitari sotto questo aspetto e privi di una normalizzazione dello spoil system. Al modello burocratico si sono quindi nel tempo apportate modifiche sia nella pratica che nella teoria,
Burocrazia pubblico, degli interessi legittimi dei cittadini e dei loro diritti soggettivi. Come la magistratura, formata da dipendenti pubblici, perché tali sono i magistrati, è garante del rispetto della legge. Come gli insegnanti di tutte le scuole di ogni ordine e grado, anch’essi dipendenti pubblici, sono garanti della formazione delle nuove generazioni. Ciò posto, siccome il luogo comune è che i dipendenti pubblici o non servono, o sono troppi, o sono dei fannulloni, bisogna trovare lo strumento per tacitare l’ira dei cittadini contro il cattivo funzionamento dellamacchina pubblica colpendo sempre il punto più debole dell’organizzazione e dare il contentino a quell’imprenditoria italiana che ha bisogno di alibi per celare le proprie colpe nei confronti dello Stato. Ma, c’è un ma! Lungi da ma l’idea che nella pubblica amministrazione funziona tutto bene, come
pure che non è vero che ci sono troppi Enti e troppi dipendenti e che la spesa pubblica non potrebbe essere ridotta. Mi sono più volte espresso sulla necessità di abolire le Province, di accorpare i Comuni più piccoli, di eliminare le Prefetture, attribuendo i poteri dei Prefetti ai Presidenti delle Giunte Regionali e via dicendo. Quello che mi sconcerta è appunto questa incapacità dei nostri governanti di affrontare seriamente i problemi dell’efficienza e dell’efficacia della Pubblica Amministrazione, di proporre veri tagli agli sprechi. Troppo complicato? No, è che in tal modo si andrebbero a tagliare i posti della Politica e allora meglio tagliare i posti della Burocrazia; come? Licenziamo! E chi licenziamo? Semplice: quelli in più tra i fannulloni e gli incapaci! E qui si apre un altro capitolo. Dimentica la Fornero, o finge di aver dimenticato, che l’accesso alle carriere
sviluppando forme di amministrazione partecipata, flessibile, contrattata, per progetti (cosiddetto modello teocratico. L'accezione originaria del termine, in epoca moderna e premoderna, indicava un progresso ed una positiva terzietà rispetto alle forme organizzative basate sull'arbitrio e sull'esercizio individuale e dispotico di un potere personale. Rispetto a questi fenomeni, l'ideale burocratico all'epoca degli Stati nazionali poneva il potere in mano alla legge attraverso, ad esempio, la non-proprietà da parte del funzionario dei mezzi di produzione del proprio lavoro; la disciplina garantistica del rapporto di lavoro del funzionario, che non poteva essere licenziato perché sgradito al superiore; la definizione di procedimenti e procedure prestabiliti per tipologie uniformi di atti. L'attuale accezione del termine è principalmente negativa, a causa di quelle che nel corso del Novecento sono state definite da alcuni "conseguenze inattese" del fenomeno burocratico: rigidità, lentezza, incapacità di adattamento, inefficienza, inefficacia, lessico difficile o addirittura incomprensibile (il cosiddetto burocratese), mancanza di stimoli, deresponsabilizzazione, eccessiva pervasività, tendenza a regolamentare ogni minimo aspetto della vita quotidiana. Tali fenomeni dipendono strettamente da elementi intrinseci al modello burocratico, che tende ad espandersi per perpetuare ed aumentare il proprio potere, diluendo al contempo le responsabilità individuali (gerarchicamente) complesso di uffici.
nella pubblica Amministrazione avviene tramite concorso pubblico sulla base di posti disponibili nella pianta organica di ciascun Ente. Primo: dal punto di vista del numero chi ha sempre determinato le piante organiche di un Ente? L’Organo politico. Chi dunque ha fatto sì che un Ente che poteva funzionare, poniamo con 50 dipendenti, ne avesse in organico 60? Cioè dieci in più di quelli necessari? Può un’impresa privata assumere e pagare più dipendenti di quelli che realmente sono necessari alla produzione? No, ma la pubblica sì. Perché? Secondo: dal punto di vista delle capacità e dell’impegno i dipendenti pubblici da chi e come sono stati selezionati per anni? Tramite procedure concorsuali dove per decenni il merito è stato sostituito da tutt’altro. Perché? Terzo: per quanto riguarda, infine, la Dirigenza, cioè il livello più alto di responsabilità della Burocrazia, che secondo la riforma Bassanini è soggetto a valutazione e a revoca dell’incarico qualora non raggiunga gli obiettivi assegnati, chi la nomina? Chi conferisce gli incarichi dirigenziali e in base a quali criteri? Il principio sacrosan-
23 to della distinzione dei ruoli tra la Politica e la Burocrazia è stato stravolto dalla Politica la quale ha selezionato la dirigenza più attraverso il criterio di appartenenza e di fedeltà che attraverso il criterio della competenza e della affidabilità, legando così a sé una dirigenza sottomessa e non sempre all’altezza del compito e delle responsabilità. Uno dei principi cardine su cui doveva reggersi il nostro ordinamento era appunto l’autonomia della Burocrazia dalla Politica, là dove spettava alla Burocrazia garantire il cittadino sulla trasparenza e correttezza dell’azione della P.A. e se ciò era violato doveva risponderne il burocrate e solo lui, dovendo invece la Politica rispondere agli elettori delle scelte dei programmi e dei progetti. Per concludere credo che la Politica porti la grande responsabilità di aver portato questo Paese allo sfascio, spetta alla Politica dimostrare, attraverso scelte coraggiose, di essere capace di attuare una inversione di tendenza a 360 gradi, attuando serie riforme del sistema anziché continuare ad escogitare palliativi che danno il contentino a qualcuno ma non risolvono i problemi.
Spoil system e merit system In politica l'espressione inglese spoils system (letteralmente: sistema del bottino) descrive la pratica con cui le forze politiche al governo distribuiscono a propri affiliati e simpatizzanti cariche istituzionali, la titolarità di uffici pubblici e posizioni di potere, come incentivo a lavorare per il partito o l'organizzazione politica. Sebbene le linee generali di questa pratica si possano ricondurre alla nozione di clientelismo, originariamente descriveva una prassi formalmente riconosciuta, e apertamente applicata, in determinati periodi storici negli Stati Uniti. Allo spoils system si contrappone spesso il merit system (letteralmente: sistema del merito) in base al quale la titolarità degli uffici pubblici viene assegnata a seguito di una valutazione oggettiva della capacità di svolgere le relative funzioni, senza tenere conto dell'affiliazione politica dei candidati. Il metodo tipico attraverso il quale si realizza il merit system è il pubblico concorso.
Nel Sud del mondo Cooperazione allo sviluppo, a sostegno economico diretto in molti paesi del Sud del mondo e collaborazioni con enti locali e organizzazioni internazionali. Dalla sua fondazione a oggi il CISS ha già realizzato, o ha ancora in corso, più di 50 progetti di durata pluriennale (generalmente di tre anni) e oltre 200 azioni di più breve durata (sei mesi/un anno) beneficiando direttamente nel mondo più di 1 milione di persone. I progetti del CISS riguardano vari settori dintervento e generalmente utilizzano un approccio multisettoriale. Lintervento internazionale avviene tramite il sostegno economico diretto, linvio di materiali e mezzi tecnici e la partecipazione ai progetti di personale tecnico qualificato (volontari e cooperanti). Al di là dei diretti finanziamenti a progetti, il CISS ha realizzato collaborazioni e consulenze con diversi Enti locali e con lagenzia delle Nazioni Unite denominata UNOPS, specializzate nella gestione dei progetti di sviluppo umano. Il CISS attualmente sta realizzando interventi di solidarietà e cooperazione internazionale in Albania, Algeria, Bolivia, Bosnia Erzegovina, Egitto, Etiopia, Guatemala, Honduras, Libano, Macedonia, Marocco, Mauritania, Palestina, Repubblica Democratica del Congo e Tunisia Per destinare il 5 per 1000 ai progetti del CISS è sufficiente: - firmare sui modelli di dichiarazione (CUD; 730; UNICO persone fisiche) nel riquadro dedicato al sostegno delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale; - riportare, sotto la propria firma, il Codice Fiscale del CISS: 97143970826
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Continente Cina Il Mondo sta cambiando
(Tratto da una conferenza di Martin Jacques, giornalista dell’Indipendent)
Il mondo sta cambiando a una velocità notevole. Le proiezioni della Goldman Sachs indicano che nel 2025 l’economia cinese sarà quasi della dimensione di quella americana. Dopo la crisi finanziaria occidentale le proiezioni post crisi sono per il 2020. Siamo solo a un decennio di distanza. Durante l’era moderna, non è mai successo che la più grande economia mondiale fosse quella di un Paese in via di sviluppo piuttosto che quella di un Paese già sviluppato. Inoltre, per la prima volta nell’era moderna, il Paese dominante del mondo non sarà un Paese occidentale, e con radici culturali molto, ma molto diverse. C’è una convinzione in Occidente che mentre i Paesi si modernizzano, contemporaneamente si occidentalizzano. Si tratta di un’illusione. La Cina non è come l’Occidente e non diventerà come l’Occidente. Rimarrà, nei suoi aspetti più fondamentali, molto diversa. Il problema che abbiamo oggi in Occidente è quello dell’approccio convenzionale che vede tutto attraverso una mentalità occidentale, attraverso idee occidentali.
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on possiamo farlo. Tre elementi di base per comprendere quello che è la Cina. Il primo è che la Cina non è un vero e proprio Stato-Nazione. Ciò che dà alla Cina il suo senso, quello che dà ai cinesi il senso stesso di essere cinesi, non scaturisce dagli ultimi cent’anni, né tantomeno dal periodo dello Stato-Nazione, com’è accaduto in Occidente, ma dal periodo dello Stato-Civiltà. La Cina, a differenza degli Stati occidentali e della maggior parte degli Stati del mondo, è plasmata dal proprio senso di civiltà, dalla propria esistenza come Stato-Civiltà, piuttosto che come StatoNazione. C’è un’altra cosa da aggiungere: sappiamo che la Cina è grande ed immensa, sia demograficamente che geograficamente, con una popolazione di 1,3 miliardi di persone; quello di cui spesso non siamo consapevoli è che la Cina è estremamente diversa, e molto pluralistica, e per aspetti molto decentralizzata. Non è possibile controllare uno Stato di una tale portata semplicemente da Pechino, anche se noi occidentali spesso la pensiamo così. In secondo luogo i cinesi hanno una concezione di razza molto ma molto diversa dalla maggior parte degli altri Paesi. Degli 1,3 miliardi di cinesi, il 90% di loro crede di appartenere alla stessa razza, gli Han. Questo fatto è completamente diverso dalla maggior parte dei Paesi più popolati del mondo. India, Stati Uniti, Indonesia, Brasile: tutti questi paesi sono multirazziali, i cinesi non si sentono tali. La risposta è nuovamente ricercare nello Stato-Civiltà. Una Storia di almeno duemila anni ha
Futuro portato al processo con cui, nel tempo, questa concezione degli Han è emersa, naturalmente, nutrita da un crescente e potente senso di identità culturale. L’identità degli Han è stata il cemento che ha tenuto insieme questo Paese. Il terzo luogo la relazione tra lo Stato e la Società cinese è molto diversa da quella occidentale. Lo Stato cinese gode di maggiore legittimità ed autorità tra i Cinesi di quello che succede in un qualunque Paese dell’Occidente. Ci sono due motivi. In primo luogo, lo Stato in Cina ha un significato molto speciale come rappresentante, come corpo e guardia della Civiltà Cinese, dello Stato-Civiltà. Questo è il livello a cui arriva in Cina, un ruolo quasi spirituale. La seconda ragione: mentre in Europa il potere dello Stato viene continuamente sfidato – ad esempio, dalla chiesa, da settori dell’aristocrazia, dalla borghesia, e così via – per mille anni il potere dello Stato cinese non è mai stato messo alla prova, non ha mai avuto seri rivali. Il risultato è che i Cinesi hanno una visione diversa dello Stato. Dove noi tendiamo a vederlo come un intruso, uno straniero, certamente un organo i cui poteri vanno limitati, i cinesi vedono lo Stato come una persona stretta, come un membro della famiglia, anzi, come il capo-famiglia, il patriarca della famiglia. Questa è la visione cinese dello Stato, molto ma molto diversa dalla nostra.
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bbiamo tre blocchi-base per cercare di capire quanto è diversa la Cina: lo Stato-Civiltà, la nozione di razza, e la natura dello Stato, con la sua relazione con la Società cinese. Eppure, ancora insistiamo nel voler capire la Cina semplicemente basandoci sull’esperienza occidentale, guardando con occhi da occidentale, utilizzando concezioni occidentali. L’atteggiamento verso la Cina è quello di una mentalità da “piccolo occidentale”. E’ arrogante nel senso che pensiamo di essere migliori, e quindi abbiamo la “misura universale”. Si afferma che il mondo occidentale è il più cosmopolita di tutte le culture. Non lo è. In molti modi, è il più parrocchiale, perché per 200 anni l’Occidente è stato così dominante in tutto il mondo che non è stato realmente necessario capire le altre culture, perché, in fin dei conti, se necessario, poteva ottenere tutto con la forza. Mentre il resto del mondo, che è stato in una posizione molto più debole, rispetto all’Occidente, è stato costretto a capire l’Occidente, a causa della presenza dell’Occidente in
queste società. Di conseguenza sono più cosmopoliti rispetto all’Occidente. bbiamo visto come il G20 sta rapidamente stanno scalzando il G7 o il G8. Ci sono due conseguenze: primo, l’Occidente politico sta rapidamente perdendo la sua influenza sul mondo. La seconda conseguenza è che il mondo, inevitabilmente, ci diventa sempre meno familiare, perché sarà basato su culture ed esperienze che non ci sono familiari, o di cui non siamo pratici. Gli europei sono largamente ignoranti, sono ignari del modo in cui sta cambiando il mondo. L’Europa è sempre meno in contatto con il mondo, ed è una specie di perdita del senso del futuro. L’Europa una volta guidava il futuro; questo non è più vero. Se volete sentire il futuro, se volete assaporare il futuro, provate la Cina. Civiltà e culture che sono state ignorate, senza una voce, che non abbiamo ascoltato, che non erano conosciute, avranno un destino diverso nel rappresentare il mondo. Come Umanisti, dobbiamo dare il benvenuto, sicuramente, a questa trasformazione. Diamo il benvenuto al futuro!
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Futuro
Da Tienanmen al muro di Berlino La vittoria di Pirro dell’Occidente tratto da “Maonmics” di Loretta Napoleoni
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orniamo indietro a quel fatidico anno 1989, segnato da due eventi in apparenza diametralmente opposti: la repressione di piazza Tiananmen e la caduta del Muro di Berlino. Entrambi danno il «la» al processo di globalizzazione e influenzano le future politiche economiche del pianeta. La sinistra occidentale va in frantumi e il neoliberismo si impone come unico modello trionfante. Nell'euforia della vittoria pochi intuiscono che la globalizzazione rappresenta per l'Occidente la fine del primato economico. A vent'anni di distanza è facile considerarla una vittoria di Pirro, poiché le riforme e i riassestamenti epocali prodotti da questi due eventi ridisegnano la mappa geopolitica del pianeta a favore della Cina comunista. Ma vent'anni fa l'interpretazione ufficiale e le aspettative erano ben diverse. Ancora oggi l'Occidente vede nella risposta armata di Pechino in piazza Tiananmen la repressione violenta della democrazia di stampo occidentale e nell'abbattimento del Muro di Berlino il segno del suo trionfo sul mondo comunista. E ritiene conclusa la Guerra fredda con una vittoria netta del sistema democratico, considera fortunati i sovietici che l'hanno abbracciato, e sventurati i cinesi rimasti comunisti. In un certo senso, la Cina finisce così per rimpiazzare nell'immaginario collettivo occidentale il nemico sovietico: un regime dittatoriale dove non si rispettano i diritti umani, un Paese ipocri-
ta che falsa i dati economici e sfrutta biecamente i lavoratori, una nazione ben lontana dal poter aspirare al ruolo di prima super potenza del mondo globalizzato. Il tutto, naturalmente, a causa dell'assenza di democrazia, senza la quale non c'è né benessere né progresso. Peccato che questo ragionamento poggi su alcune inesattezze, o vere e
mi è sfociata nella guerra civile. Chi in quel lontano 1989 sarebbe uscito «sconfitto» dalla Guerra fredda oggi si candida alla guida dell'economia globalizzata. Un paradosso? No. Piuttosto, un errore di lettura che nasce dalla miopia politica e dall'arroganza di un Occidente abituato da sempre a vedere in ogni manifestazione di dissenso prove-
munista. Ciò che desideravano era un netto miglioramento delle condizioni economiche che, vista la ricchezza dell'Occidente democratico, confondevano con un cambio di paradigma politico. L'idea che bastasse abbracciare la democrazia per diventare ricchi era molto diffusa. «La gente non sogna le elezioni politiche ma la libertà economica» ripeteva spesso nel 1981 il governatore della banca nazionale d'Ungheria quando lavoravo per lui. «Sulla bilancia dei desideri comunisti, la proprietà privata pesa più del diritto di voto.» E in nome di queste conquiste il popolo era disposto a tutto. Nei Paesi socialisti non mancavano tanto le urne quanto la molla del profitto, quella stessa che Marx definisce il fulcro dell'intero sistema capitalista e che come tutti sanno funziona bene nei regimi democratici. Ma nessuno Stato comunista ha capito la forza e l'importanza di questi bisogni, tranne la Cina. l Muro di Berlino non è crollato perché la forma di governo prediletta dall'Occidente ha vinto la Guerra fredda, ma perché il cosiddetto socialismo reale non ha compreso la teoria marxista, questa una delle verità sconcertanti emerse negli ultimi vent'anni. L'errore dei sovietici è stato rimuovere il profitto dall'equazione economica, pensando che bastasse quell'amputazione per dar vita alla dittatura del proletariato — l'unica parte dell'analisi marxista che non poggia sull'osservazione dei fatti ma su una serie d'ipotesi. Si tratta di un errore d'interpretazione paradossale perché la migliore analisi del profitto capitalista è proprio quella marxista.
