Siamo uno Stato di diritto? Scuola Diaz, Genova, 21 luglio 2001
Mensile di informazione, politica e cultura dell’Associazione Luciana Fittaioli - Anno V, nn. 7-8 - luglio-agosto 2013 - distribuzione gratuita
“Prima di giudicare (e per la storia in atto o politica il giudizio è l’azione) occorre conoscere e per conoscere occorre sapere tutto ciò che è possibile sapere” (Antonio Gramsci) “Faremo il possibile per esporre in forma semplice e popolare, senza presupporre la conoscenza nemmeno dei concetti più elementari. Vogliamo farci comprendere dagli operai.” (Karl Marx)
2 Sommario del mese di luglio Una Costituzione per i più deboli Lo “Stato sociale” non è solo “welfare” di Andrea Tofi
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L’Europa e le nuove frontiere Il Rinascimento cinese da un intervento di Romano Prodi
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Genova 21 luglio 2001 “Macelleria messicana” a cura di Sandro Ridolfi
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Una piaga sociale La violenza sulle donne di Giovanna D’Auria
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Redditometro Evasori fino a prova contraria di Loretta Ottaviani
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Cina in Italia Un mondo parallelo di Chen Miao e Sara Mirti
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L’albero senza vento La bellezza della lingua dei segni di Maria Sara Mirti
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“Milk Run” L’Impero del Male a cura di Sandro Ridolfi
pagina 31
Il Cacciatore (di cervi) La guerra “sporca” a cura di redazione
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Galileo Galilei Il metodo sperimentale moderno di Jacopo Feliciani
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Spoleto. L’Opera Stagione lirica 2013 a cura del Teatro Lirico “A. Belli”
pagina 43
Musica, saggi di fine stagione Da grande voglio fare... di Chiara Mancuso
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Io viaggio da sola Perché no? di Catia Marani
pagina 51
In viaggio con Paulette un racconto di Giorgio Dotto De Dauli
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Redazione: Corso Cavour n. 39 06034 Foligno redazionepiazzadelgrano@yahoo.it Autorizzazione: tribunale di Perugia n. 29/2009 Editore: Sandro Ridolfi Direttore Responsabile: Maria Carolina Terzi Sito Internet: Andrea Tofi Stampa: GPT Srl Città di Castello Chiuso: 23 giugno 2013 Tiratura: 3.000 copie Periodico dell’Associazione “Luciana Fittaioli”
Editoriale
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Avviato lo “smantellamento” dell’impianto industriale di Colle di Nocera Umbra, con il tacito consenso delle Istituzioni e dei Sindacati. Una storia già scritta nell’atto di vendita alla JP Industries che non doveva essere firmato. Denunciato anche il rischio della presenza di amianto. Recependo le denunce del Comitato dei Lavoratori Tiziana Ciprini, Portavoce alla Camera M5Stelle, ha presentato due interpellanze al Governo in attesa di risposta Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali, al Ministro dello sviluppo economico per sapere premesso che: nell'Accordo di programma per la disciplina degli interventi di reindustrializzazione delle aree coinvolte dalla crisi del Gruppo Antonio Merloni del 18 ottobre 2012 siglato dal Ministero dello sviluppo economico e dalle regioni Marche e Umbria si legge che «Nel corso degli anni 2007 e 2008 una prolungata crisi produttiva e di mercato ha coinvolto il Gruppo delle aziende facenti parte della Antonio Merloni S.p.A. Il Gruppo Antonio Merloni, che ha impiegato circa 3000 persone e si è articolato in diverse società, ha svolto la sua attività in diversi settori produttivi facenti perno sulla produzione del cosiddetto “bianco” ed i suoi stabilimenti produttivi italiani sono localizzati nei territori delle Regioni Emilia Romagna, Marche ed Umbria. La crisi che ha coinvolto il Gruppo Antonio Merloni ha assunto peculiari ed emblematici caratteri di gravità nel quadro delle crisi industriali italiane, in quanto riguarda un settore di assoluta rilevanza del sistema italiano con ripercussioni sull'economia di più regioni ad elevata specializzazione manifatturiera. Nel territorio dei Comuni umbro-marchigiani ricompresi nell'accordo di programma Merloni si sono determinate nel corso degli anni le condizioni per lo sviluppo di un articolato sistema dell'indotto del Gruppo Merloni che, al manifestarsi della crisi dell'azienda, ha subito pesanti ripercussioni sui livelli di attività con un grave impatto sulla
tenuta dell'occupazione»; la Merloni spa è stata ammessa alla procedura di amministrazione straordinaria prevista dall'articolo 2, comma 2, del decreto-legge 23 dicembre 2003, n. 347 e all'attrazione alla procedura madre delle società controllate Antonio Merloni Cylinders & Tanks srl, Tecnogas spa ed Elmarc spa e i commissari hanno presentato al Ministero un programma avente per oggetto la cessione dei complessi aziendali facenti capo al Gruppo Antonio Merloni ai sensi della lettera a), comma 2, dell'articolo 27 del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270; in questo contesto le parti in data 19 marzo 2010 siglavano un primo Accordo di programma di reindustrializzazione dell'area interessata definendo coerentemente le risorse nazionali, comunitarie e regionali a disposizione; l'accordo del 19 marzo 2010 prevedeva i seguenti obiettivi: a) tutelare l'apparato produttivo esistente; b) assicurare il rilancio delle attività; c) salvaguardare l'occupazione; con atto di cessione del 27 dicembre 2011 del «perimetro aziendale» del gruppo Antonio Merloni alla J&P Industries spa, la quale ha acquisito la proprietà di tutti gli stabilimenti della Merloni (compresi i complessi produttivi di Umbria e Marche), sono stati ricollocati una parte dei dipendenti del gruppo mentre altri 1510 lavoratori sono rimasti in carico alla azienda in amministrazione straordinaria e si trovano in cassa integrazione guadagni straordinaria; al primo accordo di programma del 19 marzo 2010 è seguita la sottoscrizione di un atto integrativo del 18 ottobre 2012 siglato tra Ministero dello
sviluppo economico, Regione Umbria e Marche per la «rimodulazione» degli interventi con l'obiettivo di 1) riassorbire il maggior numero possibile di personale diretto attualmente in cassa integrazione guadagni straordinaria; 2) favorire la piena utilizzazione degli stabilimenti produttivi della Antonio Merloni, con particolare riferimento alla quota parte dello stabilimento di Gaifana, oggetto del diritto di opzione alla vendita o alla locazione concesso dalla società J&P Industries spa; 3) sostenere il rilancio della PMI dell'indotto; la vendita dei complessi produttivi (compresi gli stabilimenti di Nocera Umbra e Fabbriano) della Merloni spa in amministrazione straordinaria alla società J&P Industries spa (Q.S. Group spa) è oggetto di una controversia giudiziaria pendente innanzi al Tribunale di Ancona intrapresa dalle banche creditrici nei confronti dell'acquirente Q.S. Group spa e della stessa Merloni spa in amministrazione straordinaria ed avente ad oggetto la nullità e/o inefficacia per violazione delle norme di cui agli articoli 62 e 63 decreto legislativo n. 270 del 1999 delle suddette operazioni di cessione del complesso aziendale; inoltre rappresentanti del comitato dei lavoratori metalmeccanici umbri della (ex) Merloni spa hanno segnalato criticità in riferimento alla produttività degli impianti oggetto di cessione, ad avviso dei quali emergerebbe il progressivo «depauperamento» delle lavorazioni e «smantellamento» dei macchinari dei reparti di stampaggio plastica con conseguente riduzione dell'attività lavorativa;
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Editoriale
gli obiettivi dell'Accordo di programma prevedevano il riassorbimento del maggior numero possibile di personale attualmente in cassa integrazione guadagni straordinaria e favorire la piena utilizzazione degli stabilimenti produttivi della Antonio Merloni spa; tuttavia emergerebbe un quadro di incertezza delle sorti degli stabilimenti e dei lavoratori in cassa integrazione guadagni straordinaria per effetto della pendenza del contenzioso innanzi al Tribunale di Ancona in merito alla legittimità della cessione del complesso produttivo e della prossima scadenza della cassa integrazione guadagni straordinaria –: se i Ministri, ciascuno per le proprie competenze, siano a conoscenza o meno della descritta situazione in seno all'area industriale tutta ed in particolare
di quella relativa agli stabilimenti di Nocera Umbra (PG) e Fabriano (AN); quali siano i dati aggiornati dei dipendenti della Merloni spa, in amministrazione straordinaria, che si trovano ancora in cassa integrazione guadagni straordinaria anche alla luce della imminente scadenza del trattamento di cassa integrazione guadagni straordinaria dei suddetti lavoratori e quali misure i Ministri intendano adottare; quali misure urgenti e/o provvedimenti i Ministri intendano assumere per promuovere il dialogo con la proprietà allo scopo di predisporre un piano industriale efficace per salvaguardare la produzione e i livelli occupazionali, anche nell'ipotesi in cui si dovesse pervenire all'annullamento della cessione per effetto dell'accoglimento dell'impugnativa pendente in-
nanzi al tribunale di Ancona; quali altre misure e/o azioni urgenti i Ministri, ciascuno per quanto di competenza, intendano adottare o stiano adottando per garantire il sostegno del reddito ai lavoratori che si trovano in cassa integrazione guadagni straordinaria e non assunti dalla J&P Industries spa e per favorire la piena utilizzazione degli stabilimenti produttivi della Antonio Merloni di Nocera Umbra e Fabriano, garantire prospettive economiche certe e salvaguardare i livelli occupazionali degli stabilimenti; se i Ministri dispongano di notizie in merito alla posizione assunta in ordine alla controversia pendente innanzi al tribunale di Ancona avente ad oggetto la nullità/inefficacia della intervenuta cessione. Tiziana Ciprini
Al Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, al Ministro della Salute, al Ministro dell’Ambiente, tutela del territorio e del mare Per sapere, premesso che La società Merloni spa è stata ammessa alla procedura di amministrazione straordinaria prevista dall’art. 2, comma 2, del D.L. 23.12.2003, n. 347 e all’attrazione alla procedura madre delle società controllate Antonio Merloni Cylinders & Tanks s.r.l., Tecnogas s.p.a. ed Elmarc s.p.a. e i Commissari hanno presentato al Ministero un programma avente per oggetto la cessione dei complessi aziendali facenti capo al Gruppo Antonio Merloni ai sensi della lettera a), comma 2, dell’art. 27 del D. Lgs. 8 luglio 1999, n. 270. In questo contesto, il Ministero dello Sviluppo Economico, la Regione Umbria e Marche in data 19 marzo 2010 siglavano un primo Accordo di Programma di reindustrializzazione dell’area interessata definendo coerentemente le risorse nazionali, comunitarie e regionali a disposizione; l’accordo del 19 marzo 2010 prevedeva i seguenti obiettivi: 1) tutelare l’apparato produttivo esistente; 2) assicurare il rilancio delle attività; 3) salvaguardare l’occupazione; Con atto di cessione del 27.12.2011 la società J&P Industries spa ha acquistato la proprietà del “perimetro aziendale” del Gruppo Antonio Merloni, acquisendo anche i complessi industriali Umbro Marchigiani di Nocera Umbra e Fabriano; rimangono in carico all’azienda in Amministrazione Straordinaria circa 1500 dipendenti; al primo Accordo di Program-
ma del 19 marzo 2010 è seguita la sottoscrizione di un Atto integrativo del 18 ottobre 2012 siglato tra Ministero dello Sviluppo Economico, Regione Umbria e Marche per la “rimodulazione” degli interventi con l’obiettivo di 1) riassorbire il maggior numero possibile di personale diretto attualmente in CIGS; 2) favorire la piena utilizzazione degli stabilimenti produttivi della Antonio Merloni, con particolare riferimento alla quota parte dello stabilimento di Gaifana, oggetto del diritto di opzione alla vendita o alla locazione concesso dalla societa J&P Industries s.p.a.; 3) sostenere il rilancio della PMI dell’indotto; la vendita dei complessi produttivi della Merloni spa in Amministrazione Straordinaria alla società J&P Industries spa (Q.S. Group spa) è oggi oggetto di una controversia giudiziaria pendente innanzi al Tribunale di Ancona intrapresa dalle Banche creditrici nei confronti dell’acquirente Q.S. Group spa e della stessa Merloni spa in Amministrazione Straordinaria ed avente ad oggetto la nullità e/o inefficacia per violazione delle norme di cui agli artt. 62 e 63 D. Lgs. n. 270/99 delle suddette operazioni di cessione del complesso aziendale; a seguito di un sopralluogo dell’aprile u.s., i rappresentanti del Comitato dei lavoratori Metalmeccanici umbri della (ex) Merloni spa hanno segnalato criticità in riferimento alla ripresa della produttività degli impianti oggetto di cessione nonché la pericolosa presenza di amianto negli stabilimenti di Nocera Umbra e Fabriano della ex Merloni spa; numerosi dipendenti della
Merloni spa hanno presentato denuncia alla Procura della Repubblica di Perugia e avrebbero segnalato la presenza del materiale pericoloso anche all’Ispettorato del Lavoro e all’Inail; è noto che la presenza di materiali e fibre di amianto negli edifici e negli ambienti di vita e di lavoro rappresenta un reale pericolo per la salute pubblica, posto che, se respirate, costituiscono una grave forma di inquinamento dell’ambiente, dei luoghi di lavoro e pregiudizio all’integrità fisica e alla salute dei lavoratori; chiede di conoscere: se i Ministri, ciascuno per le proprie competenze, siano a conoscenza o meno della descritta situazione relativa agli stabilimenti di Nocera Umbra (PG) e Fabriano (AN) della Merloni spa; se alcuna informazione sia giunta al Governo e se lo stesso sia informato in merito al se e quando risalgono le ultime visite e/o controlli delle Asl e degli Uffici competenti – Ufficio prevenzione, Igiene e Sicurezza sui luoghi di Lavoro – o di altra Autorità e cosa vi sia scritto in merito alle condizioni dei luoghi di lavoro e alla eventuale presenza di amianto; se siano giunte o risultino denunce e/o segnalazioni all’Inail e/o all’Ispettorato del Lavoro in merito alla presenza di amianto negli stabilimenti suddetti; quali misure e/o azioni urgenti i Ministri, ciascuno per quanto di competenza, intendano adottare o stiano adottando per garantire la sicurezza dei luoghi di lavoro e la salute dei lavoratori degli stabilimenti della (ex) Merloni spa Tiziana Ciprini
Salute
Lo “Stato sociale” una sola “stella”, la nostra “stella”
Articolo 3 della nostra Costituzione "E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che (…) impediscono il pieno sviluppo della personalità umana e l’effettiva partecipazione (…) di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale.”
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Sociale
Oggi si parla di “Welfare” ma nella nostra Costituzione s’intendeva “Stato sociale” Media, politici e tutti i mezzi di comunicazione parlano di stringere la cinghia al “welfare” confidando nella scarsa conoscenza dell’inglese del popolo italiano, in realtà ci stanno paventando un futuro senza tutele sociali. DI
ANDREA TOFI
“Grazie, signora Fornero”
Tagli, tagli e ancora tagli è questo il futuro che ci prospettano i nostri governanti per ciò che riguarda il nostro sistema sociale. I soldi non ci sono più, i costi per lo stato sono troppo elevati, il sistema pensionistico è al collasso, la sanità è un macigno per le nostre casse, la scuola va riformata per evitare di dissipare le ultime risorse. Forse in tutto ciò ci siamo persi qualche passaggio della nostra Costituzione: - Art.2 “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” - Art. 3 “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che (…) impediscono il pieno sviluppo della personalità umana e l’effettiva partecipazione (…) di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale” - Art. 4 “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro (…)” - Art. 31 “La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazionedella famiglia e l'adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose. Protegge la maternità e l'infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo” - Art. 32 “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti” - Art. 33 “La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi” - Art. 38 “Ogni cittadino inabile al
lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere hadiritto al mantenimento e all'assistenza sociale”. Qualche giorno fa mi è capitato di guardare una trasmissione televisiva alla quale partecipavano personaggi politici, giornalisti e tra questi c’era anche un manager di un’importante società che gestisce la rete elettrica nazionale. Nel breve spezzone a cui ho assistito (era forte la tentazione di lanciare il telecomando verso la televisione!), questo grande manager ha fatto un’intervento invitando gli italiani ha prepararsi nei prossimi anni ha rinunciare ad un pezzo del nostro “welfare” per salvare l’ecomomia del nostro paese. Parlava di numeri, di zero virgola qualcosa che sommati insieme rappresentano spese impornati nel nostro PIL. Ora mi permetterei di far osservare al signor Flavio Cattaneo, amministratore delegato di Terna, che dietro a quei zero virgola qualcosa ci sono delle persone che necessitano di aiuti per affrontare la vita quotidiana perchè magari non hanno più un posto di lavoro, una casa e sono avvolti dalla spirale della crisi di cui sono solamente vittime.
L’articolo 2 della nostra costituzione parla di doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale, significa cioè che tutti dobbiamo contribuire al sostentamento dello Stato affinchè questo sia in grado di ripianare le disugulianze economiche che aggiungerei io, si possono creare in un’economia capitalistica. Durante questa trasmissione sono riuscito però ha condividere una frase sul nuovo governo “Letta”: il nostro primo ministro ha presentato il Ddl del “fare”, ma sino ad ora non ha fatto che “dire” e tra il “dire ed il fare” come recitava un vecchio detto purtroppo o per fortuna c’è il “mare”. Dico per fortuna perchè sono convinto che questa classe dirigente e chi la manovra (banche, lobbi, ecc...), più parla e fa proclami e meno danni mette in pratica. Il tentativo di smantellare lo “Stato sociale” appare oramai evidente, ma sino a quando avremo una carta Costituzionale in grado di difenderci, avremo ancora la speranza che i diritti sociali del singolo cittadino vengano fatti valere ed incrementati perchè favoriscono l’interesse primario della collettività e non viceversa.
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Sociale
Difendere lo stato sociale per l’interesse della collettività Come combattere la “Troika”: il triunvirato costituito dalla Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale e Unione Europea Adesso le persone vivono vent’anni dopo che sono andate in pensione e allora ci sono i problemi che nascono dal deficit della previdenza pubblica. Ma la cassa pensionistica dell’ INPS non è affatto in passivo, ma anzi è in attivo di parecchi miliardi”. Alla base di questa battaglia contro lo “Stato sociale” ed a favore del risanamento del debito e il pareggio di bilancio in Costituzione, c’è la cosiddetta “Troika”, costituita dal “Fondo Monetario Internazionale, la Banca Centrale Europea e la Commissione Europea . L’FMI, ha pubblicato un rapporto che si intitola “Il rischio della longevità”, nel quale il vero allarme è “l’aumento della speranza di vita” e che se aumentasse ulteriormente “sarebbe un disastro”. La soluzione, ovviamente, è l’aumento dell’età pensionabile che, sempre secondo il rapporto, “75 anni potrebbe essere un limite ragionevole”. In sintesi l’idea che esprime questo rapporto è semplice: diamo a tutti un reddito di base abbastanza elevato però sopprimiamo totalmente la protezione sociale. “Niente pensioni pubbliche, niente sanità, niente scuole. Le persone, essendo dotate come nucleo fami-
liare di un reddito abbastanza consistente, devono risparmiare fare assicurazioni, fare investimenti”. Imitare in parole povere il “welfare americano”. Ora mi chiedo per quale motivo, noi europei che siamo stati tra i primi fondatori dello “Stato sociale”, che ci ha permesso fondamentalmente di resistere sino ad oggi alla bolla finanziaria scoppiata in americana, dobbiamo assoggettarci a queste idee. E’ vero che il deficit dei bilanci pubblici dei paesi europei negli ultimi anni è cresciuto notevolmente, ma è anche plausibile che esso sia lievitato a dismisura per l’enorme quantitò di denaro messo a disposizione delle banche per il loro salvataggio (4.500 miliardi di euro nella sola Germania). Le pensioni dicono che costano di più, il sistema sanitario non parliamone… il tutto si scarica sullo Stato, quasi che le pensioni le pagasse lo Stato e non il lavoratore e anche le imprese, per la loro parte”. La spesa sociale nell’Unione Europea e anche in Italia è rimasta praticamente costante intorno al 25% del Prodotto Interno Lordo (PIL). Mentre alle banche europee, sotto varie forme tecniche, è stato assegnato
un valore di PIL pari al 35%. “Cioè l’Europa ha assegnato alle banche per salvarle un terzo del valore prodotto”. Dunque alla luce di questi dati non si può affermare che la spesa sociale ha compromesso i bilanci pubblici. I motivi sono altri. E’ più verosimile pensare che dietro a questo disegno politico vi sia il tentativo di speculare su un’enorme fetta di mercato come quella del “welfare” ( si stima che in Europa lo stato sociale valga 3.400 miliardi di Euro), un affare per le assicurazioni, cliniche private, scuole private e quant’altro È la trasformazione dei diritti sociali collettivi in merce. Si dice che un eccesso di benessere , di assistenza sociale, di pensioni eccessivamente generose hanno sopraffatto lo stato sociale. È in corso una grande opera di colpevolizzazione attraverso i media che non dicono la verità circa le vere cause della crisi, ma hanno compiuto un capolavoro inculcando in tutta la popolazione l’idea colpevolizzante di aver vissuto per una generazione o più al di sopra dei propri mezzi, diffondendo così anche l’ansia per il futuro, le speranze per i propri figli ed innescando un conflitto generazionale.
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Sociale
I punti cardine del nostro Stato sociale: dalla previdenza alla tutela dei più deboli - L’assistenza sanitaria
La legge 23 dicembre 1978 n. 833 istituì il Servizio Nazionale Sanitario (SSN). Il SSN nasceva come sistema pubblico ed universale per garantire cure mediche a tutti i cittadini, indipendentemente dal reddito. Oggi il Servizio Sanitario Nazionale è finanziato sia dalle imposte dirette che dai ricavi delle Aziende Sanitarie Locali, derivanti dai pagamenti parziali o totali sui servizi erogati (ticket).
- Pubblica Istruzione
In Italia l'istruzione è pubblica è obbligatoria e gratuita (art. 34 della costituzione) tra 6 e 16 anni. Vi sono inclusi cinque anni di scuola primaria, tre anni di scuola secondaria inferiore e due anni di scuola secondaria superiore. In alternativa alla scuola secondaria superiore, esistono percorsi di Formazione professionale di competenza regionale. Durante la scuola primaria sono previsti contributi per i libri di testo mentre dall'età di 12 anni i costi dei libri, del trasporto e le tasse per la frequenza delle scuole secondarie superiori sono a carico delle famiglie, pur essendo previsti contributi da parte degli enti locali, in base al reddito. Le Università sono sia pubbliche che private. Le università pubbliche sono principalmente finanziate dallo Stato, hanno tasse d'iscrizione basate sul reddito e, in virtù del Diritto allo studio universitario, prevedono l'erogazione di benefici agli studenti a basso reddito.
- Edilizia popolare
Il problema di abitazioni salubri ed economiche per la popolazione a basso reddito portò all'approvazione nel 1903 della Legge Luzzati, che prevedeva la costituzione di locali Istituti per le Case popolari a carattere pubblico e senza scopo di lucro allo scopo di costruire ed affittare gli appartamenti per soddisfare le esigenze di una popolazione urbana in aumento. Tali agenzie vennero riformate nel 1938. Nel 1948 il ministro Fanfani fece approvare un testo di legge che instituì l’INA-Casa per rilanciare l’occupazione e l’edilizia. Nel 1978 la Legge sull'Equo Canone introdusse un tetto massimo ai canoni d'affitto delle proprietà residenziali e contratti di durata quadriennale, la legge fu poi abolita nel 1998 favorendo così la speculazione edilizia che nel corso degli decenni ha contribuito al collasso
della nostra economia.
- Sostegno di disoccupazione
Lo stato di disoccupazione è affrontato in Italia con contributi statali, sotto forma di prestazioni a sostegno del reddito, chiamato indennità di disoccupazione. Hanno diritto a tale contributo, pari ad un massimo del 40% degli stipendi precedenti, i lavoratori con due anni di anzianità assicurativa e che hanno versato i contributi previdenziali per almeno 52 settimane durante questi due anni. Il periodo di indennità di disoccupazione è generalmente di 12 mesi. Nel 1947 viene istituita la “cassa integrazione guadagni”, che consistente in una prestazione economica in favore di lavoratori che siano stati sospesi o che lavorino a tempo ridotto a causa di difficoltà provvisorie delle loro aziende. Questo istituto è finalizzato a sostenere le aziende in difficoltà finanziarie, alleviandole dai costi della manodopera inutilizzata, al tempo stesso sostenendo i lavoratori che perderebbero parte del loro reddito. Gli operai ricevono l'80 % dei loro stipendi precedenti, nell'ambito di un tetto massimo stabilito dalla legge ed i loro contributi pensionistici sono considerati versati (si parla di contributi figurativi). Insieme alla cassa integrazione guadagni, dal 1984 le aziende possono chiedere la stipulazione di un contratto di solidarietà che prevede orari ridotti per il 60% dello stipendio prece-
dentemente percepito. Tali contratti possono durare fino a quattro anni oppure cinque, nelle zone meridionali italiane.
- Sistema pensionistico
La storia delle pensioni in Italia risale alla istituzione nel 1898 della Cassa nazionale di assicurazione per invalidità e invecchiamento (CNAS), una assicurazione volontaria che riceveva contributi da Stato e dai datori di lavoro, divenuta obbligatoria nel 1919. L'Agenzia è stata ribattezzata Istituto nazionale fascista della previdenza sociale nel 1933, per poi assumere nel 1943 l'attuale denominazione INPS. Nel 1952 le pensioni vennero riformate ed introdotta la pensione minima. Nel 1968-69 il sistema contributivo venne sostituito da quello retributivo, basato sul salario percepito. Dal 1980 è l'INPS ad occuparsi del pagamento dell'indennità di malattia e della riscossione dei relativi contributi. Negli ultimi anni l’istituto previdenziale è stato martoriato da varie riforme restrittive, Legge Dini del 1995, Legge Maroni del 2004 sino ad arrivare alla disastrosa Legge Fornero del 2012.
- Tutele sociali
Politiche di assistenza sono previste anche a favore e sostegno della famiglia (assegno familiare, detrazioni fiscali, congedo di maternità, ecc..) e delle fasce più deboli come gli anziani i disabili e gli immigrati (sostegno al reddito e servizi per i meno abbienti).
