supplemento al numero 3 - Anno III - marzo 2011 di Piazza del Grano - www.piazzadelgrano.org
Nè con lo Stato borghese Nè con le Brigate Rosse I Comunisti non debbono mai tagliarsi fuori dalla maggioranza del popolo e, dimenticandosi di essa, andare alla ventura capeggiando qualche minoranza avanzata; ma staranno sempre attenti a stabilire stretti legami tra gli elementi avanzati e la grande massa del popolo. Questo vuol dire pensare alla maggioranza. Noi Comunisti siamo come il seme e il popolo è come la terra. Dovunque andiamo, dobbiamo unirci al popolo, radicarci e fiorire in mezzo al popolo. MAO Gettare la sola avanguardia nella battaglia decisiva prima che tutta la classe, prima che le grandi masse abbiano preso una posizione o un appoggio diretto allavanguardia, non sarebbe soltanto una sciocchezza, ma anche un delitto. Affinché effettivamente le grandi masse dei lavoratori e degli oppressi dal capitale giungano a prendere tale posizione, la sola propaganda, la sola agitazione non basta. Per questo è necessaria lesperienza politica delle masse stesse. LENIN
Comunismo contro terrorismo Marx contro Mazzini Il tema “terrorismo” è quanto mai “delicato” (ma d’altronde non lo sono stati meno diversi dei temi già trattati e che saranno trattati in futuro negli inserti di questo giornale). Affrontarlo richiede pertanto una premessa ideologica, politica, culturale e morale estremamente chiara. Le due citazioni a fianco del simbolo della BR dovrebbero da sole già dare sufficiente conto di quanto l’idea stessa del terrorismo sia estranea al pensiero comunista. Varrà di aggiungere che non è con Lenin, prima, e con Mao, poi, che il partito comunista (inteso come unico soggetto politico mondiale) ha sancito la sua distanza da ogni forma di insurrezionalismo elitario, marginale e/o emarginato, escluso ed estraneo dalla lotta di classe che è il vero motore del processo che conduce alla realizzazione della società comunista. La prima lezione in tal senso la troviamo già in Marx ed Engels, nella loro severissima critica alle teorie insurrezionali mazziniane e di quella nutrita schiera di ideologi borghesi che nella metà dell’ottocento progettavano, attraverso velleitarie iniziative di ribellioni assolutamente minoritarie e singole azioni “bombarole” regicide, la costruzione di una Europa repubblicana che avrebbe sancito (parole testuali di Marx) l’avvento di una Europa democratica con l’ “imbecillità decretata in permanenza”.
L’esaurimento della spinta rivoluzionaria del 1948 aveva aperto alla analisi dei meccanismi di funzionamento del nuovo sistema capitalista. E’ nel decennio seguente, nel così detto “decennio fecondo”, che Marx ed Engels elaborano la teoria del capitale, ne analizzano e svelano i meccanismi di formazione e di conservazione, di presa e di gestione del potere dapprima economico e poi politico. Emerge e si definisce il concetto di classe, ovvero delle classi sociali create dal nuovo sistema di economia capitalista che stabilisce un nuovo rapporto di dominio dell’uomo sull’uomo, basato non più sul privilegio della nascita e sulla forza delle armi, ma sulla proprietà dei mezzi di produzione. E’ sulla lotta di classe che si svolgerà la futura storia dell’umanità e l’esperienza del primo governo popolare della Comune di Parigi del 1870 (profondamente avversata da Mazzini) ne costituirà la prima testimonianza; ma sarà anche la prova della immaturità di un progetto rivoluzionario vincente e, dunque, durissima sarà la posizione dei fondatori del comunismo scientifico avverso il così detto “terrorismo democratico italiano” ispirato da Mazzini nella totale indifferenza delle classi popolari che, fallimento insurrezionale dopo fallimento, ne subiranno le conseguenze devastanti. Mazzini era un terrorista,