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proprie leggende. In termini di obiettivi economici raggiunti negli ultimi vent'anni, la Cina ha gestito il processo di globalizzazione meglio delle democrazie occidentali. a quel lontano 1989 le condizioni di vita medie dei cinesi sono migliorate radicalmente, mentre nell'Est europeo e nei territori della vecchia Unione Sovietica, dove la democrazia di stampo occidentale ha attecchito, povertà e analfabetismo sono tornati alla ribalta. Per non parlare poi dell'Iraq e dell'Afghanistan dove l'esportazione della democrazia con le ar-
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niente dal mondo comunista, un sistema percepito come antitetico a sé, il desiderio di replicare il proprio modello di società. Un errore che, vent'anni dopo, bisogna correggere. Tiananmen come a Berlino, al grido di «democrazia» la gente non domandava un regime identico al nostro. Piuttosto chiedeva il nostro stesso benessere. Nel 1989 cinesi e abitanti dell'Est europeo sapevano ben poco della democrazia occidentale, di cui possedevano solo una visione romanzata, sicuramente falsata dalla propaganda occidentale e da quella co-
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28 Chiunque lo abbia studiato a fondo sa bene che Marx non si sarebbe mai sognato di asportare il fulcro del sistema produttivo, al contrario il suo obiettivo era far sì che la classe operaia se ne impossessasse e ne godesse in proporzione al proprio contributo, in funzione del plusvalore. La teoria marxista è fondamentalmente una dottrina economica, non una forma di governo. [...] privato del senso delle proporzioni dall'antagonismo della Guerra fredda, il marxismo in Urss è diventato qualcos'altro: un regime totalitario. E questo a sua volta, con un movimento circolare, è assurto a sinonimo di comunismo. Il suo fallimento ha poi ridotto quella fetta di mondo dove era applicato a un deserto economico rimuovendo, assieme al profitto, la motivazione alla crescita. Anche se a vent'anni di distanza continuiamo a festeggiare la vittoria dell'Ovest libero sull'Est totalitario, la verità è che l'avventura economica sovietica si è frantumata da sola. Come vedremo, la retorica ideologica di Reagan e della signora Thatcher, come pure i cardini del neoliberismo e l'impalcatura democratica che l'Occidente ci ha costruito intorno, non c'entrano proprio nulla con la caduta del Muro di Berlino. È stata la propaganda occidentale a costruire quella che ancora oggi è l'opinione prevalente: l'equazione che lega la disintegrazione dell'Urss al trionfo della democrazia. Ancora oggi, questa certezza è fonte inestinguibile di sicurezza politica per tutti noi, ci porta a credere che la «nostra democrazia» sia superiore al marxismo inteso come sinonimo del totalitarismo
Futuro sovietico, ma anche e soprattutto al modello del comunismo cinese. Mentre la Cina è proprio la riprova che non è Marx lo sconfitto dalla storia. A differenza dei russi, i cinesi sono riusciti a creare una forma di dittatura del proletariato che funziona, che si evolve. E che garantisce progresso e benessere meglio di altri sistemi, come confermano dati economici sconcertanti quali l'aumento del reddito reale medio pro capite cinese e la crescita del Pil al 9 per cento nel 2009, mentre quella delle democrazie occidentali era ancora sotto zero. A questi dati di fatto viene spesso opposta un'obiezione ideologica: la Cina è una dittatura corrotta in cui non si rispettano i diritti umani. Una critica vecchia, che si riferisce a una nazione diversa da quella attuale e quindi solo in parte fondata. Anche sul piano dei diritti umani la Cina ha fatto passi da gigante, muovendosi lungo una traiettoria di rispetto dell'individuo. Siamo ancora lontani dal traguardo, ma nessuno può negare che i cinesi siano in pista. L'Occidente invece sembra muoversi in direzione opposta su un percorso fatto d'ipocrisia. Siamo gli incorruttibili paladini della giustizia internazionale, anche se esportiamo le nostre idee politiche con i B52 e quotidianamente facciamo affari con il crimine organizzato. Come definire l'intervento armato in Iraq sulla base d'informazioni false che ha portato a centinaia di mi-
gliaia di morti? O l'uso della tortura, le extraordinary renditions sancite dall'amministrazione Bush e praticate anche dagli inglesi, la prigione di Guantánamo? Si tratta di istituzioni in netto contrasto con la Dichiarazione dei diritti umani e la Convenzione di Ginevra. Tristemente gli esempi di come anche l'Occidente infranga i diritti umani sono tanti e all'ordine del giorno. E lo stesso vale per la corruzione e la frode che dilagano ovunque, da Madoff a Wall Street, alla Cia in Afghanistan che paga il fratello di Karzai per tenere rapporti con i signori della guerra, a Blackstone, la società di mercenari statunitense implicata in una vicenda di corruzione in Iraq. Come vecchi che si aggrappano ai ricordi mentre la capacità di gestire il presente si sfilaccia, stiamo andando indietro, perdendo per strada valori che ci siamo conquistati attraverso secoli di lotte sociali. La Cina invece va avanti e migliora giorno dopo giorno. Ma secondo i nostri parametri non è democratica. Ecco il nocciolo del problema. Ebbene, questa valutazione della «mancanza di libertà» poli-
tica della popolazione è frutto ancora una volta di un equivoco concettuale. Per i cinesi che nel 1989 occupavano piazza Tiananmen, davanti alla gigantografia di Mao, democrazia era sinonimo di uguaglianza economica, e cioè pari opportunità di crescita, qualcosa che negli ultimi vent'anni una grossa fetta della popolazione cinese ha ottenuto. A differenza dei compagni sovietici, per loro «democrazia» non era una parola nuova, né un concetto politico «d'importazione» come le elezioni. Mao l'aveva pronunciata centinaia di migliaia di volte nei suoi discorsi, quando spiegava che il governo esiste per promuovere l'interesse del popolo, contrapponendosi volutamente a quello degli «altri» che invece il popolo l'opprimono — per esempio gli stranieri, presenti in Cina in qualità di colonizzatori fino alla rivoluzione del 1949. Ora, l'idea che lo Stato «serva il popolo» è ancora oggi profondamente radicata nella società cinese. Possiamo dire lo stesso delle nostre democrazie, scosse quasi quotidianamente da scandali politici?
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Qualcuno aspetta TE per continuare a vivere
Chiudi gli occhi, immagina per un attimo che tutti i tuoi sogni possano concretizzarsi, aprili. Ora chiudi di nuovo gli occhi e pensa a chi sta lottando per vivere e non ha tempo di sognare, aprili un'altra volta. Se non sei donatore periodico di sangue, è giunto il momento di diventarlo, ma non con la testa … con il cuore.
di LUCA TONTI
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l numero 17 non sempre è sinonimo di sfortuna o di cattivi auspici. Per l’AVIS ha significato l'inizio di un’avventura che da più di 80 anni ha permesso di salvare milioni di vite. Le origini dell’Associazione risalgono al 1926, quando il Dottor Vittorio Formentano lancia sul Corriere della Sera, a Milano, un appello per costituire un gruppo di volontari per la donazione del sangue. All’invito risposero 17 persone, che si riunirono nel 1927 dando vita alla prima Associazione Italiana di Volontari del Sangue. Nell’occasione furono tracciati gli obiettivi della futura Associa-
zione: soddisfare la crescente necessità di sangue dei diversi gruppi sanguigni, avere donatori pronti e controllati e lottare per eliminare la compravendita di sangue umano. L’Associazione Italiana di Volontari del Sangue si costituì ufficialmente a Milano nel 1929. Dopo il difficile periodo del fascismo, nel 1950 AVIS viene riconosciuta dallo Stato con Legge n. 49 del 20 Febbraio 1950, mentre con la successiva Legge n. 592 del 14 luglio 1967 viene regolamentata la raccolta, la conservazione e la distribuzione di sangue umano sul territorio nazionale. Dagli anni ’70 la diffusione dell’Associazione si fa sempre più capillare, grazie alla nascita delle diverse sedi regionali, provinciali e comunali legate alla Sede Nazionale da un unico Statuto.
30 Il 04 maggio 1990 vide la luce la Legge n. 107 “Disciplina per le attività trasfusionali relative al sangue umano ed ai suoi componenti e per la produzione di plasmo derivati”. La Legge sancisce che: a) il sangue è un medicinale totalmente gratuito e quindi non può essere in alcun modo venduto; b) il sangue umano e i suoi derivati vanno distribuiti gratuitamente e le spese di raccolta, di tipizzazione e di trasfusione del sangue sono a carico della Sanità Pubblica; c) per una donazione di sangue la quantità prelevata è pari a 450 ml più o meno il 10%. Per la donazione di plasma si può arrivare a 600 ml; d) Il lavoratore dipendente ha diritto alla giornata di riposo dopo la donazione di sangue o emocomponenti (questo principio è affermato anche dal Decreto Ministeriale del 15 gennaio 1991); per la giornata di
Vita e Società riposo i contributi previdenziali vanno versati secondo la Legge n. 155 del 23 aprile 1981, art. 8. L’iter legislativo si conclude con la Legge del 21 ottobre 2005, n. 219 " Nuova disciplina delle attività trasfusionali e della produzione nazionale degli emoderivati " ed i successivi Decreti Attuativi. L’AVIS (Associazione Volontari Italiani del Sangue) è un ente privato con personalità giuridica e finalità pubblica ed aderisce al regime ONLUS (D. Lgs 460/97). Partecipa, in accordo con il Servizio Sanitario Nazionale, alla raccolta del sangue, anche con proprie strutture e personale specializzato, in favore della collettività. L’Associazione è disciplinata da uno Statuto: gli articoli 1, 2, 3 affermano che l’AVIS è apartitica, aconfessionale, senza discriminazione di sesso, razza, lingua, nazionalità, religione, senza fini di lucro, che
persegue un fine di interesse pubblico: garantire una adeguata disponibilità di sangue e dei suoi emocomponenti a tutti i pazienti che ne hanno neces-
sità, attraverso la promozione del dono, la chiamata dei donatori e la raccolta di sangue. Fonda la sua attività sui principi della democrazia, della libera
LA FIAMMA SEMPRE VIVA DELL’UMANA BONTA’ (Articolo del 12/9/1954 del primo Presidente AVIS Comunale di Foligno Vincenzo Innocenti) “… I volontari donatori di sangue stanno a simboleggiare la fiamma sempre viva dell’umana bontà. Il loro spirito volontaristico, generoso, spontaneo, è tanto più nobile in quanto non si manifesta con clamorose esteriorità, ma si esprime nel silenzio e nell’ombra, in forma anonima e sublime. Nel freddo e nudo biancore della camera operatoria il donatore di sangue dà al fratello che langue un palpito della sua vita, senza alcun compenso materiale. Ché esso umilierebbe l’umano valore dell’offerta … In una comunione ideale i volontari del sangue si sentono affratellati: nessuna differenziazione fra loro, se non quella dei diversi gruppi sanguigni. Al volontario non vengono chiesti né il sesso, né la professione, né il credo politico o religioso. Barriere e convenzionalismi creati dagli uomini cadono così miracolosamente nella lotta contro il male e la morte. Chi entra a far parte della Famiglia Avisina, è cosciente dell’unico fine altamente umanitario di essa, scevra di promesse e di allettamenti, al di fuori della bellezza e della sanità della sua azione e del significato del dono, che dono di vita e d’amore. A Foligno, come altrove, una schiera di cittadini ha sentito il fascino di questa missione e ha dato la sua adesione all’Avis. Il 25 ottobre 1953, data
della sua costituzione ufficiale, i donatori erano diciassette, il I gennaio u.s. erano 20; oggi sono quarantuno volte il loro contributo di sangue. E nella loro opera di dedizione disinteressata essi si sono sentiti migliori e intimamente soddisfatti dell’offerta. Affiancati ad una creatura morente per trasfonderle la propria vitalità, essi si sentono e sono attori di una scena che meriterebbe ancor più il riconoscimento e il consenso di tutti i cittadini e l’aiuto concreto dei più favoriti della sorte. Ma soprattutto insegnano ad avere ancora fiducia nella bontà degli uomini …”
Vita e Società bera partecipazione sociale e sul volontariato, quale elemento centrale e insostituibile di solidarietà umana. Vi aderiscono tutti coloro che hanno intenzione di donare volontariamente e anonimamente il proprio sangue, ma anche chi, non potendo fare donazioni per inidoneità, desideri collaborare attivamente e gratuitamente a tutte le attività di promozione, proselitismo ed organizzazione. Oggi è la più grande organizzazione italiana di volontariato del sangue ed è presente su tutto il territorio nazionale con una struttura ben articolata, suddivisa in 3.180 Sedi Comunali, 111 Sedi Provinciali, 22 Sedi Regionali, tutte coordinate da AVIS Nazionale per il tramite del Consiglio Nazionale. Sono inoltre attivi 773 Gruppi AVIS, organizzati soprattutto nelle aziende, sia pubbliche che private, come ulteriore te-
stimonianza della presenza associativa nel tessuto sociale. In occasione dell’ottantesimo anniversario dell’AVIS, il Presidente della Repubblica Italiana Giorgio Napolitano ha detto: ”La donazione di sangue è un atto che testimonia ed esprime i più alti valori di civiltà e di comune solidarietà. Le istituzio-
CHI PUO’ DONARE In teoria chiunque può diventare donatore, purché in buona salute, pesi almeno 50 chili e abbia un età compresa tra 18 anni e meno di 65 anni, con deroghe a giudizio del medico. Presentandosi presso una qualsiasi sede AVIS, si può chiedere l’iscrizione all’Associazione. Una volta iscritto, il possibile donatore verrà sottoposto a un colloquio preliminare (anamnesi) e a una visita medica completa e gratuita per escludere la presenza di eventuali malattie delle quali ha sofferto in passato o soffre ancora e che potrebbero quindi rivelarsi fonte di contagio (es. epatite o HIV) e per verificare che non ci siano impedimenti temporanei alla donazione (come pressione troppo bassa o scarsa presenza di ferro). Le analisi di laboratorio confermeranno o meno l’idoneità all’attività di donazione. Ci sono infine altre eventualità che possono portare all’esclusione: un tatuaggio recente o un piercing, particolari interventi ai denti, viaggi effettuati da poco in zone considerate a rischio per malaria o altre ragioni sanitarie, ecc... Le cautele sono tante, ma la prudenza non è mai troppa, a vantaggio del donatore (che si sottopone ogni volta, prima della donazione, a una sorta di parziale check-up) e di chi riceverà il sangue. La frequenza annua della donazione non deve essere superiore a 4 volte l’anno per gli uomini e 2 volte l’anno per le donne.
ni, l’associazionismo, la scuola e l’intera società sono chiamati ad un comune impegno affinché nella coscienza civile possa crescere il senso del valore di questi atti di generosa e attiva partecipazione. La costante attività della vostra Associazione costituisce un decisivo punto di riferimento per lo sviluppo e la diffusione di una pratica straordinariamente preziosa per i suoi aspetti strettamente medici e per il suo significato sociale”. A questo si aggiunge che ogni anno, dal 2004, il 14 giugno si celebra in tutto il mondo il “World Blood Donor Day” (Giornata Mondiale del Donatore), una sorta di “festa di compleanno” dei donatori del sangue. La data scelta dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) e delle Organizzazioni di donatori volontari ed esperti della trasfusione di tutto il mondo, ricorda Karl Lansteiner, scopritore dei gruppi sanguinei ed del fattore Rh (o fattore Rhesus, riferito alla presenza di un antigene, in questo caso in una proteina, sulla superficie dei globuli rossi) per cui fu insignito del Nobel nel 1930.
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L’obiettivo è sensibilizzare e stimolare le persone a diventare donatori di sangue: perché troppo spesso le buone azioni restano tali, per mancanza di tempo, ma anche per timore (un ago è pur sempre un ago) o per carenza di informazioni. Ma la giornata è in prossimità dell’estate forse anche perché nei mesi di luglio e agosto in genere si registra un calo delle donazioni, a causa di diverse ragioni, a cominciare dal fatto che molti sono in vacanza e quindi in estate c’è ancora più bisogno di sangue. La Commissione Europea, in occasione dell’ultima Giornata Mondiale del Donatore del 14 giugno scorso tenutasi a Seul (Corea del Sud), ha incoraggiato tutti i cittadini europei a unirsi alle file dei donatori volontari. “Oggi più di 500 milioni di cittadini dell’UE dipendono dal sangue donato da meno di 15 milioni di donatori – ricorda Bruxelles – e ciò non basta per soddisfare il fabbisogno di tutti gli europei che dipendono dal sangue per sopravvivere in caso di incidente o di malattia cronica che richieda trasfusioni regolari”.
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L’AVIS Comunale di Foligno 50 anni di storia “per Mario”
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orreva l’anno 1953. In una domenica di ottobre, il 25 per la precisione, il Consiglio di Amministrazione degli Istituti Riuniti di Ricovero – Ospedale Civile S. Giovanni Battista – “allo scopo di sopperire alle impellenti necessità da tempo sentite presso la città di Foligno e dintorni – stabiliva – di addivenire all’istituzione, in seno all’amministrato Ospedale Civile, di una sezione donatori di sangue aderente all’AVIS”. Ospitata in un piccolo locale di 10 metri quadrati all’interno della struttura ospedaliera cittadina, nasceva l’”AVIS Comunale di Foligno”, grazie all'impegno di 17 soci fondatori. Il Presidente provvisorio era allora il Dott. Edgardo Venerini; successivamente il Direttivo elesse il Primo Presidente, il Rag. Vincenzo Innocenti. L’AVIS nacque per contrastare la speculazione dei donatori ”di professione” e il conseguente mercato del sangue umano che consentiva ai soli ricchi il diritto alla vita. Le prime donazioni avvenivano braccio a braccio con l’ammalato, su due lettini adiacenti.Dieci anni dopo l’AVIS Comunale di Foligno conta già 355 soci effettivi ed in continua crescita al punto da sentire l’esigenza, nel 1974, di richiedere al Ministero della Sanità un “Centro raccolta AVIS” fisso. Il 9 Agosto viene approvata la Convenzione con l’Ospedale di Foligno per il Centro Trasfusionale e di raccolta; lo stesso giorno il Ministero della Sanità concede un cospicuo contributo di lire 23.500.00 per acquistare le attrezzature necessarie. E’ pressoché im-
possibile far capire oggi ad un giovane lo spirito che animava i donatori di allora così come si può solo immaginare l’immensa gratitudine che i familiari dell’ammalato trasfuso o del marito della puerpera dissanguata dall’emorragia avevano a quell’epoca nei confronti del donatore. Da quel piccolo nucleo di donatori, oggi l’AVIS Comunale di Foligno conta 2.437
soci effettivi per un totale di 4.153 donazioni (dato aggiornato a dicembre 2011). Ha saputo diventare una grande realtà, forte di un richiamo al valore che annulla ogni distinguo. Una realtà sana e robusta che ora si interroga sul suo futuro e sulle possibilità di percorrere nuove strade. li ideali di allora non sono cambiati e anche se la società cambia continuamente caricandosi di
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molteplici problemi, l’AVIS Comunale di Foligno ha saputo adattarsi ai cambiamenti crescendo sempre con la necessaria determinazione, compiendo passi da gigante nella organizzazione di una struttura efficiente e sostenendo la rete del volontariato con corpose campagne promozionali. E questa forte motivazione accompagna l’Associazione Comunale all’appuntamento del 60° anniversario dalla sua fondazione, atteso per gennaio 2013: un buon punto di partenza, e non di arrivo, su cui costruire il futuro. Cicerone, grande storico latino, ripeteva che “Historia Magistra vitae”. Permettetemi di dire, con un pizzico di presunzione, che questa frase è ancora più vera se ci si riferisce a una grande Associazione di volontariato come l’AVIS, perché dietro il suo logo, ci sono i volti, le storie e gli ideali di milioni di donatori che si sono sacrificati, in modo anonimo e gratuito, per la cura e la salvezza di centinaia di migliaia di malati. Se guardiamo all’indietro si scorge il sorriso sul volto di quel piccolo nucleo di donatori che la fondarono e che ora vedono in questo traguardo mai immaginato un grande obiettivo raggiunto.