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Opinioni
L’Europa, il “Rinascimento” cinese e le nuove frontiere tratto da un intervento DI ROMANO PRODI
(Convegno “I Sud e le porte del Mondo”, Trento, 30 agosto 2011)
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oi viviamo in un unico mondo, ma non dobbiamo avere un unico modello. Il colonialismo era bastato su questo principio: esiste un modello unico ed è il nostro. Ci sono diritti fondamentali certamente, ma non possiamo metterci nell'ottica del "noi insegniamo, voi imparate". Per convivere nel mondo abbiamo bisogno di un minimo di profezia, non solo di diplomazia. Lo straordinario processo di crescita del Celeste Impero è un fantastico Rinascimento e non uso per caso questo termine, richiamato sempre dagli stessi cinesi: è un concetto tutto italiano e sentire richiamare questi aspetti per rafforzare la propria identità dà una certa sensazione positiva. Dopo che per anni gli Stati Uniti hanno bacchettato la Cina sulla concorrenza, sui diritti umani, sul Tibet, oggi il vicepresidente americano va in visita dicendo che Taiwan è un affare interno al paese. Queste dichiarazioni, passate sotto silenzio dai media italiani, non avvengono mai per caso, ma testimoniano che il mondo è cambiato, che gli equilibri si sono modificati. In agosto le previsioni sul quadro economico sono completamente mutate in una direzione pessimistica e questa seconda ondata della crisi economica ha accorciato di qualche anno il passaggio di testimone dagli Stati Uniti alla Cina. Viviamo in un mondo in grandissima trasformazione in cui il Nord sta passando il testimone della gara; sarà un passaggio lento, non certo immediato, ma il fatto è che se non cambiano alcuni valori di riferimento ciò avverrà inevitabilmente. I ragazzi cinesi sono capaci di tutto, come poteva essere in
Italia negli anni 60, hanno un grande entusiasmo, posseggono un’alta formazione avviano attività imprenditoriali innovative. Loro hanno la consapevolezza di migliorare. Ho un'esperienza limitata, ma là tutto sembra possibile, è un momento storico per loro, anche se questa corsa ha costi sociali elevati. Se queste sono impressioni soggettive, la realtà del passaggio di testimone dagli Stati Uniti alla Cina, cioè dall’occidente all’Asia, si fonda su dati quantitativi. Prima di tutto la demografia: in 100 anni l'Europa passerà dal rappresentare il 20% della popolazione all'8%, la Cina rallenterà la sua spinta e probabilmente l'India la supererà, ma parliamo di circa 3 miliardi e mezzo di persone su una popolazione globale di 9 miliardi di abitanti; la popolazione continua a crescere nei paesi musulmani e nell'Africa: oggi in Africa e l'Europa hanno gli stessi abitanti della Cina, domani basterà l'Africa: dovremo vedere se accanto a un Rinascimento asiatico ci sarà anche un Rinascimento africano. Se passiamo alle cifre che riguarda-
no lo sviluppo economico, incontriamo cambiamenti ancora più veloci: per 17 secoli e mezzo la Cina ha avuto il reddito pro capite più alto del mondo, raggiunto nel Rinascimento soltanto dalla Toscana. Se poi passiamo ai dati sugli aspetti economici incontriamo cambiamenti ancora più veloci: nel 1950 gli Stati Uniti detenevano il 50% del prodotto interno lordo globale, oggi hanno il 20%, l'Europa un po' di più, il blocco occidentale è passato nello spazio di due generazioni dal 68% al 42%. el contempo gli ultimi decenni ci dicono che le disuguaglianze sociali tra ricchi e poveri sono aumentate. Quaranta anni fa, noi avevamo il grande augurio che i paesi si sviluppassero e che tutto il mondo progredisse; ma adesso ciò che sta accadendo davvero sembra una catastrofe. Fino agli anni 80 c'era stato un leggero miglioramento della condizione dei poveri, grazie al welfare state, ma l'appesantimento dello Stato e l'inefficienza delle strutture pubbliche hanno cambiato la visione.
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10 Perché è accaduto questo? Ci sono ragioni economiche ma soprattutto politiche. Quando crescono i valori economici, i prezzi degli immobili e dei beni di consumo, ovviamente aumenta la differenza tra chi li possiede e chi no. Una famiglia, di pari reddito rispetto ad un'altra, ma che possiede una casa che raddoppia il suo valore è ovvio che sarà avvantaggiata. Secondo: con un consenso generale in quasi tutti paesi sono state abolite le imposte di eredità, che avevano aiutato la ridistribuzione della ricchezza. Terzo: la riduzione delle aliquote fiscali, come per esempio negli Stati Uniti dove si è passati da 60% al 36% per i redditi più alti. Questo vuol dire meno soldi allo Stato, al sistema sanitario, a quello scolastico. Quarto: l’ampliarsi della gamma delle remunerazioni delle differenze tra le retribuzioni e tra i salari; anche questo viene tranquillamente accettato dall'opinione pubblica. Non c’è più uno sdegno verso queste sperequazioni ma c’è una corale accettazione delle disuguaglianze. Non ci si indigna più neppure di fronte all’evasione fiscale. a debolezza e l’assenza della politica la cui mancanza di leadership e di progettualità ha in un certo senso determinato la crisi e ora impedisce di trovare soluzioni. Il grande fatto nuovo che corrode la nostra democrazia sta tutto nell’assenza della politica, detronizzata dall’economia o meglio dalle strutture finanziarie internazionali, capaci di una rapidità nelle decisioni e di una forza quantitativa impossibili per le politiche dei singoli Stati. Oltre il 70% delle vendite dei titoli in borsa avvenute in queste settimane sono state automatiche; sono i computer che gestiscono la situazione ragionando secondo schemi statistici: è un sistema certamente fuori da ogni tipo di controllo politico. Se lo spread aumenta, si reagisce vendendo il nostro portafoglio di titoli. Questo è inevitabile. Ma c’è qualcosa di più profondo. Non possiamo pensare né aspettare che il mondo si autocorregga. Sono pessimista, non vedo soluzioni vicine. Vedo una mancanza di leadership, lo sguardo solamente rivolto al breve periodo. I politici sono sempre messi davanti al dilemma di rischiare il posto oppure di cedere
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Opinioni alla demagogia. 'assenza della politica non è solo un problema italiano, ma investe l’occidente, l’Unione Europea il cui rafforzamento sarebbe la nostra unica ancora di salvezza. Tutto questo è aumentato nel periodo di tempo che io chiamo decennio della paura. In Europa siamo passati dai grandi successi dell'adozione dell'euro, dell'allargamento, dei nuovi trattati, all'epoca della paura: della Cina, della globalizzazione, degli immigrati, delle cose che ci vengono in casa e di quelle che scappano. Invece di rispondere a questo unendoci di più si reagisce dividendosi e frammentandosi. I vertici franco tedeschi sono la negazione dello spirito europeo: tutti gli aspettano come risolutivi ma poi finiscono con un rinvio. Gli altri 25 paesi si arrabbiano ma non hanno la forza di contrastare questa tendenza. Alla fine non si possono prendere decisioni efficaci. Avremo bisogno di un cambiamento della struttura decisionale. In politica devi fare iniziative rischiando, rischiando in prima persona. Parlavo con il responsabile degli esteri del Partito comunista cinese, un uomo di grande conoscenza, sapeva benissimo l'italiano e conosceva pure il Partito Democratico. Diceva: io non capisco più gli europei, voi non pensate mai al domani, siete sempre sotto elezioni e ogni elezione è diventata di importanza epocale. Come fate a gestire un continente se non pensate mai al domani? E ha concluso: sono mol-
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to preoccupato per il futuro della vostra democrazia. Il prete non era quello giusto ma la predica era sensata! ’è un fortissimo legame tra la nostra situazione politica e l'aumento delle diseguaglianze. Occorrerebbero le riforme: per esempio io sono stato sempre favorevole alla Tobin tax, quella sulle transazioni finanziarie, però come economista devo dire che devono adottare tutti questa tassa altrimenti è un gioco che alimenta ulteriormente gli squilibri. Oppure ci vorrebbe la riforma del sistema monetario internazionale, ma la Cina non vuole, l’Europa è divisa: si fa presto a dire che servono organismi sovranazionali per gestire l’economia globale, ma poi in pratica nessuno si muove in questa direzione. Eppure soltanto le istituzioni regionali e sovranazionali ci potrebbero salvare. A fronte di questi repentini cambiamenti che di certo sfuggono al nostro controllo e che sono più grandi di noi, l’unica azione necessaria e possibile, attuabile da individui e comunità, incrocia il mutamento del nostro orizzonte valoriale. Non servono gesti simbolici o eclatanti, bisogna un cambio di sensibilità, un ripensamento personale e collettivo. Noi non pensiamo ancora a un mondo diverso. Tutta la nostra analisi va completamente riscritta: o noi ci rendiamo conto anche nella vita quotidiana del cambiamento in atto e del modo in cui affrontano, altrimenti siamo tagliati fuori.
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Genova, 21 luglio 2001
la sospensione dello Stato di Diritto
Con due sentenze, la prima del luglio 2012 sull’irruzione nella scuola Diaz, e la seconda di giugno 2013, sul concentramento nella caserma Bolzaneto, la Cassazione ha messo la parola fine alla vicenda giudiziaria dell’accertamento dei fatti di violenza commessi dalla Polizia di Stato e dall’Arma dei Carabinieri ai danni di oltre 150 ragazzi, inermi e pacifici, che dormivano nella scuola messa a disposizione dal Comune di Genova in occasione del vertice del G8 organizzato nel luglio 2001 a Genova dall’allora governo Berlusconi. Ambedue le sentenze hanno confermato la bestialità (il termine non è affatto eccessivo) degli atti di violenza fisica e psicologica posti in essere dai funzionari dello Stato in quella che lo stesso comandante della squadra mobile romana, Michelangelo Fournier, descrisse ai magistrati inquirenti come: “una macelleria messicana”. La giustizia, come si dice, ha fatto il suo corso e qualcuno ha comprensibilmente dichiarato la propria soddisfazione. Ma la giustizia ha anche fatto il suo tempo: insufficienze di prove, prescrizioni e indulti hanno, alla fine, sottratto tutti i responsabili diretti di quei fatti alla soggezione alle relative pene. Più grave ancora la giustizia non è
stata in grado di individuare e perseguire la così detta “filiera del comando”, limitandosi ad accertare e condannare alcuni degli autori materiali di quei fatti, ignorando o mandando anche espressamente assolti i vertici, amministrativi e militari, che avevano organizzato quella “macelleria”. Più grave ancora è però che la politica, nei 12 anni trascorsi, nulla ha fatto; non certamente per perseguire i colpevoli, che è compito della magistratura, ma per risarcire la gravissima ferita ai principi stessi dello Stato di diritto che in quell’occasione subì, come ebbe occasione di denunciare Amnesty International, “una delle più gravi violazioni dei diritti umani dopo la seconda guerra mondiale”. La “politica” non è una istituzione, una struttura o una funzione dello Stato che può operare meglio o peggio, la “politica” siamo tutti noi, la “politica” esprime il grado di livello culturale di un Paese. Il nostro Paese non ha voluto assumere la consapevolezza e la conseguente responsabilità di essere uno Stato a “democrazia limitata”, uno Stato nel quale fenomeni di gravissima illegalità quando commessi da istituzioni dello stesso semplicemente “non esistono”. Sappiamo bene che nel nostro Paese la maggiore
industria è quella della criminalità organizzata e che scorre una guerra civile strisciante che in 40 anni ha provocato oltre 10.000 morti (tre volte più della guerra di indipendenza dell’IRA irlandese, 1.000 volte più del cosiddetto terrorismo brigatista). Sappiamo bene che gestire militarmente un simile contesto di violenza armata diffusa costantemente all’attacco dello Stato, comporta la necessità di ricorrere a mezzi, strumenti e addetti di discutibilissima legalità. Ma non discernere il limite della necessità e non difendere la priorità della legalità democratica, significa metterla costantemente in pericolo. Vogliamo qui ricordare quei fatti gravissimi non conservarne la memoria (assai difficile da dimenticare), ma perché quei fatti sicuramente si ripeteranno, nei grandi numeri dei 150 ragazzi di Genova o nei singoli ma interminabili elenchi degli Aldovrandi, Sandri, Cocchi e altri. Per questa memoria abbiamo fatto due scelte: non utilizzare immagini impressionanti (abbiamo scelto il solo simbolo di Amnesty), riprodurre un articolo scritto qualche anno dopo quei fatti da un giornalista inglese. Chi vuole (e dovrebbero essere tanti e tutti) può approfondire con estrema facilità di ricerca.
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Cronaca di una “macelleria messicana” DI NICK DAVIES
giornalista britannico che scrive per il Guardian
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ancava poco a mezzanotte quando il primo poliziotto colpì Mark Covell con una manganellata sulla spalla sinistra. Covell cercò di urlare in italiano che era un giornalista, ma in pochi secondi si trovò circondato dagli agenti in tenuta antisommossa che lo tempestarono di colpi. Per un po’ riuscì a restare in piedi, poi una bastonata sulle ginocchia lo fece crollare sul selciato. Mentre giaceva con la faccia a terra nel buio, contuso e spaventato, si rese conto che i poliziotti si stavano radunando per attaccare l’edificio della scuola Diaz, dove 93 ragazzi si erano sistemati per passare la notte. Mark sperò che rompessero subito la catena del cancello, così forse l’avrebbero lasciato in pace. Avrebbe potuto alzarsi e raggiungere la redazione di Indymedia dall’altra parte della strada, dove aveva passato gli ultimi tre giorni scrivendo articoli sul G8 e sulle violenze della polizia. Proprio in quel momento un agente gli saltò addosso e gli diede un calcio al petto con tanta violenza da incurvargli tutta la parte sinistra della gabbia toracica, rompendogli una mezza dozzina di costole. Le schegge gli lacerarono la pleura del polmone sinistro. Covell, che è alto 1,73 e pesa meno di 51 chili, venne scaraventato sulla strada. Sentì ridere un agente e pensò che non ne sarebbe uscito vivo. Mentre la squadra antisommossa cercava di forzare il cancello, per ingannare il tempo alcuni agenti cominciarono a colpire Covell come se fosse un pallone. La nuova scarica di calci gli ruppe la mano sinistra e gli danneggiò la spina dorsale. Alle sue spalle, Covell sentì un agente che urlava “Basta! Basta!” e poi il suo corpo che veniva trascinato via. i sono diversi buoni motivi per non dimenticare cos’è successo a Mark Covell quella notte a Genova. Il primo è che fu solo l’inizio. A mezzanotte del 21 luglio 2001 i poliziotti occuparono i quattro piani della scuola Diaz imponendo il loro particolare tipo di disciplina ai suoi occupanti e riducendo i dormitori improvvisati in quella che in seguito un funzionario di polizia ha definito “una macelleria messicana”. Poi quegli stessi agenti e i loro colleghi incarcerarono illegalmente le vittime in
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un centro di detenzione che diventò un luogo di terrore. Il secondo motivo è che, sette anni dopo, Covell e i suoi compagni aspettano ancora giustizia. Il 14 luglio 2008 quindici poliziotti, guardie penitenziarie e medici carcerari sono stati condannati per il loro ruolo nelle violenze. Ma nessuno sconterà la pena. In Italia gli imputati non vanno in prigione fino alla conclusione dell’ultimo grado di giudizio, e le condanne per i fatti di Genova cadranno in prescrizione l’anno prossimo. I politici che all’epoca erano responsabili della polizia, delle guardie penitenziarie e dei medici carcerari non hanno mai dovuto dare spiegazioni. Le domande fondamentali su come tutto ciò sia potuto accadere rimangono senza risposta e rimandano al terzo e più importante motivo per ricordare Genova. Questa non è semplicemente una storia di poliziotti esaltati. Sotto c’è qualcosa di più grave e preoccupante. poliziotti irruppero nella Diaz. Alcuni gridavano “Black bloc! Adesso vi ammazziamo”. Ma si sbagliavano di grosso se credevano di dover affrontare i black bloc che avevano scatenato i disordini in alcune zone della città durante le manifestazioni di quel giorno. La scuola era stata messa a disposizione dal comune di Genova a dei ragazzi che non avevano nulla a che fare con gli anarchici: avevano perfino organizzato un servizio di sicurezza per accertarsi che i black bloc non potessero entrare nello stabile. Uno dei primi ad accorgersi dell’irruzione fu Michael Gieser, un economista belga di 35 anni che si era appena messo il pigiama e stava facendo la fila davanti al bagno con lo spazzolino in mano. Gieser crede nel dialogo e in un primo momento si diresse verso gli agenti dicendo: “Dobbiamo parlare”. Vide i giubbotti imbottiti, gli sfollagente, i caschi e le bandane che nascondevano i volti dei poliziotti, cambiò idea e scappò di corsa per le scale. Gli altri furono più lenti. Erano ancora nei sacchi a pelo. I dieci spagnoli accampati nell’atrio della scuola si svegliarono sotto i colpi dei manganelli. Alzarono le mani in segno di resa, ma altri poliziotti cominciarono a picchiarli in testa, provocando tagli e ferite e fratturando il braccio a una donna di 65 anni. Nella stessa stanza alcuni ragazzi erano seduti davanti al computer e mandavano email a casa. Tra loro c’era Melanie Jonasch, 28 anni, studentessa di
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archeologia a Berlino, che si era offerta di lavorare nella scuola e non aveva neppure partecipato ai cortei. Melanie non riesce ancora a ricordare cosa accadde. Ma molti testimoni hanno raccontato che i poliziotti l’aggredirono e la colpirono alla testa con tanta violenza che perse subito conoscenza. Quando cadde a terra, gli agenti la circondarono continuando a picchiarla e a prenderla a calci, sbattendole la testa contro un armadio e alla fine lasciandola in una pozza di sangue. Nessuno dei ragazzi che erano al piano terra sfuggì al pestaggio. Come ha scritto il pm Zucca nella sua requisitoria: “Nell’arco di pochi minuti, tutti gli occupanti del piano terra furono ridotti all’impotenza. I gemiti dei feriti si univano agli appelli a chiamare un’ambulanza”. Poi gli agenti si diressero verso le scale. Nel corridoio del primo piano trovarono un piccolo gruppo di persone, tra cui Gieser, che stringeva ancora il suo spazzolino: “Qualcuno suggerì di sdraiarsi, per dimostrare che non facevamo nessuna resistenza, così mi sdraiai. I poliziotti arrivarono e cominciarono a picchiarci, uno dopo l’altro. Io mi riparavo la testa con le mani e pensavo: ‘Devo resistere’. Sentivo gridare ‘basta, per favore’ e lo ripetevo anch’io. Mi faceva pensare a quando si sgozzano i maiali. Ci stavano trattando come animali, come porci”. I poliziotti abbatterono le porte delle stanze che si affacciavano sui corridoi. vevano sentito la polizia al piano terra e insieme a un amico neozelandese, Sam Buchanan, avevano cercato di nascondersi con le loro borse sotto dei tavoli in un angolo di una stanza buia. Una decina di agenti fece irruzione nel locale e li illuminò con una torcia. McQuillan scattò in piedi, alzò le mani e cominciò a ripetere “Calma, calma”, ma non servì a fermare i poliziotti. McQuillan ne uscì con un polso rotto. “Sentivo tutto il loro veleno e il loro odio”, ricorda Norman Blair. Gieser era in corridoio: “Intorno a me era tutto coperto di sangue. Un poliziotto gridò ‘Basta!’ e per un attimo sperammo che tutto sarebbe finito. Ma gli agenti non si fermarono, continuarono a picchiare di gusto. Alla fine ubbidirono all’ordine, ma erano come dei bambini a cui si toglie un giocattolo contro la loro volontà”. Ormai c’erano poliziotti in tutta la scuola. Picchiavano e davano calci.
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econdo molte vittime c’era quasi del metodo nella loro violenza: gli agenti pestavano chiunque gli capitasse a tiro, poi passavano alla vittima successiva lasciando a un collega il compito di continuare a picchiare la prima. Sembrava importante che tutti fossero pestati a sangue. Nicola Doherty, un’assistente sociale di Londra di 26 anni, racconta che il suo compagno, Richard Moth, si sdraiò sopra di lei per proteggerla. “Sentivo i colpi sul suo corpo, uno dopo l’altro. I poliziotti si allungavano per raggiungere le parti del mio corpo che erano rimaste scoperte”. Nicola cercò di proteggersi la testa con il braccio. Le ruppero il polso. Un gruppo di uomini e donne fu costretto a inginocchiarsi in un corridoio in modo che i poliziotti potessero colpirli più facilmente sulla testa e sulle spalle. Daniel Albrecht, 21 anni, studente di violoncello a Berlino, fu colpito così violentemente che dovettero operarlo per fermare l’emorragia cerebrale. Fuori dall’edificio, i poliziotti tenevano i manganelli al contrario, usando il manico ad angolo retto come un martello. In questo crescendo di violenza ci furono momenti in cui i poliziotti scelsero l’umiliazione. Alcuni riuscirono a sfuggire alla violenza, almeno per un po’. Karl Boro scappò sul tetto, ma poi fece l’errore di rientrare nella scuola e subì lo stesso trattamento degli altri. Riportò gravi lesioni alle braccia e alle gambe, una frattura cranica e un’emorragia toracica. Jaraslav Engel, polacco, riuscì a uscire dalla Diaz arrampicandosi sulle impalcature, ma fu preso sulla strada da alcuni autisti della polizia che gli spaccarono la testa, lo scaraventarono per terra e rimasero a fumare mentre il suo sangue scorreva sull’asfalto. Due studenti tedeschi, Lena Zuhlke, 24 anni, e il suo compagno Niels Martensen, furono tra gli ultimi a essere presi. Si erano nascosti in un armadio usato dagli addetti alle pulizie all’ultimo piano. Sentirono la polizia che si avvicinava sbattendo i manganelli sulle pareti delle scale. La porta dell’armadio venne aperta, Martensen fu trascinato fuori e picchiato da una decina di poliziotti schierati a semicerchio intorno a lui. Zuhlke attraversò di corsa il corridoio e si nascose nel bagno. I poliziotti la videro, la seguirono e la trascinarono fuori per i capelli. In corridoio, l’aggredirono come cani addosso a un
coniglio. Fu colpita alla testa e poi presa a calci da ogni parte finché sentì collassare la gabbia toracica. La rimisero in piedi appoggiandola a una parete dove un poliziotto le dette una ginocchiata all’inguine mentre gli altri continuarono a prenderla a manganellate. Scivolò giù, ma la picchiarono ancora: “Sembrava che si divertissero, quando gridavo di dolore sembrava che godessero ancora di più”. I poliziotti trovarono un estintore e spruzzarono la schiuma sulle ferite di Martensen. Zuhlke venne afferrata per i capelli e scaraventata per le scale a testa in giù. Alla fine, trascinarono la ragazza nell’ingresso del piano terra, dove avevano ammassato decine di prigionieri insanguinati. Un gruppo di poliziotti le passò accanto: uno dopo l’altro si sollevarono le bandane che gli coprivano il volto e le sputarono in faccia. erché dei rappresentanti della legge si comportarono con tanto disprezzo della legge? La risposta più semplice può essere quella che ben presto venne urlata dai manifestanti fuori dalla Diaz: “Bastardi!”. Ma stava succedendo qualcos’altro, qualcosa che emerse più chiaramente nei giorni seguenti. Covell e decine di altre vittime dell’irruzione furono portati all’ospedale San Martino, dove i poliziotti camminavano su e giù per i corridoi, battendo il manganello sul palmo delle mani, ordinando ai feriti di non muoversi e di non guardare dalla finestra, lasciandoli ammanettati. Poi, senza che fossero stati medicati, li spedirono all’altro capo della città nel centro di detenzione di Bolzaneto. I primi segnali che c’era qualcosa di più grave possono sembrare banali. Alcuni poliziotti avevano vecchie canzoni fasciste come suoneria del cellulare e parlavano con ammirazione di Mussolini e Pinochet. Diverse volte ordinarono ai prigionieri di gridare “Viva il duce” e usarono le minacce per costringerli a intonare canzoni fasciste: “Uno, due, tre. Viva Pinochet!”. Le 222 persone detenute a Bolzaneto furono sottoposte a un trattamento che in seguito i pubblici ministeri hanno definito tortura. All’arrivo furono marchiati con dei segni di pennarello sulle guance e molti furono costretti a camminare tra due file di poliziotti che li bastonavano e li prendevano a calci. Una parte dei prigionieri fu trasferita in celle che contenevano fino a 30 persone. Qui furono
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costretti a restare fermi in piedi davanti al muro, con le braccia in alto e le gambe divaricate. Chi non riusciva a mantenere questa posizione veniva insultato, schiaffeggiato e picchiato. Mohammed Tabach, che ha una gamba artificiale e non riusciva a sopportare la fatica della posizione, crollò. Fu ricompensato con due spruzzate di spray al pepe e, più tardi, un pestaggio particolarmente feroce. Tremanti sui pavimenti di marmo delle celle, i detenuti ebbero solo qualche coperta, furono tenuti svegli senza mangiare e gli venne negato il diritto di telefonare e a vedere un avvocato. Sentivano pianti e urla dalle altre celle. Uomini e donne con i capelli rasta vennero brutalmente rasati. Marco Bistacchia fu portato in un ufficio, denudato, costretto a mettersi a quattro zampe e ad abbaiare. Poi gli ordinarono di gridare “Viva la polizia italiana!”. Singhiozzava troppo per ubbidire. Un poliziotto anonimo ha dichiarato al quotidiano La Repubblica di aver visto dei colleghi che urinavano sui prigionieri e li picchiavano perché si rifiutavano di cantare Faccetta nera. ster Percivati, una ragazza turca, ricorda che le guardie la chiamarono puttana mentre andava al bagno, dove una poliziotta le ficcò la testa nel water e un suo collega maschio le urlò: “Bel culo! Ti piacerebbe che ci infilassi dentro il manganello?”. Alcune donne hanno riferito di minacce di stupro, anale e vaginale. Perfino l’infermeria era pericolosa. Richard Moth, che aveva difeso con il suo corpo la compagna, era coperto di tagli e lividi. Gli misero dei punti in testa e sulle gambe senza anestesia. “Fu un’esperienza molto dolorosa e traumatica. Dovevano tenermi fermo con la forza”, ricorda. Tra le persone condannate il 14 luglio ci sono anche alcuni medici della prigione. Tutti hanno dichiarato che non fu un tentativo di costringere i detenuti a confessare, ma solo un esercizio di terrore. E funzionò. Nelle loro testimonianze, i prigionieri hanno descritto la sensazione d’impotenza, di essere tagliati fuori dal mondo in un luogo senza legge e senza regole. La polizia costrinse i prigionieri a firmare delle dichiarazioni. Un francese, David Larroquelle, ebbe tre costole rotte perché non voleva firmare. Anche Percivati si rifiutò: gli sbatterono la faccia contro la parete dell’ufficio, rompendole gli occhiali.