spinto sino alla organizzazione di attentati bombaroli regicidi, i comunisti ne hanno da subito denunciato la imbecillità e la pericolosità. Marx ed Engels combatterono tutta la vita contro questa concezione soggettivistica della politica, contro questa concezione settaria. Essi operarono per una rivoluzione sociale che avesse per protagonista non una minoranza che incute “terrore”, ma la classe del proletariato, la massa degli sfruttati. Scriveva Marx già nel 1851: “Ritengo che la politica di Mazzini sia fondamentalmente sbagliata. Col suo insistere affinché l’Italia si metta ora in movimento, egli fa il gioco dell’Austria. D’altra parte trascura di rivolgersi a quella parte dell’Italia che è oppressa da secoli, ai contadini, e in tal modo prepara nuove riserve alla controrivoluzione. Il signor Mazzini conosce soltanto le città con la loro nobiltà liberale e i loro citoyen éclairés (cittadini illuminati). Naturalmente i bisogni materiali delle popolazioni agricole italiane dissanguate e sistematicamente snervate e incretinite come quelle irlandesi sono troppo al di sotto del firmamento retorico dei suoi manifesti cosmopolitico – neocattolico – ideologici ... Per il rimanente la rivoluzione italiana supera di gran lunga quella tedesca per la povertà di idee e l’abbondanza di parole”.
Anni di piombo, cellule eversive, anarco-insurrezionalisti e altre pericolose imbecillità Quattro (o cinque o sei, il numero non conta) ragazzi di provincia inviano una busta con due proiettili alla Presidente della Regione, bruciano un paio di centraline elettriche e imbrattano dei muri con scritte “eversive”. Piovono dal cielo le “forze speciali” e la televisione (tutte le televisioni) rimbombano la minaccia del “ritorno agli anni di piombo”; anni (3, 4 decenni in verità) nei quali, secondo politici, politologi e giornalisti d’avanspettacolo l’Italia avrebbe vissuto nel terrore di attentati terroristici “rossi” (o rosso-neri se anarchici). Nell’articolo a fianco abbiamo chiarito l’estraneità, anzi l’incompatibilità tra qualsiasi organizzazione sedicente rivoluzionaria pensata su azioni paramilitari individualistiche e l’universo del pensiero filosofico, scientifico e morale del comunismo. Vogliamo qui dedicare alcune brevi considerazioni all’uso scientifico, politicamente criminale, che viene fatto di false evocazioni emotive per creare invece emozioni reali; del parlare cioè di un “antico” terrore inesistente per indurne invece uno attuale e reale. Utilizzeremo dei numeri ribadendo che i dati che citeremo, come sempre, hanno fonti sicure e comunque sono verificabili da parte di chiunque lo voglia. Utilizzeremo dei numeri, in qualche modo violando un
principio al quale vorremmo sempre attenerci, quello delle “ragioni” che danno “qualità” alle “quantità”, per cercare di dare con maggiore immediatezza il senso delle proporzioni, ovvero delle “sproporzioni”. Con “anni di piombo” in Italia ci si riferisce all’oramai circa quarantennio che va dalla prima comparsa delle Brigate Rosse torinesi e genovesi agli ultimi allarmi della ridicola (il termine non si riferisce e non vuole assolutamente offendere i ragazzi coinvolti) cellula eversiva spoletina. Le vittime imputabili a questo quarantennio di violenza sono state circa 85 (ripetiamo: ne sarebbe bastata una per qualificare ignobile quel fatto, anzi quel reato, ma un numero ha pur sempre un significato). Nello stesso quarantennio le vittime imputate alle azioni paramilitari dell’ETA basca sono state circa 850, tra le quali lo stesso primo ministro spagnolo Carrero Blanco. Ancora nello stesso periodo di quaranta anni le vittime della guerra indipendentista dell’IRA irlandese sono state circa 3.500 delle quali, precisano gli stessi irredentisti, 700 non combattenti. Tra le vittime “eccellenti”: il vice re dell’India lord Louis Moutbatten e, salva, la primo ministro Thatcher. Recentemente il Ministero dell’Interno italiano ha pubblicato una riclassifica-
zione degli omicidi in Italia per il quindicennio 19922006; complessivamente alla mafia siciliana, alla ndrangheta calabrese, alla sacra corona pugliese e alla camorra campana sono stati attribuiti ben 3.000 omicidi. Se il dato viene rielaborato per l’intero quarantennio considerato nei casi precedenti appare assai verosimile la cifra di 10.000 morti diffusa da Saviano in alcune interviste televisive. Inutile citarne le vittime così dette “illustri” (tutte le vittime sono illustri se ovviamente non sono della stessa “famiglia”) dalla magistratura, alle forze dell’ordine, alla politica e alla stampa “buone”, a tanti cittadini “onesti” laici e religiosi. Una guerra civile, tre volte più violenta dell’irredentismo irlandese e dieci volte più sanguinaria di quello basco, più di 100 volte il terrorismo così detto rosso. Perché allora solo l’evocazione degli anni di piombo genera (si vuole che generi) terrore, mentre il termine mafia finisce non raramente a coniugarsi con quello di “uomo d’onore”? Perché basta una sola stella a cinque punte malamente schizzata su di un muro di Torino per demonizzare un’intera classe lavoratrice e piegare, o almeno provare a piegarla alle volontà del padrone dei mezzi di produzione. Con la mafia si tratta, ai lavoratori si impone.