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utti noi abbiamo il dovere morale di non sottrarci alla donazione: si possono chiedere informazioni al SIT dell’Ospedale di Foligno (0742.3397481) o alla segreteria dell’AVIS Comunale di Foligno (http://www.avisfoligno.it / oppure allo 0742.350630 dalle 08.00 alle 12.00 e dalle 17.00 alle 20.00) per trasformare una buona intenzione in un gesto prezioso. Con la Tua preziosa donazione, potrai contribuire a riportare la vita là dove questa è in pericolo. Mi piace chiudere riportando uno spot pubblicitario che AVIS Nazionale mandò qualche decennio fa in tv, oggetto di una più larga campagna pubblicitaria sul tema della donazione del sangue. In una giornata qualunque, all’’uscita dell’area donazioni di un ospedale qualunque, un signore cinquantenne incontra un ragazzo di appena diciotto anni. Il signore, vedendo il ragazzo impaurito e confuso, chiede: ”E’ stata la prima volta?”. E il ragazzo: ”Si, sono venuto per il mio amico Mario. Ieri ha avuto un incidente stradale e tutta la classe si è mobilitata per aiutarlo perché ha una grande necessità di sangue”. Il signore, mentre si allacciava il polsino della camicia del braccio sul quale aveva donato, rispose: ”Anch’io l’ho fatto per Mario”. Il ragazzo, dopo un attimo di stupore, domandò: “Lo conosce anche Lei?”. E il signore, accennando un sorriso, rispose: ”No”. Ecco lo spirito che lega tutti i donatori AVIS. Occorre attivarsi prontamente, senza ulteriori ripensamenti a donare il proprio sangue, perché “nel tempo che decidi di donare, qualcuno ha il tempo di morire”.
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Intorno alla riforma psichiatrica che cosa ha detto realmente la legge 180?
Ancora una volta si accende il dibattito sulla riforma della legge 180. E’ di questi giorni la riattivazione della polemica ruotante intorno al progetto di riforma della stessa proposto dall’onorevole Ciccioli. Lo stesso Ciccioli, facendosi portavoce dei tanti familiari scontenti del modo in cui è stata attuata la riforma psichiatrica, si sente in dovere di precisare, a mezzo comunicati stampa, le buone intenzioni della sua legge. Buone intenzioni dichiarate, dietro le quali però, i difensori ad oltranza della staticità della Legge 180, vedono oscure manovre per la restaurazione/riapertura dei manicomi. Vogliamo aprire un dibattito a partire dalla legge 180 nel suo testo originario chieden-
do un intervento al rappresentante della FE.NA.S.CO.P. la federazione che rappresenta le Comunità psico-socio-terapeutiche in psichiatria, che sono i luoghi di cura alternativi al ricovero ospedaliero previsti da Basaglia. Il presidente Fenascop Centro Italia Giampiero Di Leo, ci riepiloga alcuni argomenti in difesa della Legge 180, ma muove anche alcune critiche sul modo in cui la Legge che ha fatto nascere le Comunità Terapeutiche per la cura della malattia mentale, è stata applicata. In questo numero il testo originario della legge 180. Nel prossimo riporteremo alcuni articoli su che cosa sono e cosa fanno le comunità terapeutiche in psichiatria.
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Basaglia, abbattere i muri e le frontiere delle istituzioni
Franca Ongaro e Franco Basaglia
“…superare i manicomi significa mostrare il graduale mutare, sotto i nostri occhi, della persona che, in un clima di libertà, fiducia e rispetto, può emergere esprimendo bisogni fino allora negati e ricevendo ascolto e risposte. Significa assumersi il carico della presenza di bisogni e diritti spesso antagonistici riconoscendo però ciò che ha potuto produrre il desiderio di cancellare il problema (della malattia mentale) espellendo il polo più debole del conflitto…” Franca Ongaro Basaglia
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GIAMPIERO DI LEO
uello che sorprende, nel dibattito sulla legge 180, è che un settore così importante, quale quello della psichiatria residenziale e semiresidenziale extraospedaliera, non sia stato ancora coinvolto e preso nella giusta considerazione dai mass media e non sia stato ancora correttamente inquadrato, nella sua importanza, dagli addetti ai lavori. La psichiatria residenziale extraospedaliera (Comunità terapeutico riabilitative, Comunità socioriabilitative, Case supportate, Centri diurni) si è affermata in Italia proprio grazie alla legge 180 che però, al contrario di quanto si dice sulle tv e si legge sui giornali, non è la legge che ha avviato la riforma psichiatrica, ma “soltanto” una legge di regolamentazione degli “Accertamenti e Trattamenti Sanitari volontari e Obbligatori” (è questo il titolo della legge 13 maggio 1978 n.180) e cioè degli A.S.O. e T.S.O. in medicina; una legge non esclusiva per la psichiatria e per di più non di Basaglia ma presentata in parlamento dall'On. Orsini. La
riforma psichiatrica vera e propria prescinde quindi, e in gran parte, dalla legge 180. Era già partita prima, principalmente grazie alle illuminate intuizioni e sperimentazioni di Franco e Franca Ongaro Basaglia degli anni 60-70 e verrà perfezionata dopo, nelle varie leggi quadro di riforma sanitaria (833 del 78, “Progetti obiettivo per la Salute mentale” 94/96, 96/98 e 98/2000 ); l'ultima delle quali, la cosiddetta “legge Bindi” (la 229 del 1999) suggella il quadro della riforma nonché delle procedure per le autorizzazioni e gli accreditamenti dei Presidi e dei Servizi sanitari ospedalieri ed extraospedalieri. Ulteriori passi nella direzione della riforma psichiatrica sono stati fatti attraverso gli accordi Stato Regioni (2001) che hanno portato alla definizione dei LEA della cui revisione e completamento si è concluso l’iter con il provvedimento 20 marzo 2008 su “Linee di indirizzo nazionali sulla salute mentale”). Allora perché ancora tutta questa attenzione alla legge 180 e non agli accordi Stato-Regioni che hanno definito i nuovi LEA? Che cosa ci trovano di tanto interessante i duellanti di questa contesa infinita
(180 sì e 180 no) negli 11 striminziti articoli della Legge? A scorrere la 180 sembra non esserci materia per un dibattito così accanito eppure… eppure il valore della Legge è molto grande per il riflesso che la stessa ha avuto, che sembra essere “invisibile agli occhi” di quelli che continuano invece a confrontarsi, quasi esclusivamente, sulle conseguenze derivate dalla chiusura dei manicomi in mancanza di adeguate risposte da parte delle Regioni. ltre alla novità imposta dal suo assunto principale che, in alcuni casi, in medicina, si può limitare la libertà delle persone “costringendole a curarsi” in luoghi di cura sostanzialmente “chiusi” - impostazione questa peraltro non condivisa da Basaglia e passata contro la sua volontà – il valore della legge è quello cioè di aver messo all’interno del diritto costituzionale alla cura (art. 32 della Costituzione) la malattia mentale e, inoltre, per attuare questo diritto alla cura della malattia mentale, di avere sancito una netta separazione fra i luoghi di ricovero (gli ospedali e le cliniche psichiatriche) e i luoghi di cura ( le strutture alternative al ricovero
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ospedaliero, cioè le strutture comunitarie extra ospedaliere). Ebbene, il cambiamento determinato da questa distinzione fra luoghi di ricovero e luoghi di cura che, secondo noi, è la più importante rivoluzione che si può fare derivare dalla legge 180, non viene sottolineato abbastanza, mentre si continua ad enfatizzare e drammatizzare, in parte anche equivocando, il valore della legge in ordine alla chiusura dei manicomi. L’art. 7 ultimo comma della Legge 180, recita testualmente “Le regioni… programmano e coordinano l’organizzazione dei presidi e dei servizi psichiatrici e di igiene mentale con le altre strutture sanitarie operanti sul territorio e attuano il graduale superamento degli ospedali psichiatrici…E’ in ogni caso vietato costruire nuovi ospedali psichiatrici”. La legge 180 quindi non chiudeva i manicomi, ma ne bloccava gli ingressi (e non di tutti visto il permanere in vita degli O.P.G) e disponeva il loro graduale superamento attraverso percorsi differenziati di ricovero e di cura. Contemporaneamente passava anche la psichiatria, come tutta la Sanità, alla competenza esclusiva delle Regioni.
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uesti percorsi tracciati dalla Legge si possono individuare fra le righe leggendo attentamente gli articoli sulla regolamentazione degli A.S.O. e T.S.O. e collegando questi articoli alle sperimentazioni già avviate da anni da Basaglia e i suoi collaboratori a partire da Trieste e Gorizia e a seguire in alcune altre regioni. La Legge infatti contestualmente prevedeva: - l’istituzione dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura presso gli ospedali generali; - l'individuazione e la regolamentazione dei luoghi di ricovero (i tempi per la formulazione dei progetti terapeutici, le garanzie costituzionali in ordine ai ricoveri coatti, il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura) quali gli SPDC, le cliniche e case di cura psichiatriche per gli interventi sulle acuzie; - la creazione, estesa e artico-
scarsi finanziamenti, hanno fatto nascere e crescere la cultura e il numero delle strutture alternative ai ricoveri ospedalieri, cioè le Comunità Terapeutiche in psichiatria. Operatori del sociale in possesso di nuove qualifiche professionali più orientate nei processi riabilitativi hanno consentito l’avvio di nuovi protocolli terapeutici incentrati sulla libertà della cura, sulla relazione terapeutica, sulla interdisciplinarietà dell’approccio clini-
35 co (medico, psicologico sociale e riabilitativo) e di riflesso hanno permesso il reale “superamento” anche culturale degli ospedali psichiatrici. Nella prefazione a “Ideologia e pratica della psichiatria sociale” di Maxwell Jones, Franca e Franco Basaglia rivendicavano alle nuove pratiche anglosassoni le idee di cambiamento, ma avvertivano profeticamente alcuni pericoli connessi al cambiamento culturale che si era avviato:
lata, di strutture “alternative” ai ricoveri ospedalieri quali i Servizi e i Presidi psichiatrici extra ospedalieri, per la prevenzione, cura e riabilitazione della malattia mentale; - il superamento della centralità della psichiatria di ricovero, delle sue diagnosi psichiatriche e delle sue prescrizioni principalmente farmacologiche, per favorire invece la prevenzione, cura e riabilitazione extraospedaliera centrata su progetti di cura interdisciplinari. nostro parere, quello che ha effettivamente permesso il superamento dei manicomi, oltre alla crescita dei Servizi per la Salute Mentale sul territorio, è stato il coraggio di lavorare, fuori dalle strutture ospedaliere protette. Il coraggio di tanti piccoli imprenditori e associazioni no profit che, con pochi strumenti normativi e
“Per la cultura pragmatista inglese può risultare relativamente facile accettare un nuovo orientamento psichiatrico che implichi l’abbattimento delle frontiere della malattia e delle sue istituzioni con la conseguente compromissione dell’esterno nella sua gestione. Ma in Italia una simile proposta incontra sul terreno pratico notevoli ostacoli, anche se le resistenze e i rifiuti vengono mascherati sotto affermazioni di principio: ciò che implica l’accettazione di questo nuovo orientamento è, infatti, la messa in discussione del medico e del suo ruolo onnipotente di unico depositario e garante della salute del malato, per arrivare a considerare la salute come un bene collettivo nella cui gestione ciascun membro della società deve essere accolto”
Legge 13 maggio 1978, n. 180 (estratto) “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori” A rt. 1 - Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori. G li accertamenti e i trattamenti sanitari sono volontari. N ei casi di cui alla presente legge e in quelli espressamente previsti da leggi dello Stato possono essere disposti dall'autorità sanitaria accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura. G li accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori a carico dello Stato e di enti o istituzioni pubbliche sono attuati dai presidi sanitari pubblici territoriali e, ove necessiti la degenza, nelle strutture ospedaliere pubbliche o convenzionate. N el corso del trattamento sanitario obbligatorio chi vi è sottoposto ha diritto di comunicare con chi ritenga opportuno. G li accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori di cui ai precedenti commi devono essere accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato. G li accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori sono disposti con provvedimento del sindaco, nella sua qualità di autorità sanitaria locale, su proposta motivata di un medico. Art. 2 - Accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori per malattia mentale. Le misure di cui al secondo comma del precedente articolo possono essere disposte nei confronti delle persone affette da malattie mentali. N ei casi di cui al precedente comma la proposta di trattamento sanitario obbligatorio può prevedere che le cure vengano prestate in condizioni di degenza ospedaliera solo se esistano alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengano accettati dall'infermo e se non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extra ospedaliere. I l provvedimento che dispone il trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera deve essere preceduto dalla convalida della proposta di cui all'ultimo comma dell'articolo 1 da parte di un medico della struttura sanitaria pubblica e deve essere motivato in relazione a quanto previsto nel precedente comma. Art. 3 - Procedimento relativo agli accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori in condizioni di degenza ospedaliera per malattia mentale.
I l provvedimento di cui all'articolo 2 con il quale il sindaco dispone il trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera, corredato dalla proposta medica motivata di cui all'ultimo comma dell'articolo 1 e dalla convalida di cui all'ultimo comma dell'articolo 2, deve essere notificato, entro 48 ore dal ricovero, tramite messo comunale, al giudice tutelare nella cui circoscrizione rientra il comune. ( omissis) Art. 4 - Revoca e modifica del provvedimento di trattamento sanitario obbligatorio. C hiunque può rivolgere al sindaco richiesta di revoca o di modifica del provvedimento con il quale è stato disposto o prolungato il trattamento sanitario obbligatorio. S ulla richiesta di revoca o di modifica il sindaco decide entro dieci giorni. I provvedimenti di revoca o di modifica sono adottati con lo stesso procedimento del provvedimento revocato o modificato. Art. 5 - Tutela giurisdizionale. C hi è sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio, e chiunque vi abbia interesse, può proporre al tribunale competente per territorio ricorso contro il provvedimento convalidato dal giudice tutelare. E ntro il termine di trenta giorni, decorrente dalla scadenza del termine di cui al secondo comma dell'articolo 3, il sindaco può proporre analogo ricorso avverso la mancata convalida del provvedimento che dispone il trattamento sanitario obbligatorio. (omissis) Art. 6 - M odalità relative agli accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori in condizioni di degenza ospedaliera per malattia mentale. G li interventi di prevenzione, cura e riabilitazione relativi alle malattie mentali sono attuati di norma dai servizi e presidi psichiatrici extra ospedalieri. (omissis) Art. 7 - Trasferimento alle regioni delle funzioni in materia di assistenza ospedaliera psichiatrica. A decorrere dall'entrata in vigore della presente legge le funzioni amministrative concernenti la assistenza psichiatrica in condizioni di degenza ospedaliera, già esercitate dalle province, sono trasferite, per i territori di loro competenza, alle regioni ordinarie e a statuto speciale. (omissis) Art. 8 - Infermi già ricoverati negli ospedali psichiatrici. Le norme di cui alla presente legge si applicano anche agli infermi ricoverati negli ospedali psichiatrici al momento dell'entrata in vigore della legge stessa. (omissis)
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l superamento dei Manicomi, che di fatto si è attuato gradualmente a partire dal 1964 e che è andato a compimento nel corso degli anni ottanta novanta, è stato principalmente un evento etico, con risvolti sociali importanti; questo superamento, peraltro realizzato a macchia di leopardo nelle varie regioni, non ha risolto però e non risolve di per sè il problema della cura dei pazienti giovani e meno giovani mai ricoverati negli stessi; né sembra rispondere ai bisogni dei familiari; e ancor meno sembra essere percepito favorevolmente da tutta l’opinione pubblica, che sembrano invece chiedere a gran voce un numero più elevato di strutture di ricovero. Proprio per rispondere ai bisogni determinati dalla chiusura degli ingressi negli OO.PP., per presiedere alla cura in regime di residenzialità, la Legge aveva previsto strutture alternative al ricovero ospedaliero. Recita l’ art. 6 primo comma della 180, “Gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione relativi alle malattie mentali sono attuati di norma da servizi e presidi psichiatrici extraospedalieri.” Nonostante questo però, nonostante che le strutture comunitarie in psichiatria abbiano accolto, nelle prima fase, quasi tutte le dimissioni dagli OO.PP. e costituiscano attualmente, come fase intermedia della cura, la continuazione naturale dei ricoveri in acuzie ( nelle cliniche psichiatriche ed SPDC), di loro si parla pochissimo, e se se ne parla e se a volte vengono prese in considerazione (vedi programma-indagine “PROGRES), se ne tratta in modo non preciso, mettendo nello stesso calderone missions diverse (molto diverse sono le strutture terapeutiche-ria-
Salute e Società bilitative da quella sociosanitarie e queste da quelle socio assistenziali) magari per sancire tout court la inadeguatezza dei percorsi terapeutici e riabilitativi delle strutture comunitarie, senza distinguerle fra loro in base ai loro diversi obiettivi che in gran parte dei casi non si misurano attraverso la durata dell’intervento residenziale, ma sull’efficacia delle risposte ai bisogni dei pazienti ( crisi acute, prevenzione cura e ria-
in discussione i DSM e le strutture alternative ai ricoveri ospedalieri nati proprio a partire dalla legge 180 (*). Noi riteniamo che non ci sia bisogno di abrogare la 180, o quello che della stessa resta nelle varie leggi di riforma, ma ci sia la necessità di completare la Riforma Psichiatrica in cui la stessa è inserita e della quale rappresenta, oramai, solo una piccola parte. Occorre ripartire dai nuovi Lea che già regolamentano il
bilitazione, assistenza sociale, sostegno alla cronicità e alla vecchiaia). Se non si tiene conto delle diverse specializzazioni delle strutture residenziali, si gonfiano di fatto i numeri della residenzialità psichiatrica con l’inclusione nella stessa di centinaia di strutture socio- assistenziali che nulla hanno a che fare con la salute mentale. questo punto occorre chiedersi a chi gioverebbe l’abrogazione (comunque teorica) della legge sugli “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”. Con la sua abrogazione si ritornerebbe, per le situazioni di crisi, alle misure di pubblica sicurezza delle autorità di polizia e con la restrizione dei sofferenti psichici, non in luoghi di cura ma in luoghi di reclusione. Si arresterebbe il processo di superamento dei manicomi, anche per quelli giudiziari. Si rimetterebbero
settore e dalle “ Linee di indirizzo nazionali per la salute mentale” appena approvate e facenti parte del recentissimo accordo Stato Regioni già citato (provvedimento del 20 marzo 2008) e che esplicita le problematicità alle quali le Regioni devono dare risposte adeguate: - la nuova e vecchia cronicità - l’orario di apertura dei DSM (sulle 24 ore) e la loro titolarietà nella formulazione dei progetti terapeutici multidisciplinari ( psichiatrici, psicologici e riabilitativi) nonché la loro competenza e responsabilità nella gestione delle acuzie pericolose anche al di fuori dei luoghi delegati alla cura - la obbligatorietà, per i Servizi di salute mentale, ad attivare al domicilio degli assistiti gli Accertamenti sanitari obbligatori ( ASO) e tutti i trattamenti che non necessitino di ricoveri e di residen-
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zialità extraospedaliera - la modalità di approccio terapeutico e l’individuazione, distinguendoli fra di loro, di luoghi extraospedalieri, di cura e di assistenza, anche per gli adolescenti, i non consenzienti / non collaborativi, i cosiddetti marginali e/o giudiziari, gli etnici, i portatori di forte disagio sociale - la modalità e la durata “utile” del Trattamento sanitario obbligatorio ( TSO ) e il suo necessario (ed obbligatorio) collegamento con i luoghi di prosecuzione della cura - il “dopo”, assistito e/o protetto, qualora il trattamento terapeutico non consenta comunque una restituzione integrale al sociale ( Case assistite e supportate, rientri in famiglia monitorati e sostenuti da equipes dei S.S.M., amministratori di sostegno, riserve di posti per lavori protetti, fondi adeguati per la prevenzione, cura e reinserimento sociale). a risposta a questi passaggi problematici tranquillizzerebbe molto di più l’opinione pubblica che non la riapertura di strutture di contenzione; aiuterebbe realmente le famiglie di un sofferente psichico che aspirano per lui principalmente alla cura e solo difensivamente e per ignoranza richiedono il ricovero protetto negli ospedali. Alle aspettative di cura, anche nelle situazioni più difficili, per l’intero arco delle 24 ore, per 365 giorni all’anno, e per tutto il tempo che necessita, i Servizi per la Salute Mentale devono dare risposta. E questo va fatto con atti di indirizzo uniformi su tutto il territorio nazionale e con nuove norme che siano in grado di completare la riforma psichiatrica anche correggendo gli errori contenuti nelle numerosissime regolamentazioni regionali in atto.