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ll’esterno arrivò una versione dei fatti molto distorta. Il giorno dopo il pestaggio Covell riprese conoscenza all’ospedale e si accorse che una donna gli stava scuotendo la spalla. Pensò che fosse dell’ambasciata inglese, poi quando l’uomo che era con lei cominciò a scattare foto si rese conto che era una giornalista. Il giorno dopo il Daily Mail pubblicò in prima pagina una storia inventata di sana pianta secondo cui Covell aveva contribuito a pianificare gli scontri (ci sono voluti quattro anni perché il Mail si scusasse e risarcisse Covell per aver violato la sua privacy). Mentre alcuni cittadini britannici venivano pestati e trattenuti illegalmente, i portavoce del primo ministro Tony Blair dichiararono: “La polizia italiana doveva fare un lavoro difficile. Il premier ritiene che lo abbia svolto”. Le forze dell’ordine italiane raccontarono ai mezzi d’informazione una serie di menzogne. Perfino mentre i corpi insanguinati venivano trasportati fuori dalla Diaz in barella, i poliziotti raccontavano ai giornali che le ambulanze allineate nella strada non avevano nulla a che fare con l’incursione, che le ferite dei ragazzi erano precedenti all’incursione, e che l’edificio era pieno di estremisti violenti che avevano attaccato gli agenti. Il giorno dopo, le forze dell’ordine tennero una conferenza stampa in cui annunciarono che tutte le persone presenti nell’edificio sarebbero state accusate di resistenza aggravata e associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio. Alla fine, i tribunali italiani hanno respinto tutti i capi di accusa contro ogni singolo imputato, Covell compreso. I tentativi della polizia d’incriminarlo per una serie di reati gravissimi sono stati definiti “grotteschi” dal pubblico ministero Enrico Zucca. Nella stessa conferenza stampa, furono esibite quelle che la polizia descrisse come armi: piedi di porco, martelli e chiodi che gli stessi agenti avevano preso in un cantiere accanto alla scuola, strutture in alluminio degli zaini, 17 macchine fotografiche, 13 paia di occhialini da nuoto, 10 coltellini e un flacone di lozione solare. Mostrarono anche due bombe molotov che, come ha concluso in seguito Zucca, erano state trovate in precedenza dalla polizia in un’altra zona della città e introdotte alla Diaz alla fine del blitz. Queste bugie facevano parte di un più ampio tentativo di inquinare i fatti. La notte dell’incursione, un gruppo di 59 poliziotti en-
Diaz trò nell’edificio di fronte alla Diaz dove c’era la redazione di Indymedia e dove, soprattutto, un gruppo di avvocati stava raccogliendo le prove degli attacchi della polizia ai manifestanti. Gli agenti andarono nella stanza degli avvocati, li minacciarono, spaccarono i computer e sequestrarono i dischi rigidi. Portarono via tutto ciò che conteneva fotografie e filmati. Poiché i magistrati rifiutavano di incriminare gli arrestati, la polizia riuscì a ottenere l’ordine di espellerli dal paese, con il divieto di tornare per cinque anni. In questo modo i testimoni furono allontanati dalla scena. In seguito i giudici hanno giudicato illegali tutti gli ordini di espulsione, così come i tentativi d’incriminazione. ucca ha lottato per anni contro le bugie e gli insabbiamenti. Nella memoria che accompagna la richiesta di rinvio a giudizio ha dichiarato che tutti i dirigenti coinvolti negavano di aver avuto un ruolo nella vicenda: “Neppure un funzionario ha ammesso di aver avuto un ruolo sostanziale di comando per qualsiasi aspetto dell’operazione”. Un alto funzionario ripreso in video sulla scena ha dichiarato che quella notte era fuori servizio ed era passato alla Diaz solo per accertarsi che i suoi uomini non fossero feriti. Le dichiarazioni della polizia cambiavano continuamente ed erano contraddittorie, e sono state platealmente smentite dalle prove fornite dalle vittime e da numerosi video. “Nessuno dei 150 poliziotti presenti all’operazione ha fornito informazioni precise su un singolo episodio”. Senza Zucca, senza la determinazione dei magistrati italiani, senza l’intenso lavoro di Covell per trovare i filmati sull’incursione alla Diaz, la polizia avrebbe potuto sottrarsi alle sue responsabilità e ottenere false incriminazioni e pene detentive contro decine di vittime. Oltre al processo per i fatti di Bolzaneto, che si è appena concluso, altri 28 agenti e dirigenti della polizia sono sotto accusa per il loro ruolo nell’incursione alla Diaz. Eppure, la giustizia è stata compromessa. Nessun politico italiano è stato chiamato a rendere conto dell’accaduto, anche se c’è il forte sospetto che la polizia abbia agito come se qualcuno le avesse promesso l’impunità. Un ministro visitò Bolzaneto mentre i detenuti venivano picchiati e a quanto sembra non vide nulla, o almeno nulla che ritenesse di dover impedire. Secondo molti giornalisti, Gianfranco Fini – ex segretario del partito neofa-
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scista Msi e all’epoca vicepremier – si trovava nel quartier generale della polizia. Nessuno gli ha mai chiesto di spiegare quali ordini abbia dato. Gran parte dei rappresentanti della legge coinvolti nelle vicende della scuola Diaz e di Bolzaneto – e sono centinaia – se l’è cavata senza sanzioni disciplinari e senza incriminazioni. Nessuno è stato sospeso, alcuni sono stati promossi. Nessuno dei funzionari processati per Bolzaneto è stato accusato di tortura: la legge italiana non prevede questo reato. Alcuni funzionari di polizia che all’inizio dovevano essere accusati per il blitz alla Diaz hanno evitato il processo perché Zucca non è riuscito a dimostrare che esisteva una catena di comando. Ancora oggi, il processo ai 28 funzionari incriminati è a rischio perché Silvio Berlusconi vorrebbe far approvare una legge per rinviare tutti i procedimenti giudiziari che riguardano fatti accaduti prima del giugno 2002. Nessuno è stato incriminato per le violenze inflitte a Covell. E come ha detto Massimo Pastore, uno degli avvocati delle vittime, “nessuno vuole ascoltare quello che questa storia ha da dire”. una storia di fascismo. Circolano molte voci che poliziotti, carabinieri e personale penitenziario appartenessero a gruppi fascisti, ma non ci sono le prove. Secondo Pastore, però, così si rischia di perdere di vista la questione principale: “Non si tratta solo di qualche fascista esaltato. È un comportamento di massa della polizia. Nessuno ha detto no. Questa è la cultura del fascismo”. La requisitoria di Zucca parla di “sospensione dello stato di diritto”. Cinquantadue giorni dopo l’irruzione nella Diaz, diciannove uomini usarono degli aerei pieni di passeggeri per colpire al cuore le democrazie occidentali. Da quel momento, politici che non si definirebbero mai fascisti hanno autorizzato intercettazioni telefoniche a tappeto, controlli della posta elettronica, detenzioni senza processo, torture sistematiche sui detenuti e l’uccisione mirata di semplici sospetti, mentre la procedura dell’estradizione è stata sostituita dalla “consegna straordinaria” di prigionieri. Questo non è il fascismo dei dittatori con gli stivali militari e la schiuma alla bocca. È il pragmatismo dei nuovi politici dall’aria simpatica. Ma il risultato appare molto simile. Genova ci dice che quando il potere si sente minacciato, lo stato di diritto può essere sospeso. Ovunque
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La violenza: piaga sociale
Si ha voglia dell’amore, anche se spesso ci accorgiamo di non avere delle buone carte, ma si ha voglia ugualmente di giocare, di rilanciare, per desiderio di un brivido maggiore, per il fascino del rischio, o anche semplicemente per l’idea di avere una gabbia da cui poter scappare." - Fabio Volo, “Esco a fare due passi”, 2001
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Reagire alla violenza sulle donne si può DI
GIOVANNA D’AURIA
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a violenza sulle donne, non conosce razza, confini, classi sociali o religioni, è un atto atroce, ingiustificabile e condannabile alle massime pene. E’ all’ordine del giorno sentire di donne massacrate, violate da padri, mariti, fidanzati, figli, colleghi, amici o semplici sconosciuti, donne deturpate con l’acido, esposte ad abusi, a molestie dentro casa, negli uffici, a scuola. Cosa si può fare per fermare questa macchina infernale alimentata da gelosia, vendetta, interessi economici, malattie psichiche dichiarate o presunte, o da semplice ferocia, che miete ogni giorno vittime innocenti e lascia dietro di sé scie di sangue indelebili che sporcano non solo le mani dei carnefici ma anche, il suolo dove queste violenze avvengono? Si crea panico, incertezze, si alimentano paure che rendono difficili i rapporti sociali, familiari ed interpersonali. Ad armare la mano degli assassini sono spesso vecchi rancori, non accettazione di un rapporto che finisce, di un matrimonio che fallisce, di una vita familiare che cambia o semplicemente l’incapacità di affrontare un ” no” come risposta ad un approccio “amoroso”. Però non ci sono mai ragioni vere, in grado di giustificare eventuali atteggiamenti violenti verso le donne: si ammazza semplicemente perché non si ha il senso ed il rispetto per la vita altrui, o si usa il corpo delle donne per sfogare una rabbia repressa, una frustrazione e una violenza covata negli anni. Così basta un niente per farla emergere e colpire nel peggiore dei modi. Un attimo prima sei al centro del mondo di chi dice di amarti, sei l’essenza della sua vita, poi, apparentemente all’improvviso, non si sa perché, questo amore si trasforma in “ossessione”, quella carezza si trasforma in un pugno, quella stessa mano che prima ti rassicurava si arma e all’improvviso si diventa la preda da “braccare”, da seguire, da spaventare, da tormentare e nella peggiore delle ipotesi da massacrare. La donna diventa carne da macello, su cui ci si accanisce da vive e tante volte anche da morte, il
crimine spesso si consuma in un luogo che si riteneva sicuro, tanto che si viene colte impreparate, non ci si difende perché non se ne ha il tempo; allora si cade sotto i colpi di un coltello, di una pistola o di percosse che lasciano al suolo un corpo esanime, che ha implorato aiuto invano finché non gli è rimasto altro da fare che cedere alla morte. A piangere queste vittime sono famiglie, figli, amici; sono lutti che segnano per sempre l’esistenza di chi rimane. Eppure gli assassini troppe volte restano impuniti o, peggio ancora, non hanno e non avranno mai un volto. nche quando non si riesce a compiere il misfatto, e magari la vittima si salva, beh, comunque ne avranno “ammazzato” l’anima, spento il sorriso, fatta terra bruciata intorno, l’avranno isolata dagli affetti, dal lavoro: anche se non sarà morta fisicamente, la vittima di una tentata violenza a volte muore dentro, e difficilmente le ferite guariranno. Forse attraverso un lungo lavoro si potrà ritrovare un accenno di fiducia verso l’altro sesso…ma sicuramente la paura e la diffidenza rimarranno abbastanza forti da far dubi-
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tare di tutti, fino al punto di rendere difficile vivere un nuovo amore, o una nuova amicizia. uante donne subiscono abusi e violenze tra le mura domestiche, a lavoro, ragazze e bambine vengono molestate a scuola, e non parlano, non denunciano, perché spesso nemmeno riescono a riconoscerla la violenza, perché la violenza non è solo quella che ti lascia i lividi sulla pelle o quella che ti fa finire al pronto soccorso…La violenza forse peggiore, e più subdola, è quella psicologica, quella verbale, perché annienta un po’ alla volta la propria autostima fino ad annullarti come persona. Si alimenta ogni giorno un disagio che diventa pesante da gestire, non ci si riesce a ribellare e, in silenzio, si subiscono ogni sorta di insulti, parole che diventano macigni, tanto grossi da farti sprofondare. A furia di sentirsi dire sempre le stesse cose, ci si convince di essere delle nullità, di non essere delle buone madri, delle mogli o amanti perfette, delle ragazze in gamba: ti dicono che sei sfigata e ti ci fanno sentire. Si subiscono ricatti morali, pur di avere un minimo di serenità,
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Violenza una calma apparente, perché intanto qualcosa nella testa cambia, non ci sono più pensieri positivi, solo immagini tristi, di una donna infelice, che non riesce ad aprirsi più alla vita, che non è capace più di sorridere e di confidarsi, perché pensa che nessuno la possa capire o aiutare, ed intanto abbassa la testa e subisce, magari si sente anche in colpa per quello che le accade. Invece dovrebbe avere il coraggio e la forza di capire che non è lei quella sbagliata: l’amore che le ammazza i sogni, le spegne il sorriso e la voglia di vivere, semplicemente non è amore. mare non vuol dire annullare l’altra persona, amare non vuol dire sopraffare chi ci accanto, non significa possedere, controllare, manovrare chi invece ha donato il cuore e nel nome di quell’amore che amore non è, perdona, giustifica, copre ogni sbaglio e cerca di trovare un senso ad ogni scatto d’ira, arrivando persino ad addossarsi colpe che non le appartengono. E’ difficile capire come un uomo che ti promette una vita felice, amore assoluto, devozione, possa poi rendere la tua esistenza un inferno. In un rapporto di coppia, in un primo momento, magari all’inizio della conoscenza, la
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gelosia può essere vista come una forma di interesse, ti piace pensare che il tuo uomo sia geloso di te, perché non vuole dividerti con nessuno, ti vuole tutta per sé, allora non si fa caso quando ti fa una piccola scenata, magari ci si arrabbia, però poi si trova il modo per fare pace e tutto passa…diciamo che all’inizio ci può anche stare. Quando poi questi episodi si ripetono anche senza motivo, volano non solo parole grosse, ma anche schiaffi, beh, è allora che si dovrebbe avere il coraggio e la lucidità giusta per allontanare chi abbiamo accanto, perché non è gelosia sana, non è interesse e men che meno amore. Ma come si fa ad allontanare chi ci è accanto? Spesso si è già coinvolti, innamorati, magari ci sono anche dei figli che ti legano a quell’uomo violento, ossessivo e geloso. Non ci si accorge del cambiamento perché queste persone sono brave ad avere un doppio volto, magari in casa sono delle “bestie” e fuori possono risultare delle bravissime persone, a modo, educate e cortesi, che mai farebbero pensare a loro come a dei violenti. Ecco allora che quando queste donne, che hanno avuto la sfortuna di incontrarli, azzardano un lamento o provano ad accen-
17 nare alla doppia faccia di questi uomini, vengono subito smentite, e magari viene detto loro: “Non è possibile, forse sei tu che gli dai modo di essere geloso, di adirarsi, perché forse sei troppo assillante, non lo sai capire…” Beh, chiunque a queste risposte non parlerebbe più, ed è lo sbaglio più grande che si possa fare. Piuttosto bisognerebbe gridarlo ancora più forte quello che succede, bisognerebbe filmare o registrare quello che accade quando nessuno vede o sente. Tante volte la forza viene a mancare, il coraggio ti abbandona, ti senti isolata, avvilita e intanto si subisce, ci si chiude a riccio, sperando che passi. Le cose non cambiano, anzi peggiorano, la tua realtà è il tuo peggiore incubo, fino a quando non solo la tua mente ma anche la tua anima ti lascia e da lontano guardi il tuo corpo esanime caduto sotto i colpi del tuo carnefice…Allora si aggiunge un altro nome all’infinita lista di donne vittime di violenza, ma cosa si può fare per fermare questa lotta al massacro? Cosa possiamo dire affinché non ci siano più pagine e pagine di cronaca dedicate a povere donne che hanno avuto l’unica colpa di incrociare sul loro cammino l’uomo sbagliato, di trovarsi
18 nel posto sbagliato al momento sbagliato? Quale possibili soluzioni a questa nuova “guerra” che ultimamente include anche adolescenti, chiude occhi a giovani donne che si affacciano alla vita e che ancora non ne hanno assaporato il gusto, a mogli, madri che hanno la colpa di aver amato l’uomo sbagliato? Bisognerebbe educare sin da piccoli ad avere rispetto verso tutti gli esseri viventi, insegnare il valore della vita che è un bene troppo prezioso e nessuno mai si deve permettere anche solo di pensare di toglierla per sempre ad un altro suo simile. Partendo dalle scuole, dalle famiglie, tutti dovrebbero imparare l’affettività: manca molte volte l’educazione ai sentimenti. Un tempo si diceva che i figli andavano baciati nel sonno, beh, io dico che una carezza in più, un abbraccio in più, fatto ad un bambino, sicuramente sarà un ricordo positivo per l’uomo che egli diventerà. E’ anche vero che le cause di un carattere violento possono essere tante, si tratta di un argomento molto complesso e delicato, ma della violenza bisogna comunque parlarne, sempre e a tutti, partendo dai più giovani, dai bambini che saranno gli adulti di domani, fino agli adulti di oggi: si deve insegnare che quando si ha un problema c’è sempre qualcuno che lo può risolvere. La violenza va curata prima che faccia vittime. Si devono rompere quegli spessi muri di omertà e di silenzio, o che si subisca o che si assista, si deve denunciare anche al primo cenno di violenza; ovviamente senza mai lasciare soli con se stessi né le vittime né i carnefici. Ecco allora che c’è bisogno di centri, di punti dove ognuno di noi si possa rivolgere, dove ci siano persone competenti che aiutino a capire ciò che accade, che aiutino a riconoscere una violenza, e diano la forza e l’appoggio giusto per denunciare e per iniziare un percorso che possa portare ad una sorta di liberazione, di riscatto. C’è anche bisogno di pene più dure, ma soprattutto certe, perché non si assista, come purtroppo spesso accade che oltre al danno la famiglia di una vittima di violenza debba subire anche la beffa, e magari dopo solo pochi anni si veda passeggiare per le strade del proprio paese l’assassino che ha strappato
Violenza
alla vita una persona cara… In un paese che si definisce civile non si può accettare più che ogni giorno ,come se fosse un bollettino di guerra, si debbano elencare ai Tg nomi e luoghi dove si sono verificati i peggiori crimini. Le donne non possono e non devono più subire, vivere nel terrore che un giorno non possano più fare ritorno a casa, non possano riabbracciare i figli, gli amici, solo perché magari la loro denuncia non ha avuto seguito, per mancanza di prove, per mancanza di supporto o perché semplicemente quel uomo non è stato fermato in tempo. La società e le donne in generale sono stanche di vedere “Bare col nastro Rosa”, nuove vite spezzate. Bisogna agire, è arrivato il momento di alzare la testa, di gridare basta e di riprenderci la nostra vita… Dobbiamo superare quel senso di estranietà, che ci prende davanti ai fatti di cronaca
che leggiamo o sentiamo: nessuno è immune, dobbiamo cercare di smuovere le coscienze, per poter dare la possibilità a qualche potenziale vittima di salvarsi in tempo. La violenza fonda le sue radici nel silenzio, allora per sconfiggerla un primo grande passo è quello di parlare, di gridare se è necessario, dobbiamo smascherare quegli uomini che per sentirsi tali usano violenza… questi uomini non sono forti sono solo VIOLENTI… Per fortuna esistono uomini che sono con le donne, che hanno formato associazioni per aiutare donne in difficoltà, ed è proprio con loro che dobbiamo muoverci, insieme donne e uomini, andare per le strade, nei luoghi di ritrovo dei giovani, parlarne, scrivere raccontare storie, in modo che ne possiamo capire di più, ma soprattutto avere un pensiero comune contro ogni forma di violenza.
Redditometro
Evasori fino a prova contraria
Il redditometro chiama in causa circa 4 milioni di famiglie in virtù di un algoritmo che valuta entrate e spese. In sostanza se uno spende di più di quanto guadagna potrebbe dover dimostrare dove ha preso i soldi. In Italia, lo sappiamo in tanti, molte famiglie vivono di prestiti dei parenti per sopravvivere o attingono ai risparmi (chi ancora ne possiede). Queste persone sono considerate dal Fisco dei potenziali evasori! Quello che disturba è l’accanimento nel voler far passare gli italiani come popolo di evasori, come se la causa del disastro eco-
nomico, di cui non si vede la fine, non sia da attribuire al debito pubblico, alla corruzione, alla totale incapacità e rapacità nell’amministrare la cosa pubblica. Non c’è dubbio che la lotta all’evasione fiscale di massa è indispensabile e che gli evasori vadano perseguiti e in particolare i grandi evasori, quelli protetti dallo scudo fiscale e i cui nomi andrerebbero resi pubblici, ma occorrerebbe far chiarezza e rivedere lo strumento del redditometro perché le zone d’ombra sulla sua dichiarata efficacia sono molteplici.
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Lo Studio di settore per le Famiglie
Da marzo 2013 ha iniziato a funzionare il redditometro, strumento nelle mani dell’Agenzia delle Entrate che servirà a controllare la congruità delle dichiarazioni dei redditi e quindi permetterà (si spera) di scovare i grandi evasori. Migliaia di italiani potrebbero trovarsi a dover giustificare al fisco un tenore di vita incompatibile con le proprie entrate e quindi in piena stagione dichiarativa inevitabilmente occorre fare i conti anche con gli effetti del nuovo strumento accertativo, (che poi tanto nuovo non è!) così che contribuenti e famiglie devono stare in guardia su quelle voci di consumo che potrebbero riservare qualche brutta sorpresa. L’accertamento parte dai redditi 2009, dichiarati nel 2010. Il modello, così come è stato configurato dal legislatore, più che potenziato, è stato trasformato in un vero e proprio studio di settore per famiglie, spostando così su oltre 40 milioni di contribuenti l’efficacia accertativa, ma anche i pericolosi difetti e gli inevitabili limiti di uno strumento con cui sino ad oggi si sono dovuti con-
frontare i titolari di partita IVA. Appurato infatti che, con il nuovo redditometro, la determinazione del reddito presunto avviene sulla base delle spese, degli investimenti risultanti dall’Anagrafe tributaria, sulla base dell’ulteriore quantificazione presuntiva delle spese di gestione dei beni posseduti quali risultanti sempre dall’Anagrafe tributaria, ma anche sulla base di valorizzazioni ulteriori fondate su coefficienti di tipo statistico (come nel caso degli studi di settore), con l’approvazione del Decreto del Ministero dell’economia e delle finanze del 24/12/2012 è stato di fatto trasformato il vecchio redditometro in uno studio di settore per famiglie vero e proprio. Questo vuol dire, in altre parole, che il redditometro diviene applicabile anche a prescindere dalle risultanze dell’Anagrafe tributaria e comunque, ove le risultanze dell’Anagrafe tributaria generino un reddito presunto “analitico” inferiore a quello “puramente statistico”, quello che può essere utilizzato “contro” il contribuente rimane sempre quello statistico: se un reddito basso ha spese basse ma inferiori a quelle che segnalerebbe il redditometro, il contribuente sarebbe un presunto evasore, passerebbe insomma da
presunto indigente a presunto evasore! E’ evidente il principale vantaggio di questo strumento per il Fisco: il redditometro diviene utilizzabile a tappeto nei confronti di tutti, ivi compresi coloro che, per le più svariate ragioni, lecite e meno lecite, sfuggono completamente all’anagrafe tributaria. Altrettanto evidente è il principale svantaggio per i contribuenti: si potrebbero verificare dei casi in cui il reddito presunto determinato integralmente o quasi su base statistica c’entri poco o niente con quello di cui il contribuente è effettivamente titolare, mettendolo non poco in difficoltà sul fronte della prova contraria. Perché, se è vero che rimane la prova di aver conseguito redditi non imponibili o aver ricevuto donazioni o simili, in casi di questo tipo diventa dannatamente arduo provare di aver sostenuto meno spese di quelle “statistiche”. Ciò detto, domandiamoci se è normale che anche il nuovo “redditometro-studio di settore per famiglie”, così come il vecchio, abbia natura di presunzione legale relativa, tale da consentire all’Agenzia delle Entrate di emettere avvisi di accertamento basati esclusivamente sulle sue risultanze e tale da invertire sul contribuente l’onere della prova!
Cos’è il redditometro Il redditometro, presente già dal 1973, è stato potenziato nel 2010, con il Decreto legge n. 78 del 2010, in vigore nel 2011, ma il quadro normativo è stato completato a gennaio scorso quando è stato pubblicato in G.U. il decreto 24 dicembre 2012. Il Redditometro (o "accertamento sintetico di tipo induttivo") è lo strumento attraverso il quale il Fisco può stimare il reddito presunto di un contribuente, sulla base delle spese che quest'ultimo ha sostenuto, grazie ad una serie di indici fissati a priori, e successivamente convocarlo, per chiedergli di giustificare lo scostamento tra spese effettuate e reddito dichiarato. Sono destinatari dell’accertamento sintetico i contribuenti persone fisiche indipendentemente dal fatto che siano o meno soggetti obbligati alla tenuta delle scritture contabili. Per determinarne il reddito presunto ai fini Irpef, si prescinde dalla indivi-
duazione della categoria reddituale che ne è fonte. In generale, nell’ambito di tale metodologia di controllo, gli uffici finanziari, in presenza di determinate condizioni, avvalendosi di una presunzione legale relativa, sono legittimati a risalire da un fatto noto, individuabile in una manifestazione di capacità contributiva del soggetto controllato, a un fatto ignoto, cioè all’esistenza di un reddito non dichiarato o di un maggior reddito imponibile rispetto a quello dichiarato. L'Agenzia delle Entrate può determinare sinteticamente il reddito complessivo del contribuente, sulla base delle spese di qualsiasi genere sostenute nel corso del periodo d'imposta. È poi compito del contribuente fornire la "prova contraria", per dimostrare che il finanzia-
mento delle spese effettuate è avvenuto: - con redditi diversi da quelli posseduti nello stesso periodo d'imposta; - con redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte; con redditi che non concorrono alla formazione del reddito imponibile.
DI LORETTA OTTAVIANI
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Già…perché non dobbiamo dimenticare che l’altro inconveniente per il contribuente è che l’onere della prova è invertito rispetto alla regola generale in cui in sede di accertamento l’onere di provare le ragioni della pretesa incombe sull’amministrazione finanziaria. Con il redditometro è il contribuente ad essere chiamato a chiarire i motivi per superare la presunzione di reddito non dichiarato. Il margine di tolleranza del Redditometro è del 20% al quale si associa la franchigia di 12mila euro l’anno. Se lo scostamento sarà inferiore a tale importo, non verranno effettuati controlli. Come spiegato dagli organi competenti, questo margine di 1000 Euro mensili serve a compensare eventuali errori di calcolo delle medie Istat. Facendo un rapido esempio, se il
reddito dichiarato è 30mila Euro, mentre quello ricostruito sarà di 40mila, la soglia del 20% sarà superata, ma non verranno effettuati controlli in quanto l’importo (10mila euro) resterà inferiore a quello della franchigia di 12mila euro. Se verrà verificato lo scostamento della percentuale e della franchigia stabilita, l’Agenzia delle Entrate provvederà alla convocazione per una spiegazione plausibile delle incongruenze, fallita la quale, scatterà l’accertamento fiscale. Ovviamente il contribuente può difendersi e tentare di dimostrare la ricostruzione errata del Fisco, presentando documenti e tracce soprattutto relativi a beni durevoli e di valore, tenendo presente che è possibile motivare spese e movimenti sia che essi possano essere finanziati da
terzi, sia che possano essere frutto di risparmi pregressi. In caso di impossibilità o di mancata dimostrazione chiara ed esauriente (si dovrebbero conservare fatture, scontrini, ricevute dall’anno 2009!!!!) della propria situazione contributiva, la multa sarà costituita dal 30% della quota risultata eccedente. Altra questione controversa è che in sede di accertamento l’Amministrazione finanziaria è tenuta a dare spiegazioni di quale sarebbe la fonte reddituale occultata che il redditometro ha permesso di scovare. Infatti, ai fini Irpef, le categorie reddituali ai sensi del D.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917 sono ben 6 e non è ragionevole ritenere che ve ne possa essere una settima («il reddito da redditometro») non codificata nel dettato legislativo. Da ciò ne discende la necessità di poter capire a quale categoria reddituale appartenga il reddito evaso. Così com’è il nuovo strumento di verifica colpisce ancora una volta le fasce più deboli della popolazione. Non va a scovare i grandi evasori, ma va solo ad aumentare il carico di lavoro dei contribuenti che, tra l’altro, una dichiarazione dei redditi la fanno già, per non parlare poi dell’enorme carico di lavoro che l‘Agenzia delle Entrate si troverà a sostenere per eseguire tutti i controlli del caso. E poi, i costi di questo lavoro straordinario e quelli sostenuti per realizzare il Redditest chi li paga?
Come funziona L'accertamento sintetico è ammesso solo quando il reddito complessivo accertabile (reddito presunto) è superiore di almeno il 20 per cento rispetto a quello dichiarato. La determinazione sintetica del reddito è effettuata mediante un calcolo basato su alcuni "indicatori di capacità contributiva". In pratica, vengono considerate tutte le spese di un certo tipo che sono a conoscenza del fisco, le quali vengono moltiplicate per dei coefficienti legati alla "classe" attribuita al contribuente, sulla base di tre caratteristiche: - composizione familiare (single, coppie con e senza figli, monoparentali); - età (fino a 35 anni; 35-64 anni; oltre 65 anni); area geografica (Nord-Est, Nord-Ovest, Centro, Sud, Isole). I nuclei familiari sono suddivisi in 55 categorie, cioè undici per ciascuna area geografica. Le undici tipologie sono: persona sola al di sotto dei 35 anni; coppia senza figli con meno di 35 an-
ni; persona sola con età compresa tra 35 e 64 anni; coppia senza figli con età compresa tra 35 e 64 anni; persona sola con 65 anni e oltre; coppia senza figli con 65 anni o più; coppia con un figlio; coppia con due figli; coppia con tre o più figli; monogenitore; altre. La moltiplicazione delle spese per i coefficienti porta alla determinazione del reddito presunto. Dopo averlo determinato, l'Agenzia delle Entrate invita il contribuente a comparire di persona (o per mezzo di rappresentanti), per giustificare lo scostamento tra spese e reddito, fornendo dati e notizie rilevanti ai fini dell'accertamento. Successivamente, il contribuente potrà avviare il procedimento di “accertamento con adesione”. Accertamento con adesione Strumento che consente al contribuente di definire le imposte dovute a seguito di controlli fiscali ed evitare, in tal modo, l’insorgere di una lite tributaria. Si tratta di un
vero e proprio accordo tra il contribuente e l’ufficio delle Entrate territorialmente competente. Il contribuente può controllare preventivamente la congruenza tra spese sostenute e reddito dichiarato tramite “Redditest”, un software messo a punto dall'Agenzia delle Entrate. Categorie di spese Un elenco di 100 capitoli di spesa, 100 ragioni per cui ogni famiglia italiana può essere annessa alla black list degli evasori fiscali e trovarsi nella posizione scomoda di dover giustificare al fisco spese superiori alla fascia di reddito derivante dalle dichiarazioni ufficiali. Queste sono distinte per settore merceologico o di consumo in senso ampio: abbigliamento e alimentari, mobili ed elettrodomestici, combustibili ed energia, trasporti, comunicazioni, abitazione, istruzione, altri beni e servizi, tempo libero, cultura e giochi, sanità, auto, investimenti.