I
Guerre “asimmetriche” e terrorismo
Giuseppe Pinelli
ferroviere anarchico innocente, ucciso nei locali della questura di Milano
L'Fbi definisce il terrorismo come “atti violenti... miranti a intimidire o a coartare la popolazione civile, a influenzare la politica di un governo, o a interferire nella condotta di un governo”. Chi è il “terrorista”, chi invade o chi resiste? da un articolo di Sergio Romano pubblicato sul Corriere della sera del 5 febbraio 2009
“Come lei sa, la definizione di terrorismo è un difficile esercizio a cui sono stati dedicati studi importanti e dibattiti interminabili, soprattutto alle Nazioni Unite. Personalmente uso quella che mette l'accento sulla clandestinità dell'organizzazione, la segretezza e l'imprevedibilità dell'attentato e, come nel caso del terrorismo religioso, l'uso della vita dell'attentatore come arma suprema. Nella guerra dei missili contro i territori israeliani queste caratteristiche non sono presenti. Le milizie di Hamas non sono una organizzazione segreta e ne hanno dato la prova, tra l'altro, combattendo contro le forze armate israeliane durante le scorse settimane. Si spostano rapidamente dopo il lancio del missile e cercano di
sfuggire alla rappresaglia. Ma questo è uno stile di combattimento comune a tutti i corpi speciali (arditi, commando, incursionisti, raiders, Seals) creati dalle forze armate di molti Stati nel corso del Novecento. Qualcuno potrebbe osservare, tuttavia, che i missili colpiscono centri abitati e sono diretti contro la popolazione civile. È vero. Ma l'uso della popolazione civile come obiettivo militare non è una novità introdotta dai movimenti dell'islamismo radicale. Il fenomeno comincia con i primi bombardamenti della Grande guerra. Assume proporzioni maggiori durante la guerra cino-giapponese e la guerra civile spagnola. Diventa una componente fondamentale della strategia dei Paesi combattenti durante la Seconda guerra mondiale. I bombardamenti tedeschi di Coventry, le V1 e le V2
lanciate su Londra, le bombe americane su Milano e Roma nel 1943, i bombardamenti anglo-americani di Dresda e di Amburgo, le bombe atomiche lanciate dagli Stati Uniti su Hiroshima e Nagasaki, non si proponevano la distruzione di un obiettivo militare. Il loro bersaglio era il «morale», vale a dire quel valore intangibile da cui dipende in ultima analisi la capacità di combattere e di resistere. Si colpiscono i civili, in altre parole, per piegare la loro volontà o, meglio ancora, aizzarli contro il loro governo. Se usiamo questo criterio, tra l'assedio israeliano di Gaza e i missili di Hamas contro Sderot e altre città esistono meno differenze di quanto non appaia a prima vista. Lo scopo, in ambedue i casi, è quello di attaccare il «fronte interno» del nemico e creare alle sue spalle un diffuso senti-
mento di rabbia e paura. Gli israeliani assediavano Gaza nella speranza di spingere il suo popolo alla rivolta. Hamas bombardava Sderot nella speranza di provocare Israele. E ha raggiunto il suo obiettivo. Aggiungo un'altra considerazione. Quella di Israele contro Hamas è una guerra doppiamente asimmetrica. È tale, anzitutto, perché i due combattenti hanno arsenali totalmente diversi e il piccolo non può permettersi di giocare la parte con le regole rese possibili da armi di cui non dispone. Ed è asimmetrica, in secondo luogo, perché Israele non riconosce all'organizzazione palestinese lo statuto di combattente legittimo. Quando è considerato brigante il nemico tende inevitabilmente a comportarsi come tale. Ma non è necessariamente un terrorista.”