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“La musica rappresenta una sorta di quarta dimensione che scorre lungo il corso dell'esistenza”
Intervista sulla musica oggi in Italia a un artista e didatta umbro, Carlo Palleschi. Un raffinato musicista, direttore d’orchestra. Nato a Terni con una carriera internazionale. Docente al Conservatorio Morlacchi di Perugia ha diretto all’Arena di Verona, Sferisterio di Macerata, Maggio Musicale Fiorentino, Carlo Felice di Genova ma anche a Seul , Tel Aviv, Tokyo e… Spoleto, Foligno, Perugia, Terni, Todi, Città di Castello. Un direttore d’orchestra “Glocal”
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ANTONIO BANDINI
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ominciamo questa intervista in modo provocatorio e a tutto campo: a cosa servono tutti questi Conservatori in Italia e Istituti Parificati quando non nascono nuove orchestre, anzi se ne chiudono e lo Stato taglia i fondi alle piccole istituzioni musicali che da sempre sono il trampolino di lancio per i giovani concertisti? Sono stati parificati i Conservatori alle Università, ma non ci sono i Licei Musicali per gli allievi. Non Le sembra demenziale? Dove e come si preparano gli studenti musicalmente per accedere ai Conservatori? La musica è pressoché bandita dalla scuola primaria e secondaria. Cosa ne pensa di una proposta lanciata a Verona qualche mese fa da un allievo di Conservatorio che stigmatizzando la mancanza di musica nelle scuole inferiori ha proposta al consesso dei Direttori di Conservatorio di chiudere tutti i Conservatori, lasciandone uno per ogni regione e, senza licenziarli, distribuire i docenti in esubero nelle scuole primarie e secondarie? Mi sembra una proposta sensata e pressoché a costo zero. ersonalmente considero molto positivamente la proliferazione di istituzioni scolastiche di qualsiasi tipo, ordine e grado. L'essere umano deve coltivare e migliorare la propria specie investendo sulla preparazione e sull'arricchimento scientifico e culturale in senso lato delle generazioni future. Non dimentichiamo che è sempre l'oligarchia legata al potere e appoggiata dalla religione di turno ad avere tutto l'interesse a mantenere le masse il più possibile nell'ignoranza per poter esercitare meglio il proprio sfruttamento a danno dei più de-
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Musica boli. Ciò premesso, potremmo estendere le considerazioni esposte nella sua domanda alle altre scuole professionali o agli istituti universitari: quanti ragionieri occorrono alla nostra società? quanti medici? ed avvocati, ingegneri, giornalisti, architetti etc.? Quanti di quelli che studiano lettere diverranno scrittori o poeti o autori teatrali? La risposta è: una minima parte; e lo stesso vale per i giovani che studiano giurisprudenza: quanti saranno i laureati in tale materia a esercitare effettivamente la professione forense?pochissimi! e tutti gli altri, che fine faranno? probabilmente saranno costretti ad accettare un impiego per il quale la propria preparazione professionale gioca un ruolo del tutto marginale se non addirittura superfluo. La stessa cosa e in modo più drammatico dal punto di vista delle percentuali accade nel mondo della formazione musicale. Per porre rimedio a questo esubero di figure professionali destinate alla frustrazione futura forse si potrebbe usare lo stesso sistema adottato dalle facoltà di medicina, ovvero limitare le iscrizioni ponendo il numero chiuso ( sia nei conservatori che nelle altre facoltà). Però al momento attuale bisogna tenere ben presenti due considerazioni: a) che i Conservatori sono l'unica istituzione a livello formativo che consente di effettuare in modo approfondito lo studio della musica; b) che la proliferazione di tali istituzioni, pur producendo una enorme quantità di futuri disoccupati ha avuto come “effetto collaterale" positivo il fatto che essendo cresciuto enormemente il numero di coloro che hanno intrapreso uno studio professionale della musica,di conseguenza è cresciuto anche il numero dei casi di eccellenze rispetto ai decenni precedenti. A tal
Carlo Palleschi ha debuttato come direttore a Spoleto con “Un Ballo in Maschera”. Successivamente si è esibito in alcune fra le più importanti sale da concerto a livello internazionale come la Carnegie Hall di New York, la Philharmonie di Berlino, la Sala Grande del conservatorio Tchaikovskij di Mosca, la Philharmonie di Monaco, la Salle Erasme di Strasburgo, la Alte Oper di Francoforte Ha diretto alcuni fra i maggiori solisti come Igor Oistrak, Paul Badura-Skoda, Alicia de Larrocha, Joaquin Achucarro, Hansjorg Shellenberger, Ute Lemper. Fra i cantanti lirici con cui ha collaborato spiccano i nomi di Fiorenza Cossotto, Raina Kabaiwanska, Leo Nucci, Deborah Voight, Renato Bruson, Ruggero Raimondi, Katia Ricciarelli e moltissimi altri. Il suo repertorio operistico include oltre 40 opere, la maggioranza delle quali dirette in molti diversi allestimenti realizzati con importanti registi come Franco Zeffirelli, Zhang Yi-mou, Beni Montresor. Ha diretto “Turandot” di Puccini al “World Cup Stadium” di Seoul in Corea con la regia di Zhang Yi-mou in coproduzione con il Teatro Comunale di Firenze, l'Opera di Stato di Pechino e la "Korea Arena Opera Festival". Dal 2007 al 2012 è stato invitato a far parte delle giurie del Concorso per giovani direttori d’orchestra dell'unione europea indetto dalla Fondazione “Franco Capuana” e del Concorso per cantanti lirici promosso dal Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto. Recentemente ha diretto Carmina Burana di Carl Orff presso il Teatro Greco di Taormina, Il Requiem di Mozart presso la Cattedrale di Perugia, il concerto finale del Concorso Internazionale per cantanti lirici indetto dall’ Opera di Palm Beach ( Florida ), Tosca nella prima edizione del Festival operistico di Locarno (Svizzera), Rigoletto per la Gold Coast Company di Miami e Butterfly a Spoleto.
riguardo va ricordato che negli anni '80 per costituire le sezioni degli archi nelle proprie orchestre molti Enti Lirici erano costretti a operare" deportazioni di massa" di violinisti e violoncellisti dai paesi dell'Est Europa, mentre oggi il livello dei nostri giovani diplomati ci consente di reperire eccellenti figure professionali “nostrane". Le conclusioni a cui si giunge data questa prima domanda implicano una risposta alle altre domande : auspicabile un aumento delle scuole primarie e secondarie a indirizzo musicale o comunque l'aumento delle ore dedicate allo studio diretto e approfondito della musica tramite la pratica di uno o più strumenti (oltre che del canto) e la presa di coscienza del repertorio cameristico, sinfonico e lirico sin dalle primissime fasce scolastiche; allo stesso tempo bisognerebbe avere dei Conservatori o meglio delle facoltà universitarie ad indirizzo musicale a numero chiuso dove vengano coltivati i giovani che dimostrino di
possedere un talento di particolare rilievo. Ne consegue che anche la classe dei docenti deve possedere un livello professionale e qualità didattiche adeguate. Questo è forse l'aspetto più delicato, anche dal punto di vista umano, perché va a toccare le capacità e quindi la dignità prfessionale oltre che la consistenza numerica del corpo dei docenti che attualmente opera all'interno dei Conservatori. Con quale criterio ridurre drasticamente il numero degli Istituti e come selezionare chi dovrà essere il titolare di una determinata cattedra? Come si fa a dire a un docente cinquantenne che non è più all'altezza del proprio compito educativo per cui viene mandato ad insegnare nella scuola primaria ? probabilmente sarebbe necessario un lasso di tempo piuttosto consistente che permetta di "smaltire" le vecchie generazioni di insegnanti e contemporaneamente selezionare accuratamente quelle nuove secondo criteri strettamente meritocratici.
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ra parliamo d’opera. L’opera è sempre più internazionale, è un brand come la “pizza margherita”, ormai commestibile e gustosa in molte parti del mondo, e l’Italia può non essere più considerata l’unica patria del melodramma. Lo è anche New York, Zurigo, Berlino, Vienna. Cosa ne pensa Lei? 'opera è uno spettacolo teatrale di particolare potenza espressiva grazie alla presenza costante e determinante del linguaggio musicale che ha il potere di amplificare le emozioni del testo letterario e della situazione drammatica. L'occidente è riuscito a imporre il proprio linguaggio musicale praticamente in quasi tutto il mondo per cui oggi la nostra musica, che viene studiata e praticata molto anche in Asia, è considerata un " linguaggio universale". Noi abbiamo avuto la fortuna prima di tutto di inventare questo singolare genere di teatro dove per convenzione si accetta che i personaggi recitino cantando invece che parlando (camerata de' Bardi, Firenze XVII sec.) per cui abbiamo per così dire una sorta di primato culturale in questo campo; inoltre i nostri grandi autori dei secoli successivi hanno prodotto una serie di capolavori che va a costituire la parte più cospicua, più amata e più rappresentata (ovviamente in lingua italiana) dell'intero repertorio mondiale. Per questo anche se in altre capitali straniere si producono spettacoli melodrammatici di ottimo livello lo stile italiano nella concezione e nella realizzazione dell'opera lirica resta unico, inconfondibile e insuperabile! ome catturare il pubblico di giovani e come avvicinarlo all’opera? me è capitato di innamorarmi della musica lirica quando, adolescente, ho trovato a casa alcuni dischi
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operistici che ho cominciato ad ascoltare e riascoltare seguendo il testo sul libretto fino al punto di poter ricantare l'intera l'opera a memoria, come avviene normalmente nei giovani che ascoltano canzoni o brani di musica di genere diverso.Con l'opera questo processo può risultare più difficoltoso perché mentre una canzone o un album di brani di musica "leggera" hanno una durata piuttosto limitata, un'opera lirica dura mediamente due ore e se si ascolta tutta di seguito l'esperienza potrebbe paradossalmente risultare pesante se non addirittura deleteria! E’ vero che l'opera nasce per essere fruita a teatro nella sua interezza, ma è anche vero che ciò che costituisce l'essenza più intima della creazione artistica del compositore, aldilà dell'allestimento, risiede essenzialmente nella musica che ha il potere di determinare l'intensità espressiva di una data situazione drammatica o la condizione emotiva di un determinato personaggio. Se si è "innamorati" dell'Aida si ama la musica di cui l'opera è costituita. Quindi per far avvicinare le giovani generazioni a questo genere di spettacolo che ad un primo impatto, soprattutto se non supportato da adeguata preparazione può facilmente risultare noioso se non addirittura insopportabile,bisognerebbe moltiplicare le
esperienze e le opportunità di ascolto, guidato o meno, anche "in piccole dosi" per poi passare all'esperienza finale della recita teatrale. ome vede il futuro dell’opera lirica in Italia con tutti questi problemi sia dal punto di vista dell’educazione musicale sia dal punto di vista dei tagli alla cultura? urtroppo il grande repertorio lirico, quello amato dai melomani, tranne casi rarissimi si ferma a Giacomo Puccini con la sua ultima opera (Turandot) rappresentata per la prima volta 84 anni fa! Mentre negli anni cinquanta o sessanta un popolare attore comico come Totò produceva effetti esilaranti nel pubblico citando frasi tratte dalle più popolari opere liriche ("bada Santuzzo! schiavo non sono di questa vana tua gelosia"- Cavalleria rusticana) oggi nessuno degli appartenenti alle nuove generazioni (e neanche a quella dei cinquantenni) sarebbe in grado di capire la battuta perché bisogna ammettere che lo stesso " grande repertorio " non è più così popolare. Il fenomeno melodramma va sempre più ristilizzandosi come una forma artistica legata al passato e nella produzione contemporanea viene progressivamente sostituito dal “Musical", forma di teatro musicale più leggera e intellettualmente meno impegnativa. Ciò nondimeno i capolavori concepi-
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ti dai nostri grandi compositori del passato sono parte integrante e fondante del nostro patrimonio culturale per cui vanno "preservati" e questa grande tradizione artistica con tutti i suoi valori espressivi, estetici e morali deve essere trasmessa ai cittadini del futuro incrementando la loro educazione affinché ne possano comprendere appieno i significati. Purtroppo non mi sembra che oggi, in generale, si dia molta importanza alla cultura, tutti presi come siamo da una vana quanto sterile e superficiale rincorsa al benessere economico, per la ricerca del quale rischiamo di smarrire la nostra più profonda identità. ra per terminare, una domanda banale soprattutto posta ad un musicista. Che cos’è la musica? iù che una grande passione, per me la musica rappresenta una sorta di quarta dimensione che scorre lungo il corso dell'esistenza e che ha il potere di stimolare molto sensibilmente la sfera emotiva consentendomi di toccare i recessi più profondi della coscienza.E' come se esistesse un mondo diverso da quello reale, un mondo parallelo, il mondo dei suoni con una sua realtà e con luoghi meravigliosi legati a ciò che possiamo definire forse spiritualità, dove tempo e spazio sono sospesi e dove vorresti viaggiare in eterno.
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Le Pubblicazioni di Piazza del Grano La critica marxista deve porsi questa parola d’ordine: studiare, e deve respingere ogni produzione di scarto e ogni arbitraria elucubrazione del proprio ambiente. (Lev Trotsky) La cultura è organizzazione, disciplina del proprio io interiore, é conquista di coscienza superiore. Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. (Gramsci) Basta un profumo di rosa smarrito in un carcere perché nel cuore del carcerato urlino tutte le ingiustizie del mondo. (Ho Chi Minh)
Veniamo da molto lontano e andiamo molto lontano! Il nostro obiettivo è la creazione di una società di liberi e di eguali. (Togliatti) Alcuni piagnucolano, altri bestemmiano ma pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere sarebbe successo ciò che è successo? Perciò odio gli indifferenti. (Gramsci) Siate tutti degli amministratori. Accanto a voi si troveranno i capitalisti stranieri, si arricchiranno accanto a voi. Si arricchiscano pure; ma voi imparerete da loro ad amministrare. (Lenin)
Finalmente è stato dato alla stampa ed alla distribuzione, il sesto volume di poesie presentato in gemellaggio dal Centro Culturale Città Nuova di Spoleto e da Piazza del Grano di Foligno. Si tratta di un viaggio attraverso le sensazioni, le visioni, le immagini, le situazioni raccontate da giovani poeti umbri. Essi esprimono, alcuni per la prima volta, le loro inquietudini, le loro emozioni e si mettono a nudo, raccontandosi. Il volume è stato presentato a Spoleto presso la Biblioteca di Palazzo Mauri, venerdì 18 maggio 2012 alle 17:30 con la lettura di alcune delle poesie. Per Piazza del Grano è intervenuta Sara Mirti, che ha ribadito l'importanza della collaborazione. La pubblicazione del volume di poesie è l'esperimento primo di una serie di inediti, facenti parte di un progetto editoriale più ampio volto alla valorizzazione degli scritti, che per le motivazioni più svariate rimangono nei cassetti intere vite, senza vederne mai la luce. La maggior parte dei poeti intervenuti si è prestata alla lettura della propria opera e in alcuni casi mostrando notevole disinvoltura e personalità. Le letture sono state intervallate dalla chitarra classica della musicista-poetessa Chiara Mancuso. Le immagini presenti nel libro e sulla copertina sono frutto dell'immaginazione creativa della pittrice Michelangela Martinisi. Contestualmente alla presentazione del volume sono state esposte alcune sue opere. Nel mese di giugno si farà una seconda presentazione del volume nella città di Foligno. E' prevista la partecipazione di tutti i poeti.