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Una lettera di “avvertimento” prima del redditometro Intanto dai primi giorni di giugno, a decine di migliaia di “possibili evasori”, sta arrivando una lettera di “avvertimento” firmata da Attilio Befera, direttore dell'Agenzia delle Entrate, che li invita a verificare le dichiarazioni dello scorso anno (redditi 2011), invitandoli, laddove non ci siano errori a procedere col ravvedimento: in inglese si chiama "moral suasion", in italiano si traduce "uomo avvisato...". Con i possibili evasori fiscali l'Agenzia delle Entrate usa la carota prima di passare al bastone: la lettera, riportata dal quotidiano Italia Oggi, dichiara di avere solo uno "scopo informativo e quindi non necessita di una risposta". Con tono conciliante avvisa appunto il contribuente delle "spese apparentemente non compatibili con i redditi dichiarati" nel 2012 (cioè quelli del 2011). In
allegato alla lettera c'è un prospetto in cui sono indicate le spese note all'Agenzia, suddivise in base alle categorie del nuovo redditometro, un modo carino per dirci che dalle informazioni presenti nelle diverse banche dati del fisco tali redditi risulterebbero incompatibili con le spese e il tenore di vita posseduto. In realtà lo strumento delle lettere viene usato per stimolare la “compliance”, con effetti sicuri anche sulla campagna dichiarativa 2013 attualmente in corso. Chi riceve la comunicazione ha in pratica tre possibilità: 1. Fare una verifica della dichiarazione del 2012 e delle spese sostenute nello stesso periodo e, se ritiene che ci sia un errore, segnalarlo all'indirizzo mail dc.acc.commsint@agenziaentrate.it o chiamando i Centri di assistenza multicanale al numero 848.800.444; 2.
Procedere col “ravvedimento operoso lungo” che consente il pagamento dell'imposta dovuta entro la scadenza per la presentazione della dichiarazione dei redditi (modello Unico, in questo caso) dell'anno successivo, cioè entro il 30 settembre 2013, con una sanzione ridotta pari al 3,75% dell'importo, invece della sanzione ordinaria al 30% (cui va aggiunto l'interesse legale, attualmente del 2,5% annuo); 3.• Ignorare la lettera e correre il rischio di passare al setaccio del redditometro che analizzerà un'ampia serie di voci di spesa, dall'abbigliamento alle spese per la casa, dai mezzi di trasporto alle spese mediche, dalle rette scolastiche ai viaggi): se lo scostamento risulta maggiore del 20% (con un'ulteriore franchigia di 12mila euro) scattano l'accertamento e le sanzioni (in misura piena).
getto il suo codice fiscale, oppure può rivolgersi ai Centri di Assistenza Multicanale, telefonando al numero 848.800.444. Le suggeriamo di considerare con attenzione questa Comunicazione anche al fine dell’opportunità di ravvedimento, in relazione alla dichiarazione dei redditi 2012, relativa al periodo di imposta 2011, possibile entro il 30 settembre 2013 (art. 13 del decreto legislativo n.
472/1997). La invitiamo inoltre, a considerare il contenuto di questa comunicazione anche con riferimento alla dichiarazione dei redditi 2013, relativa al periodo di imposta 2012, valutando la compatibilità delle spese effettuate con il reddito complessivo da dichiarare. Cordiali saluti Il Direttore dell’Agenzia Attilio Befera
Lettera di Befera ai contribuenti Gentile contribuente, con questa comunicazione, che ha scopo informativo e che quindi non necessita di una risposta da parte Sua, desideriamo informarLa che dal confronto dei dati indicati nella sua dichiarazione dei redditi 2012, relativa al periodo di imposta 2011, con le informazioni presenti nelle banche dati dell’Agenzia delle entrate, risultano alcune spese apparentemente non compatibili con i redditi dichiarati. La natura di tali spese (per esempio “acquisto o leasing di autovetture”, “acquisto o leasing di imbarcazioni da diporto”, “spese per lavoro domestico”) è indicata nel prospetto allegato. La invitiamo, pertanto, a valutare la compatibilità del reddito complessivo dichiarato per il periodo d’imposta 2011, con le spese indicate nel prospetto e con eventuali altre spese rilevanti da Lei sostenute. Nel caso in cui lo ritenesse necessario, può segnalare eventuali errori contenuti nel prospetto, inviando una email all’indirizzo dc.acc.commsint@ agenziaentrate.it, indicando nell’og-
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Un mondo “parallelo�
"La canzone del prugno" Vento e pioggia a salutare la primavera che va via, neve volteggiante ad accogliere la primavera che ritorna. Sopra i picchi elevati cento piedi di ghiaccio, ma i suoi rami son belli di fiori. Bello, non gareggia con la primavera, ne annuncia soltanto l'arrivo. Quando sulla montagna torneranno a splendere i fiori, sarĂ tra loro a sorridere. (Mao Tse Tung)
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Essere cinesi in Italia DI CHEN MIAO E SARA MIRTI
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er quanto ora come ora ci possa sembrare "strano", c'è stato un tempo in cui qualcuno ha desiderato migrare qui, anche da molto lontano, proprio qui, nel nostro paese sconclusionato, bellissimo e oggi in profonda crisi, per realizzare il sogno di aprire un ristorante - per l'esattezza un ristorante cinese che, secondo un commento di Tripadvisor, è anche "il miglior ristorante cinese da Foligno a Perugia". Il papà di Chen Miao ha sempre lavorato come cuoco e non appena è riuscito ad autofinanziarsi (quello di ricorrere a grandi collette tra parenti e amici è, tra cinesi, una prassi consolidata - e per noi, salvo che nei film di Eduardo, quasi inconcepibile) non ci ha pensato due volte a mettersi in proprio; e per fortuna aggiungo io, altrimenti sia io che i miei amici, fin dalla pre-adolescenza, dove saremmo andati a festeggiare i compleanni, i buoni voti, dove ci saremmo consolati dei voti cattivi, dove avremmo riparato in cerca di un po' di sollievo e di magnifica, gratificante, salsa agrodolce (che, anche nella vita, sta bene con tutto)? Quando abbiamo deciso di scrivere questo articolo la "curiosità" è stata molta da entrambe le parti: quale sarebbe stato il nostro sguardo reciproco? Come ci vedevamo a vicenda? Certo il miglior modo per scoprirlo era mettere tutto per iscritto, di affidare tutto a un mondo comune di segni grafici che permettesse di leggere e rileggere ogni frase, che appiattisse le differenze, un mondo che non avesse accenti né colori, che consentisse di pensare a lungo prima di esprimersi e che, al tempo stesso, permettesse di evocare immagini lontane e sbiadite della memoria, mescolandole sapientemente col presente. Entrambi speriamo che la nostra chiacchierata serva per conoscerci un po' meglio: una volta che ci saremo conosciuti, sia pure iniziando dagli aspetti più semplici, forse avremo più strumenti per osservare le nostre rispettive realtà. a famiglia di Chen Miao viene dalla città di Lishui, nella regione di Zhejiang (regione montuosa, poco
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adatta all'agricoltura e quindi diventata, dopo le riforme economiche di Deng Xiaoping, tradizionalmente legata al commercio e agli scambi, grazie soprattutto allo spirito imprenditoriale e alla tenacia degli abitanti), divenuta ora una delle province più prospere della Cina, e ha aperto a Foligno il ristorante "Shanghai" negli anni '90. Normalmente in Cina "sembra che comandino gli uomini", sia dentro che fuori casa, ma la famiglia di Chen è di stampo "matriarcale"; ricordo lo sguardo aperto e il sorriso dolcemente schivo di sua mamma fin da quando ero una ragazzina (che adorava mangiare cinese). Si tratta di una famiglia "di vecchia concezione", come diremmo noi italiani, molto unita (lui e i suoi genitori hanno due appartamenti vicini, uno sopra l'altro), proprio come, un tempo, avveniva da noi: il rispetto e l'accudimento reciproco sono un dovere (e quindi anche un diritto) sociale in Cina, dove solo i dipendenti pubblici o di grandi aziende hanno una pensione di anzianità che permette loro di sopravvivere anche senza un'unità familiare alle spalle. Sottrarsi comunque a tale dovere sarebbe considerato profondamente disonesto. La Cina è una nazione territorialmente grande quasi quanto tutta l'Europa, popolosissima (circa il 22% del genere
umano è cinese), con decine e decine di etnie e dialetti diversi; Chen fa parte dell'etnia Han, che in patria rappresenta la maggioranza della popolazione (anche se in Cina persino le minoranze possono raggiungere milioni d'individui). E' venuto in Italia da piccolo, in patria ha frequentato soltanto le elementari, poi qui ha seguito tutto l'iter scolastico fino ad arrivare a prendere il diploma (naturalmente ha svolto studi commerciali, ma se tornasse indietro non disdegnerebbe d'intraprendere anche l'università). Durante i suoi studi i bambini cinesi presenti nelle aule del nostro territorio erano al massimo due o tre (anche gli altri immigrati si contavano sulla punta delle dita, e di una sola mano: Chen ricorda oltre ai bimbi cinesi un solo altro bimbo, un capoverdino), ma questo per lui non è mai stato un problema. Gli chiedo se ha sperimentato qualche differenza tra i due modelli diversi di scuola, quella cinese e quella italiana. "In Italia la scuola è meno rigida: qui si discute molto, mentre in Cina s'impara e basta, non c'è nulla da discutere…" Certo, ci sono dei pro e dei contro da entrambe le prospettive, e certo la scuola così com'è oggi non può essere paragonata a quella che avevamo e che i ragazzi della mia età o di quella di Chen hanno fatto in tempo a conoscere,
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Cina tuttavia, temo che, purtroppo, difficilmente la nostra scuola sarebbe in grado di sostenere un confronto con quella cinese. Tra tutte le materie studiate la sua preferita rimane, anche adesso, la storia ("Non mi piacciono i libri di fantasia, io sono una persona realista: mi piacciono piuttosto i libri di storia che mi permettono di capire le persone, i paesi e il perché sono in un modo piuttosto che in un altro"). Soltanto a sentir nominare i libri di storia mi vengono subito alla mente quei tomi enormi e polverosi che molti di noi lasciano sui propri scaffali con l'unico evidente intento di stabilizzarli, ma che nell'arco della vita pochi riuscirebbero a iniziare e finire; invece Chen non si lascia spaventare facilmente dalle lunghe letture, anzi l'attirano: un libro, così come un articolo, va letto e riletto più volte. Naturalmente Chen non ha problemi a leggere e scrivere in italiano, tutt'altro, né a parlare il cinese, soltanto ha qualche difficoltà a scriverlo, alcune parole gli sfuggono perché andandosene dal suo paese, appunto, ha dovuto interrompere lo studio della sua lingua. Si può dire dunque che Chen faccia parte degli immigrati "di seconda generazione", ma no-
nostante abbia trascorso qui i due terzi della sua vita non si sente italiano: difatti non lo è, ha la cittadinanza cinese (né sarebbe possibile avere la doppia cittadinanza: bisogna scegliere), la maggior parte dei suoi amici sono cinesi (sia pure sparsi per l'Italia), il suo matrimonio è stato registrato direttamente in Cina (ma il banchetto è avvenuto in Italia, a Prato, dove per l'occasione tutti gli invitati, parenti e amici, si sono fermati in un albergo e poi a ristorante) e i suoi due splendidi bambini (un bambino di 3 anni e una bimba di 18 mesi) hanno un doppio nome, uno inglese e l'altro cinese, scelto in base all'ora, al giorno, al mese (lunare) e all'anno in cui sono nati, secondo la tradizione. Chen si sente per un buon 70% cinese e per il restante 30% italiano. Eppure, vedendo il suo entusiasmo, la curiosità, intuendone facilmente le molte capacità, non posso fare a meno di pensare che se noi avessimo anche solo il 30% del suo essere italiano, sarebbe già abbastanza. Forse, come dice lui, quando noi guardiamo alla Cina tendiamo ad essere o "troppo ottimisti" o, viceversa, a focalizzarci su un singolo problema, finendo, aggiungo io, per trasformarlo in una falsa vi-
sione d'insieme; ma sono ugualmente sicura che quel 30% basterebbe a tirarci fuori da questo italianissimo "pantano". ornando al racconto di Chen, la prima domanda che gli avrei voluto fare, ma che poi ho lasciato alla fine, riguarda il rapporto che c'è tra i cinesi e la malattia, o la morte. Lui annuisce: molti dei suoi amici italiani gli hanno chiesto perché non ci sono cinesi che muoiono in Italia, e molti continuano a chiederglielo. La risposta a suo dire è semplice: quando un cinese si ammala di qualcosa che non può automedicarsi con le erbe (comunque difficili da reperire in Italia, tranne, forse, a Prato), insomma di qualcosa di serio, la prima cosa che fa (proprio come fanno anche i suoi genitori e tutti i suoi parenti) è prendere l'aereo e tornare in patria, per cui se la situazione degenera è lì che finiscono per morire. Scelgono di tornare in Cina perché si sentono più sicuri, per via della lingua, certo, ma soprattutto perché il proprio sistema sanitario è efficiente ("si paga, ma anche qui dicono che sia gratis e invece si paga lo stesso"), rapido (si prendono appuntamenti nell'arco di pochissimi giorni o di una settimana, mai di mesi
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come accade da noi) e rispettoso tanto delle moderne tecniche mediche quanto dei rimedi più tradizionali. Quando poi, disgraziatamente, qualcuno si trova a morire, le sue spoglie vengono cremate e poste all'interno di moderni cimiteri, che sono da una decina d'anni, per legge, l'unico luogo possibile di sepoltura. Prima invece si sceglieva il luogo e l'orientamento di una sepoltura in base al feng shui (infatti la nonna di Chen, morta nel '94, ha una tomba per conto proprio, in montagna), pratica antichissima, probabilmente utilizzata fin dal Neolitico; il mese in cui cade il ricordo dei morti in Cina è aprile (mentre da noi è, per ragioni diverse, il freddo e uggioso novembre), ma ovviamente per chi torna non più di una volta ogni due anni (salvo necessità particolari) in Cina, ogni visita si trasforma in una buona occasione per visitare i propri morti. Nessun mistero dunque: i cinesi sono consapevoli di portare iscritta una diversità che potrebbe penalizzarli soprattutto in caso di emergenze sanitarie e quindi cercano con ogni mezzo di non farsi sor-
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prendere dalla malattia lontano dal luogo in cui sanno che riceveranno le cure migliori: casa propria. La Cina in fondo ci ha distanziato culturalmente di 5.000 anni, quindi mi sembra logico che chi ne conosca le più intime caratteristiche la preferisca a qualsiasi altro luogo al mondo come luogo di cura. urtroppo però la Cina attuale non viene sempre vista "di buon occhio": da una parte c'è ammirazione per la sua immensa cultura, ma dall'altra la Cina viene per lo più percepita come una minaccia per l'Europa e per l'Italia, come un pericoloso concorrente di mercato. "Noi siamo diversi, autonomi dagli Stai Uniti, non abbiamo solo una politica diversa ma rappresentiamo un'intero mondo di scelte diverse, di opzioni parallele a quelle che per voi rappresentano la normalità: per esempio tutti usano gli smartphone, ma nessuno usa i programmi che usate qui. Google non è il motore di ricerca più usato (è comunque presente, perché ha una sede a Hong Kong), piuttosto si usa 'baidu.com'; non ci sono Facebook, Twitter o e-bay, o meglio, i ci-
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nesi li conoscono, ma non li usano: al loro posto ci sono, rispettivamente, 'qq', 'weibo' e 'taobao'…noi siamo completamente diversi, siamo una potenza parallela". Insomma, piuttosto che chiederci perché i cinesi non usino Facebook, dovremmo chiederci perché lo usiamo noi. 'intervista è finita e, con lei, è finito anche una magnifica cena cinese. Il locale si sta riempiendo di avventori e Chen si congeda da me con un ampio sorriso: ora deve adempiere ai propri compiti. A me però rimane una domanda la cui risposta sta nei libri di storia amati da Chen: perché siamo così diversi? Forse non avremo mai la "ricetta" completa, ma di sicuro "diversi" non vuol dire per forza "incompatibili"… sta a noi - e a noi soltanto, purtroppo - smettere di comportarci come fa l'albero di prugne nella canzone di Lu Yu: smettere di sentirci gli unici "in fiore", gli unici al mondo ad essere in grado di dare frutto; perché alla fine, se non faremo attenzione, finiremo per invidiare qualsiasi primavera e in qualsiasi stagione della nostra vita.
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LIS
“L’albero senza vento”
“Qualche tempo fa ho avuto il dono di un sogno poetico, una poesia che avevo a lungo dentro di me. Poesia visiva. Io stesso non riuscivo ad interpretare la metafora. Avevo la visione d’un albero sofferente, ma vivo e tenace nei suoi rami. L’albero era privato, alla mia osservazione, di qualcosa. Forse mancava ciò che sentivo scompigliarmi i capelli. Non riuscivo a collegarmi, ad avere un riferimento intecomunicativo con l’albero. Per tre notti ho riflettuto sul mio albero. Finché arrivai alla risposta. Sì, il mio era un albero muto, io non riuscivo a interrelazionare con esso perché non mi immedesimavo coi suoi rami e con le sue foglie. Oh adesso capivo ch’era un albero di rami senza vento! Per entrare nell’insieme della comunicazione dovevo creare i movimenti delle foglie, dei rami e solo così avrei percepito il tutto! Cari insegnanti, è una metafora esplicita: e perché voi possiate percepire e stimolare il piccolo sordo all’apprendimento e alla comprensione dell’ambiente (anche al sonoro celato) dovrete sposarne la percezione.” (Renato Pigliacampo) http://www.change.org/it/petizioni/io-segno-la-lis-ma-lo-stato-italiano-non-riconosce-la-mia-lingua-iosegno
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La bellezza infinita della lingua dei segni DI
MARIA SARA MIRTI
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onostante sia una fatica rivelatasi troppo spesso inutile, gli uomini non hanno mai potuto né voluto rinunciare alla presunta, esclusiva "sacralità" delle proprie parole. D’altra parte come farebbe l'uomo ad essere certo d'incarnare “il centro dell'Universo” se non possedesse migliaia di parole che lo affermano? L’universo in questione è di fatto un universo sonoro e, apparentemente, chi non può sentire non potrà mai esserne il centro; eppure basta poco per accorgersi che una persona sorda potrebbe spingersi con lo sguardo attraverso ogni universo possibile, rimanendo sempre padrona dei propri gesti e dei propri pensieri. Insomma, siamo sicuri della profondità, dell’intrinseca utilità delle nostre italianissime parole? Se davvero esiste un Inferno simile a quello dantesco, in cui i protagonisti sono incatenati alla perdizione soprattutto dalle proprie parole (in fondo fu un libro a vincere le ultime resistenze di Paolo e Francesca), dalle proprie domande e risposte inadeguate (il Conte Ugolino, in preda a una furia incontrollabile, continua a chiedere alla terra - e solo alla terra - perché non si sia ribellata alla morte sua e dei suoi figli e nipoti), o idolatre (Pier delle Vigne che di umano ha perduto persino la forma, mutandosi in arbusto, continua a chiedersi perché le proprie parole siano state così inefficaci, perché non siano riuscite a convincere il "suo" Federico, il suo signore, definito fino alla fine "degno di fiducia" ma da cui fino alla fine non ha ricevuto alcun conforto), allora temo che ben pochi tra le generazioni che si sono affidate alla raccolta e allo studio forsennato delle parole avranno una dimora diversa da quell'inferno. E, ugualmente, se davvero esiste un Paradiso iper-contemplativo-razionale e iper-teologico-enciclopedico come quello immaginato dal sommo poeta, allora ben presto, nel bel mezzo dell'infinito, quando anche le parole più solenni avranno esaurito tutte le proprie combinazioni, persino quel luogo ameno finirà per svuotarsi e folle di
beati stanchi del proprio stato, affamati di nuove parole, cominceranno a fare la fila per poter visitare le grandi menti e i grandi libri rimasti intrappolati indifferentemente nell'Inferno o nel Purgatorio dei normodotati. ra immaginiamo per un attimo di non potere, o addirittura di non volere utilizzare le nostre parole - i fonemi così come li conosciamo - per descrivere la nostra vita, il nostro presente, il passato e il futuro, per fare progetti, per pregare, per dare il nostro assenso o il nostro dissenso ad una quotidianità in perenne evoluzione. Come faremmo senza le nostre locuzioni? I nostri stessi pensieri risuonano nella nostra testa attraverso le parole corrispondenti. Certo, senza questo tipo di linguaggio enigmatico, "magico" fin dalla propria origine, gli dèi non si sarebbero mai presi gioco di Edipo, Medea non avrebbe potuto scagliare i suoi incantesimi e, senza la profezia di Cassandra, forse la fine di Agamennone sarebbe sembrata meno crudele, e magari Oreste non avrebbe mai riconosciuto la voce delle Erinni
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che l'hanno fatto impazzire. Senza troppe parole rimarremmo privi di altrettanti strumenti utili, tra le altre cose, a sottolineare e codificare i nostri errori. Per citare S. Zweig (e il suo "Amok") si potrebbe dire che "gli enigmi di natura psicologica" esercitano su tutti noi "un fascino addirittura conturbante: la sola idea di poter individuare relazioni e connessioni" ci "dà il sangue alla testa". Come faremmo ad ammalarci e a guarire da questa follia se d'improvviso ci dovessimo trovare ad usare un’altra “langue”? Quale? Magari quella "visuomanuale". Milioni di persone in tutto il mondo, migliaia in Italia, usano la LIS - ad esempio - vale a dire la lingua dei segni italiana per le persone sorde (indicate come "sorde", e non più come “sordomute”, dal 2006). L’evoluzione della lingua dei segni ha seguito una storia parallela rispetto alla lingua verbale, e ha permesso alle persone sorde, là dove utilizzata, l’accesso a informazioni prima irraggiungibili. Esistono diverse lingue dei segni, alcuni segni simili perché derivanti da uno stesso
LIS “ceppo” o da esperienze simili (proprio come accade per le altre lingue), altri più peculiari. Ma cominciamo dall'inizio: le sordità sono diverse, con diversi gradi di gravità; senza dimenticare che al numero delle persone sorde va sommato anche quello delle persone cosiddette "ipoacusiche" o "audiolese". Inoltre i sordi, a dispetto del luogo comune, sono tutt'altro che "muti", soltanto non sempre riescono a modulare la propria voce in una maniera che forse gli "udenti" definirebbero ottimale. Si tratta di un deficit uditivo, mentre la sfera cognitiva dell'individuo non ne risulta in alcun modo compromessa (così come negli udenti, ciò che può danneggiarla è invece un’educazione tardiva, mediocre o fallace), anzi direi che avviene l'esatto contrario. In un mondo che si muove - e rapidamente - su binari visivi, la capacità di capire ciò che ci circonda, l'arguzia, la velocità di riflessi, la coscienza di sé e degli altri, la capacità di comprendere e di tradurre ogni avvenimento in un senso compiuto deve essere molto elevata. Quando manca una porta sensoriale sul mondo non è concesso, come invece accade agli udenti, "addormentarsi sugli allori". I sordi hanno e hanno sempre avuto (fin dal tempo dei faraoni) una propria lingua. Scrive lo studioso (sordo) Renato Pigliacampo: "Spesso guardo le mie mani, chiedo loro: siete all’altezza di comunicare le idee e emozioni? So-
no certo che hanno questa potenzialità. Allora queste mani diventano risorsa ideando configurazione/i e poi movimenti che veicolano il messaggio contenuto nel segno. È una forma mentis di interazione che il sordo ha con l’interlocutore e l’ambiente". a come si caratterizza la lingua dei segni? E perché ci appare ancora oggi così apparentemente incompatibile col nostro linguaggio ossessivo? Cosa c'è che ci fa apparire un gesto “innaturale” e la narrazione, così come la conosciamo, indispensabile? In fondo ciò che calma un bimbo piangente durante la notte, prima ancora del suono di una ninna nanna, è il dondolio delle braccia dei genitori che lo sostengono. I sordi potrebbero avere un modo proprio per esprimersi in italiano, così come hanno una curva audiometrica differente da persona a persona, così come non esiste un organo umano fisicamente identico a un altro...e allora? Sapevate che sono sempre esistiti attori sordi, al teatro come al cinema, che grandi artisti sono stati presumibilmente sordi (come il Pinturicchio o Antonio Viviani, detto appunto "Il Sordo"), che esistono radio, gruppi di ballo e perfino cantanti sordi? Quella sorda è una vera e propria cultura (e la lingua dei segni è la lingua che veicola tale cultura), formatasi e stratificatasi - come ogni altra cultura - nel tempo, e non è il frutto casuale o, peggio, "imperfetto" di una qualche di-
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29 sabilità. Il termine stesso, "disabilità", riferito ai sordi fa gridare all'errore più palese: pur trattandosi di una definizione tecnicamente corretta, come si può liquidare una lingua così ricca che porta iscritte su di sé i propri rivoli passati, legati a un'oralità fatta d'identità caparbie e di legami sinceri - definendola una lingua in qualche modo "difettosa", abile ad esprimere qualcosa ma non qualcos'altro? Si studia una lingua non solo per memorizzarne i meccanismi grammaticali, per comunicare, ma soprattutto per conoscere la cultura che vissuta da chi parla una data lingua; lo stesso meccanismo poi, una volta acquisito, servirà ad imparare ogni altra cosa vorremo conoscere, qualsiasi argomento, qualsiasi scienza (mi permetto di rimandare all’articolo “La lingua e il codice. Lo studio del latino apre la mente”, in Piazza del Grano di febbraio 2013, p. 23). Certo ogni lingua si fa portatrice di culture distinte e ciascuna cultura, a sua volta, possiede le proprie peculiarità, ma in nessun caso ci azzarderemmo a definire una cultura inferiore a un'altra…o sì? In effetti quella di un'inferiorità presunta, ma comunque "pericolosa", è la scusa più usata per giustificare un'aggressione, preventiva o non, verso qualcuno con cui non riusciamo a comunicare altrimenti. Forse in noi la certezza che si possa parlare soltanto usando la voce e soltanto attraverso congiunzioni, pronomi, coniugazioni
30 e via dicendo è troppo radicata; d'altra parte, ognuno di noi cosiddetti udenti si porta ancora addosso, forte e chiara, l'enorme fatica fatta a scuola per imparare l'italiano: se dovessimo pensare che potrebbe non essere l'unica lingua riconosciuta in Italia, immagino che per lo più ci faremmo prendere dal panico. Comunque per ora parrebbe che non ci sia questo rischio immediato, purtroppo: la legislazione è contraddittoria (vaga in senso generale ma con la possibilità di regolamentazioni particolari affidate alle regioni o ai comuni) e ancora ferma sulle proprie posizioni, ma l'opinione pubblica si sta muovendo a passi abbastanza sostenuti (Radio Kaos Italis ha lanciato una petizione in merito). In tutta Europa già molti Stati hanno riconosciuto la lingua dei sordi (Grecia, Portogallo, Spagna, Finlandia, Svezia, Danimarca), mentre la comunità sorda francese (più precisamente l’Associazione “OSS2007”), nel tentativo di ottenere un cambiamento della propria Costituzione, di ricevere doverose scuse dalla classe politica e di attirare l’attenzione a livello mondiale sulle lingue dei segni, ha organizzato una marcia di 950 Km, da Parigi a Milano, dal 18 maggio al 28 giugno (in Italia si è formato un comitato autorizzato dall'ENS di Milano e dall'ENS Centrale di Roma: "IL MIO SEGNO LIBERO"), in ricordo del famigerato Secondo Congresso Internazionale degli educatori dei sordi, svoltosi proprio a Milano, che nel 1880 mise fine al riconoscimento fin lì raggiunto dalla lingua dei segni, spazzando via gli insegnanti sordi dalla società civile. Se nel 2013 è ancora necessario marciare per i diritti è perché, a quanto sembra, è ancora vivo il detto "il gesto uccide la parola", dove naturalmente per "parola" noi cosiddetti udenti - che però non vogliamo sentire ragioni diverse dalle nostre - intendiamo "intelligenza", forse persino "anima civile". Più del 90% dei bambini sordi nasce da genitori udenti che non sono propensi ad ammettere, accettare e pianificare per i propri figli una via che sembra così culturalmente differente dalla loro. Lo posso capire: una volta diventati "grandi" abbiamo un disperato bisogno di autoconvincerci di vivere nel "migliore dei mondi possibili" e, quindi, di professare la migliore cultura possibile; e naturalmente se una cultura è già al suo presunto apice, ogni cambiamento è sconsigliato - potrebbe es-
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Opera di Luisella Zuccotti
sere l'inizio del suo declino. Scrive ancora Renato Pigliacampo: "Il neurolinguista Franco Fabbro in un’importante ricerca ("Il cervello bilingue", Astrolabio, Roma) ci permette di approfondire i testi di Noam Chomsky ribadendo che il concetto di lingua è un termine poco chiaro. La lingua va dapprima appresa nel lessico; si sviluppa poi in linguaggio nell’esperienza interrelazionale con gli altri. Le emozioni vissute con la lingua dei segni diventano identità linguistica del proprio Sé, vale a dire coscienza/conoscenza dell’altro che – come te (nel nostro caso di sordi) – sperimenta la percezione visuomanuale. Chiaro che se il bambino sordo non è esposto alla lingua dei segni, il rapporto con la stessa è artefatto e conflittuale. Chi ode è immerso nella lingua, s’apre alla stessa attraverso lo stesso canale uditivo dell’interlocutore. Il piccolo sordo non ha quest’esperienza. Smettiamola di insistere che ci sono potenti protesi acustiche computerizzate o si potrà ricorrere all’impianto cocleare. Molte parole vanno perdute nell’afferenza al cervello. Anche perché noi interpretiamo suoni e rumori riconoscendoli dalla tonalità e dalle vibrazioni, portandoci a riconoscere il fonema percepito. Un esempio elementare: se pronuncio “mamma” non è che, come qualcuno crede, la parola mamma (mi) arrivi integrale nella mente, è il cervello che la riconosce e interpreta grazie alla tonalità, alla durata del/dei suono/i e così via. È possibile allenare il cervello all’ascolto? L’audiologia afferma di sì. Ma ci vogliono anni e anni di esercitazioni e, nel frattempo,
non possiamo lasciare il bambino senza stimolazioni sensoriali tipicamente visive". nfine, anche le persone sorde posseggono il dono della poesia. La poesia è sempre un dono, solo che il loro è il migliore dei doni che si possa immaginare (e che è stato pagato a un prezzo abbastanza salato): poter avere la visione di una poesia, deciderne i colori (ottima alternativa a qualsiasi nota, a qual si voglia ritmo o sinfonia), osservarne l'evoluzione, contenerne con lo sguardo la grandezza…mentre noi possiamo soltanto scrivere le nostre parole confuse su ritagli di carta (io da adolescente usavo anche i tovaglioli dei bar) che prima o poi finiranno "a mare", i sordi possono raggiungere con lo sguardo ogni poesia gli passi per la mente. Potrebbe sembrare semplice ma la visione del “sé” in tutta la propria essenza è qualcosa di raro e di estraneo per gli dèi occidentali che invece, prima, hanno preteso di avere figli identici all’opinione mai verificata - di se stessi e, infine, non hanno potuto far altro se non disperdersi in mare con tutti i loro oracoli e le loro capricciose leggi, trasformando in schiuma onnipresente e ripetitiva tutti i nostri dubbi, tutti i nostri appunti, tutte le nostre parole. Solo con l’aiuto di nuovi segni potremmo ancora tentare di comunicare con loro. Per ulteriori informazioni, per notizie sulla didattica, sull’importanza dell’integrazione di bambini sordi e udenti (e molto altro):
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http://www.ens.it http://www.iltreno33.it
Impero
Milk Run
il “giro del lattaio”- Roma 19 luglio 1943
“Milk Run” nel gergo dei piloti dei bombardieri ha il significato di un raid sin troppo semplice: come depositare le bottiglie del latte la mattina casa per casa, solo che si tratta di bombe. E’ un “Milk Run” il 19 luglio 1943 a seppellire sotto una pioggia di circa 4.000 bombe contenenti oltre 1.000 tonnel-
late di esplosivo, lanciate da ondate successive di 662 bombardieri scortati da 268 caccia, che mitragliavano a bassa quota, il quartiere di S. Lorenzo a Roma, causando la morte di oltre 3.000 civili e il ferimento di circa 12/15.000, 1.500 dei quali morti successivamente.