Attacco di via Rasella ed eccidio delle Fosse Ardeatine: un atto di guerra e una reazione di terrorismo
II
Il 23 marzo 1944 in via Rasella a Roma alcuni partigiani dei Gruppi di Azione Patriottica (GAP) attaccarono un reparto delle truppe di occupazione tedesche. Tale azione si svolse nell'ambito della lotta di liberazione nazionale condotta contro il nazifascismo. L'attacco fu sferrato contro un reparto di polizia militare tedesca incorporato nel comando delle SS. Seguì l'efferata rappresaglia consumata alle Fosse Ardeatine con l’eccidio di 335 civili italiani. L'attacco di via Rasella e l'eccidio delle fosse Ardeatine, sono due degli episodi più drammatici e sanguinosi dell'occupazione tedesca di Roma. Con l'armistizio dell'8 settembre 1943 e la fuga del re e del governo, Roma divenne teatro di una battaglia contro i tedeschi nel corso della quale caddero 1.167 militari e oltre 120 civili italiani. Pesanti perdite soffrirono anche ai tedeschi, che però si impadronirono in breve della capitale. Roma passò nominalmente sotto il governo della Repubblica Sociale Italiana, ma di fatto era nelle mani delle autorità militari tedesche. I tedeschi, consapevoli del valore politico di Roma, con la presenza del Vaticano, tentarono di far fruttare propagandisticamente la dichiarazione di "città aperta" emessa da governo Badoglio, mantenendo all'interno della cerchia cittadina reparti di polizia militare SS-Polizei, nonché truppe di comando e servizi. Lo sbarco di Anzio cambiò il quadro tattico e il 22 gennaio 1944, l'intera provincia di Roma fu dichiarata "zona di operazioni" e capo della Gestapo di Roma, gestore dell'ordine pubblico, divenne l'ufficiale delle SS Herbert Kappler. Kappler pianificò frequenti rastrellamenti, arrestò numerosi sospetti antifascisti, organizzò in Via Tasso un centro di detenzione e tortura, creò nella città un clima di terrore, più volte violando le extraterritorialità vaticane in cui avevano trovato ospitalità centinaia di esponenti dell'antifasci-
smo ed ebrei. Nonostante ciò i GAP, formati per la maggior parte da partigiani del partito comunista, attaccarono i tedeschi numerose volte continuando la guerra parallela e coordinata con lo sforzo alleato. Toccò quindi a Giorgio Amendola, rappresentante del Partito Comunista Italiano presso la giunta militare del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), organizzare l'azione partigiana. La data dell’attacco, il 23 marzo 1944, fu scelta non casualmente per farla coincidere con il XXV anni-
versario della fondazione dei Fasci Italiani di Combattimento, e avrebbe dovuto svolgersi con due azioni contemporanee: un attacco al teatro Adriano in Piazza Cavour dove i fascisti avevano programmato la commemorazione dell’anniversario e uno contro una formazione militare tedesca. Il primo attacco venne annullato perché i tedeschi non consentirono la manifestazione fascista e l’azione dei GAP si concentro sull’attacco al reparto di polizia delle SS denominato SS Polizei Regiment Bozen, composto da 156 uomini altoatesini/sudtirolesi arruolati nella polizia in seguito all'occupazione tedesca dopo il 1º ottobre 1943 delle province di Bolzano, Trento e Belluno, fondamentalmente impiegati nella guerra anti-partigiana, nella cac-