I poeti che hanno contribuito alla compilazione del libro sono: Davide Calandri Alessandro Carlini Cristian Crispini Sandro Costanzi Giovanni D'Andrea Eleonora Di Girolamo Paola Gubbini Iacopo Feliciani Greta Guerrini Gionada Battisti Chiara Mancuso Federica Mosca Ilaria Nizi Pablos Parigi Anna Petrova Vineshka Marika Ranucci Lorenzo Ricci Michelangela Martinisi. Grazie a tutti i poeti per le forti emozioni donatemi. Pablos Parigi
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Letteratura e Rivoluzione la Cultura è figlia dell’Economia
La cultura si nutre della linfa dell’economia ed è necessaria un’abbondanza materiale perché la cultura cresca, diventi complessa e raffinata. La nostra borghesia sottomise la letteratura rapidamente quando cominciò ad arricchire in modo sicuro e vigoroso. Il proletariato potrà preparare la creazione di una cultura e letteratura nuove, cioè socialiste, non con metodi di laboratorio sulla base della nostra attuale miseria, povertà e ignoranza, bensì con vasti metodi economico-sociali e civilizzatori. L’arte ha bisogno di agiatezza, l’arte ha bisogno di abbondanza. E’ necessario che gli altiforni siano più caldi, che le ruote girino più in fretta, che le spole si muovano più veloci, che le scuole funzionino meglio. (Lev Trotsky)
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“Che cosè la letteratura? La letteratura è prima di tutto il principio di ogni istruzione. Se poniamo la parola d’ordine “abbasso l’analfabetismo” la prima cosa che dobbiamo avere è la letteratura, cioè la narrativa e la poesia” (Conferenza sulla politica del Partito nella Letteratura, Mosca 9 maggio 1924) DI
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@BARBERINI.IT
ev Trotzky è stato uno dei più grandi e importanti personaggi della storia del pensiero e del movimento comunista mondiale, destinato ad avere ancora forti influenze nella futura costruzione della società socialista. Di lui la semplificazione storicistica ci ha tramandato molto riduttivamente l’immagine dell’antagonista di Stalin, cacciato dall’Unione Sovietica e assassinato da un sicario inviato dal suo avversario, spesso dimenticando (o volutamente sottacendo) che Trotzky era un comunista radicale e inconciliante forse assai più di “Acciaio” Stalin. Considerato sotto questo profilo strettamente storicistico anche Trotzky, come il suo avversario Stalin, sembrerebbe appartenere a un passato definitivamente concluso e superato e, dunque, poter costituire un mero argomento di ricerca scientifica. Se questo può
essere vero per Stalin, che è stato a uno stesso tempo figlio e padre del suo tempo storico, lo stesso non può affatto dirsi per Trotzky il cui pensiero, cioè le cui elaborazioni scientifiche mantengono attualità e ancor più rappresentano un importante strumento per l’interpretazione e la costruzione della società futura. La letteratura in senso ampio, e quindi l’arte e la scienza, sono stati i campi di indagine ed elaborazione nel quale si è espresso il maggiore contributo dell’elaborazione scientifica di Trotzky. Il titolo di questo inserto “Letteratura e Rivoluzione” ripete quello del saggio pubblicato da Trotzky nel 1923, che fu la base della creazione della nuova cultura dello Stato sovietico socialista. erché la letteratura assume un’importanza strategica, quasi prima dell’industria, prima della alimentazione, prima della salute, seconda solo alla politica (polis, governo della città/Stato) è spiegato nelle
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Rivoluzione e Ribellione Per capire perché e in che misura vi è uno stretto rapporto dialettico tra rivoluzione e letteratura, occorre prima definire il concetto di “rivoluzione”. Il primo passaggio consiste nel distinguerlo dal diverso termine e concetto di “rivolta” o “ribellione”. Il chiarimento è importante perché molto spesso negli ultimi anni i media, i politici e soprattutto i così detti “tuttologi”, cioè gli opinionisti delle “opinioni loro”, fanno una grande confusione tra i due termini e concetti e, come sempre, a volta per ignoranza, molto più spesso per consapevole falsa informazione, utile a far passare nel sentimento comune letture politico-ideologiche di eventi assolutamente difformi dalla realtà. Rivoluzione descrive un cambiamento radicale da uno stato di cose presente e consolidato verso un nuovo stato di cose da costruire per il futuro. Rivoluzione è un concetto che si applica ai più diversi eventi dinnovazione e cambiamento, non solo quindi politici, ma anche economici, sociali e scientifici quando
Cekov e Gorkij poche righe dell’estratto della Conferenza del PCUS del 1924 in testa a questa pagina: letteratura è istruzione, l’istruzione è il presupposto per la creazione-realizzazione di qualsiasi aspetto della nuova società degli uguali. Chi sa leggere e scrivere avrà coscienza del “proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti, i
propri doveri” scriveva Gramsci. onquistato il potere politico dalla avanguardia della classe operaia guidata dal proprio partito comunista, si pone immediatamente la necessità di diffonderne i valori, i presupposti e i progetti all’intera classe dei lavoratori per condividere la costruzione
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un metodo, un modello o un presupposto scientifico viene superato, abbandonato o sconfessato nel suo fondamento di verità stabilita, per dare spazio a un altro metodo, modello o scoperta scientifica. Anche se spesso i due percorsi si affiancano occorre ancora precisare che rivoluzione è diversa da “evoluzione”. La prima, come detto, consiste in un cambiamento radicale, la seconda in uno sviluppo dello stato presente i cui principi restano tuttavia confermati. Quando una rivoluzione assume i caratteri politici, cioè investe i principi fondanti storicamente consolidati di una realtà sociale, essa si estende e coinvolge necessariamente tutti gli innumerevoli aspetti di quella realtà: dalla politica intesa come forma di organizzazione, partecipazione e gestione della cosa pubblica, alla cultura che esprimeva quella realtà superata, alleconomica, alla scienza, allarte. Rivoluzione dunque identifica un complessivo mutamento dello stato di cose esistente. Altra cosa è la rivolta o ribellione che identifica invece un moto di reazione a
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Letteratura della nuova società. Non stupisce quindi che già all’inizio degli anni 20, quando era ancora in corso la guerra civile scatenata dalle potenze straniere contro la nuova Repubblica Sovietica dopo la sconfitta degli Imperi centrali nella prima guerra mondiale, il partito comunista russo si sia posto immediatamente il problema della creazione della nuova letteratura di classe. Un tema estremamente complesso e difficile da affrontare anzitutto per la mancanza dei nuovi strumenti interpretativi. “Bisogna ricordare – scrive Trotzky nella risoluzione finale del Comitato Centrale del PCUS dell’1 luglio 1925 sulla politica del partito in campo letterario – che questo compito è infinitamente più complesso di tutti gli altri compiti risolti dal proletariato, perché già nell’ambito della società capitalista la classe operaia può prepararsi alla rivoluzione vittoriosa, costruirsi quadri di militanti e dirigenti e formarsi la splendida arma ideologica della lotta politica. Ma esso non poteva elaborare né problemi scientifici né quelli tecnici, così come, in quanto classe culturalmente oppressa, non poteva formare una propria letteratura, una propria for-
Tolstoj e Gorkij ma artistica, un proprio stile. Se il proletariato ha già in mano criteri infallibili di valutazione del contenuto politico-sociale di qualsiasi opera letteraria, esso non ha ancora risposte altrettanto precise a tutti i problemi della forma artistica”. istinguere la pubblicistica politica, basata sulla logica, dalla poetica, legata al mondo dei sentimenti, è il primo grande compito che la letteratura rivoluzionaria si è posto. La pubblicistica politica corre
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un particolare aspetto concreto della realtà presente, realtà che non viene però messa in discussione nei suoi principi cardinali, ma anzi confermata nella sua validità una volta epurata da vizi, eccessi o deviazioni. Per fare due esempi più vicini nel tempo senza ricorrere ai consueti “monumenti” storici (la rivoluzione francese, quella nord americana, quella sovietica, ecc.), consideriamo da un lato il così detto 68 europeo e dallaltro la più recente così detta “primavera araba”. Il primo evento è stato una vera rivoluzione, fondamentalmente culturale e molto meno politica, perché ha portato a radicali cambiamenti di alcuni dei principi apparentemente inamovibili dello stato di cose preesistente: dal servizio sanitario universale che ha affermato il diritto “naturale” alla salute di tutti, abbienti e non, cittadini e non; alla fine della segregazione manicomiale con laffermazione della disagio mentale come fatto sociale e non discriminatorio; al divorzio con laffermazione della libertà di scelta della e nella famiglia; allo statuto dei
sui trampoli, scriveva ancora Trotzky, mentre la poetica arranca dietro sulla stampelle, il suo sviluppo richiede tempi lunghi di assimilazione. Bruciare queste tappe, trasportare nel mondo della poetica le leggi e le logiche della politica significa sacrificare la prima e provocare una produzione letteraria di scarto, di laboratorio, che non aiuta ma compromette la crescita della coscienza delle classi lavoratrici una volta giunte finalmente al potere. Primordiali espres-
sioni poetiche legate al risveglio della coscienza di classe sono un fatto politico di straordinaria importanza per la rivoluzione, ma non possono essere considerate la nuova letteratura. “E sbagliato credere che lo sviluppo letterario sia una catena indissolubile nella quale i carmi ingenui, ancorché sinceri, dei giovani operai dell’inizio di questo secolo costituiscono il primo anello della futura letteratura proletaria. In realtà – scrive ancora Trotzky – quei versi rivoluzionari erano un fatto politico e non letterario. Essi favorivano la crescita non della letteratura ma della rivoluzione. La rivoluzione ha portato alla vittoria del proletariato, la vittoria del proletariato porta alla trasformazione dell’economia; la trasformazione dell’economia muta il carattere culturale delle masse dei lavoratori e crea l’autentica base per una nuova letteratura e in generale per una nuova arte”. ome porsi nei confronti delle eredità letterarie e artistiche del passato costituisce la chiave di volta della creazione della nuova cultura e letteratura socialista: “por fine con maggiore coraggio e decisione ai pregiudizi letterari signoreschi e, servendosi di tutti i risultati tecnici della
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lavoratori con laffermazione dellestensione dei principi costituzionali anche al mondo dei padroni dei mezzi di produzione; ecc. Diversamente la così detta “primavera araba” è stata, e ancora lo è nelle sue ulteriori prosecuzioni ed estensioni, un evento di pura ribellione che non ha minimamente messo in discussione il sistema economico, sociale, culturale e sostanzialmente anche politico preesistente, ma ha solamente rimosso alcuni eccessi dispotici e assolutistici, con leffetto di eliminare, anche fisicamente, un “rais” (che peraltro fino a ieri era un fedele e fidato amico delle così dette grandi democrazie occidentali), con un altro o al massimo con un gruppo/gruppetto pur sempre di fedeli e fidati partner (sudditi) delloccidente. Diversamente dalla rivoluzione, come si vede, la ribellione non produce nulla di nuovo e resta confinata spesso solo nellevento prevalentemente emotivo, irrazionale e violento e, dunque, finisce per essere facilmente domabile e persino manipolabile.
44 vecchia rate, elaborare una forma adeguata, comprensibile alle vaste masse” così conclude la Risoluzione del PCUS del 1925. “La critica marxista deve porsi questa parola d’ordine: studiare” scrive Trotzky; “Istruitevi perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza” ribatte Gramsci; “Istruirsi e non ritenersi mai soddisfatti” incalza Mao. el 1942, mentre ancora infuriava la guerra contro l’esercito giapponese che occupava parte della Cina e quella interna con l’esercito nazionalista del Kuomintang, Mao, riparato con i resti dell’Esercito del Popolo sui monti di Yen’An dopo la ritirata di 10.000 chilometri della “lunga marcia”, condusse la prima Conferenza del Partito Comunista cinese sull’arte e la letteratura che fisserà i punti cardinali della futura letteratura rivoluzionaria. La citazione che segue può concludere questo inserto: “La critica letteraria e artistica comporta due criteri: politico e artistico; ma in che rapporto sono tra loro? Tra la politica e l'arte non si può mettere il segno dell'uguale, così come non lo si
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Letteratura può mettere tra una concezione generale del mondo e metodi della creazione e della critica artistica. Noi neghiamo non soltanto l'esistenza di un criterio politico astratto e immutabile, ma anche di un criterio artistico astratto e immutabile; ogni classe, in ogni società di classe, ha il suo criterio particolare, politico e artistico. Le opere che mancano di valore artistico, per quanto possano essere avanzate politicamente, restano inefficaci. Per questo, noi siamo contro le opere d'arte che esprimono opinioni politiche erronee e nello stesso tempo siamo contro la tendenza a produrre opere in "stile da slogan o da manifesto," in cui le opinioni politiche sono giuste, ma che mancano di forza espressiva artistica.” Post-fazione Intelletto e spirito “Il progresso miracoloso della tecnica negli strumenti di lavoro e di produzione ha enormemente abbreviato il limite di trapasso dalla civiltà capitalistica verso la nuova civiltà socialistica; un trapasso che porterà un nuovo ordine giuridico e morale del mondo. Ma civiltà diversa non vuol dire umanità diver-
Genio militare e Cultura artistica La storia delloccidente ci ha tramandato lesperienza di una netta distinzione tra politica, cultura/arte e comando militare. Difficlmente le prime due attività coincidevano nello stesso personaggio, mentre per la terza veniva detto: “era scarsamente intelligente, fu avviato alla carriera militare, rapidamente raggiunse i più alti gradi”. In generale il politico aveva poca dimestichezza e poco rispetto per la cultura e per larte con espressioni che andavano da “quando sento parlare di cultura la mia mano corre alla pistola”, a prendersi una pausa lavorativa per “mangiare un panino di cultura”. Allartista era preclusa sostanzialmente la partecipazione attiva alla politica oscillando, nel giudizio popolare, tra il genio scarsamente concreto e il giullare di corte. Per il militare la caratteristica fondamentale era quella di un ruolo residuale, in genere erano i figli minori, i cadetti, a dover scegliere quel mestiere per vivere, sovente accompagnati da problematicità psicologiche, di difficoltà relazionali e di autonomia decisionale. Nella tradizione greca e poi romana repubblicana, al contrario, i tre ruoli spesso coincidevano nello stesso personaggio che perciò si levava al di sopra della
Concetto Marchesi sa e non vuol dire cultura diversa. Noi stiamo subendo l'abbaglio della tecnica e l'incanto del motore; c'è chi crede che il mondo sia tutto trasformato e rimutato dalla tecnica solo perché il motore domina nel meccanismo esteriore della nostra esistenza, perché le distanze sono enormemente abbreviate e quasi scomparse, perché la terra è rimpicciolita ai sensi dei mortali, perché poderose braccia metalliche sono mosse in un crescente vortice di produzione da esili dita, dalle piccole braccia dell'uomo esperto; ma quest'uomo esperto, quest'uomo mortale, questa cosa
da nulla, come diceva di Ulisse il ciclope Polifemo, resta il massimo miracolo della terra non solo attraverso le scoperte della meccanica e della fisica, ma anche e più attraverso l'attività e le creazioni dell'intelletto e dello spirito. Ho sentito dire che la scuola deve formare l'uomo moderno; io non so che cosa sia quest'uomo moderno. La scuola deve formare l'uomo capace di guardare dentro di sé e attorno a sé; a formare l'uomo moderno provvederanno i tempi in cui egli è nato. Ogni uomo è moderno nell'epoca in cui vive.” (Concetto Marchesi)
media, riuscendo a fondere conoscenza con intelligenza e dunque il comando militare superiore spettava sempre a un così detto “civile”, mentre i militari di mestiere restavano confinati nei ruoli subalterni di sostanziale “casermaggio”. Lesperienza comunista ci ha ricondotti a quella più remota tradizione. Trorzky, prima, poi Mao e infine anche il Che, sono stati personaggi di elevata cultura e grande sensibilità artistica; saggista e teorico della letteratura il primo, persino validi scrittori e poeti gli ultimi due. Eppure tutti e tre hanno lasciato un indelebile segno anche nella storia propriamente militare. Fu Trotzky a creare sostanzialmente dal nulla lArmata Rossa, percorrendo limmenso paese sovietico sul mitico treno blindato e riuscendo a sconfiggere una dopo laltre le tre armate bianche e gli invasori inglesi, francesi e polacchi. A sua volta Mao creò lEsercito del Popolo guidandolo dapprima nella ritirata della “lunga marcia” e poi alla vittoria sullesercito giapponese e su quello del Kuomintang. Il Che infine, padre della guerra di guerriglia, senza dismettere mai la tuta e gli anfibi di guerrigliero, guidò la Banca di Cuba, il Ministero dellIndustria, ma fissò anche i programmi educativi della nuova scuola della Cuba socialista.