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Impero
L’Impero del Male DI SANDRO RIDOLFI
Inroduzione
Avevamo scritto in un precedente articolo sulla guerra nord americana contro l’Iraq della pratica costante, e peraltro continuamente tecnologicamente aggiornata, dell’uso da parte dell’esercito degli Stati Uniti di armi di distruzione di massa. Tritolo, benzina, fosforo, diossina, uranio impoverito, ecc. sono componenti chimiche vastamente e regolarmente utilizzate dell’aviazione USA con finalità non di colpire eserciti o in genere combattenti nemici, ma di terrorizzare la popolazione del paese nemico, o almeno tale ritenuto per gli interessi economici dell’Impero nord americano. Terrorismo avremo dunque dovuto intitolare questo inserto, seguendo la definizione che di tale “tecnica di guerra” ha dato la stessa FBI, commentata nella nota dell’Ambasciatore Sergio Romano che pubblichiamo nel riquadro in calce. Oggi però, e da numerosi anni, c’è in realtà un solo Stato realmente in grado e che costantemente fa uso della sua potenza per terrorizzare il Mondo: l’Impero USA, il più grande, il più forte, forse anche il più violento che la storia dell’umanità abbia mai conosciuto. Vogliamo ripercorrere, per ricordare, alcuni episodi più significativi, per la particolare crudeltà e
l’evidente finalità non bellica ma propriamente terroristica, di bombardamenti eseguiti su obiettivi civili dall’aviazione USA con il ricorso ad armi di “distruzione di massa”. Il prossimo 19 luglio 2013 cade il settantesimo anniversario del bombardamento del quartiere S. Lorenzo di Roma che abbiamo richiamato nella copertina dell’inserto. Partiamo da questa memoria sia chiaro non per “revisionare” la storia (si veda il film “Il Cacciatore” ricordato nell’apposito inserto). L’Italia era allora un paese fascista e stava, come si dice, dalla parte dei “cattivi”, la barbarie del bombardamento del quartiere popolare di Roma da parte dei, anche qui come si dice, “liberatori”, non cambia i ruoli e le responsabilità immense della carneficina della seconda guerra mondiale; ma il punto che vorremmo trattare è proprio questo: è giusto massacrare un popolo per combattere un regime? Che vuol dire: la guerra, qualsiasi guerra, che coinvolge inevitabilmente i popoli degli Stati, coalizioni, schieramenti combattenti, è davvero l’unico mezzo per la risoluzione dei conflitti, qualunque sia la loro gravità e/o i fondati torti e di contro le opposte apprezzabili ragioni? Quando poi la forza militare è fortemente e stabilmente nelle mani di una sola parte, e dunque c’è sempre un solo vincitore che poi è colui che riscrive
L’Fbi definisce il terrorismo come “atti violenti… miranti a intimidire o a coartare la popolazione civile, a influenzare la politica di un governo, o a interferire nella condotta di un governo” da un articolo di Sergio Romano pubblicato sul Corriere della Sera del 5 febbraio 2009 “La definizione di terrorismo è un difficile esercizio a cui sono stati dedicati studi importanti e dibattiti interminabili, soprattutto alle Nazioni Unite. Personalmente uso quella che mette l’accento sulla clandestinità dell’organizzazione, la segretezza e l’imprevedibilità dell’attentato e, come nel caso del terrorismo religioso, l’uso della vita dell’attentatore come arma suprema. L’uso della popolazione civile come obiettivo militare non è una novità introdotta dai movimenti dell’islamismo radicale. Il fenomeno comincia con i primi bombardamenti della Grande guerra. Assume proporzioni maggiori durante la guerra cino-giapponese e la guerra civile spagnola. Diventa una componente fondamentale della strategia dei Paesi combattenti durante la Seconda guerra mondiale. I bombardamenti tedeschi di Coventry, le V1 e le V2 lanciate su Londra, le bombe americane su Milano e Roma nel 1943, i bombardamenti anglo-americani di Dresda e di Amburgo, le bombe atomiche lanciate dagli Stati Uniti su Hiroshima e Nagasaki, non si proponevano la distruzione di un obiettivo militare. Il loro bersaglio era il «morale», vale a dire quel valore intangibile da cui dipende in ultima analisi la capacità di combattere e di resistere. Si colpiscono i civili, in altre parole, per piegare la loro volontà o, meglio ancora, aizzarli contro il loro governo.”
la storia, la vittoria militare è davvero la soluzione, o finisce per sostituire dall’alto (il tema dei bombardamenti aerei qui trattato è quanto mai pertinente) un regime a un altro? Abbiamo concepito questo inserto in modalità “multimediale”. Per ogni episodio trattato, indichiamo degli indirizzi internet anche con il percorso del qr code, in modo che i lettori possano andare oltre negli approfondimenti, anche critici, laddove dovessero non condividere le opinioni espresse in questo articolo.
Roma, San Lorenzo
Siamo all’estate del 1943, le forze dell’Asse (Germania-Italia) sono oramai in rotta ovunque o comunque in rapido ripiegamento difensivo. La battaglia di Stalingrado si è conclusa a febbraio con la resa delle truppe tedesche e l’Armata Rossa avanza oramai velocemente verso l’Europa centrale; l’Africa è stata completamente liberata e all’inizio di luglio è iniziato lo sbarco delle forze alleate in Sicilia. Mancano in verità ancora due anni di guerra, violentissima e sanguinosissima, ma i destini del Terzo Reich sono segnati. L’Italia sta già segretamente negoziando la resa che formalizzerà con l’ “armistizio” dell’8 settembre (le virgolette stanno a significare la verità di una resa incondizionata e disastrosa per le modalità di (non)comunicazione neppure allo stesso esercito italiano). Le truppe tedesche non sono ancora discese in Italia, ferme a livello dell’Alto Adige dove contano sull’entusiastico sostegno della popolazione di lingua tedesca. In Italia dunque in quell’estate 1943 non ci sono significativi centri di rilevanza militare e Roma, in particolare, è un sito totalmente irrilevante anche perché privo di difese sia contraeree che aeree. Eppure nel luglio 1943 gli alleati (USA fondamentalmente) decidono di colpire con incredibile violenza la Città eterna, il simbolo della cristianità. Una nota di chiarezza: a luglio 1943 Roma non era “città aperta” ai termini delle convenzioni internazionali, lo si era “auto dichiarata” nell’agosto successivo, ma non è stata ufficialmente riconosciuta come tale, anche se, va subito aggiunto, gli Alleati non hanno mai rispettato tale tutela anche quando
Impero questa era stata ufficialmente attribuita, com’è accaduto ad esempio per il bombardamento di Belgrado nell’aprile 1944 nonostante la città fosse stata smilitarizzata. Un fatto è chiaro: il bombardamento di Roma del luglio 1943, ma anche quelli che seguirono nell’agosto dello stesso anno e ancora negli anni successivi, fu un deliberato atto di terrorismo. Resta un dubbio, ma forse più che un dubbio una verità “inconfessabile”: destinatario di quell’atto di terrorismo non era il popolo dello Stato fascista italiano, oramai allo sbando ovunque, quanto l’ “altro” Stato romano: lo Stato della Chiesa cattolica. Roma non era infatti agli occhi degli alleati (USA e GB) la sede della cristianità, ma della Chiesa cattolica, tanto osteggiata in ambedue i Paesi alleati, quanto fortemente compromessa sia col fascismo che con il nazismo. Si potrebbe dunque dire che il bombardamento di Roma non fu neppure un atto di terrorismo ma un atto di guerra “indiretta” a uno dei più potenti Stati della terra: lo Stato del Vaticano. Ben lungi quindi dall’essere protetti, come molti pensavano e ancor più davano a credere, dalla presenza del Papa cattolico, i cittadini di Roma pagarono allora il prezzo della vicinanza a un potente nemico dell’alleanza anti nazi-fascista. Gli Usa cercarono lungamente di accreditare la tesi di una distruzione mirata di insediamenti militari o comunque di rilevanza militare, nonché di una particolare attenzione nell’addestramento dei propri piloti per non colpire monumenti e zone popolari. Il filmato al quale vi rinviamo con l’indirizzo e il qr code in calce, svela la grossolanità della falsa propaganda umanitaria USA: si trattò di un bombardamento a tappeto, eseguito con un numero impressionante di aerei bombardieri e altrettanti caccia che, tra una pioggia di bombe e l’altra, scendevano a bassa quota e mitragliavano superstiti e soccorritori. Non c’era contraerea, non c’erano caccia di difesa, non c’erano in fondo neppure soldati, solo cittadini e, come è accaduto con la grottesca distruzione di parte del cimitero del Verano, cadaveri e scheletri disseppelliti dalle esplosioni in profondità. Un “giro del lattaio” appunto, criminale e spietato. http://www.youtube.com/watch?v=ULd74cBzZ4I
Dresda
Se Roma fu il primo atto di terrorismo aereo in Italia, il bombardamento di Dresda del febbraio 1945 fu un atto di incredibile vendetta posto in essere, in quel caso, principalmente dall’aviazione inglese. Dresda, nel nord della Germania, era una città barocca dalla lunghissima e importantissima storia con una popolazione di circa 5/600mila abitanti. In qualche modo un gioiello e un simbolo della cultura e della storia della nazione tedesca. In quella fase oramai terminale della guerra Dresda, completamente privata di difese antiaeree e aeree, trasferite sul fronte russo, era diventata un sito di ricovero per una vasta popolazione di sfollati dal fronte russo in rapido avvicinamento, con un numero altissimo di ospedali per i feriti civili e militari. Dresda era dunque un bersaglio persino più facile di Roma, ma molto molto più sensibile per la concentrazione di profughi e di servizi sanitari. I tedeschi negli anni precedenti, persa la battaglia aerea d’Inghilterra dell’estate 1940 e abbandonata l’idea di uno sbarco sull’isola, avevano ripetutamente cercato di piegare il morale del popolo inglese bombardando sistematicamente le loro città con i missili V1 e V2. Era giunto il tempo della vendetta e così il 13 febbraio 1945, con più ondate successive distanziate anche di due giorni l’una dall’altra, circa 800 bombardieri della aviazione inglese coprirono letteralmente di bombe la città indifesa, praticamente cancellandola. Ma non si trattò solo (si fa per dire) di un bombardamento distruttivo, gli inglesi utilizzarono bombe incendiarie, peral-
33 tro espressamente vietate dalla convenzioni internazionali quali armi di distruzione di massa, che oltre a demolire con le esplosioni, spargevano il fuoco agli edifici non colpiti mandandoli in fiamme. Dresda divenne un unico immenso rogo a circa 1.500 gradi di temperatura che generò una “tempesta di fuoco” che inghiottì, letteralmente risucchiandoli tra le fiamme, qualcosa come 250300mila persone (n.b. i numeri sono molto contestati a livello di uno zero in più o in meno, ma questo dipende dal peso di coloro che hanno “riscritto” la storia). Sembra comunque che le bombe di Hiroshima e Nagasaki (ne parliamo più avanti) fecero molti meno morti. Il servizio storico al quale vi rinviamo con l’indirizzo e il qr code in calce, ci da inoltre un’informazione assai interessante, anche perché immediatamente replicata nel caso delle bombe atomiche USA. A volere quell’incredibile atto di vendetta non furono i militari, bensì i politici, nello specifico il soprannominato “bisonte della reazione” Winston Churchill. Questo non nobilita il ruolo né sminuisce le responsabilità dei militari (lo abbiamo già detto: non c’è nessun onore ad ammazzare o farsi ammazzare in divisa), ma evidenzia quanto sia nella politica, e dunque nelle volontà dei poteri dominanti, la responsabilità anche della più efferata violenza delle guerre. http://www.youtube.com/watch?v=5m6z7Iax31k
Dresda 1945
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La vicenda delle due bombe atomiche lanciate su Hiroshima e Nagasaki nell’agosto 1945 resta una delle pagine più controverse della storia recente nonostante la cortina di prepotenze, omertà e opportunismi che l’ha coperta sin dai giorni immediatamente successivi alle esplosioni. I responsabili del lancio delle bombe atomiche hanno ripetutamente cercato di fornirne articolate ragioni circa la necessità di quell’atto, giungendo sino a bilanciarne, col ricorso alla statistica, i costi e i benefici in termini di morti, militari e civili, nel caso di ulteriore prosecuzione della resistenza militare del Giappone. Ma anche nel fronte USA, sin dall’indomani della conoscenza delle dimensioni della catastrofe umana provocata dalle due bombe, diverse voci si alzarono per contestarne la necessità e per dissociare le proprie responsabilità. Sia il generale MacArthur, comandante dello scacchiere militare del Pacifico, che il generale Eisenhower, comandante di quello europeo, dopo avere dichiarato ambedue di non essere stati preventivamente informati e consultati della decisione presa dal Presidente Truman di lanciare le bombe atomiche, affermarono che, da un punto di vista strettamente strategico militare, non ve n’era bisogno essendo il Giappone sul punto di arrendersi senza la necessità di quella carneficina di civili. Nel tempo si è fatta strada un’altra lettura delle ragioni di quell’evento che ha trovato sempre più credito, anche alla luce delle vicende storiche e politiche successive. E’ stato detto che gli “inutili” bombardamenti atomici delle due città giapponesi hanno rappresentato il primo atto esplicito della “guerra fredda” con l’Unione Sovietica; in altri termini era quest’ultima la vera destinataria dell’intimidazione strumentalmente eseguita ai danni della popolazione giapponese. La guerra in occidente era finita, la Germania si era arresa, l’esercito di terra sovietico, in quel momento il più grande del mondo, si era spostato in oriente e aveva attaccato le forze giapponesi in Manciuria letteralmente travolgendole. L’Unione Sovietica si stava dunque affacciando sull’Oceano Pacifico e non escluso, a detta degli stessi americani, avrebbe anche potuto precedere gli USA nella conquista almeno di parte dell’arcipelago giapponese. Occorreva un segnale forte, un avvertimento che ristabilisse i ruoli e gli spazi del dominio del mondo. Il prezzo è stato cinicamente posto a carico del-
Impero la popolazione civile di uno Stato oramai sconfitto e distrutto. Il servizio di “Ulisse” curato da Alberto Angela al quale rinviamo con l’indirizzo internet e il qr code in calce è quanto mai esplicito in tal senso. Solo poche aggiunte, che chi vorrà potrà verificare facilmente, a testimonianza della finalità terroristica di quel crimine di guerra. Per esplicito ordine del comitato preposto alla decisione sull’uso delle bombe: le stesse dovevano colpire grandi insediamenti civili per enfatizzarne l’effetto devastante; non doveva essere dato preavviso né della decisione del lancio né, cosa persino più grave, della natura dell’esplosivo, per lasciare il più possibile terrorizzato il Paese (o chi di dovere) colpito; il lancio doveva essere ripetuto per dimostrare la disponibilità di un arsenale “ricco”. Nota, a dispetto della retorica dell’attenzione dei militari USA alle potenziali vittime civili (dette: effetti collaterali), va segnalato che Nagasaki subì danni relativamente limitati in quanto gli USA lanciarono “alla cieca”, sopra una coltre di nuvole, e quindi la bomba cadde dietro una collina che ne limitò gli effetti sulla città. http://www.youtube.com/watch?v =j_xSyrJVx3Q
Belgrado
L’elenco potrebbe (dovrebbe) proseguire enormemente più a lungo (basti solo pensare al Vietnam, alla Cambogia, all’Iraq, ecc.), ma fermiamoci qui; anzi facciamo un salto cronologico e geografico per significare che quegli atti non solo non appartengono a un passato superato, ma anche che non sono così lontani, nello spazio e nelle responsabilità, dal nostro presente e dalla nostra politica. Parliamo dell’aggressione, sempre aerea, Belgrado 1999
della coalizione della Nato alla Repubblica iugoslava, ridotta, dopo la secessione della Slovenia, Croazia, Bosnia e Macedonia, alla sola Serbia e Montenegro. La guerra contro la Iugoslavia si sviluppa in più tappe, 2004, 2005 e infine 2009 (cosiddetta guerra del Kossovo) quest’ultima con la maggiore partecipazione militare dell’aeronautica italiana. Sarà soprattutto in questa terza fase che si accentuerà il carattere terroristico dei bombardamenti aerei, in quanto diretti non più, o non solo, verso obiettivi militari, ma direttamente verso infrastrutture civili (centrali elettriche, infrastrutture stradali e ferroviarie, sistemi televisivi, ecc.). Anche in questo caso si tratterà sostanzialmente di un “Milk Run” in quanto le capacità di difesa della Iugoslavia erano assolutamente sproporzionate alle dimensioni delle forze aeree attaccanti che poterono contare, nel periodo massimo, su oltre 1.000 aerei, decollati da numerosi Paesi europei. La caratteristica ben nota ai governi della Nato (l’ONU rifiutò la copertura internazionale dell’operazione esclusivamente imposta dagli USA ai propri Stati sudditi, in testa l’Italia) fu quella dell’uso di una nuova arma di “distruzione di massa”: l’uranio impoverito, U238 e torio 234, che veniva liberato nell’aria inquinando quindi non solo la terra ma anche l’atmosfera con indici di persistenza volatile di numerosi mesi. I servizi giornalistici sull’argomento sono innumerevoli, vi suggeriamo di iniziare dalla ricostruzione dell’ultima aggressione aerea alla Repubblica iugoslava del 2009 fatta in un lungo servizio di Rai3 all’indirizzo internet e qr code a lato. http://www.youtube.com/watch?v =QolJ7c70S8Q
Il Cacciatore
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Il Cacciatore (di cervi)
e la guerra “sporca” del Viet Nam
Nessuna guerra può essere considerata "pulita", ma realmente "sporca" è quella guerra che anche a distanza di molti anni lascia ferite insanabili nelle persone e nell' ambiente naturale: questo è il caso della guerra chimica combattuta in Viet Nam. Di fronte alla inefficacia dei bombardamenti tradizionali, già nel 1961 lo stato maggiore statunitense chiese l'intervento del Servizio delle armi chimiche che aveva fatto le sue prime esperienze durante la guerra in Corea. L'obiettivo era quello di distruggere il mantello di vegetazione che proteggeva le piste e le basi logistiche di Vietcong e Nord Vietnamiti. Fu così lanciata l' operazione "Farm boy" che consisteva nell'impiegare 18 aerei C123 per vaporizzare milioni di litri di diserbante nella regione a Nord di Saigon. L'impiego degli erbicidi provocò la distruzione di più di due milioni di
ettari di vegetazione di cui circa un decimo era destinato all'agricoltura. Avvenne un’autentica catastrofe ecologica perché i più di 70 milioni di litri di prodotti tossici rovesciati sul terreno, dopo aver distrutto la vegetazione, si infiltrarono nel suolo e contaminarono per lungo tempo le falde freatiche e le mangrovie del litorale. Gli effetti furono tanto più gravi perché i prodotti utilizzati contenevano, tra le altre cose, anche della diossina, i cui disastrosi effetti sono ben conosciuti soprattutto dopo la catastrofe di Seveso del 1976. Il danno sanitario alla popolazione civile fu incalcolabile: malattie cutanee incurabili, cancro del fegato, malformazioni dei feti, elevato tasso di mortalità perinatale, disturbi nervosi. Non pochi fra gli stessi militari incaricati della irrorazione con questi prodotti chimici subirono gravi danni alla salute.
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Il Cacciatore
“Il Cacciatore” un film di Michael Cimino, 1978 Trama Cinque amici appartenenti a una comunità di immigrati ucraini di Clairton, in Pennsylvania (Michael, Nick, Steven, Stanley e Axel) conducono un'esistenza grigia tra il lavoro in un'acciaieria e la passione per caccia al cervo; i primi tre sono in procinto di partire per il Vietnam e uno di loro, Steven, sta per sposare Angela. Michael e Nick amano la stessa donna, Linda, che, a causa di un padre violento e alcolizzato, si trasferirà nella loro abitazione dopo la loro partenza. Alla fine della lunga festa per il matrimonio di Steven e Angela, Nick chiede a Michael di fargli una promessa: in nessun caso lui dovrà abbandonarlo. Il giorno dopo i quattro, senza Steven, partono per la caccia e Michael abbatte un cervo, uccidendolo con "un colpo solo", un solo proiettile in modo da dare al cervo la possibilità di sopravvivere. Vietnam. In seguito ad un'azione militare, i tre amici vengono catturati dai viet cong e costretti a partecipare alla tortura della roulette russa mentre i carcerieri scommettono su di loro. Steven è il primo a cedere e viene rinchiuso in una gabbia immersa nel fiume. Michael convince Nick a tentare la fuga facendo inserire tre pallottole nel tamburo in modo da uccidere i viet cong. L'azione disperata riesce e, dopo avere liberato Steven, i tre fuggono lasciandosi trasportare dalla
corrente attaccati ad un tronco d'albero e vengono soccorsi da un elicottero americano, ma Steven non riesce a rimanere appeso e cade in acqua, seguito immediatamente da Michael che si butta per salvarlo, mentre Nick viene trattenuto dall'equipaggio del velivolo. Nella caduta Steven si frattura entrambe le gambe e Michael lo carica sulle sue spalle fino a che non trova una jeep militare. Nick viene ricoverato in un ospedale militare e, una volta dimesso, si avventura per Saigon arrivando di fronte ad un locale dove sente dei colpi di pistola ed intuisce cosa si sta svolgendo all'interno. Nel locale è presente anche Michael che riconosce Nick e tenta di raggiungerlo, ma senza successo. Michael viene rimpatriato ma sembra presentare problemi di riadattamento alla vita civile e, dopo avere cercato Linda dalla quale viene a sapere che Nick ha disertato, incontra gli amici subendo un altro trauma nell'apprendere le condizioni di Angela, scivolata in una sorta di catatonia dopo il rientro di Steven. I giorni successivi sembrano confermare i cambiamenti avvenuti in lui: durante una battuta di caccia non riesce a colpire un cervo pur avendolo sotto mira, e capisce che la sua esperienza in Vietnam lo ha profondamente segnato. In seguito vedendo Stanley che minaccia per scherzo Axel con la sua pistola gliela sfila di mano e, lasciando un solo proiettile nel tamburo,
la punta alla fronte dell'amico premendo il grilletto a vuoto, facendo comprendere a Stanley la gravità del suo gesto. Il giorno dopo Michael incontra Steven che si trova in una struttura per reduci dopo avere subito l'amputazione delle gambe e la perdita dell'uso di un braccio, rifiutandosi di tornare a casa. Steven mette al corrente Michael del fatto che periodicamente riceve grandi quantità di denaro dal Vietnam. Michael intuisce che si tratta di Nick e, dopo avere convinto Steven a lasciare la struttura e a tornare dalla moglie, fa ritorno in Vietnam allo scopo di trovare l'amico perduto. Vagando per Saigon ormai in preda al caos, Michael trova il luogo dove si svolgono le sedute di roulette russa. Una volta trovato Nick, divenuto ormai un professionista del macabro gioco, non viene riconosciuto e, per compiere un estremo tentativo di ricondurlo alla ragione, si siede di fronte a lui ricreando la situazione già vissuta durante la breve prigionia. Nick, accecato dalla sua profonda sofferenza, sembra indifferente alla vista dell'amico. Nick preme il grilletto e muore di fronte agli occhi dell'amico. Tutti gli amici partecipano al funerale di Nick e, durante il ricevimento nel bar di John, l'atmosfera è dimessa e silenziosa: ognuno porta con sé il proprio fardello di sofferenze. Mossi dalla commozione John e i suoi amici intonano "God bless America", in onore di Nick.
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Il Cacciatore
Un grande film sulla guerra, ma quale guerra? Non quella combattutta con dei mostri alieni, ma quella dell’inganno del falso mito di una“sogno americano” fatto di emarginazione, violenza e disperazione
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el film di Michael Cimino “Il Cacciatore” sono state date, e vengono ancora date, diverse letture, apparentemente contrastanti, ma in verità tutte (quelle di qualità ovviamente, non commerciali né servili) a loro modo pertinenti. In effetti il film, che indubbiamente costituisce un capolavoro della tecnica e dell’arte cinematografica, si compone di più “sezioni”, astrattamente idonee a costituire ciascuna un autonomo e autosufficiente film, apparentemente legate tra di loro, nell’unico lungometraggio, per fini di sufficienza narrativa. a prima sezione che racconta la vita marginale di un gruppo di ragazzi in una disperata periferia dell’immenso impero nord americano, potrebbe perfino risultare la parte più forte e violenta del film, perché descrive una realtà grigia, triste e senza speranze di una comunità emigrata da una delle regioni più povere dell’Europa centrale (prima e seconda generazione), che tenta disperatamente di conservare qualcosa della propria storia e cultura in un mondo che, sì le da la possibilità di mangiare e dormire (hot dog e birra, in roulotte e baracche di legno prefabbricate), ma ne rifiuta l’integrazione e non prefigura alcun futuro diverso o migliore. a seconda sezione, centrale, è uno “squarcio” sulla guerra del Vietnam, la guerra persa, la guerra della vergogna. Tuttavia solo uno squarcio, nulla di più profondo o approfondito, nulla sulle origini, cause, ragioni, finalità della guerra “sporca” come gli stessi americani l’hanno poi definita. Nulla in sostanza per spiegare il perché di quella guerra e le ragioni della sconfitta. Ma il “nulla” è perfettamente coerente, e anche questo è forse il passaggio più significativo e drammatico di questa seconda sezione del film, con la assoluta non consapevolezza dei ragazzi immigrati, prelevati di forza dalla loro periferia, gettati nel tritacarne vietnamita, tornati, più o meno “a pezzi”, o persino neppure tornati e dimenticati nella fuga da quell’inferno: numeri e non persone. La vicenda dall’arruolamento, dell’abbandono nel tritacarne, del ritorno/non ri-
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torno di quei ragazzi immigrati è altresì coerente con l’intera storia della nascita e della formazione dello Stato di frontiera nord americano. Basterà richiamare alla memoria l’arruolamento coattivo (ricattatorio) nell’esercito del Nord, nella guerra di secessione, delle moltitudini di immigrati affamati che continuavano sbarcare a New York in quegli anni di guerra, ai quali veniva proposta la condizione della cittadinanza con l’arruolamento: una roulette russa di massa, ai sopravvissuti alla guerra di secessione il premio della possibilità di provare la sopravvivenza nel nuovo Stato di frontiera. a terza sezione, quella del ritorno, solo apparentemente si ricollega alla prima, alla vita nella comunità immigrata, mentre in realtà costituisce una parte narrativa assolutamente autonoma. La terza parte è quella della metabolizzazione della sconfitta. Chi è tornato è finalmente divenuto cittadino americano a tutti gli effetti, si è conquistato questo diritto avendo messo a rischio la propria vita per quel Paese (per i padroni di quel Paese), ma non è più lo stesso, cioè quel ragazzo immigrato di prima, intero o a pezzi è oramai un “clone” senza storia e senza futuro. a critica più politicizzata dell’epoca della prima uscita del film lo accusò di essere “fascista”, termine sicuramente esagerato e soprattutto fuori luogo, più correttamente è stato detto “revisionista”. Quella critica, in verità, concentrava la sua attenzione sulla seconda sezione del film, quella centrale della guerra del Vietnam. L’enfasi dell’onore e prima ancora dell’amicizia fortemente spesa sulle figure dei ragazzi soldati nord americani, contrapposta alla assoluta (decisamente esagerata) mancanza di qualsiasi analisi dei personaggi nord vietnamiti, sembrava a molti svolgere una funzione di rilettura della storia di una guerra di efferata e indescrivibile violenta aggressione ma, in fondo in fondo, giustificata o almeno “pareggiata” dalla cattiveria disumana del nemico. A ben guardare, e giudicare, cercando di interpretare l’intero film nella sequenza delle tre sezioni sopra descritte, quel
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che emerge è la caratteristica, anzi il presupposto rigorosamente “soggettivo” della narrazione di quegli eventi. I vietnamiti, cioè i nemici, non hanno idee, non hanno sentimenti, non hanno neppure una lingua (non è casuale che il parlato vietnamita non viene tradotto), forse non sono neppure esseri umani, sono alieni, in una parola non sono americani quindi, e qui traspare la violenza estrema della così detta cultura nord americana, non sono persone. Trasportati nel film per sole esigenze narrative i vietnamiti sono solo comparse, né più né meno degli elicotteri, i cannoni, le armi, o i fiumi e le baracche galleggianti. osì letto (riletto) il film non è affatto “revisionista”, cioè non tende, come è stato erroneamente accusato, ad accreditare una lettura di una guerra in fondo “giusta” per la ferocia dei nemici, in verità ci trasmette un’immagine dei così detti “buoni” raccapricciante e terrorizzante per tutti i popoli del Mondo, per tutti i popoli non nord americani. Dio ha creato i nord americani a sua immagine e somiglianza e gli ha dato il dominio del Creato, qualunque cosa loro facciano è giusta a priori, e qualunque costo loro debbano pagare è per volontà del loro Dio, gli altri non esistono e ciò vale tanto per il bene quanto per il male. Quanta similitudine con il terribile Dio degli ebrei che trasmette il suo immenso amore al popolo eletto affliggendolo con le più feroci disgrazie! I vietnamiti hanno subito un’aggressione per descrivere la quale non sembrano bastare i superlativi della nostra lingua; hanno però vinto quella guerra; hanno ricostruito e stanno ulteriormente sviluppando, ovviamente con tutti i pregi e i difetti umani, il loro paese, la loro storia, il presente e il futuro. La massa degli emarginati dell’Impero nord americano persiste e anzi affonda sempre più nella propria emarginazione, disperazione e crescente miseria, pronta per essere gettata in qualsiasi altro tritacarne bellico: Afganistan, Iraq, ovunque i potenti del loro Paese li destinino per mantenere e rinforzare i propri privilegi. (SR)
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Full Metal Jacket
Stanley Kubrick, 1987 un film sulla pazzia intelligente della guerra (estratto da un commento al film di Davide Ferrario) Full Metal Jacket non è un film sul Vietnam, quanto sulla Guerra come Istituzione, e sulla sua manifestazione in potenza, l'Esercito. Ma allora perché proprio il Vietnam? In fin dei conti non è stata una guerra peggiore delle altre (non per gli americani, ovviamente, i bombardamenti sui civili non li facevano certo i nord-vietnamiti). Viene da credere che gli americani la considerino la peggiore sostanzialmente perché l'hanno persa, denudando in questo modo tutta la retorica del sacrificio e dell'eroismo. Le schifezze, i tradimenti, le vigliaccherie, l'atrocità e il sangue sono comuni a tutti i conflitti. Ma, quando si perde, tutto questo sembra più assurdo perché è chiaro come il sole che i morti e i feriti non sono serviti a niente. In 200 anni il Vietnam è stato l'unica occasione in cui gli americani sono stati costretti a riflettere su questo. L'esercito incarna la demenzialità eretta a sistema. Kubrick è affascinato dalle istituzioni e dalle menti che sragionano, perché la loro pazzia è intelligente e metodica. Il sergente addestratore non è che l'ultimo di una galleria di personaggi singoli o collettivi tutti imparentati tra loro. La follia del sergente ha una giustificazione sola, ma inequivocabile: l'autorità. Nei suoi film c'è sempre qualcuno che comanda e che autolegittima il suo potere. Il sergente non è uno psicotico, né un sadico che vuole dominare l'identità delle reclute; è sicuramente un fascista reazionario, ma è soprattutto un efficientista. Fa il suo lavoro e il suo lavoro è produrre dei combattenti. “Non voglio dei robot, ma dei killer” spiega con disarmante candore. Il sergente addestratore è un personaggio grottesco e ridicolo, ma è terribile perché detiene il potere e non è stupido. Quando il soldato Joker afferma di essere ateo il sergente non lo punisce, anzi, lo fa caposquadra perché, nonostante sia un “bastardo ateo comunista”, ha del fegato. E il fegato, spiega, è l'unica cosa che conta.
La sequenza è terribile perché nega al soldato qualsiasi possibilità di insubordinazione. Il sistema è tanto elastico da funzionare anche al di fuori dell'ideologia. Non è necessario credere, basta obbedire. Quando questo diventa chiaro il sergente cessa di essere una macchietta e assume il profilo inquietante del perfetto soldato, ergo del perfetto nazista, al punto che il suo assassinio non giunge come una liberazione, ma la sua morte simbolica è solo un prologo alla guerra vera. Full Metal Jacket non è un film sugli individui, così come la guerra non è fatta né vinta dagli eroi. Ci vuole parecchio tempo prima di mettere a fuoco il personaggio del soldato Joker come la figura centrale del racconto. All'inizio Joker è confuso in
mezzo agli altri, una testa pelata come tante. Solo nella seconda parte diventa la guida riconoscibile nell'inferno vietnamita. I due simboli che mette in mostra (l'elmetto con scritto “Born to Kill” e il distintivo dei pacifisti) non significano nulla, se non l'azzeramento reciproco del loro senso. La scena del battesimo del fuoco di Joker è caratteristica dello stile adottato dal regista in tutto il film. Non si tratta di un incontro faccia a faccia col nemico ma di una smitragliata in trincea contro un avversario anonimo e senza volto. La battaglia è appena accennata, si spara per non essere uccisi. A chi, perché e fino a quando, in guerra sono domande inutili. La verità che vien fuori dalla seconda parte del film è una di quelle verità
così semplici e immediate da dar perfino fastidio: in guerra è meglio esser vivi che morti e tutto il resto non conta. Spiegarlo crudelmente come fa Full Metal Jacket richiede un'estrema precisione di tono, perché l'orrore di Full Metal Jacket non è negli schizzi di sangue e negli arti amputati, ma nella dimensione mentale del combattimento, nella meccanizzazione della barbarie. Alla fine del film il soldato Joker è anche lui un perfetto prodotto della guerra, uno che dopo aver visto in faccia la verità ha cancellato dalla sua mente ogni considerazione razionale: “L'unica cosa a cui pensavo era che ero contento di essere vivo”. Volente o nolente Joker si è trasformato in una killing machine: una piccola rotella senza volto nell'ingranaggio della morte. L'intenzione di Kubrick è deliberatamente quella di mostrare personaggi in cui non ci si può identificare. Joker e i suoi compagni non sono dei soldati, sono il volto collettivo dell'esercito. Non ci sono personaggi positivi o negativi, solo uomini in guerra. In Full Metal Jacket non c'è innocenza, né catarsi: il momento forte, semmai, è il passaggio di Joker nella schiera degli assassini, nella scena in cui finisce la ragazza vietcong. Dietro il piccolo plotone che avanza tra le rovine di Hue sembra di scorgere le grandi forze anonime della Storia, quelle che modificano gli eventi e le nazioni attraverso il sacrificio di masse di uomini senza nome. (Il canto della canzone di Topolino che accompagna l’avanza notturna del plotone schierato in un paesaggio spettrale chiude superbamente il film sulla demenzialità quasi infantile dell’esercito e della guerra. A lato l’indirizzo e il qr code per vedere lo spezzone del film.) http://www.youtube.com/watch?v= s82i6wUTcMI
Galileo
Galileo Galilei il Grande
La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, né quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto. (Galileo Galilei)
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Galileo
L'originale Relatività del "Metodo sperimentale moderno" DI JACOPO FELICIANI
Da Leonardo a Galileo. Che cos'è il metodo scientifico? E' un procedimento di studio per la conoscenza dei fenomeni reali per il quale viene eliminata qualsiasi possibilità di equivoco nei riguardi del suo svolgimento. Lo Scienziato toscano Galileo Galilei (Pisa 1564 - Arcetri 1642) è considerato il padre del Metodo sperimentale moderno. Da Galileo in poi si diffonde la consapevolezza che per conferire validità scientifica e certezza allo svolgimento dei fenomeni reali occorre uno studio metodico che prenda in considerazione molteplici esperimenti e che dia regolarità di risultati. Se esiste un Metodo scientifico moderno dovrà esistere un Metodo scientifico 'antico'. Prima di Galileo come si operava? Nel passato esisteva un metodo d'indagine di natura quasi esclusivamente speculativa, basato sul ragionamento. Ma dobbiamo ritenere che, se non l'esperimento, l'esperienza dovesse necessariamente entrare nella conoscenza dei fenomeni. Nella conoscenza e nella formulazione delle teorie, accanto alla sperimentazione coesiste il ragionamento, l'intuito del ricercatore e la casualità della scoperta. Galileo formulò il suo infallibile Metodo indicando lo studio della natura per la conoscenza dei fenomeni reali. In questo modo ampliò e perfezionò la conoscenza dei fenomeni naturali, rendendo possibili lo sviluppo di nuove tecnologie e il progresso. Il Rinascimento contribuì soltanto in maniera relativa a determinare il progresso della Scienza; l'uomo scopre una natura che si manifesta in termini geometrici e le innovazioni sono sintetizzate dalle intuizioni e dai lavori di Leonardo da
Vinci. Il processo della corrente è così lento e solo parzialmente abbozzato che occorrerà attendere Galileo per parlare di una vera rivoluzione, nel "Barocco". Leonardo è considerato pertanto una sorta di trait d'union tra Arte (pittura, scultura e architettura) e Scienza, che anticipa la Rivoluzione di Galileo. Leonardo basava il suo Metodo sull'osservazione della Natura e l'analisi del processo di osservazione. Iniziò nello studio della prospettiva secondo le ricerche degli Architetti Leon Battista Alberti e Filippo Brunelleschi, effettuando esperimenti. Sono noti anche gli esperimenti nel campo della luce, delle ombre e dell'ottica, usando come riferimento il libro dell'ottica in 7 volumi "Kitab al-Manazir" (XI Secolo) del Matematico arabo Alhazen, in cui sono già trattati temi come anatomia dell'occhio, rifrazione e riflessione della luce (che era vista come sacra, in
quanto proveniva da Dio), specchi parabolici o ustori e specchi sferici. Il libro fu tradotto in Latino nel XIII sec. e cominciò a circolare in occidente con il titolo "Opticae Thesaurus". Leonardo effettuò esperimenti anche sulla camera oscura, studi sull'acustica e specialmente quegli studi attraverso i quali anticipava le conclusioni della modernissima Scienza cognitiva che vede la vita come rapporto tra mente e corpo, ossia tra un processo cognitivo e un organismo vivente tra loro inscindibili. Leonardo sull'esistenza così si esprimeva: "l'anima desidera stare con il suo corpo perché senza gli strumenti organici di tal corpo nulla può operare ne sentire". Illuminante è il suo concetto sull'embrione che acquisisce con lo sviluppo fisico una indipendenza mentale a partire dalla unità con quella della madre. Per finire sono ancora più noti i suoi esperimenti sul volo.
Galileo Quindi anche Leonardo -prima ancora che Galileo- usava l'esperimento come metodo per arrivare alla conoscenza, anche se probabilmente non seguiva l'intero processo deduttivo o induttivo del Metodo scientifico di oggi. Leonardo da Vinci è stato fondamentale per colmare il gap che si stava creando tra Discipline come quelle artistiche che progredivano con un passo più sostenuto rispetto a quelle Scientifiche, e fu compito di Galileo permettere di riallinearne le dinamiche nei secoli successivi (le Arti subirono una battuta d'arresto consistente nello sviluppo di virtuosismi come quelli di Raffaello, Caravaggio, Canova, Bernini, Borromini, Canova ed infine per l'introduzione della Fotografia). Sotto questo profilo occorrerebbe evidenziare anche come l'Arte che tutte le racchiude, il Melodramma (1600), abbia visto la luce con il contributo di Vincenzo, padre di Galileo. Si tratta della massima espressione della comunicazione umana, del linguaggio universale dell'Arte per antonomasia che esprime lo stato d'animo, i sentimenti dell'Essere in relazione allaScienza, che studia e descrive il mondo esterno all'Essere. Abbiamo quindi compreso il grandioso contributo toscano all'evoluzione di Arti e Scienze (tra cui è bene ricordare il ruolo della Filosofia nella comprensione dell'Essere). Meno noto invece è il contributo dell'Umbria con l'Accademia dei Lincei per fornire comprensione e distensione nel processo a Galilei, reo di aver proposto all'insegnamento la Teoria Copernicana. Il problema legale di Galileo
e la successiva condanna agli arresti domiciliari a vita, previa abiura, fu mitigata dall'intervento dei Lincei. Fu un grosso problema per la Scienza perché sostenere la Rivoluzione di Copernico significava anche la minaccia per tutto il metodo sperimentale del Galileo e il progresso dell'uomo. Nel 1734 il Sant'Uffizio assentì all'erezione del mausoleo in onore a Galileo in Santa Croce a Firenze; nel 1757 Benedetto XIV tolse dall'Indice tutti i volumi che trattavano il moto della Terra; nel 1757 il Sant'Uffizio riabiliterà la figura di Galileo ammettendo il valore delle teorie; nel 1992 il Pontefice Giovanni Paolo II ritirerà la condanna della Chiesa in capo allo Scienziato.
La presenza di Galileo in Umbria. L'Accademia dei Lincei. Veniamo all'interesse che legava Galileo all'Umbria precisando innanzi tutto quale zona dell'Umbria fosse coinvolta, e i motivi. Si parlerà essenzialmente della Regione centrale che parte da Perugia e Terni -Valle del Tevere e i suoi affluenti a sinistra della Valle del Marroggia, del Topino e del Naia- e declina a Sud verso Roma ossia Terni-Foligno-Perugia e Terni-Todi-Perugia Umbertide. Ma anche la direttrice che passa per Bevagna (incrocio del diverticolo della Flaminia) e conduce a Spoleto, località oltre che amene per il paesaggio anche di formazione. Si tratta delle zone che fanno capo alla Università di Perugia, all'Accademia
41 dei Lincei e le direttrici tra Roma e Firenze. Come avvenne l'incontro tra Galileo e i Lincei? L'incontro tra il Principe Federico Cesi, Presidente dell'Accademia e Galileo risale alla primavera 1611, quando lo Scienziato toscano si trovava a Roma per divulgare e difendere le sue scoperte (Galileo firmò l'Albo linceo il giorno 25 aprile 1611 esprimendo massimo valore a questa prestigiosa istituzione). Federico Cesi (Roma 1585 - Acquasparta 1630) è stato uno scienziato e naturalista italiano, fondatore dell'Accademia dei Lincei. Federico apparteneva ad una famiglia umbro-romana di alto lignaggio, che è stata ipotizzata addirittura discendere da Ceso, figlio di Temeno, il Re di Micene e di Argo [1190-1100 a.C.], capostipite della stirpe Cesia. Fonti certe la rintracciano già nel 1400 in cui la famiglia Cesi giunse a Roma, proveniente da Cesi (Tr); Andrea di Pietro Chitani (o Equitani) originario di Cesi, sposò Firmina Liviani Orsini. Federico era figlio di Gian Giacomo Cesi e Isabella di Alviano. Prese la passione per lo studio dalla madre, dama molto raffinata. Gli studi naturalistici di Federico sono riportati nella sua enciclopedia botanica dal titolo Tabulae Phytosophicae. Nell'Indicatio propose invece una radicale riforma del sapere. La sua opera principale e incompiuta è il Theatrum totius naturae. Fu Federico Cesi a suggerire la denominazione di telescopio per lo strumento proposto da Galileo; e ad avallare la denominazione di microscopio proposta dal Johannes Faber (Bamberga 1574 - 1629). L'Accademia dei Lincei fu fondata a Roma il 17 agosto 1603 nel palazzo del diciottenne Federico Cesi in Via della Maschera d'Oro, il cugino ventiseienne nominato in seguito segretario, Anastasio de Filiis di Terni, il ventiseienne Fabrianense Francesco Stelluti, e il ventiquattrenne Johannes van Heeck Jan Heckus di Deventer che si trasferì a Spoleto molto giovane (1599, all'età di 14 anni) ospite e adottivo della Famiglia Gelosi (Villa Gelosi di Baiano, oggi Leonetti, fu edificata tra il XV e il XVI secolo. Il Casino Gelosi Leonetti di Baiano ospitava il Cenacolo intellettuale spoletino e una notte ebbe come ospite Galileo Galilei che si fermo una notte nel suo viaggio per Roma), e si laureò alla Facoltà di Medicina di Perugia nel 1601, era ospite di Anastasio in Terni (in vecchiaia tornò in Spoleto).
42 Nel 1611 Galileo entrò nell'Accademia e apportò notevoli miglioramenti in tema di organizzazione del sistema scientifico, elaborando piani e progetti e dando una linea precisa. L'Accademia cessò di esistere nel 1657, alla morte di Cassiano del Pozzo (che aveva acquistato le 'eredità intellettuali' del Cesi alla morte). "Tesoro Messicano" fu, nel 1651, il lavoro dell'Accademia. Dal 1614 Federico Cesi cominciò a pensare ad Acquasparta come residenza (lontano dalle distrazioni lavorative e mondane di Roma) e come punto di riferimento per l'Accademia. Non a caso il motto contenuto nelle facciata di Palazzo Cesi ad Acquasparta, che si legge da destra verso sinistra ed è scritto con i simboli dell'Accademia, l'alfabeto linceo, secondo il documento originale stilato nel 1603 è conservato negli archivi dell'Accademia dei Lincei di Roma, si riferisce alla vista della lince "Sagacius ista" - più acuto di questa. Iniziarono quindi a trasformare il palazzo in una sede scientifica, di studio, raccogliendo libri, manoscritti, strumenti scientifici. I Lincei cercarono di realizzare un'enciclopedia Theatrum totius Naturae da mettere a disposizione per l'evoluzione culturale dell'uomo. Federico aveva un'enorme venerazione per la sua Acquasparta che la assimilava alle descrizioni poetiche dei Campi Elisi; ma lo spirito culturale ispiratore doveva essere quella del forestiero olandese, un Naturalista rinascimentale, unico tra i quattro a possedere una rigorosa formazione, avendo ottenuto una laurea universitaria all'età di 22 anni. Pertanto occorre considerare la Città di Perugia l'Università nella quale i ricercatori erano orientati in tre precise linee direttive di ricerca: investigazione matematicoastrologica, investigazione della Natura e investigazione filosofico-metodologica. L'Accademia dei Lincei, sebbene avessero mutuato questa linea di ricerca dall'Università di Perugia, si distingueva da essa in quanto aveva abbracciato la nuova visione copernicana e quella Galileiana. L'attrito tra le due istituzione fu evitato anche perché il ricercatore e docente Giuseppe Neri (1586-1623), cultore e compositore di musica, giurista, ma anche esperto Teologo e soprattutto Matematico, che in seguito diventò esso stesso un Linceo (1621), verificò gli studi di Galileo e li corresse. Galileo da gentiluo-
Galileo mo, più che creare polemiche accetò queste indicazioni e anzi volle raggiungere Perugia maggio 1618 - durante il suo pellegrinaggio a Loreto, per ringraziare il collega (Cronaca del tempo di Ottavio Lancellotti). Comunque, per Galileo, l'Umbria rappresentava una località di enorme stimolo e scambio culturale, tanto che programmò il passaggio per queste località -attratto dalla Cascata delle Marmore- durante il suo viaggio a Roma per aggraziarsi il nuovo Pontefice Urbano VIII, personaggio molto vicino ai Lincei. Lasciò Firenze il 1 aprile 1624 e si trovò a Perugia il 3 aprile, proprio per il mercoledì della Settimana Santa, restando fino a Pasquetta. Lasciò una copia del Saggiatore alla Biblioteca Augusta di Perugia. Passò per Todi e arrivò ad Acquasparta dal Cesi il giorno 8 aprile, restando fino a domenica 21.
La relatività: gli esperimenti umbri di Galileo Galilei. Nel 1905 Albert Einstein (Ulma 1879 Princeton 1955) pubblicava il proprio studio sulla Relatività ristretta (1915), generalizzazione della Relatività galileiana che rivoluzionò la concezione moderna della fisica. Galieleo Galilei aveva già intuito il concetto (il Gesuita Andrea Eudaemon Ioannes afferma di aver appreso a Padova, dal Galileo stesso che un corpo lasciato cadere perpendicolarmente da una gaggia di una nave cadeva rasente all'albero della nave indipendentemente che l'imbarcazione si muovesse) e lo aveva fissato nero su bianco: le leggi della meccanica si comportano allo stesso modo in tutti i sistemi di riferimento inerziali, indipendentemente dalla velocità costante con cui si muovono. L'accademico fabrianese Francesco Stelluti ricorda una prova effettuata nella primavera 1624: "andando con il
Sig. Galileo a Piediluco, per il lago con una barca da 6 remi che andava assai veloce, e sedendo lui da una parte et io dall'altra mi dimandò se haveva qualche cosa grave, li dissi haver la chiave della mia camera, la prese; e mentre la barca andava velocemente, trasse in alto la chiave in modo che io la credevo perduta nell'acqua: ma quella, se bene la barca era trascorsa per otto o 10 braccia avanti, con tutto ciò cadde la chiave fra lui e me, perché, oltre l'andare in alto, haveva del moto della barca acquistato l'altro d'andare col movimento di essa e seguitarla come fece" (F.Stelluti a ignoto, 8 gennaio 1633 C.Vinti Galileo e Copernico. Alle origini del Pensiero scientifica moderno (Porziuncola, Assisi 1990 p.231). L'esperimento di Piediluco era contenuto nella lettera di Stelluti dell'8 gennaio 1633 per riassumere il "Dialogo sopra ai due massimi sistemi". La vera chiave della fisica moderna, insomma, vedeva Piediluco come località di esperimento e come palazzo di teorizzazione quello di Acquasparta. Galileo portava con sé il microscopio (da mostrare a Roma) e mostrò ai Lincei le sue potenzialità.