Fiorire
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“Fiorire - è il fine -”
«Di una persona che non ha fantasia, priva di moti come di sorprese, senza sviluppi e quindi senza storia, s’usa dire: non vive, vegeta. Quanti giardini ci sono che vegetano. Vegetano tutti i giardini concepiti o fatti per l’occhio del vicino o del visitatore, composti in un sol colpo con le piante offerte o reclamizzate dal mercato: le più facili da curare, le più resistenti da strapazzare, le più appariscenti da ostentare.» (Dalla bandella di V. Sackville West, “Del giardino. Coltivare un giardino come si coltiva la vita”, a cura di Philippa Nicolson, introduzione di Ippolito Pizzetti, Rizzoli, Milano 1975)
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Fiorire
Due soldi, un pane e un fiore DI
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SARA MIRTI
n vecchio proverbio dice: “se hai due soldi, con uno compra del pane e con l’altro un fiore”; lasciando così intendere che gli uomini non possano sopravvivere senza la bellezza e i suoi simboli, alla stessa maniera in cui non possono vivere senza rendere in qualche modo giustizia a se stessi e alle proprie radici. Queste ultime li spingono a crescere e prosperare partendo dal proprio centro del mondo, ad adattarsi in maniera crudele e selettiva, poi, alla fine, a mescolarsi agli altri mondi; ciascuno di noi infatti vive grazie ad altri uomini e per gli altri che verranno, conservando le certezze dei primi e portando sulle spalle la responsabilità dei secondi. Dedicarsi al giardinaggio insegna proprio questo: accostare tra loro piante dalle forme più diverse, cercare di farle an-
dare d’accordo armonizzandone i colori, facendo sì che ognuna abbia di che vivere senza che sorgano competizioni antiestetiche e talvolta mortali. Il giardinaggio insegna a prendersi cura tanto del visibile quanto dell’invisibile, delle radici come delle foglie. Bisogna saper tagliare, scavare, drenare, svasare, accettare la vita così come si presenta, nelle sue fasi distruttive e nei suoi momenti più fecondi, e per farlo è necessario abbinare qualità fisiche e chimiche, soppesare le quantità, prevedere i capricci del tempo, inventare spazi e prospettive, creare architetture, grammatiche, significati; senza dimenticare mai che, prendendo a prestito le parole di E. Dickinson, “fiorire” è l’unico fine possibile: l’unico scopo del giardiniere è favorire il mostrarsi di quei tanti volti colorati, annunciatori di futuri frutti. a la “cura” non deve venir meno neanche qualora i fiori vengano reci-
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Fiorire - è il fine - chi passa un fiore con uno sguardo distratto stenterà a sospettare le minime circostanze coinvolte in quel luminoso fenomeno costruito in modo così intricato poi offerto come una farfalla al mezzogiorno Colmare il bocciolo - combattere il verme ottenere quanta rugiada gli spetta regolare il calore - eludere il vento sfuggire all'ape ladruncola non deludere la natura grande che l'attende proprio quel giorno essere un fiore, è profonda responsabilità –
si: la loro muta sorpresa nel trovarsi sospesi in quella che sempre E. Dickinson ha definito la vera eternità, di botto uno accanto all’altro, può essere enorme ed estremamente dannosa. Alcune convivenze, anche quelle passeggere, vanno preparate con sapienza: va cercato un terreno, un nutrimento comune, una crescita armonica, oppure, se non si può fare diversamente, vanno mantenute delle distanze rispettose. Tanto per fare un esempio: avete
mai provato a mettere in uno stesso vaso rose e papaveri recisi? Purtroppo (io preferisco le rose) a me è capitato che siano stati i papaveri ad avere la meglio; anche in questo caso bisogna saper scegliere. “Le anime come i corpi possono morire di fame”, o di diffidenza, d’incertezza, d’ignoranza per ciò che riguarda il futuro, ed è per questo che chiamiamo “casa” solo il posto che abbia sempre da offrire insieme “pane e rose”, in cui ci sentiamo al sicuro, di cui è più facile conoscere regole e leggi, storie e segreti, in cui ci riesca di esprimerci, di fiorire al meglio. Scrive ancora E. Dickinson: «Da sì minuscoli cavalieri - / un germoglio, o un libro, / sono deposti i semi dei sorrisi / che nel buio fioriscono» (P55, 1858 ca.). a maggior parte di noi è avvezza a cercare l’essenza della vita umana nella solitudine, o in luoghi asettici ed estremamente scientifici; solo a pochi verrebbe in mente di cercarla nell’afflizione di un verde che scolora inesorabile, nella violenza del vento sugli steli, nel sollievo crudele di
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Fiorire una potatura. Mia nonna mi diceva sempre di parlare con le piante che avevamo (e che ancora abbiamo) sulle scale interne di casa: “le fa crescere meglio, e poi sono sicura che gli fa piacere”, diceva. Lei sì che aveva il cosiddetto pollice verde: era capace di far crescere qualsiasi cosa, ma la sua vera passione erano le “piante grasse”, e alcune sono rimaste ancora lì dov’erano: Aloe, Cotiledone (Cotyledon), Crassula (Crassula), Echeveria pulvinata, Euphorbie, Grapto petalum belum, Lingua di suocera (Lepismium), Rosette succulente - ma sarei pronta a giurare di aver visto anche degli esemplari di Gasteria Verrucosa, Cacto coda di topo (Aporocactus flagelliforme), Eonio (Aeonium arborim). Quando ha iniziato a star male, ha preso l’abitudine di regalare a chiunque li volesse piccoli frammenti di quelle piantine, affinché trovassero altrove una nuo-
va vita e cure migliori. La vita potrebbe essere definita, in questo caso, come una sostanza propagabile per contatto con la terra, imprevedibile, qualcosa che necessita di essere recisa, questa volta in maniera preve-
tro. Non possono dire perché la vita si scuote solo dentro intuizioni imprevedibili. […] L’esistere dell’umano non giunge a se stesso, non nasce alla vita, non diventa esistenza senza un’epifania - poesia, coin-
dibile, anche quando i nuovi getti non avrebbero bisogno di altro spazio per esistere. «Strana allora l’ostinazione: raccontare l’umano in modi che sembrano parlare d’al-
volgimento, opera di giustizia. Senza innamoramento.» (da F. Riva, “Nascere alla differenza”, in E. Lévinas, F. Riva, “L’Epifania del volto”, Servitium Macondo Li-
Bread and roses
As we come marching, marching in the beauty of the day a million darkened kitchens, a thousand mill lofts gray are touched with all the radiance that a sudden sun discloses for the people hear us singin’: «Bread and roses, bread and roses!»
As we come marching marching we battle too for men, For they are women’s children and we mother them again. Our lives shall not be sweated from birth until life closes: Hearts starve as well as bodies; give us bread, but give us roses!
As we come marching marching unnumbered women dead Go crying through our singing their ancient cry for bread. Small art and love and beauty their drudging spirits knew Yes, it is bread we fight for - but we fight for roses too!
As we come marching marching we bring the greater days The rising of the women means the rising of the race No more the drudge and idler - ten that toil when one reposes But a sharing of life’s glories: «Bread and roses! Bread and roses!»
bri, Milano 2010); l’umano non può arrivare a conoscere se stesso, aggiungo io, senza essersi mai trovato a tu per tu con una piantina affidata alle proprie cure, senza aver vinto la tentazione di considerarla un semplice soprammobile, imitazione di innumerevoli altre copie in giro per il mondo, senza averne riconosciuto la dignità della vita, anche se intrappolata in un essere dall’apparenza semplice. «Come si fa una talea, una margotta, una propaggine. Tutto comincia e finisce lì: con la talea e la margotta: non c’è discorso, non c’è mai il giardino, il giardino ben temperato, per prendere a prestito il titolo di un […] libro di Christopher Lloyd, come premessa e fine, come il cosmo e lo specchio del cosmo che è per ogni vero giardiniere» (I. Pizzetti, introduzione a V. Sackville West, “Del giardino. Coltivare un giardino come si coltiva la vita”).
(Mentre avanziamo marciando, marciando nello splendore del giorno /un milione di cucine affumicate, un milione di grigi solai dove si lavora / sono colpiti dalla luce che un sole improvviso rivela / perché la gente ci sente cantare: «Pane e rose, pane e rose!» // Mentre avanziamo marciando, marciando lottiamo anche per gli uomini /perché sono figli delle donne e grazie a noi nascono di nuovo. / Nella nuova vita ci sarà dolcezza dalla nascita fino alla fine; / le anime come i corpi possono morire di fame: dateci pane, ma dateci anche rose! // Mentre avanziamo marciando, marciando innumerevoli donne morte / gridano nel nostro canto la loro antica richiesta di pane. / I loro spiriti sfiniti dal lavoro conobbero ben poco l’arte l’amore e la bellezza / sì, è per il pane che lottiamo, ma anche per le rose. // Mentre avanziamo marciando, marciando portiamo giorni migliori. / La rivolta delle donne è la rivolta della razza. / Non più schiavo e ozioso, non più dieci che faticano e uno che riposa, / ma la divisione delle gioie della vita: «Pane e rose! Pane e rose!» - Canzone scritta da James Oppenheim - e musicata da Caroline Kollsaat - dopo lo sciopero dello stabilimento tessile di Lawrence, USA nel 1912. Il titolo riprende lo slogan gridato dalle operaie.)
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hi consideri il giardinaggio (ovunque praticato, in vasi di fortuna oppure in più ampi appezzamenti di terra) un’occupazione adatta esclusivamente a coloro per i quali “ogni passione sia spenta” (parafrasando il titolo di un romanzo di V. Sackville West), forse ignorano la passione che proprio per il giardinaggio conquistò letterati, già affetti da numerose altre passioni, come il Petrarca e il Manzoni. Poi ci sono molti altri, tra artisti, letterati, poeti e via dicendo, di cui verrebbe spontaneo pensare, lo fa il Pizzetti, che, se mai avessero avuto un giardino, sarebbero stati meravigliosi giardinieri: «Io non so se D. H. Lawrence abbia mai posseduto in vita sua un giardino. Ma anche se in realtà non lo avesse avuto mai, se ce lo avesse avuto, sono pronto a scommettere, sarebbe sta-
Fiorire to un giardiniere straordinario. I suoi libri grondano giardini, civiltà del giardino: da Lady Chatterley’s Lover a Kangaroo. O J. R. Tolkien. Perché una civiltà e una letteratura producano un’accorata e straziata elegia, il requiem degli alberi che è ne Il signore degli anelli, è necessario che il mondo vegetale di quella cultura sia parte integrante» (I. Pizzetti, introduzione a V. Sackville West, “Del giardino. Coltivare un giardino come si coltiva la vita”). «C’è tanto, talmente tanto da imparare quando ci si avvia a diventare un giardiniere» (V. Sackville West, “Del giardino”); a maggior ragione se si cade nell’errore di credere che si tratti di un mestiere per molti versi inaccessibile. Certo, la lingua italiana non è particolarmente ricca di termini “botanici” (fatta eccezione per i termini vernacolari), e forse
Iris Tranne il grande aconito, una scilla, un lupino, una nigella, la veronica «piccola quercia», la lobelia e il convolvolo che trionfa di tutti i blu, il Creatore di ogni cosa si è dimostrato un po spilorcio quando ha distribuito da noi i fiori blu. Si sa che non baro con il blu, ma non voglio che approfitti di me. Il muscari non è più blu di quanto non lo sia la prugna «Monsieur»… Il nontiscordardimé? Non si fa scrupolo di propendere per il rosa, man mano che fiorisce. Liris? Puah… Il suo blu giunge a essere solo un bel malva, e non parlo di quello chiamato «fiamma», il cui viola liturgico e la cui fragranza profana invadono a primavera le montagne attorno a La Grande-Freinet. Liris dei giardini si abitua docilmente a tutti i suoli […]. Ha sei petali, tre lingue distinte strette, tre altre larghe, un po sporche di giallo - il fegato, probabilmente - e viene considerato blu grazie allunanimità di un mucchio di persone che non capiscono niente del colore blu. Ci sono conoscitori di blu come ci sono intenditori di vini. Quindici estati consecutive a Saint-Tropez non furono per me solo una cura di azzurro, ma anche uno studio […]. Non andavo a caccia di blu nei chiari letti di sabbia fine dove si riposa londa, sapendo che, appena nato dallaurora, il blu del mare è crudelmente graffiato dal verde insidioso che spegne lultima stella nella volta celeste, e che inoltre ogni punto cardinale, abbandonando il blu instabile, sceglie il suo colore di cielo: lest è violaceo, il nord di un rosa gelido, lovest rosseggiante e grigio il sud. Al culmine del giorno provenzale lo zenit si copre il capo di cenere […].
questo contribuisce a dare l’idea che l’arte del giardinaggio custodisca dei segreti quasi “alchemici”. Nell’introduzione del sopra citato libro della Sackville West, ci si chiede se sia possibile che «una classe proletaria si dedichi con tanta passione, collettivamente, ad una attività orticola non remunerativa fino a portarla al massimo della sofisticatezza», forse dimenticandosi che, al di là della specificità del giardinaggio così come lo conosciamo oggi, è dal lavoro che sono fioriti i nostri canti, i nostri riti, le nostre leggende, le nostre usanze, e che queste (ne è una prova la ricchezza di termini vernacolari) non hanno mai mancato di coinvolgere nelle loro eterne danze piante, fiori, frutti, radici, foglie, cortecce ecc; e che un pane e una rosa custodiscono la stessa parte di nutrimento e di salario.
Naturalmente però, sarebbe auspicabile una maggiore pratica e diffusione dell’uno e dell’altra all’interno di quelle che possono ancora essere chiamate “classi subalterne”. questo punto l’unica cosa che si potrebbe frapporre tra voi e il vostro futuro giardino è… il vostro gatto, se ne avete uno. I mici a volte possono essere degli speleologi formidabili. Niente paura però, un amico mi ha suggerito la soluzione: se, come me, siete in città e avete a disposizione soltanto dei vasi, prendete dei sassi molto grandi (persino dei pezzi d’asfalto possono fare al caso vostro) e coprite per intero la terra delle vostre piante. A loro non accadrà assolutamente nulla e la vostra piccola tigre, dopo pochi giri intorno al suo oggetto del desiderio, dovrà infine arrendersi all’evidenza.
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Aspettavamo che una piccola ala di polvere svolazzante ai gomiti della strada, unarricciatura bianca sul labbro del golfo segnassero la resurrezione di tutti i blu. Un colore di duro lapislazzuli, restituito al mare, balzava riverberato sotto la pergola a volta, e ogni bicchiere di vetro cullava un dado di ghiaccio allimprovviso tinto di zaffiro. (Colette, “Per un erbario”, Passigli Editori, Firenze-Antella 2002)
Arte
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Arte da Vivere
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MAURA DONATI
’ perennemente intorno a noi ma non la conosciamo, non la viviamo, non la cerchiamo abbastanza. Rimane immobile al suo posto o per sempre identica a se stessa pur cambiando posizione. La sfioriamo nel nostro vivere quotidiano, a volte la osserviamo incuriositi, spesso non la vediamo, non ce ne curiamo e la lasciamo rimanere un punto interrogativo nella nostra mente. E’ l’arte che ci circonda, che colora e dà forma agli angoli della nostra città, che custodisce le tradizioni del passato, la storia, le emozioni vissute. Un infinito serbatoio di cultura che non ha segreti per gli esperti del settore, con loro dialoga e parla continuamente senza esitare nella descrizione di particolari e dettagli dal sapore unico e misterioso. Con loro si presenta prolissa, ridondante e piena di parole nuove. Ma, puntualmente, rimane muta, indecifrabile e distaccata di fronte a tutti gli altri che non sono esperti in materia. In questi casi, neanche la curiosità aiuta più di tanto se non supportata da appositi opuscoli descrittivi finalizzati alla divulgazione della cultura e dell’arte e pronti ad essere letti e sfogliati dal passante interessato a conoscere.
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volte sono le forme, i colori, la materia o le dimensioni dell’arte a richiamare lo sguardo e la curiosità della gente ma tutto finisce con questo primo naturale approccio se non è previsto un successivo aiuto alla comprensione e una accattivante educazione al “bello” che si sta osservando. Questo accade per gran parte del mondo artistico e culturale che ci circonda e questo è ciò che in molti stanno tentando, anche con eccellenti risultati, di cambiare drasticamente attraverso operazioni di profonda mediazione culturale tra l’arte e il fruitore, chiunque esso sia. Questo è anche ciò che caratterizza ormai da anni il lavoro dell’operatrice culturale Rita Rocconi che si è prefissata con grande tenacia e competenza professionale di rendere bello, istruttivo ed emozionante per tutti quello che per troppo tempo è stato vissuto e considerato come “noioso”. Noiosa la visita al museo, alla chiesa antica, al palazzo storico, alla mostra di quadri “incomprensibili”. Noiosi perché indecifrabili, lontani, ermetici e illeggibili ai più. Con l’idea di trasformare questo distacco in esperienza sensoriale, appassionante e fruibile a tutti si è sviluppata questa azione di democratizzazione della cultura che nel progetto di Rita Rocconi ha preso vita attraverso la mescolanza di elementi artistici capaci di dialogare tra di loro e con tutti coloro che hanno voglia di conoscere e imparare. L’incontro tra l’arte del museo di San Francesco a Montefalco e l’arte della moda rappresentata dagli abiti scultura del noto e straordinario stilista Roberto Capucci, ha rappre-
Arte sentato nel 1994 il primo esempio di questa dinamica progettuale capace di annullare le distanze e rendere semplice ed emozionante la complessità. La gente è entrata nel museo e l’ha vissuto con uno sguardo nuovo, più attento, complice e appassionato.
sguardi della gente, hanno ritrovato visibilità nei preziosi merletti di Arnaldo Caprai che le hanno riproposte con mirabile cura dei dettagli in un progetto del 2001. E le mani hanno potuto “accarezzare” e osservare da vicino questi elementi architettonici realiz-
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zati nel passato ma vissuti fino ad oggi e legati indiscutibilmente al presente. Poi è nato e si è sviluppato il progetto di valorizzazio-
osì è stato anche nel 2000 all’interno del museo di San Francesco a Trevi che tra le sue preziose opere pittoriche ha ab-
te guidate, convegni di noti e illustri personaggi del nostro tempo, itinerari turistici e sensoriali attraverso le antiche dimore, hanno fatto riscoprire con entusiasmo le bellezze architettoniche, artistiche e culturali di un’antica e vivace città di ricchi mercanti e famiglie nobili. Il progetto di mediazione culturale di Rita Rocconi è continuato negli anni fino ad arrivare a quest’estate del 2012 durante la quale si potrà visitare fino al 30 settembre prossimo la “Collezione Paolo Zuccari” de “Le Zuppiere dal XVIII al XX secolo” all’interno di villa Zuccari a San Luca di Montefalco (Pg). “Negli ultimi anni – spiega la curatrice - il collezionismo privato ha avuto un notevole sviluppo e gioca un ruolo importante nella nostra cultura e società, in quanto consente di salvaguardare beni di valore artistico, storico e culturale”. Partendo da questo presupposto è nata l’idea di conciliare la visita alla villa e alle zuppiere con delle serate dedicate alla grande musica, alle sfilate di moda di noti stilisti e ad angoli di degustazione di vini della nostra terra Umbria. osì, se il primo appuntamento è stato aperto dal concerto per piano della talentuosa Elisabetta Stemperini, la seconda serata ha abbracciato il defilé dello stilista Vittorio Camaiani nella splendida cornice della villa. Il mese di luglio riserva ancora due eventi: la performance di moda di Lemuria accompagnata dai gioielli di Marta Rossetti (venerdì 6 luglio, ore 21); la presentazione del cashmere dell’azienda Tasselli e dei gioielli di Sofia Rocchetti (venerdì 13 luglio 2012). Ancora una volta, il connubio e la complicità tra arti si sono dimostrati vincenti.
C bracciato il genio di Dino Gavina, l’industriale umbro che ha lanciato nel mondo il design italiano di grandi architetti, designer e artisti quali Carlo Scarpa, Marcel Breuer, Piergiacomo e Achille Castiglioni, Sebastian Matta, Giacomo Balla, Man Ray. Anche le strepitose forme dei rosoni delle chiese romaniche e gotiche umbre per troppo tempo rimaste al di sopra degli
ne del patrimonio storico e artistico dei palazzi signorili di Foligno attraverso l’incontro con altre arti. La musica, la moda, il design, le luci, i colori, i sapori, hanno abbattuto le distanze e avvicinato, coinvolto ed emozionato fino a rendere leggibile, apprezzabile e interessante tutto quello che per troppo tempo era rimasto ermeticamente chiuso nella propria storicità. Visi-
Arte
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Le Zuppiere dal XVIII al XX secolo Collezione Paolo Zuccari 22 giugno – 30 settembre 2012 Villa Zuccari, San Luca, Montefalco (Perugia) DI
PAOLO ZUCCARI
Tutti mi chiedono perché, come e quando ho iniziato a collezionare zuppiere. La risposta è semplice, dopo aver vissuto per trenta anni in questa casa, ora Villa Zuccari, dopo aver sposato Daniela ed avere avuto la prima figlia Federica, ho deciso di andare a vivere a Spoleto dove è nata Lorenza. In occasione di tale trasferimento, per la verità un po’ sofferto, ho portato con me solo poche cose e pochi ricordi della mia casa natale, ma fra queste poche cose c’erano alcune zuppiere. La più importante allora era una zuppiera di Pesaro che nostra nonna usava per ser-
virci i cappelletti in brodo a Natale. Da queste prime zuppiere, forse per nostalgia, è iniziato il desiderio o la mania di comperarne altre e via via ho iniziato a collezionarle. Nel corso degli anni il numero delle zuppiere aumentava e cominciava a essere difficile sistemarle a casa, ma fortunatamente del 1995 abbiamo inaugurato l’Hotel San Luca a Spoleto e quindi ho potuto sistemare nel nuovo albergo una parte della mia collezione. Attualmente sono arrivato ad averne oltre 450 pezzi e continuo costantemente nella mia ricerca. La collezione non comprende pezzi singoli di elevato valore commerciale, ma per me ogni pezzo è un ricordo. Ho zup-
Sfilate di moda a villa Zuccari Venerdì 29 giugno, ore 21 Vittorio Camaiani La collezione primavera-estate 2012 di Vittorio Camaiani (prestigioso atelier) prende ispirazione da quella delicata sensualità che scaturisce quando piccoli dettagli maschili si trasformano in accenti e inni alla femminilità. Prende così piede un percorso di approfondimento ed uno studio attorno all’accessorio maschile per eccellenza: la cravatta, che è emerso essere stata indossata per la prima volta da una donna ai tempi della Corte del Re Sole dalla Duchessa Louise de La Vallière, prima amante ufficiale del re. Questo viaggio di ricerca diventa ispirazione e si trasforma in piccole cravatte che quasi diventano fiocchi annodati sulle maniche, sulla spalla, sulla schiena e si appoggiano a chemisier, con riporti a contrasto in seta, come cinture.
Emblema della collezione la “gonna cravatta”: un tubino su cui cravatte di diverse dimensioni e trame si sovrappongono muovendosi come petali a ventaglio. Venerdì 6 luglio, ore 21 Lemuri Il progetto Lemuria nasce nel 2006 dalla creatività della designer umbra Susanna Gioia che decide di osservare l’abito da una nuova angolazione. Un abito pensato non soltanto dal punto di vista della moda e del glamour, ma con importanti elementi di funzionalità e vestibilità; da qui nasce LIBERO ARBITRIO: prototipi originali e sperimentali in grado di trasformarsi intorno al corpo, creando molte forme-modelli differenti, stimolando la creatività di chi li indossa. Lemuria trae la sua ispirazione dall’osservazione degli uomini di oggi e di ieri, ricercando un “con-
piere solo Italiane che provengono prevalentemente dal centro e dal sud Italia. Ho zuppiere di Deruta, di Fabriano e Pesaro nelle Marche, di Castelli in Abruzzo, di Cerreto Sannita e di Napoli in Campania, di Grottaglie in Puglia, di Faenza e di tante altre zone. Il periodo di produzione delle mie zuppiere va dal settecento per alcune all’ottocento fino ai primi del novecento per la maggioranza. Di alcune zuppiere non sono riuscito a determinare la manifattura e neanche la zona di provenienza, in
quanto i ceramisti si spostavano in continuazione portandosi dietro modelli, stili e colori. Le zuppiere erano un articolo di consumo domestico, spesso locale, e non venivano firmate o marchiate dal produttore. Ho cercato di chiedere aiuto ad amici, amanti della maiolica e della ceramica ed ad esperti del settore e questo è il risultato! Una mostra con un allestimento nelle sale di villa Zuccari, da dove è iniziata questa mia passione, che spero emozioni anche voi nel visitarla.
tinuum” nell’animo umano che va oltre le epoche e le società che cambiano. Per questo gli abiti sono senza tempo, in grado cioè di adattarsi alle mode del momento, di superarle e di sopravvivere ad esse, riuscendo a sviluppare nell’individuo che li indossa un moto emozionale come valido strumento di differenziazione. Un abito in grado di stupire ogni volta, grazie alle sue innumerevoli trasformazioni che lo rendono adattabile ad ogni situazione. L’abito diventa un vero e proprio gioco, un’occasione per sperimentare liberamente il proprio gusto. Venerdì 13 luglio, ore 21 Tasselli cashmere Dalla tradizione umbra delle lavorazioni tessili nasce nel 1970 l’eccellenza artigianale di Tasselli Cashmere. Prima qualità della materia prima, consistenza della tessitura, accuratezza di calature e cimose, controllo dei capi uno ad uno uniti alla scelta di dettagli inno-
vativi capaci di esaltare l’espressione della innata personalità del cashmere. Soluzioni di stile, risultato di ricerca e attenzione alle nuove tendenze, sempre al passo coi tempi e mai scontate. Linee semplici, che hanno esiti di elegante vestibilità. Un patrimonio d’esperienza che, oltre ai tradizionali canali di distribuzione, si nutre del rapporto diretto con oltre cinquemila clienti privati e si anima così di dinamicità e innovazione. Tasselli Cashmere si è andata specializzando nel tempo nella selezione di filati leggeri. Nasce così la collezione 2012-2013: le nuances naturali del cashmere rese brillanti da finiture dai colori a contrasto in cashmere e seta. La possibilità di scelta tra oltre duecento colori, il servizio tailor-made, l’efficienza dei tempi di consegna sono solo alcuni dei servizi per cui Tasselli Cashmere si contraddistingue facendosi esempio e garante di una nuova contemporanea sartorialità.
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Arte
La ceramica di Deruta DI
GIULIO BUSTI
Conservatore del Museo Regionale della Ceramica di Deruta
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ella raccolta di zuppiere italiane dell’Otto e del Novecento di Paolo Zuccari, trova posto un nucleo proveniente dalle fabbriche di Deruta della fine del secolo XIX. Si tratta di una rara testimonianza, sopravvissuta grazie all’intuito e al gusto del collezionista che, seppure animato da altri scopi di illustrazione della cultura gastronomica in un ambiente deputato, rende un ottimo servizio alla storia della ceramica. Testimonianza rara e significativa poiché rappresenta un punto di evoluzione della ceramica derutese della seconda metà dell’Ottocento quando la comunità e le fabbriche locali si impegnarono severamente in tentativi di ripresa artistica e produttiva dopo la grave crisi della metà del secolo e la spinta ideale e politica dell’Italia postunitaria(Busti-Cocchi 2010). Questo impulso prese diverse direzioni: sia quella artistico-culturale rivolta al recupero del passato (Mancini 1982) che quella più indirizzata alla produzione merceologica più di attualità dei serviti da tavola. Quest’ultima, infatti, non poteva trarre ispirazione dal passato rinascimentale semplicemente perché il servizio da tavola, come ancora oggi lo intendiamo, fu un’invenzione più tarda, collegata alla evoluzione della vita quotidiana che doveva rispon-
dere a una crescente esigenza igienica, ma anche ad un’idea di eleganza e distinzione sociale che trasformò, nel corso del Seicento, il pasto quotidiano in una occasione di incontro, buon gusto e appartenenza ad un rango sociale. I primi tentativi derutesi di aggiornamento della produzione risalgono al Settecento, su cui si esercitarono le fabbriche di Gregorio Caselli e Pasquale Bravetti (BustiCocchi 2008) di cui resta qualche zuppiera nel Museo regionale della ceramica di Deruta. Sono di forma ovale sagomata con costolature verticali, prese laterali con testine antropomorfe, con il coperchio sagomato che riprende il modello del corpo con pomello a cipolla alla cuspide, decorate in monocromia blu con motivi a “lambrecchini” che sembrano ispirarsi alle contemporanee produzioni di Lodi o di Moustier. Mentre è stato evidenziato da Sirci (2010) che le forme della ripresa produttiva derutese tra Otto e Novecento, anche quando le decorazioni fossero state riprese da quelle originali del Rinascimento furono trasfigurate per riprendere, per lo più con stretta somiglianza, quelle delle produzioni delle fabbriche nazionali più consistenti e, in particolare quelle del marchese Ginori. E’ perciò significativo che uno dei momenti che segnarono questa fase
storica della ceramica derutese sia rappresentato dalla Esposizione Industriale del 1872, promossa dalla amministrazione comunale che ricercò la collaborazione della fabbrica Ginori. A differenza delle forme sagomate e mosse del Settecento i nuovi servizi da tavola assumono forme più nette e lineari, prevalentemente circolari dove le zuppiere, elemento distintivo e centrale in una tavola imbandita, hanno la forma di vaso classico su alto piede circolare, coperchio a campana sormontato da un pomolo a disco, con decorazioni in policromia con ramoscelli di rose, piccoli fiorellini o stampigliature in monocromia blu. Lo si vede bene nella zuppiera realizzata nel 1894 da Angelo Artegiani, forse per qualche speciale ricorrenza, La decorazio-
ne è resa da due uccelli contrapposti posati su un ramoscello di foglie e bacche che reggono con il becco un cartiglio con l’iscrizione “BUON APPETITO” sormontato dalla firma “A. ARTEGIANI”. Lo stesso motivo è replicato sul coperchio dove il cartiglio reca l’augurio di “UN FELICE PRANZO” sormontato dalla denominazione di origine “F. DERUTA. A. 1894”. Per un lavoro analogo, l’autore aveva ottenuto una menzione onorevole alla Esposizione del 1872 (Busti-Cocchi, 1992). Se questa rappresenta il pezzo più pregevole del nucleo derutese, le altre opere sono altrettanto utili a testimoniare come le fabbriche del periodo, fenomeno unico in Umbria, tentassero l’avventura industriale che le portò al successo nel secolo successivo.
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In memoria di Maria Callas a 35 anni dalla scomparsa DI
JACOPO FELICIANI
Giovedì 31 maggio 2012 l'Accademia d'Egitto in Roma, ha ospitato un raffinatissimo evento per la commemorazione del Soprano Assoluto, Maria Callas per i 35 anni dalla scomparsa. La prestigiosissima Accademia sorge su di un poggio che domina la località culla dell'Arte contemporanea della Penisola. A Nord del parco di Villa Borghese, in una 'Valle artistica' come quella del Viale delle Belle Arti, che raduna insieme varie Accademie, Galleria Nazionale d'Arte Moderna, Largo Picasso, Globe theatre. Si varca il bianco cancello d'ingresso dell'Accademia d'Egitto in Roma e salendo il bianco marmo dei gradini siamo immessi all'interno; ricevuti con accogliente e solenne diplomazia dalla guida che, nel regale sguardo egizio mediato dalla mista origine romana, rimembra splenden-
ti storie e amori dell'Egitto romano di Cleopatra. Si odono già le prime note del pianoforte della prova del concerto che anticipano la sorpresa. A un tratto arrivano echi acuti sopranili. Una perfetta impostazione in maschera che fa risuonare gli oltre 300 metri della sala, in una potenza che lascia impietriti, più del bianco marmo prezioso del rivestimento in un effetto ricercato e studiato. Certe esperienze è più facile viverle che descriverle. E molto spesso i momenti non ufficiali sono anche quelli più importanti, costruttivi e degni di memoria. Infatti, non è tutto, perché l'ingresso nella sala espositiva riserva ancora più sorprese. Nel corso delle prove, che paiono esse stesse un concerto, corrono tutte le voci dei cantanti accompagnati dal giovanissimo Pianista Aldo Dotto; si visita una galleria sistemata con un notevole gusto e raffinatezza da Anna Sticco. Non ci sono solo le foto-
grafie originali di un archivio personale Tanzi, inedite e salienti della Divina, chiuse per giusta precauzione in teche in cristallo, ma anche tutte le preziose tele della Pittrice Anna Sticco. Descrivere l'effetto è davvero impresa ardua e complessa, ma credo che non si poteva organizzare tributo migliore. La stessa Callas perfezionista qual'era, sarebbe rimasta di stucco. Non poteva certamente esserci modo migliore per commemorare i 35 anni dalla scomparsa del Soprano assoluto. L'evento è iniziato in realtà con una sorpresa da parte dell'Accademia d'Egitto, che ha aperto il preziosissimo Museo agli intervenuti. Il Museo contiene delle vere e proprie rarità del Mondo Egizio in
un percorso che segue la linea a partire dalle Antiche dinastie, l'Egitto greco, romano, l'Egitto arabo e mussulmano. Le teche contengono dei pezzi che hanno fatto la storia, quella più alta d'Egitto. Si parte con il mezzobusto di Akhenaton, uno dei canopi di Tutankamen, Tavolette a encausto con ritratti di tipo Greco del Fayoum, il libro dei Morti, papiro di oltre 4 metri di lunghezza, e un manoscritto, tra i più notevoli. Si resta incantati solo al pensiero di essere vicino ai reperti più importanti di una Civiltà così alta e remota. Il legame di Maria Callas con l'Egitto è un legame che nasce con la storia stessa dell'Opera Lirica, con l'Aida rappresenta per la prima volta in Egitto il 24 dicembre 1871. Il punto riguardava specialmente la riconciliazione che la Callas doveva operare con la Città di Roma dopo la defezione nella Norma del 2 gennaio 1958 al Teatro dell’Opera. La Callas è pienamente riabilitata. I problemi di salute non possono cancellare un talento artistico di queste dimensioni.
54 Il collezionista Tanzi ha rimarcato la mancanza di sensibilità e cultura di oggi: il suo vasto archivio sulla Divina, ha subito una spregevole devastazione. Ha una certa diffidenza ora, ma ha accettato con molto entusiasmo la richiesta di Anna Sticco di concedere il proprio materiale per la mostra, perché ha capito che è davvero appassionata della cantante. Mentre il Critico Palumbi ha concentrato le sue attenzioni sulle opere artistiche della Pittrice Anna Sticco. Conosce i lavori di Anna allo Spoleto Festival Art e rimane incuriosito perché non capita spesso di trovare un unico soggetto ricorrente nelle opere di un'artista. I colori e il segno della Sticco sono molto forti, accesi, con una forte tempra. E questo mi pare un segnale importante perché, implicitamente e indirettamente, pone uno spostamento della valutazione dalla generosità d'animo o meno, al talento e alla preparazione, alla carica interpretativa forte e decisa, come i colori e i tratti delle rappresentazioni della Sticco. Quindi mi pare che l'artista sia riuscita in pieno nella rappresentazione. Unica cosa che si nota nelle sue opere, rispetto alle passate, è che Anna sembra sia suggestionata e presa dalla dimensione della Divina, tanto da annullare la componente
Omaggio
metafisica da cui è comunque sempre attratta e distratta. In modo speciale, nelle ultime opere sembra che la tela non le sia sufficiente per voler descrivere il personaggio. Deve aprire delle parentesi, delle nuove finestre, quasi sentisse la ricerca della perfezione e allo stesso tempo l'angoscia dell'ultima Callas. Ricorre alla geometria e alla dinamica del futurismo. Mi
riferisco specialmente al lavoro che compie sulla Stilista degli abiti fuori scena della Callas. La Biki, 'sarta' che firma tutti i suoi abiti e la trasforma nel Mito in collaborazione a tutti i paparazzi che l'hanno ritratta. Lode a tutti i partecipanti al Concerto Lirico, dai giovanissimi agli affermatissimi, al Pianista M° Aldo Dotto che ha accompagnato egregiamente e
sfoggia in prova una lettura a prima vista sicura e sorprendente. I Soprani Ilaria Lanzino, un leggero di coloratura che possiede enormi doti interpretative, il Soprano drammatico Federica Cassati che presenta un bel timbro ed enormi doti recitative, sempre precise e sulla nota. Ottime speranze per la Lirica. Poi la partecipazione speciale del Soprano Sara Pretegiani e del Tenore M° G. Battista Palmieri che hanno strabiliato con la loro tecnica, potenza e professionalità. Non si può infine non spendere qualche commento sul meraviglioso Catalogo che raccoglie non solo tutte le opere esposte delle pittrice sulla Callas, ma anche fotografie inedite dell'archivio Tanzi.
Inediti
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Il Sogno Solo un grande amore, un grande desiderio può spingere il vivo a “far rivivere” i suoi ricordi.
un racconto di Paride Trampetti
Di sognare capita tutte le notti, ma ricordare un sogno è certamente più complicato. Non importa se è bello o brutto, se riaffiora alla mente è piacevole, e viene voglia di raccontarlo. Vi è mai capitato ripensare ad un sogno, anche molto tempo dopo, e non essere sicuro se quello che a fatica riaffiora dal profondo, non sia un sogno o un fatto realmente accaduto? Da giovane a volte mi succedeva di sognare una donna, bella o brutta non fa differenza, e di aver vissuto con lei momenti di intimità, di complicità, fino ad un rapporto sessuale che mai si concretizzava, per il sopraggiungere di qualche impedimento. Poi il mattino seguente, magari incontrarla, con un tonfo al cuore, stupirsi che lei, nemmeno salutava, mentre a me sembrava di conoscerla a fondo; provando una emozione, un palpitare del cuore che solo la giovane età comporta. Altre volte mi addormentavo e sogna-
vo cose meravigliose. Il sogno più bello era quello di riuscire a spiccare il volo e mentre gli altri rimanevano a terra, io mi libravo nell’aria verso il cielo, guardando dall’alto il mio mondo, la mia città e miei luoghi. Questo era il sogno più bello, che mi dispiaceva interrompere con il risveglio, per cui se accadeva, mi rimettevo fermo a occhi chiusi a letto, cercando di riaddormentarmi; ma la magia era terminata e il sogno non si ripresentava. Forse la giovinezza è bella per questo, basta chiudere gli occhi e puoi cominciare a volare, a innamorarti a “sognare”. Poi con l’età anche i sogni invecchiano. Adesso la mattina, non riesco a ricordare ciò che ho sognato, e me ne dispiaccio molto, come se quelle ore di sonno fossero ore sprecate. Però vi voglio raccontare ciò che mi è accaduto qualche notte fa, uno dei rari sogni che sono riuscito a ricordare, anche se in maniera confusa.