Teatro
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Spoleto. L’Opera?
Non è che un piccolo problema
Il Programma della 67ma Stagione 2013 del Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto “A. Belli” dal 13 settembre al 13 ottobre 2013 7 produzioni per 22 rappresentazioni Opera Nuova, un dittico con due prime assolute, commissioni del Teatro Lirico Sperimentale: Doglie opera morale di Valerio Sannicandro su testooriginale di Antonio Tarantino “Non è che un piccolo problema” e Euridice e Orfeo di Mario Guido Scappucci si testo di Gino Nappo - Gli Intermezzi di Giuseppe Maria Orlandini Griglietta e Porsugnacco testo di Antonio Pereni da Moliere - Tosca di Giacomo Puccini -Concerto liederistico Lieder & Lieder 8 - Così fan tutte, workshop sul capolavoro di Wolfgang Amadeus Mozart
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Teatro
Un laboratorio culturale nel panorama del teatro musicale italiano Il Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto “A. Belli” con il programma della Stagione 2013 si conferma, oltre che palcoscenico privilegiato per il debutto di giovani cantanti lirici di talento, importante laboratorio culturale nel panorama nazionale del teatro musicale. Non si attinge solo ai titoli del repertorio più conosciuto (“Tosca”: direttore Carlo Palleschi, regia di Lucio Gabriele Dolcini; lo ‘Sperimentale’ affronterà infatti, come al solito, anche il repertorio meno frequentato, con la messa in scena di Grilletta e Porsugnacco, testo tratto da Molière, musica di Giuseppe Maria Orlandini; maestro concertatore Francesco Massimi, regia e allestimento di Giorgio Bongiovanni. Il Teatro Lirico di Spoleto continua contemporaneamente nella ricerca musicale, offrendo ancora una volta il proprio palcoscenico a nuove creazioni di teatro musicale appositamente commissionate. Quest’anno in scena un dittico, “Opera Nova” in cui il celebre drammaturgo Antonio Tarantino si confronterà per la prima volta con la musica e in particolare con quella appositamente composta da Valerio Sannicandro, uno dei giovani compositori italiani più interessanti (direttore Marco Angius, regia di Sandra De Falco, anche attrice nella pièce insieme all’attore Fabrizio Parenti). Il risultato dell’operazione sarà Doglie Operina Morale musica di Valerio Sannicandro, testo di Antonio Tarantino “Non è che un piccolo problema” (edizioni Suvini Zerboni). Il dittico sarà completato da un lavoro del compositore Mario Guido Scappucci che metterà in scena una nuova versione del mito di Orfeo su testi di Gino Nappo: Euridice e Orfeo. Direttore Marco Angius, regia di Giorgio Bongiovanni. Lo “Sperimentale” non dimentica il recente passato, il ‘900 musicale , ricordando con Eine kleine Klostermusik, ovvero la consueta anteprima di agosto della Stagione. Luciano Berio, Benjamin Britten, Paul Hindemith e i poeti Wystan Hugh Auden e Gabriele D’Annunzio. Per tutti gli autori eseguiti, sia musicisti che poeti, il 2013 rappresenta infatti una importante ri-
correnza. Sarà poi la volta dello spettacolo “Lieder & Lieder 8” Intorno al Lied romantico su testi di Goethe a cura di Michelangelo Zurletti e Giorgio Bongiovanni. In programma brani del repertorio liederistico di Schubert, Schumann, Brahms e Wolf. In tempi di crisi e di ancor più contenute risorse rispetto al passato gli allestimenti saranno solo quelli possibili e cioè essenziali con una sola eccezione, “Tosca”, le cui scenografie saranno quelle del celebre allestimento pittorico all’antica italiana di Nicola Benois. Viene come sempre riservata la giusta preparazione musicale e attoriale degli interpreti, ai giovani cantanti che da aprile sono seguiti da docenti, preparatori e registi: da Renato Bruson a Lella Cuberli, da Sandra De Falco a Giorgio Bongiovanni, Carlo Palleschi, Marco Angius, Lucio Gabriele Dolcini, Francesco Massimi, Raffaele Cortesi e per materie tecniche Pier Paolo Pascali, Alberto Ardizzone, Roberta Mazzocchi e Graziano Brozzi. A completare l’attività estiva due importanti Concerti Lirico-Vocali con musiche di Mozart, Rossini, Lehár, Delibes, Glinka, Korngold, Puccini il primo e musiche di Mozart, Donizetti, Puccini, Cilea, Gounod, Delibes, Tchai-
kovsky il secondo. Previsti inoltre nel mese di agosto a cadenza settimanale quattro Concerti dell’Ensemble di Musica Moderna e Contemporanea del Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto “A. Belli” nell’ambito del Corso di formazione promosso da Regione Umbria e Fondo Sociale Europeo (direttori Marco Angius, Flavio Emilio Scogna, Stefano Cardi). Rinnovato l’impegno e l’interesse dello “Sperimentale” verso le arti visive con le immagini scelte per illustrare la Stagione 2013. Si confermano le opere della giovane ed emergente artista Ester Grossi (www.estergrossi.com), invitata a realizzare anche quest’anno un’immagine appositamente per il Teatro Lirico. Per il manifesto di “Opera Nova” sono state scelte due immagini: una dell’artista napoletana Chiara Coccorese (www.chiaracoccorese .com), l’altra – il cui utilizzo è stato autorizzato dagli eredi dello scrittore - è tratta dall’opera “Poema a fumetti” di Dino Buzzati. Rinnovata anche la partecipazione di Marco Cazzato (www. marcocazzato.it), noto illustratore, artista e pittore (collabora fra gli altri con La Stampa, Il Sole 24 Ore, Einaudi), il quale ha creato per l’occasione una sua immagine a commento dell’opera “Tosca”.
Il Maestro Renato Bruson
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Teatro
“Opera Nova”
due prime esecuzioni assolute commissionate dal Teatro Lirico Sperimentale DOGLIE Operina Morale Musica di Valerio Sannicandro Testo di Antonio Tarantino “Non è che un piccolo problema” Direttore Marco Angius Regia Sandra De Falco Speranza: Francesca Biliotti, Chiara Margarito, Chiara Osella Dottore: Edoardo Milletti, Marco Rencinai Attori: Sandra De Falco, Fabrizio Parenti Valerio Sannicandro - Compositore “Doglie” L'azione musicale “Doglie” è composta sul testo commissionato dal Teatro Sperimentale di Spoleto ad Antonio Tarantino “Non è che un piccolo problema – operina morale con doglie”. In questo testo una madre (Partoriente) dialoga con il bambino in grembo, in un momento surreale di contrasto tra due visioni e prospettive estremamente contrastanti della vita. Il lato musicale realizzato su un testo principalmente concepito per la prosa tende a - disseminare di elementi teatrali la scrittura strumentale (il flauto amplificato con i suoi suoni vocali può essere considerato come
un personaggio – o l'ombra di un personaggio in scena e fuori scena); - creare “echi” di alcune parole-chiave del testo come se risuonassero nella memoria (o nella coscienza) degli altri personaggi; fondare il discorso musicale con un elemento della tradizione vocale, il pianto (madrigalismo) basato su alcune sequenze melodiche discendenti cromaticamente, che impregna l'intero lavoro e segnala il carattere intimista (la conversazione tra una madre e un essere non ancor nato) a dispetto dei dialoghi a volte crudi e violenti; - usare una tecnica vocale, quella del canto con una componente di espirazione udibile tesa a disegnare un carattere globale irreale, quasi in una dimensione onirica, espediente che, oltre ad allontanarsi da stilemi dell'opera tradizionale, assicura un forte pathos dato proprio da questo tipo di canto. Dal momento che sia le voci sia gli strumenti (dal suono a volte fortemente modificato grazie, per esempio, alla preparazione del pianoforte, alle sordine degli archi) sono amplificati, il carattere drammaturgico di questo lavoro scenico si rivolge più al cinema che al teatro: la musica e il trattamento delle voci offrono la sensazione di veloci cambi di luogo e tempo.
Bozzetto di scena della Tosca di Nicola Benois
Antonio Tarantino - Autore del testo “Non è che un piccolo problema” Viene definito operina morale non perché voglia apparire come un inno alla maternità - e quindi genericamente alla vita - ma al contrario perché vuole evidenziare, metaforicamente, le difficoltà del “dovere” di nascere senza una possibilità di scelta del nascituro, ovvero di un nuovo soggetto che, nascendo viene a far parte di una comunità e di un mondo a lui perfettamente estranei e ignoti. E’ la volontà di chi è già presente e insediato nel mondo a imporsi: è, nel caso, la madre a voler realizzare qualcosa che ritiene per sé necessario, pensando come automatico il trasferimento sul figlio del suo desiderio. Il nascere assume quindi, secondo questo assunto, il carattere di un atto teneramente “violento”, il cui contenuto morale tiene uniti tenerezza, desiderio e imposizione nel quadro di un evento che in sé non è che un piccolo problema. Sandra De Falco - Regista e attrice “Doglie” “ No! Ho deciso! Non se ne parla: io non nasco!”. Tarantino ci regala un bambino di straordinaria precocità che ancora nella pancia di sua mamma e in pieno travaglio da parto possiede già il dono della parola. Si esprime correttamente, contesta il mondo dei nati e rimprovera alla madre di comunicare in una lingua sciatta e semivernacolare. Al dialogo tra la partoriente e il bambino si aggiungono le voci della futura zia Speranza e quella del Dottore il quale, pur dandosi arie da factotum del parto, non fa nulla per aiutare veramente la donna a partorire, fino ad incombere sulla poverina con un peregrino interrogatorio circa la “botta d’amore” che sta per renderla madre, mentre il crescere delle contrazioni fa da contrappunto all’insana curiosità del medesimo con un risultato di irresistibile comicità. In una visione scenica che evita accenti naturalistici, a dispetto di ogni tentativo di rifiuto il bambino verrà al mondo, in quel mondo che non interroga nessuno circa la propria volontà di nascere
46 EURIDICE E ORFEO Musica di Mario Guido Scappucci Testo di Gianni Nappo Direttore Marco Angius Regia Giorgio Bongiovanni Euridice: Francesca Biliotti, Chiara Margarito, Chiara Osella Orfeo: Edoardo Milletti, Marco Rencinai Mario Guido Scappucci - Compositore “Euridice e Orfeo” L’opera rappresenta la proiezione psicologica del mondo interiore della protagonista che, riordinando progressivamente i propri ricordi, giunge alla consapevolezza del suo stato di trapassata. Per tutta la prima parte Orfeo è un personaggio immaginario, quasi onirico, un’emanazione del mondo interiore di Euridice, evocato per mezzo di una voce, quella del vero Orfeo, proveniente da uno spazio parallelo e inaccessibile. Egli è, dunque, un fantasma per lei, tanto quanto ella lo sarebbe per lui, se non fosse che la drammaturgia, completamente costruita a partire dal punto di vista di lei, impone all’essere vivente dei due l’esclusiva natura spettrale. È soltanto in un secondo momento che Orfeo si definisce come personaggio autonomo e può cominciare un vero dialogo con Euridice. Questo si sviluppa in una serie di crescendo che portano al crollo di lui e, di seguito, alla sezione drammaticamente più importante: un lungo intermezzo strumentale, struggente e spaventoso, in cui dallo sguardo dell’uomo ella ottiene la rivelazione del proprio stato. Segue l’aria di lei e il duetto finale. Ma, soprattutto, la verità degli dei. Ecco: non voltarsi durante il viaggio di ritorno alla vi-
Teatro ta, sarebbe stato l’unico modo di impedire ad Euridice di riconoscere il proprio stato. Il terrore della vita è la barriera invalicabile che impedisce ad un’anima morta di farvi ritorno. E la legge della caducità di tutte le cose, il segreto della poesia e della bellezza, scioglie in puro lirismo il finale dell’opera. Gino Nappo - Autore del testo “Euridice e Orfeo” Come affrontare oggi un mito (anzi il mito per eccellenza, quello di Orfeo ed Euridice) in un testo per musica? Pur ribaltando la prospettiva classica, e lasciando alla sola protagonista femminile il ruolo di guida nell’azione, è impossibile evitare il gioco delle assonanze, dei rimandi e delle citazioni. Troppo presente e intensa l’eco dei versi di Rinuccini e Calzabigi. Dunque settenario sia, lasciando alla musica la responsabilità di frammentare o affabulare, bisbigliare o urlare, declamare o tacere. La genesi particolare del libretto è legata al continuo accavallarsi di suggestioni reciproche tra musica e verso. Punto di partenza il suono degli archi in lunghe fasce di armonici, il verso dei grilli in una notte estiva, voci lontane nello spazio e nel tempo che di volta in volta riappaiono nel sogno o nel ricordo. Il nome reiterato di Euridice (sussurrato, gridato o cantato da Orfeo) catalizza i ricordi di lei, li porta a riaffiorare, in un gorgo oscuro e doloroso. Ma quando, finalmente, Euridice torna a ricordare e a riconoscere Orfeo, si accorge della spaventosa estraneità dell’uomo. Si enfatizza qui, rispetto al mito primigenio, l’incomunicabilità
Vincitori del Concorso di Canto 2013 (da una foto di Riccardo Spinella)
dei protagonisti, e il fallimento del cantore, perseverante in una concezione dell’arte come fascinazione e magia. La nuova verità di Euridice è la lezione che alla fine ella regala a un Orfeo doppiamente sconfitto: una volta assaporato il silenzio, non si torna né alla musica, né alla parola. Giorgio Bongiovanni - Regista di “Euridice e Orfeo” La realtà è un’ombra. E niente è più reale di un’ombra. In questa alternanza e sovrapposizione di idee si gioca l’ennesima e ulteriore riscrittura del mito di Orfeo ed Euridice. Ma questa volta il punto di vista è quello di lei, dell’ombra che non ha coscienza della propria condizione incorporea e addirittura percepisce il corpo e gli occhi di un altro essere “vivente” come entità indefinita proveniente dal regno dei morti. Un rovesciamento di ruoli, insomma, in cui una Euridice trapassata si sente e si comporta come “viva” davanti ad un Orfeo presente solo come ombra, pensiero, emanazione. Fino all’abbraccio finale in cui i due amanti provano a ricongiungersi; ma proprio l’impossibilità di questo gesto, del contatto fisico tra corpo e ombra, rivela l’incolmabile distanza delle due nature, l’impossibilità del ritorno alla vita. Euridice può continuare a “vivere” nel suo mondo astratto, spoglio, desertico, popolato solo di ombre, di ricordi, di pensieri e suoni, ma per lei fisicamente reale. E lascia a Orfeo (e a tutti noi) l’illusione di vivere in un regno dei viventi fugacemente reale ma, proprio per questo, profondamente effimero.
Musica Maestro!
Saggi di fine stagione
Non chiedere, o Leuconoe, (è illecito saperlo) qual fine abbiano a te e a me assegnato gli dei, e non scrutare gli oroscopi babilonesi. Quant'è meglio accettare quel che sarà ! Ti abbia assegnato Giove molti inverni, oppure ultimo quello che ora affatica il mare Tirreno lunghe speranze per la vita breve. Parliamo, e intanto fugge l'astioso tempo. Afferra l'oggi, credi al domani quanto meno puoi. (Orazio, Carme I,11)
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Musica Maestro!
Da grande voglio fare... DI
CHIARA MANCUSO
“Che cosa vuoi fare da grande?” Quante volte ve lo siete sentiti chiedere quando eravate piccoli?! E alla risposta “Voglio diventare una musicista!”, finché ero bambina, e, si sa, di sogni strani i bambini ne fanno, mi sentivo rispondere: “Che bello! Vedrai che diventerai famosa come quello del film del cane!” ( il film in questione era “Beethoven cane pasticcione”). Certo, quando inizi ad essere grandicello e dopo la maturità ti rifanno la stessa domanda, ci si aspetta una risposta “seria” e non di nuovo “Voglio fare la musicista e sto studiando al conservatorio!”. La risata che segue è un po’ più sarcastica e le parole che l’accompagnano sono da dimenticare: “Musicista…un bell’hobby! E poi?” Hobby? Un passatempo è fare lavoretti di bricolage il sabato pomeriggio, collezionare francobolli, la corsetta della domenica mattina…ma non penso che ad un “hobby” si dedichino dieci anni della propria vita, studio, fatica, denaro, così, per passare il tempo. “E che strumento suoni?” Aggiunge chi fa finta di essere interessato. “La chitarra!” Beh, lì le varianti sono molteplici e vanno dalla semplice risata che non si riesce a trattenere, a frasi come: “Ma la chitarra non è uno strumento più da uomini?” “Mai vista una donna che suona bene la chitarra!” “Le donne al massimo suonano la chitarra in parrocchia!” Per non parlare poi dei commenti sulle prospettive reali di lavoro: “Lascia perdere! Un amico mio, e lui si che sapeva suonare, adesso fa il commerciante!” I pregiudizi sono diffusi anche nell’ambiente musicale stesso, le donne che suonano la chitarra sono sempre una stretta minoranza, figuriamoci come la pensa chi non è del settore! Eppure, nonostante tutti i dubbi, sette anni fa mi sono diplomata al conservatorio, con due anni di anticipo, e con un voto superiore rispetto ai colleghi maschi. E poi…e poi inizia la storia! Ero giovane quando iniziai ad insegnare chitarra ai ra-
gazzini e non avevo molta credibilità, sia per loro, ma soprattutto per i genitori, che spesso mi scambiavano per una che frequentava il corso, più che per una docente! Non fu facile all’inizio anche perché non c’è conservatorio, non c’è scuola né corso che ti sappia preparare realmente ad insegnare ai ragazzi, né a fare veramente il musicista! E’ tutto un percorso in divenire, fatto di tentativi, pazienza e voglia di mettersi in gioco giorno dopo giorno! Ricordo che comprai dei libri, consultai manuali…uno veramente interessante fu un libro che proponeva di utilizzare il metodo di concentrazione usato per l’Aikido (tecnica di arti marziali miste nata nel 1900): essendo un’appassionata di arti marziali, decisi di provare. “Concentrati e butta la gomma!” dissi con tono pacato, ma deciso alla ragazzina che mi ruminava in faccia. “Adesso immagina che dalla tua mano esca come un fiume in piena!” La ragazzina mi guardava perplessa mentre distendeva la mano come le dicevo io. “E adesso…” squilla il cellulare. “Lo metto silenzioso!” Dopo due minuti, si sentiva ancora la vibrazione del cellulare sul tavolo. Alla fine della lezione, eravamo quasi arrivati a mettere le mani sulla chitarra, ma ormai era ora di andare e decisi che non era il caso di ritentare! Con il tempo, ho imparato più dai ragazzi a cui ho insegnato che dai mille manuali consigliati da grandi esperti: regola numero uno, togliersi dalla testa la frase ricorrente che “i giovani d’oggi non hanno voglia di fare niente!”… forse perché non offriamo loro niente di interessante da fare! Non mi ritengo un pedagogo e non mi piace la psicologia, soprattutto quella piena di luoghi comuni, ma mi piace il mio mestiere,
mi piace ascoltare le storie buffe dei ragazzini, mi piace accogliere le loro ansie, le loro paure, le loro gioie e accorgermi di quanto siamo diversi, perché il mondo è diverso ed è più pericoloso e subdolo rispetto a quando io avevo la loro stessa età. Loro, i “giovani d’oggi”, collegati a tutto il mondo, ma non hanno mai viaggiato, possono annoverare centinaia di “amici” su facebook, ma si ritrovano soli, spavaldi nei confronti del sesso, ma con tanta paura di amare, apparentemente spensierati, ma in realtà, sono spaventati dalle nostre stesse paure. Il momento più importante dell’anno scolastico è il saggio di fine anno: nonostante i direttori delle scuole in cui insegno ci rassicurano ogni anno che il saggio non è un esame per l’insegnante, per me lo è, eccome! Bisogna cercare di fare qualcosa di non troppo facile, né difficile per i ragazzi, preferibilmente facendoli suonare insieme ad altri strumenti; il tutto riuscendo a conciliare i tuoi gusti ai loro e a quelli dei genitori, perché un genitore annoiato o scontento, riesce a convincere anche il figlio che quello che è stato fatto non era, come dire, bello…e questa formula “alchemica” deve piacere anche ai tuoi colleghi, soprattutto quando li coinvolgi nella tua “follia creativa”…
Musica Maestro! Quando il tutto sembra poter funzionare, arriva il giorno più pesante, più brutto e più pericoloso dell’anno: la prova generale! Premetto che è già un’impresa titanica riuscire a trovare un giorno e un’ora in cui poterli riunire tutti, perché bisogna dare la priorità alle prove di danza, ginnastica artistica, allenamenti di karate, basket, la partita di calcio, la finale di pallavolo, i compiti di scuola, il rientro pomeridiano, l’orario dei cartoni… Esclusa la fine del mondo e qualche altro impegno improvviso, riesci ad averli tutti lì, nella stessa stanza, venti e più ragazzini muniti di chitarra e altri strumenti: un delirio! “Maestra che facciamo?” “Maestra ho dimenticato lo spartito!” “Ho dimenticato il plettro!” “Ho dimenticato la chitarra!” Guarda caso, il cellulare, estensione naturale del loro corpo, non lo dimenticano mai! E’ successo sempre durante le prove generali che i miei simpatici allievi abbiamo trovato per me degli appellativi, dei nomignoli curiosi che descrivono perfettamente il mio stato d’animo e la mia reazione alle loro prove che vanno sempre malissimo: i più legati alla tradizione dei telefilm americani mi ha battezzato “Xena”, la principessa guerriera che urlava come un pavone impazzito, i più grandicelli e più letterati mi chiamano “Lady Macbeth” o
“Milady”, personaggi femminili dai trascorsi alquanto discutibili, ma che sento molto vicine in quei momenti! “Ma come?!” è la prima reazione al caos che prende forma: brani studiati e ristudiati sembrano essere del tutto sconosciuti, il coro apre e chiude la bocca senza emettere un suono, tenendo stretta la cartellina con lo spartito al contrario, gli strumenti sembrano perennemente scordati, e gli sguardi dei ragazzini persi nel vuoto, come i vampiri di Twilight. In quel momento pensi che è finita; è troppo tardi per cambiare brano e devi dare una risposta ai genitori che fuori fremono guardando l’orologio…è già passata un’ora e non si è arrivati alla fine di un brano! Poi arriva il giorno del saggio: stai lì due o tre ore prima, ma quello che ti serve di più, il tecnico delle luci e del suono, arriva sempre in ritardo! Allora poi si provano gli strumenti in fretta, mentre i ragazzini, che fino a pochi istanti prima ti rompevano i timpani con le loro vocette insistenti, sembrano spariti, inghiottiti nel nulla… “Allora che si fa?” la voce annoiata del tecnico fa emergere Xena, lady Macbeth e Milady in un colpo solo e si sente solo un ruggito di richiamo, come le leonesse nella savana. “Ma ancora non si comincia? Abbiamo mangiato in fretta per venire qui presto!” le voci piagnucolose dei genitori che si la-
49 mentano del ritardo, non fanno che accrescere il fuoco che divampa dentro: non so che espressione abbia il mio viso in quegli istanti, ma so che il pallore che suscito negli altri è abbastanza eloquente e i “Non fa niente, aspettiamo!” timidi e dimessi, mi fa pensare che i miei occhi davvero lancino fiamme in quei momenti. Finalmente s’inizia, ci siamo: i primi, i piccoli, non sembrano più bambini, ma piccole bambole a corda, precisi, belli, bravi; poi, man mano i più grandi, i gruppi, la musica d’insieme…gli applausi! Si, sono bravi, bravi davvero!!! E mentre li guardo, vedo scorrere l’intero anno, le urla, le risate, le lezioni ripetute fino alla nausea, le cene saltate, i pranzi di corsa, le sere trascorse davanti al computer per cercare qualcosa che possa fare per loro; rivedo me, alla loro età e mi viene da piangere pensando che da quelle sedie sono passata anch’io e che avrei voluto tanto un’insegnante che mi amasse la metà di quanto io ora voglia bene a loro e mi sento orgogliosa anche dei loro errori, del rossore sulle guance, dei sorrisi imbarazzati. Qualcuno mi abbraccia all’altezza della cintura e sussurra “Grazie maestra! Ti voglio bene!” E allora sai che tutto è andato veramente bene! “Che cosa vuoi fare da grande?” Si, avevo dato la risposta giusta da bambina.
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Vorrei
Non è tempo per noi Non è tempo per noi, non è tempo per i sogni custoditi ancora sotto le ciglia in questa nostra notte senza passato e senza futuro sospesa fra i singhiozzi che scuotono il petto fra le grida che squarciano i veli di questo cielo muto, senza bagliore di luna o di stelle, senza nemmeno una tremula candela a rischiarare questa notte disperata e stanca.
Vorrei Vorrei. le esalazioni fresche della terra la mattina quando si sveglia con il profumo di muschio e terra bagnata. Vorrei il tepore che matura le vigne. Vorrei i fiori figli della notte, vorrei le loro lacrime pure che corrugano le loro anime fragili… Vorrei,vorrei i sogni belli dei bambini Vorrei un’alba senza fine Vorrei i segreti che si sussurrano
le foglie ancora attaccate ai rami spogli, Vorrei quel loro desiderio che le tiene ancora in vita anche quando il gelo le distrugge. Vorrei le loro promesse gridate nel vento al ramo che non rivedranno più. Vorrei la resina dei rami spogli, lacrima che piange muta le sue foglie perdute. 30/12/2002.
Racconti del mattino Raccontami, quando il sole si distende sui campi, raccontami, quando i brividi della notte abbandonano i fili d’erba, raccontami i segreti delle fate perdute nei boschi, raccontami i sospiri della sabbia accarezzata dal mare, raccontami il naufragio dolce delle stelle nei tuoi occhi. Parlami con le parole che non ti ho detto… Cantami le ninne-nanne che calmano i bambini, la notte… Guardami
Tu piangi e mi nascondi gli occhi, mentre ti ripeto che non è tempo per noi, stringi i pugni, mentre ti urlo che non è tempo per noi sbatti il cuore contro il cielo che in silenzio piange sulle tue spalle curve, sul tuo viso affaticato, sulla tua anima nuda, abbandonata ai piedi della notte. 13/01/2012
come si guarda un mattino… Abbracciami come il giorno abbraccia la notte, come il sole abbraccia i miei fiori, come un bambino abbraccia il cuscino, di notte, mentre un pianto lontano si spegne sopra un letto di mari in tempesta. Nascono dal vagito fresco di un bimbo i miei fiori cullati dal vento, abbracciati da quel primo sole che muto sospira sui campi. maggio 2003.
Eva
Io viaggio da sola
“Un Viaggio di mille miglia comincia sempre con il primo passo” (LAO TZU) Ogni mese Piazza del Grano offre questo spazio a tutte le donne. Manda la tue mail a “parliamone” : pp.zzadelgranodonne@libero.it
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Eva
Parliamone... “Perché no?” DI CATIA MARANI
La donna che si siede da sola, nella sala affollata di un ristorante o di un cinema, attira ancora l’attenzione. Un coro di mille sguardi maschili e femminili ammonitori, che ritengono possa essere squallido per una donna far vita “sociale” in solitudine. Il destino spesso si riserva di dover organizzare, con o senza la nostra volontà, tutta o una parte della nostra vita: tante sono coloro che lasciano o vengono lasciate dai mariti o dai compagni, oppure, che li perdono in circostanze più tragiche. Restano sole, e dopo un periodo di sofferenza e di smarrimento, provano con coraggio a riorganizzarsi il futuro. Molte di loro non sono più giovani, sono donne di mezza età e oltre, che dentro hanno ancora tanta voglia di vivere. Le donne contemporanee non viaggiano solo per piacere. Viaggiano anche per lavoro ed altre necessità. Non stupiamoci allora se le donne che oggi viaggiano in solitario sono un milione e quattrocentomila. Rispetto ad un tempo, oggi è più facile. Alexandra David-Neel (scrittrice ed esploratrice francese), dovette viaggiare sotto mentite spoglie, quando nel 1924, decise di attraversare la Cina, in piena rivoluzione civile e raggiungere Lhasa in Tibet. Uno dei motivi che ha frenato l’emancipazione delle donne è sicuramente la paura di viaggiare da sole. Paura seppur spesso giustificata, che può essere superata prendendo le dovute precauzioni e soprattutto valutando tutti i vantaggi di partire “sole con se stesse”. Non è soltanto una dichiarazione di indipendenza, è l’affermazione dei propri gusti, dei propri desideri. La prima volta è sempre la più difficile. Certamente bisogna essere munite di una buona dose di autostima e di una impellente necessità di conoscere nuovi luoghi e nuove persone, perché non v’è dubbio che viaggiare da single ci porta a misurarci con i nostri limiti. Molti sono i siti on-line in Italia e all’estero, che si propongono di istruire le moderne viaggiatrici. Tanto per citarne alcuni, www.alberghidelledonne.com, offre una vasta gamma di scelta per hotel o B & B più adatti ad ospitare una
clientela femminile. Altri invece informano su come raggiungere mete e come attrezzarsi quando la partenza è imminente: (www.permesola. com o www.fuorirottadonna.it) Per le prime volte, ad esempio, raccomandano di iniziare con qualche weeck-end in località vicine di mare o di montagna. Di non partire con troppo bagaglio appresso (preferendo valigie munite di rotelle o zaini da portare a spalla), che potrebbe diventare un limite soprattutto quando il viaggio prevede numerosi spostamenti da una località all’altra. Il mezzo più usato dalle donne che viaggiano sole o con la compagnia di una o più amiche è il treno (considerato fra i più sicuri, è consigliabile comunque non perdere mai d’occhio il bagaglio!), ottimo soprattutto se si pensa di raggiungere qualche località balneare, visitare le città d’arte italiane o anche una capitale europea. Sarebbe preferibile scegliere il migliore albergo che ci si può permettere, affinché l’esperienza risulti il più gradevole possibile così da incoraggiarne delle altre. L’albergo se di piccole dimensioni assicura una migliore sorveglianza da parte del personale e questo vi farà sentire più protette. La cosa migliore comunque è sempre quella di informare parenti e amici di qualsiasi eventuale spostamento. Risultano una buona scelta anche le crociere, per le quali basta richiedere la prenotazione presso la propria agenzia
di viaggi di fiducia, raggiungere il punto di imbarco e, da quel momento fino allo sbarco, l’assistenza del personale è costante, ma mai invadente. Durante le soste della navigazione si ha la possibilità di fare diverse escursioni a terra, generalmente ben organizzate con guide gentili e preparate. Si può altrimenti godere dei confort messi a disposizione sulla nave e dedicarsi soltanto al relax e al riposo. E’ facile inoltre incontrare gente simpatica, allacciare nuove amicizie e non impossibile, anche iniziare una nuova storia d’amore! I luoghi nel mondo più sicuri per andare in vacanza, soprattutto per donne sole, vedono al primo posto il Giappone, dove si può viaggiare oltre che in assoluta sicurezza per conoscere usanze e folclore; al secondo i Paesi Scandinavi, se cercate relax e pace immerse nella natura; Berlino, se amate il divertimento e l’arte; Vienna per le bellezze architettoniche; il Canada per le grandi escursioni. Auguro a tutte le donne intraprendenti buon viaggio, e a coloro che non si sentono ancora pronte per vincere le proprie paure, consiglio di scendere in giardino, aprire la sediasdraio senza provare alcuna frustrazione e, di far volare l’immaginazione inseguendo sulle pagine di un vecchio libro le avventure di un gentiluomo, Phileas Fogg, che girò il mondo in ottanta giorni, vinse una scommessa e trovò l’amore, grazie alla fantasia di Jules Verne.
Eva
Le grandi donne della storia Amelia Earhart 10 minuti Nel 1920, all’età di 23 anni si reca con il padre ad un raduno aeronautico a Long Beach e pagando un dollaro, per la prima volta sale a bordo di un biplano per un giro turistico di 10 minuti, sorvolando Los Angeles. E’ in quell’occasione che decide di imparare a volare. Mamma Emy Con l’aiuto della madre Emy riesce a comperare il suo primo biplano e a stabilire il primo record di volo femminile, salendo ad un’altitudine di 14.000 piedi. Amicizia Nel 1928 sarà la prima donna ad attraversare l’Atlantico a bordo di un Fokker F VII, chiamato Friendship (amicizia), dopo che a causa delle pessime condizioni atmosferiche il volo era stato rimandato per diverse volte. Lady Lindy Metterà a segno prodigiose imprese,
sempre impegnando tutte le sue forze per riuscire in ciò che nessun altro pilota era mai riuscito. Diventa la prima persona ad attraversare il Pacifico da Oakland in California ad Honolulu nelle Hawaii. Teorie L’aereo della pilota, accompagnata dal coopilota Fred Noonan, scomparve in cielo durante una delle sue imprese più incredibili. Molte teorie emersero per spiegare l’accaduto, ma la più credibile per gli storici fu avvalorata dall’ultimo messaggio radio della Earhart che segnalava la scarsità di carburante e la scarsa visibilità, che probabilmente la costrinsero ad un ammaraggio di emergenza, con conseguente affondamento. I resti dell’aereo non vennero mai trovati. Cinema Nel 2009 viene girato un film biografico sulla famosa trasvolatrice intitolato “Amelia”. Il film è diretto da Mira Nair ed interpretato dal premio oscar Hilary Swank, nel ruolo della Earhart.
53 In Libreria Consigliati e Sconsigliati dalle donne Non perdete l’occasione in vacanza di portare con voi un libro, ecco i titoli dei primi in classifica: Bianca come il latte, rossa come il sangue Alessandro D’Avenia – Mondatori Fra i primi posti della narrativa italiana, regge la sfida contro Camilleri e Saviano ( rispettivamente1° e 2°), con una storia che può sembrare per sedicenni innamorati, ma che invece nel suo significato più profondo si possono cogliere grandi insegnamenti sull’amore a ogni età. Si>>> L’amore è un difetto meraviglioso Grame Simsion - Longanesi Una commedia romantica che è fra i primi 20 in classifica nella narrativa straniera, lo scrittore è infatti uno sceneggiatore australiano, che per usare un termine cinematografico imbastisce una originale storia d’amore. Gradevole, quindi tutto sommato da consigliare. Si>>>> Tutti a casa Mario Giordano – Mondatori Sarà l’effetto vacanza, ma il libro pubblicizzato all’ennesima potenza dal bravo giornalista che lo ha scritto, nella saggistica dopo aver scalato la classifica è già sceso dal 9° al 12° posto. Sarà la voglia di andare in vacanza ad aver fatto perder smalto a questo libro dal titolo poco avventuroso o i soliti argomenti dove non riusciamo più a stupirci di niente? No Il libro del Tao Tao-Teh-Ching – New Compton Primo nella classifica dell’editoria Varia, 129 pagine di filosofia cinese, considerata l’opera più bella ed originale nel suo genere. Ritenuto “intraducibile”, è tuttavia il testo antico cinese più tradotto in occidente. Consiglio di leggerlo non in vacanza, ma prima di partire da sole. SI>>>
Le immagini utilizzate in questo inserto sono particolari di opere di Paul Gauguin
Segnalateci le letture che vi hanno coinvolto di più, oppure quelle che vi hanno deluso scrivendo al nostro indirizzo mail e noi le citeremo su “Consigliati e sconsigliati dalle donne”.
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Eva
C’è post@ per Noi LiberaMente! Leggo da diverso tempo Piazza del Grano, e mi ha meravigliato constatare una certa contraddizione fra l’articolo pubblicato qualche mese fa sulla mortificazione fisica e psicologica cui è sottoposta la donna, in un mondo maschilista come quello islamico e, la citazione molto recente (sul numero di maggio) del discorso del Presidente Iraniano che auspica uguaglianza fra i popoli e inneggia alla pace, al progresso e alla fratellanza. Se non sbaglio l’Iran non è uno di quei posti dove sarebbe meglio non nascere donna perché considerata di gran lunga inferiore all’uomo? Laura&Co.
Gentile Laura&Co, la sua potrebbe essere una legittima osservazione se non fosse che in una rivista che ha l’intento di divulgare informazione è giusto che le voci a cui attingere non provengano sempre dalla stessa bocca. Credo pertanto, nonostante anch’io reputi i fatti più tangibili delle parole e ritenga quanto lei il Signor Ahmadinejad nemico delle donne, che gli articoli avessero ragione di essere pubblicati entrambi per la motivazione che fa di una rivista uno strumento utile alla società: la libertà di stampa. A tale proposito la invito a continuare a leggere Piazza del Grano anche se a volte le sue opinioni non coincidono con quelle di coloro che, come me, ci “provano” a farlo.
Benessere al Naturale
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La Donna Cancro 21 giugno - 20 luglio
Vacanza Ora che siete in vacanza cercate di migliorare il vostro aspetto facendo conciliare il benessere del corpo con quello dello spirito. Cominciate a rilassarvi, rimanendo a letto un po’ più a lungo. Ghiaccio. Appena alzate, prendete dal freezer due cubetti di ghiaccio e poggiateli sulle palpebre, avendo avuto cura di avvolgerli in una garza per non rovinare l’epidermide. Avranno l’effetto immediato di sgonfiare gli occhi dato che vi siete concesse parecchie ore di sonno. Yogurt A colazione sedetevi con calma e gustate uno yogurt bianco, ma non finitelo tutto. Lasciatene tre cucchiaini da spalmare sul viso evitando l’area orbitale. Massimo dieci minuti e risciacquate con acqua rigorosamente fredda. Ha la funzione di idratare al pari degli olii, che in estate potrebbero risultare troppo grassi. Sorriso Prima di uscire di casa fate una smorfia allo specchio e sorridete! Allenare i muscoli del viso mantiene giovani e toniche. Esprimere gioia ci fa sembrare più belle agli occhi di chi ci guarda.
Questa estate la colorazione più richiesta è lo shatush, un sistema innovativo basato sulla filosofia delle gradazioni, applicato sia al metodo delle colorazioni che al taglio. E’ l’ideale per chi desidera avere un effetto naturale, ma più di tutto è in grado di risolvere i problemi legati alla ricrescita, conferendo ai capelli l’aspetto di una chioma schiarita dal sole. Anche la piega non deve avere alcun aspetto costruito, ma deve essere leggermente mossa e spettinata senza cadere nella trappola della sciatteria. Se li volete tenere legati, la nuova tendenza consiglia di raccoglierli in chignon di tutte le forme, ma il più trendy è quello fatto proprio in cima alla testa. Chi ha i capelli molto lunghi può intrecciarli come Pocahontas, ma chi preferisce i tagli corti la scelta è ampia come non mai. Si può optare per un corto voluminoso e un po’ spettinato, oppure per una pettinatura alla maschietta, tornata molto in voga dopo la proiezione del celebre film di questa primavera Il Grande Gatsby, a cui la moda spesso si ispira. Una raccomandazione importante per la salute dei capelli è di usare in estate la piastra il meno possibile, possibilmente mai!
Instabile, ipersensibile, mutevole e suggestionabile. Per lei sentimenti ed emozioni sono sempre molto forti. L’umore è variabile così come il rapido movimento del loro pianeta. Si tratta di una delle donne più femminili dello zodiaco: materna, sensuale e che si sente completamente realizzata nel matrimonio. Ama essere corteggiata e possiede un animo molto romantico, ma attenzione perché la sua grande sensibilità la rende facile alla lacrima. Donna Cancro: Oriana Fallaci -(29 giugno 1929) Giornalista e scrittrice italiana
La Donna Leone 21 luglio - 20 agosto La donna leone vive il suo essere senza mezze misure in modo assoluto. Sensibile alla carezza dell’adulazione, spesso può cadere nell’ingenuità. Al tempo stesso è coraggiosa, leale e generosa. E’ un tipo di donna a cui èiace il lusso e ricevere regali di frequente, possibilmente costosi. Il fatto che ami così tanto se stessa non deve farci supporre che non è in grado di amare gli altri. Al contrario, in amore dà tutto e sa essere una compagna presente e fedele. Donna Leone: Cocò Chanel – 19 agosto 1883 – Stilista francese
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Inediti
“In viaggio con Paulette” DA UN RACCONTO DI GIORGIO DOTTO DE DAULI
Introduzione. Con grande piacere e onore mi accingo alla presentazione di un estratto da un racconto, intenso, che descrive episodi di vita degli anni '60 coinvolgendo importanti personaggi dello spettacolo. Siamo ai tempi dell'esplosione de "La Dolce Vita" con tutti i reporter a caccia dello scoop. Giorgio de Dauli, costumista, nato artisticamente a Brera, cosmopolita, cresciuto nelle più lussuose località del Vecchio Continente, illustra in modo speciale e in uno stile elegante, nel contempo alla moda e retrò, un'attrice internazionale dell'Olimpo del Cinema: Paulette Goddard. Nel breve ma intenso e sognante intervallo temporale di due mesi, Giorgio ricorda i momenti professionali vissuti con l'attrice americana che ha fatto sognare un'intera generazione. Momenti trascorsi non solo di serio e piacevole lavoro, ma anche episodi di vita quotidiana comici e distensivi. Giorgio trattava alla pari con artisti di fama internazionale. Non solo Paulette, ma anche moltissimi altri come Rex Harrison, Tony Curtis e tanti altri. Da serio, deciso e preparato professionista selezionava il look dei personaggi più in vista, specialmente di coloro che intuivano le sue doti per ogni scenario professionale, pubblico e privato. La sua ricetta era fatta di semplicità, raffinatezza, gusto e tradizione made in Italy. Jacopo Feliciani
C
i sono particolari che voglio sottolineare trovandoli divertenti. Se da una parte curavo l'abbigliamento di Paulette tra Milano-Roma-Riccione, al contrario a Parigi curavo in maniera totalmente diversa Rex Harrison il quale giocava spesso al golf di cui era fanatico. Mi preoccupava l'idea che tra una partita e l'altra gli venisse improvvisamente il torcicollo o qualche altra diavoleria -cosi all'aria aperta, come un premuroso e zelante infermiere, gli consigliavo la maglia di lana, il maglione, la sciarpa di lana attorno al collo e di stare attento alle correnti d'aria- “Si riguardi”, gli dicevo allarmato- Ma ero più preoccupato
per me pensando alle lezioni che avrei saltato, per le quali ero pagato profumatamente per ogni ora di conversazione d'Italiano che gli impartivo ogni giorno nel salotto del suo albergo –come da nostri accordi pattuiti il giorno del nostro incontro -e se si ammalava come era già accaduto, addio a tutto questo, si metteva a letto e arrivederci finché non si alzava in salute. Era normale che mi preoccupassi perché non avevo in quel momento a Parigi altre entrate, non avendo avuto il permesso di lavoro in Francia; per questo andavo anche in chiesa, alla "Madaleine", ad accendere un cero per la sua salute -per questo ero costantemente
in apprensione per la sua salute e stressato e messo a dura prova per l'attesa giornaliera visto che la segretaria telefonicamente mi comunicava ogni giorno l'appuntamento al Mercade 2211-Paris-dove abitavo. Al contrario, con Paulette fu una situazione molto più distesa e rilassante, perché non giocando al golf era decisamente più disponibile ad ogni appuntamento. Non sgarrava di un minuto, con un piglio quasi militaresco, sempre radiosa nel vedermi come lo ero io del resto -perché anch'io col terrore di arrivare in ritardo vivevo appunto nell'incubo di non arrivare, per una ragione o per l'altra, puntuale.
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Inediti
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asseggiavamo per le vie di Milano come due semplici turisti senza una meta ben precisa, scherzando per le piccole cose che ogni giorno possono accadere, ridendo tranquillamente, non occupandoci delle persone attorno che ci osservavano increduli riconoscendo Paulette che, in quelle occasioni, sorrideva tranquillamente senza pose divistiche come era suo carattere. Alle volte mi domandavo: «Sto passeggiando sotto braccio alla ex moglie di Chaplin, chi l'avrebbe mai pensato?» Certo che si chiedevano anche i miei conoscenti o presunti amici -non credendo ai propri occhi, facendo mille congetture dei perché e dei per come- Era naturale essendo stata una "star" internazionale- Io lasciavo dire, anche perché ogni cosa che avessi detto non sarebbe stata creduta- L'unica cosa da fare era lasciare che pensassero quello che volevano, non avevo altra scelta- Non posso negare che la cosa fece un certo rumore, specie quando venne pubblicata in prima pagina sul "Corrire della sera" la foto con noi due sottobraccio sorridenti- Finsi di cadere dalle nuvole dicendo che ero all'oscuro di quanto stava succedendo ma in realtà non era così, essendo cosciente della straordinaria pubblicità che tutto questo mi stava procurando, ma finsi indifferenza come si trattasse di un fatto normale. Arrivarono telefonate e inviti a non finire: i miei silenzi erano presi come se volessi nascondere chissà che cosa- Dato che rispondevo a monosillabi alle loro domande curiose e insistenti alle quali non potevo dare una risposta precisa, la curiosità era al culmine: eravamo diventati io e Paulette l’oggetto di conversazione nei salotti bene di Milano- Questo sia a me come a Paulette non dispiacque affatto, malgrado non ne parlammo mai. Sapevamo di essere stati presi di mira. Accettammo tutto questo come un fatto di ordinaria amministrazione al punto tale che intesificammo i nostri incontri e proprio nei luoghi dove la gente ci potesse riconoscere- Tutto questo fu fatto senza dirci niente in proposito- A Paulette piaceva essere fonte di curiosità, quindi quale migliore occasione di questa: tutto era arrivato così come un fatto normale, un gioco a cui la Goddard non si sottrasse, anzi vi partecipò entusiasticamente approvandolo senza farcelo
notare, da donna di classe, come le era abituale. La nostra corrispondenza si intensificò. Ascona-Milano -Milano Ascona- suo marito Erich Marie Remarque era al corrente di tutto -tanto che non fece una piega anche perché in quel momento era gravemente ammalato e non poteva accompagnare sua moglie a Milano- Questo era quanto affermava lei, poi non so come si fossero svolte veramente le cose e nemmeno mi permisi con Paulette di entrare nel particolare- Lei aveva deciso così e così doveva essere senza interferenze di nessuno, nemmeno del marito che io vidi una volta sola a Milano: forse non pensava che le cose andassero così per le lunghe, anche lui come Paulette, e mi parlava poco, ma i fatti si stavano rivelando alquanto diversi da come aveva in un primo tempo pensato: il fatto di un improvviso aggravamento della malattia fu sicuramente un suo stratagemma studiato per impedire a sua moglie altri viaggi a Milano ecc. Se fu una scusa funzionò a meraviglia, tanto che da allora non mi fu più possibile vedermi con Pau-
lette: solo brevi e semplici telefonate con il marito presente; e naturalmente lo intuivo dal tono della sua voce controllata che non dava possibilità di un dialogo aperto come eravamo abituati nei nostri incontri a Milano. Questo successe dopo la conclusione della famosa festa a Riccione dove si erano dati convegno molti attori importanti, e dove Paulette fu al centro dell'attenzione di tutto il mondo presente- Mi disse che era tutto bello ma rivolta a Michele Galdieri e Renato Morazzani si lasciò sfuggire la frase: «Sono contenta che sia tutto finito perché tra prove, viaggi, appuntamenti ecc. sono stanca come se avessi girato un film»- Era sincera nell'affermare questo e io potevo confermarlo essendole stato accanto per tutti i preparativi del caso; ci sono sue lettere indirizzate a me che possono dimostrarloAnche la scelta dei gioielli fu attenta e laboriosa: diamanti e rubini di ingente valore da far invidia alla Regina d'Inghilterra- Anna Magnani, presente alla serata, non digerì molto l'intrusione della sua collega americana e
Inediti non perse l'occasione di criticarla pubblicamente per l'ostentazione che faceva dei suoi gioielli. Paulette se ne accorse e me lo disse sedendosi al tavolo di fronte a me – le cose si spinsero al punto che si rifiutò di conoscerla, malgrado avesse desiderato il contrario, essendo, prima di questo increscioso fatto, una sua ammiratrice- ma cambiò il discorso come era sua abitudine, per non discutere sull'accaduto -Era tutto finito lì, ma capivo dai suoi occhi chiari e luminosi la sua disapprovazione verso il contegno offensivo tenuto nei suoi confronti a causa delle allusioni maligne della Magnani. Mi ricordo solo di una sua frase messa lì tranquillamente, avendo saputo incassare il colpo: «Non mi interessa più di conoscerla e nemmeno andrò a vedere i suoi film perché ho scoperto che sotto ad una grande attrice c'è una donna molto ignorante e maleducata -perché non ha capito che se in questa serata mi sono vestita da gran diva è stato perché lo richiede il momento- Lei sa che nella vita di tutti giorni amo la completa libertà di movimenti e la massima semplicità possibile, credo che non abbia capito questo» - Con questa affermazione compresi che la Magnani aveva perso un'ammiratrice per sempre. Si dà il caso che in quella serata ci fu anche un contrasto colorito tra le due attrici -Paulette tutta in bianco -la Magnani al contrario in nero, elegantissima, anche lei con due gioielli importanti sopra l'abitoIndubbiamente erano le due regine della serata e si sa che due regine insieme non possono andare d'accordo- E quella sera fu la conferma di ciò- Due personaggi tra di loro contrastanti, aggressivi e combattivi, ma in maniera diversa ed entrambi dotate di singolare magnetismo, con caratteri tanto opposti da detestarsi al punto di evitarsi al ristorante- Al bar fu chiaro che facevano di tutto per ignorarsi a vicenda- Io dal canto mio stavo sul chi va là: avevo paura di uno scontro verbale tra loro e con Pauli non c'era da stare tanto tranquilli e la Magnani stava nel nostro albergo; un'incontro tra loro due in ascensore non era di certo consigliabile- Pertanto stavo sempre allerta, visto che trovarmi in mezzo a loro in una zuffa, con le unghie affilate e laccate rosso ciliegio, avrebbe potuto provocar-
mi lesioni al viso poco fotogeniche. Io allora facevo servizi di modaovevo avere un certo riguardo per il mio benessere e non accettavo l'idea di tornare a Milano sfregiato - e spesso tra i due litiganti chi ha la peggio è il paciere e la Magnani col carattere che aveva era meglio andarci piano, si sa come vanno a finire queste cose: si comincia con parole accese e scambio di epiteti poco salottieri e veraci, per poi arrivare alle vie di fatto; poteva succedere veramente credetemi, era nell'aria dato che Paulette se l'era legata al dito, tanto che quella sera aveva deciso per una sera - di scendere dal piedistallo e mettere da parte la sua innata signorilità e le buone maniere- Bastava una parola della sua rivale e tutto poteva succedere (con due belve così, una Texana e l'altra Romana -chis-
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57 sà!). Non successe per mia fortuna e sfortuna dei fotografi e giornalisti presenti -una bagarre che avrebbe riempito i quotidiani di tutto il mondo dati i due nomi ridondanti, Goddard-Magnani, e probabilmente anche loro ne avrebbero ricevuto una pubblicità gratuita, più di un lancio di un loro film. Dopo questo fatto Paulette decise di ripartire subito per Milano e ritornò da suo marito ad Ascona (Svizzera) con la scusa che Remarque non era in buona saluteMa sotto sotto credo volesse in tutti modi evitare un incontro non gradito con la Magnani che aveva fatto sì, in maniera romanesca, di rovinargli la serata alla quale si stava preparando da due lunghi mesi- Quindi era meglio per il suo buon nome sparire e mettere la parola fine tra lei e la sua celebre collega italiana.
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on tutti quegli attori fotografi presenti, conoscendosi, scelse di eclissarsi- Almeno questo penso io che avevo assistito alla scena. Paulette anche in America era conosciuta per un carattere deciso e all'occorrenza spregiudicato e non era un tipo da farsi intimidire da nessuno. Anche Chaplin, che era stato per un lungo periodo suo marito, ebbe il suo bel da fare per accettare il carattere imprevedibile di Paulette, tanto che poi divorziarono. Non si seppe mai il perché, ma capisco che stare vicino tutti i giorni a un carattere tempestoso e variopinto può creare dei problemi insormontabili che persino la bellezza non può compensare; e Paulette poteva essere un problema anche sul set. Ne sanno qualcosa le maestranze e gli attori che facevano parte del cast de "Il grande dittatore". Questo contribuì radicalmente ad inquinare il loro rapporto coniugale- come conclusione finale- malgrado il successo del film stesso, una satira su Hitler e Mussolini. Devo aggiungere che quando io l'ho frequentata aveva aggiunto al suo nome quello di Remarque per dare un colpo al passato di grande stella made in Usa. Non amava parlare del suo periodo d'oro che
Inediti era per lei un ricordo lontano che non rimpiangeva- Quello che era stato era stato, ora era madame Remarque e basta- Mi rammento di quando una volta, a Riccione, verso mezzogiorno, eravamo a tavola al ristorante dell'albergo noi due soli. Leggendo il menù dissi a Paulette che se aveva scelto poteva ordinare al cameriere in Inglese. Lei di rimando mi rispose: «Perché cosa c'è nel mio Italiano che non va?» Io risposi: «Signora lei parla un italiano perfetto, ma pensavo che forse parlare in inglese, sua lingua madre, la può magari agevolare nella scelta» - Paulette mi rispose seria e adombrata: «Lei mi vuol far capire che non mi esprimo chiaramente in italiano» - Io risposi: «Non volevo dire questo- dato che lei parla un italiano perfetto senza accento» - Lei di rimando mi rispose quasi risentita: «Certo che parlo bene in italiano, me lo dicono tutti», e continuò a parlare in italiano e subito chiamò il cameriere ordinando: «Per favore mi porti la fritta». Io dolcemente, con un sorriso, la corressi dicendo: «Lei si riferisce alla frutta vero?» Lei rispose sorridendo apertamente: «La frutta certo». Ecco, questo era il modo migliore per andare in perfetta armonia con Paulette che non amava in nessun modo e maniera essere tacciata di pressapochismo- Devo dire, malgrado tutto, che il suo italiano era perfetto, senza accento come si sen-
te spesso. E' incredibile come un'americana puro sangue avesse assimilato la nostra lingua in maniera così sorprendente con una padronanza da lasciare senza parole- Con l'attore inglese Rex Harrison che ho frequentato a Parigi era il contrarioIl suo accento anglosassone era inconfondibile e alle volte parlando con lui avevo delle discussioni che rasentavano il ridicolo. Quando mi permettevo di correggere alcune parole italiane sostenendo il contrario di quanto lui diceva -era un uomo speciale, non facile da trattare, completamente privo di umorismo- era molto suscettibile al contrario di quello che si vedeva sullo schermo, e se non gli passava subito si chiudeva nel suo mutismo: non c'era verso di smuoverlo, mi rispondeva per un po’, fino che non gli era passata, con mugugni. Era completamente diverso da Paulette per la quale, una volta passata la momentanea buriana, tutto tornava subito normale- Tra loro due c'era un contrasto abissale. Io che li ho frequentati e seguiti mi sono reso conto del perché dei tanti divorzi tra attori- Se uno dice bianco, l'altro dice nero o viceversa finché alla fine succede il patatrac e tra loro si mettono di mezzo gli avvocati che per questo fatto fanno affari d'oro. [...]
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