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ppure ero andato a letto come tutte le sere. Verso le 11 e mezza, dopo aver visto un film in tv; quei film insignificanti, che non vedi l’ora che finiscano, ma guardi solo per sapere come andrà a finire; quei film che dieci minuti dopo la fine dimentichi completamente. La grande casa era buia e silenziosa; la casa che ho abitata da quando ero piccolo. Una casa antica, con gli alti soffitti, i pavimenti di cotto, i dipinti ai muri. Qui eravamo in tanti ad abitare, come succedeva negli anni 50-60. Diverse enerazioni che vivevano le une insieme alle altre, spesso litigando, ma pur sempre una famiglia”. Adesso i vecchi sono un peso insopportabile, i giovani un fardello da mantenere a lungo, ma con un senso di amarezza reciproca. Ricordo i miei tre zii ultraottantenni, il nonno vedovo, i miei genitori, mia sorella, quanta gente! Io ero il più piccolo, sono stato sempre il più piccolo in famiglia; è bello esserlo, coccolato, amato, protetto. Poi chi ti circonda progressivamente scompare, e ti ritrovi a essere il più vecchio. Ti volgi in dietro e ti accorgi che in un baleno gran parte della tua vita è passata. Ma ritorniamo a noi. Mi avviai verso la camera, spegnendo le luci dietro di me. Percorsi il lungo corridoio in penombra; aprii la porta con circospezione cercando di non far rumore. Mia moglie stava dormendo, ormai da più di un’ora. Accesi la luce del comodino, indossai il pigiama, e mi ficcai nel letto. Presi il libro che riposava sul comodino, la cui unica funzione era quella di conciliarmi il sonno. Infatti come tutte le sere, dopo mezza pagina
Inediti le righe cominciarono a ballare, a sovrapporsi, a divenire confuse; spensi la luce e mi addormentai immediatamente. Ad una certa ora, non so, forse le tre o le quattro del mattino, mi svegliai, forse avevo sete; dopo qualche esitazione mi alzai, infilai le ciabatte, e nel buio, mi avviai verso la cucina. Percorsi il corridoio della zona notte, superai la stanza Tv, accesi la luce nell’ampio ingresso della casa, mi diressi in cu-
un pulviscolo filtrava da sotto la porta. Presi la maniglia tra le mani, la girai timoroso e cominciai ad aprire la porta molto lentamente, cercando di non fare rumore. La stanza era illuminata, ma avvolta da una fitta nebbia, un chiarore accecante, che impediva la vista. Feci uno o due passi, mentre gli occhi cercavano di adattarsi alla intensa luminosità dell’ambiente. Non riuscivo a distinguere nulla, così era fitta la
cina. Presi dal frigo la bottiglia dell’acqua, ne versai un po’ nel bicchiere e bevvi. Mi incamminai di nuovo verso la camera, pronto a rimettermi a letto, con gli occhi pesanti dal sonno. Mentre passavo di fronte alla porta chiusa del soggiorno mi sembrò di sentire un vago rumore, come un brusio sommesso. Rimasi sorpreso, una scossa risvegliò i sensi. Mi accostai lentamente alla porta, senza far rumore, con le orecchie tese. Una fioca luce e una nebbiolina, come
nebbia; solo riuscivo a percepire un brusio che proveniva dal centro della stanza. Un brusio sommesso, voci indistinguibili, incomprensibili. Rimasi fermo, immobile, mentre il cuore mi batteva veloce nel torace, quasi trattenendo il respiro. Poi la nebbia cominciò lentamente a diradarsi, riconobbi la stanza. La stanza era grande, con alte pareti affrescate, su cui erano appesi vecchi quadri che raffiguravano paesaggi in acquarello. Sulla parete di destra c’era un camino
in pietra rossa, spento. Sulla parete di sinistra una grande credenza di noce, con sportelli a vetro, attraverso cui si potevano vedere i piatti del servizio buono in bella mostra. Sulla parete di fronte si aprivano due grandi finestre, velate da tende chiare. Al centro della stanza, sotto il grande lampadario in ottone, che emanava una luce intensa, c’era un antico tavolo ovale, di noce massiccio, con le zampe tornite. Seduti intorno al tavolo c’erano diverse persone. Esattamente sei persone. Tre anziane, due uomini e una donna, dovevano avere oltre ottanta anni, poi un’altra donna sulla sessantina, un uomo e una donna sulla quarantina, evidentemente marito e moglie. C’erano inoltre altri due posti apparecchiati, ma vuoti. Si, era la mia casa, la sala da pranzo, come era cinquanta anni fa, negli anni 60. I personaggi seduti al tavolo erano: la zia Lella classe 1878, deformata dall'artrite, un po' svampita dall'età; suo fratello Gino, mio nonno, dottore in agraria, classe 1886, sempre con il farfallino; suo fratello Ninetto, ingegnere, classe 1888, tipo interessante, forte personalità, che aveva una “cotta” per me; la zia Melania classe 1904, fornaia di Piobbico, protagonista di diversi miei racconti, una seconda mamma, forte personalità, sempre a favore del più piccolo (che in quel periodo ero io), le cui predilezioni poi sarebbero passate ai figli di mia sorella, poi ai miei. Poi mio padre Eugenio veterinario, e mia madre Maria maestra. Sono tutti morti; per primi i più anziani, poi mio padre che morì nel 79 a 58 anni, poi mia madre, infine mia zia Melania, morta a 101 anni. A tavola i due
Inediti posti liberi erano il mio, che allora avevo 12-13 anni e quello di mia sorella che ne avena tre più di me, gli unici della famiglia ancora in vita. Si era la mia famiglia, una famiglia patriarcale, in cui a tavola venivano servite prima le signore, poi i signori e da ultimo i ragazzi in ordine di età; io sempre per ultimo. Come sono cambiati i tempi. Ed ora dopo tanto tempo mi ritrovavo in quell'ambiente con le persone care, che tante volte avrei desiderato incontrare. cco ero fermo, davanti al tavolo, immobilizzato dalla sorpresa e dalla paura, guardavo la scena, mentre le figure sedute, stavano mangiando e conversando tra di loro, come se io non esistessi. Parlavano mentre stavano mangiando, ma io non riuscivo a capire cosa dicessero, era come un bisbiglio sommesso, come un brusio. Mi avvicinai ancora; la nebbia era ormai diradata, riconobbi i volti. Anche l’arredamento della stanza era quello di allora. Presi coraggio, mi avvicinai ancora, cercando di farmi vedere, farmi riconoscere, pronunciai qualche parola, che ora non ricordo, ma nessuno, si voltò verso di me; proseguirono nel loro bisbiglio. Mi avvicinai ancora, cercando di sfiorare con le mani, il braccio di mia madre, mentre il senso di angoscia, misto tenerezza mi invadeva. Appoggiai la mano sul suo braccio, ma non sentii nulla, non sentii la forma del suo corpo, il calore che doveva emanare, era come se fosse fatto di aria, così impalpabile e privo di consistenza. Stavo toccando non mia madre, ma aria. Ritrassi la mano, impietrito per la sorpresa e lo sgomento e rimasi così immobile,fis-
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sando lo sguardo sulla mia mano. Fu a quel punto che mio padre lentamente sollevò lo sguardo verso di me, come se finalmente si fosse accorto della mia presenza. Anche io lo guardai, abbozzando un sorriso.La nebbia si era diradata del tutto, finalmente dopo trenta anni, stavo guardando in faccia mio padre. Il suo volto non era quello sofferente, magro, consumato degli ultimi giorni di vita, ma quello di un uomo giovanile, nel pieno degli anni, in salute. Si quello era il papà che io conoscevo e che avevo amato. Ebbi un tonfo al cuore, quando mi guardò, come da bambino, quando avevo la coscienza sporca per qualche marachella e temevo che mi sgridasse. Quanto tempo era passato, anche io ero diventato padre, anche io avevo cresciuto i figli, ma quella sensazione di insicurezza di fronte a lui era rimasta. Mi guardò, e subito dopo anche gli altri commensali rivolsero lo sguardo verso di me, come stupiti nel vedermi. Io ero in silenzio, incapace di parlare, impietrito, con un nodo alla gola. Anche loro rimasero in silenzio, abbozzando un tenue sorriso; poi, lentamente, cominciarono ad alzarsi uno ad uno, dirigendosi con movimenti lenti vero la porta e dileguandosi, come inghiottiti dall’oscurità una volta superatala. Se ne andarono tutti, solo mio padre alzatosi in piedi rimase nella stanza, guardandomi sorridendo. Il cuore mi batteva all’impazzata, “Papà dopo tanto tempo, finalmente ti rivedo, non sai quanto sono contento”. Mentre parlavo, mi avvicinai, gli buttai le braccia al collo e lo abbracciai; era un corpo, un corpo umano, fatto di materia. Rimanemmo in silen-
zio per qualche secondo, poi finalmente mi parlò: “Figlio mio, per voi in vita è passato tanto tempo da quel pomeriggio in cui ci siamo salutati, ma per noi morti il tempo non esiste, è come se fosse stato ieri. Ti ho seguito in questi anni, ho vegliato su di te e tua sorella, ho cercato di indirizzarvi, guidarvi, ma non sempre ci sono riuscito. Tutti gli uomini sbagliano in vita e anche tu hai fatto errori, ma alla fine non sono stati errori gravi; sono orgoglioso di te.” Io: “papà non ti immagini quante volte ho sperato di poterti rivedere, di poterti parlare, di poterti conoscere, come in vita non mi è stato possibile. Nella vita io e te non abbiamo mai parlato, abbiamo vissuto insieme per 28 anni, ma sai come succede, quando si è giovani, uno pensa di avere tanto tempo davanti a se, e rimanda, rimanda, fino ad
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accorgersi che il tempo è finito, rien ne va plus. Solo una volta tu mi parlasti da uomo, poco prima di morire, eri molto malato. Io non riuscii a risponderti, travolto dalla commozione, e dal dolore. Questo per me è stato sempre un grande cruccio…” Lui : “Non parlare così. In quel momento capii perfettamente il tuo stato d’animo, in quel momento fui orgoglioso di te, perché quelle lacrime erano sincere, erano stille di amore che uscivano dai tuoi occhi e mi consolavano di non aver vissuto invano, ma di lasciare qualche cosa in terra, alla mia morte.” Mentre parlavamo eravamo diretti in cucina. Papà posso offrirti da bere? Presi due bicchieri, vi versai un dito di vino fresco, e glie lo porsi. Rimanemmo cosi uno di fronte all’altro parlando come un figlio parla con il proprio padre e come un padre
58 parla con il proprio figlio; furono momenti bellissimi, irripetibili. Sollevammo i bicchieri insieme,e bevemmo, guardandoci finalmente negli occhi. Poi mio padre disse “Caro figlio mio, mi dispiace, ma me ne devo andare. Ricordati che i genitori raramente parlano con i propri figli, perché questi non hanno mai tempo, rimandano al tempo futuro la possibilità di aprirsi; e i genitori temono di annoiarli, con discorsi troppo seri e noiosi. È sempre successo cosi. Ma non ti angustiare, tra essi esiste un filo impercettibile che li lega, che rende il loro rapporto unico e indissolubile. Quindi anche se non ci si parla, basta uno sguardo, una impercettibile carezza a far comprendere ciò che le parole non possono esprimere”. Così dicendo mi abbracciò e poi lentamente indietreggiando scomparve nel buio oltre lo stipite della porta. Rimasi immo-
Inediti bile, gli occhi fissi nel buio, “papà aspetta gridai, un altro momento… Aspetta… volevo chiederti… u allora che sentii un tocco deciso su un braccio, aprii gli occhi e vidi mia moglie che mi guardava meravigliata, seduta sul letto. “Che hai fatto?” mi disse. “Un sogno, un sogno che non ricordo….”, mentre mi stropicciavo gli occhi e cercavo di riordinare le idee. “Come al solito ieri sera hai mangiato troppo e adesso hai un sonno agitato.”. Non risposi, mi girai e poco dopo mi addormentai di nuovo. La mattina seguente mi alzai per primo, e mi recai in cucina a preparare il caffè. La casa era ancora immersa nella penombra come tutte le mattine. Percorsi il corridoio della zona notte, superai la stanza Tv, accesi la luce nell’ampio ingresso della casa, mi diressi in cucina. Passai di fronte alla porta della sala da pranzo, la aprii, niente, era tutto
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normale, come i giorni precedenti; stessi mobili, stessi lampadari, stesso ordine. Arrivai di fronte alla porta della cucina, era chiusa, l’aprii lentamente, accesi la luce, al suo interno non c’era nessuno, tutto era a posto, le sedie accostate al tavolo, il frigo chiuso; l’unica cosa di inusuale erano due bicchieri, posati sul tavolo, vicini, appena ombrati da un residuo di vino sul fondo. Li guardai, prima con stupore, poi mano mano che il sogno riaffiorava nella mia mente, con dolcezza e affetto. Un senso di pace, di tenerezza mi pervase; mi riaffiorarono alla mente le parole e le sensazioni provate la notte passata. Presi i bicchieri, li lavai e li rimisi a posto. Mi comportai come se nulla fosse accaduto. Non raccontai mai a nessuno quello che era successo quella notte. Nella mia vita sognai molte altre volte, ma mai sogno fu così realistico e coinvolgente. Da allora ne-
gli anni che seguirono ho sempre pensato che non avrei dovuto mai sentirmi solo, abbandonato, perché ci sarebbe stato sempre qualcuno che avrebbe vegliato su di me e scaldato anche i momenti più freddi: Questo qualcuno era il ricordo, un tesoro, una ricchezza che nessuno, in nessun momento, avrebbe potuto mai togliermi. Anche ora che vago impalpabile tra queste stanze, sfiorando invisibile i miei figli e i loro cari, avrei la tentazione e il desiderio di abbracciarli, parlare, brindare con loro, come abbiamo fatto tante volte in vita, ma questo, per noi anime è impossibile. Noi siamo qui, sospese nell’aria, guardiamo, vegliamo, cerchiamo di tifare per il meglio, ma in nessun caso possiamo farci vedere o intervenire nelle cose dei vivi. Solo un grande amore, un grande desiderio può spingere il vivo a “far rivivere” i suoi ricordi.
Che cosa è la vita se non un sogno. Cosa c'è di veramente reale in essa. Prova a chiudere gli occhi e pensa al passato, pensa ai volti dei tuoi cari, anche di quelli più vicini, tua moglie, i tuoi figli, gli amici, ti appariranno sfumati, non perfettamente messi a fuoco e più cerchi di definirli più ti sembreranno confusi. Per non parlare degli avvenimenti della vita che sembrano reali, ma mano mano ti ci concentri risultano sempre più evanescenti. In fin dei conti la vita è come un sogno, che non riesci a fissare; il tempo la trascina via, te la strappa dalle mani. L'unica cosa che rimane è uno sfilare davanti agli occhi di volti e avvenimenti che si sovrappongono e si confondono. Come nei film di Fellini, che spesso si chiudono con un palcoscenico su cui sfilano tutti i protagonisti di una vita, sospinti da una musica da circo nello stesso tempo allegra ma struggente.
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La Lista
Le anime vergini degli uomini di campagna, quando si convincono di una verità, si sacrificano per essa, fanno tutto il possibile per attuarla. Chi si è convertito, è sempre un relativista. Preferisco che al movimento si accosti un contadino più che un professore d'università. (Antonio Gramsci)
ex comunisti, mai comunisti, anti comunisti la Lista Nichi Vendola Nato a Bari il 26 agosto 1958, deputato per 4 legislature, “bucata” la quinta con il flop della coalizione Arcobaleno, al secondo mandato di Governatore della Regione Puglia, fondatore di Rifondazione nell’area Garavini, si scontra con Cossutta che lo definisce “comunsta da salotto”, si schiera poi con Bertinotti nel congresso di Venezia che segna la fine del pluralismo democratico nel PRC, egemonizzato dal segretario ex socialista che porterà il partito al suicidio della parteciazione all’effimero governo Prodi, ideatore della coalizione Arcobaleno ne condivide il clamosoro insuccesso; responsabile: - di avere snaurato il partito comunista legato alla storia e alla cultura operaia e in genere del lavoro, facendo predominare la componente velleitaria grossolanamente libertaria e ambientalista; - di avere subdolamente causato la disgregazione del partito comunista nel tentativo di impossessarsi della “cassa”, avendo già maturato l’abiura all’origine comunista, nel congresso di Chianciano del 2009; - di avere governato e governare la Regione Puglia circondato da fortissime perplessità di legalità, quanto meno sull’operato di taluni collaboratori; - e non è finita... Valter Veltroni Nato a Roma il 3 luglio 1955, deputato da 6 legislature, Sindaco di Roma per due mandati, Presidente del Consiglio dei Ministri mancato; membro del Comitato Centrale del PCI, segretario dei DS e infinde de PD, iscritto al Partito Comunista “quando si potevano iscrivere i non comunisti”(!), storico (si fa per dire) lo slogan del Convegno nella fabbrica del Lingotto di Torino: “I Care” (più o meno: io mi preoccupo) tipica espressione della tradizione della cultura operaia italiana; responsabile: - di aver portato l’elettorato dei DS (ex PDS ed ex PCI) al minmo storico assoluto: 16,6% nel 2006; - di avere gestito con grandi dubbi di competenza e trasparenza il nuovo “super” piano regolatore di Roma; - di essere riuscito a perdere in un solo colpo il governo nazionale, presupponendo di guidare da solo la coalizzione di centro sinistra, e il Comune di Roma, candidando un impresentabile stracotto Rutelli. Alcide De Gasperi (1881-1954) Deputato sin dal 1921 per il Partito Popolare, votò dapprima i poteri speciali per il neonominato primo ministro Benito Mussolini e poi la legge elettorale Acerbo che, grazie a un premio di larghissima maggioranza (25% divoti, 2/3 di deputati), consentì al Partito Fascista di assumere definitivamente il potere. Emarginato durante il fascismo, ma rimasto nel’ombra sotto la protezione del Vaticano, si ripresentò sulla scena politica dopo la Guerra di Liberazione alla quale era rimasto del tutto estraneo, assumendo la Presidenza del Consiglio dei Ministri; responsabile (tra l’altro): - di avere rotto l’unità nazionale cacciando dal governo comunisti e socialisti che avevano combattuto, a caro prezzo, il fascismo; - di avere venduto il Paese ai nordamericani in cambio dei finti aiuti del Piano Marshall; - di avere venduto 60mila disoccupati italiani al governo del Belgio per rinchiuderli in miniera in cambio di importazioni di carbone (patto “uomo-carbone”) La lista” prosegue nei prossimi numeri
a cura di SANDRO RIDOLFI
Senza parole