cia agli ebrei, agli antifascisti, ai renitenti alla leva militare e del lavoro, ecc.; alla fine della guerra molti di loro furono processati e condannati da tribunali militari Alleati per aver compiuto crimini di guerra. Numerosi partigiani partecipato all'azione che si svolse dapprima con l’esplosione di un ordigno collocato all’interno di un carrettino della nettezza urbana e, quindi, con pistole e bombe a mano contro i superstiti dell’esplosione. L’azione venne diretta da Franco Calamandrei (detto Cola) e Car-
lo Salinari (detto Spartaco), ad innescare l’esplosivo fu Rosario Bencivenga (detto Paolo). Nell'immediatezza dell'attacco rimasero uccisi 32 militari tedeschi e 110 rimasero feriti, oltre a 2 vittime civili. Dei feriti, uno morì poco dopo il ricovero, mentre era in corso la preparazione della rappresaglia, che fu dunque calcolata in base a 33 vittime germaniche. Nei giorni seguenti morirono altri 9 militari feriti portando così a 42 il totale. Immediatamente dopo la cessazione dei combattimenti in via Rasella, i superstiti del SS Polizei Bozen iniziarono a rastrellare la popolazione della zona circostante, arrestando abitanti e passanti, raccogliendoli nel cortile del vicino Palazzo Barberini e quindi trasferendoli direttamente alle Fosse Ar-
deatine, assieme a un altro consistente numero di prigionieri forniti dal direttore delle carceri di Roma (poi linciato dalla popolazione durante il processo al questore di Roma). Il massacro dei rastrellati e dei prigionieri venne qualificato dalle truppe di occupazione naziste come atto di “rappresaglia” calcolata con la percentuale di 10 civili per ogni militare ucciso. Difendendosi dall’accusa dell’eccidio Kappler affermò di avere diramato un comunicato con il quale aveva intimato ai responsabili dell’attacco di consegnarsi per evitare il massacro dei civili, avendo dato un termine di 24 ore. Di questo avviso non è mai stata data prova mentre è certo e provato che il massacro delle Fosse Ardeatine venne compiuto esattamente 21 ore dopo l’attacco di via Rasella, di nascosto e con la tecnica dell’occultamento immediato delle vittime che vennero sepolte collettivamente con l’esplosione delle volte della cava di tufo. La ferocia del massacro delle Fosse Ardeatine, una volta scoperto, ha giustificato nel tempo numerosi tentativi di addossare ai partigiani la responsabilità di un “legittimo atto di reazione” da parte delle truppe di occupazione naziste, cercando di de-qualificare l’azione partigiana come atto di terrorismo. La Cassazione si è numerose volte espressa sul punto sempre affermando la natura dell’attacco di via Rasella come atto di lotta partigiana “considerata dalla legislazione italiana quale legittima attività di guerra” (Sentenza n. 3053 del 19 luglio 1957, le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione). I GAP romani erano dunque combattenti di una guerra di liberazione “asimmetrica” contro truppe di occupazione straniere sostenute dai traditori fascisti e agevolate dalla vigliacca fuga del re e della sua corte. La rappresaglia delle truppe di occupazione naziste era indubbiamente un atto di terrorismo.
“La vecchia credeva che fossero mortaretti e cominciò a battere le mani festosa. Rideva. Per una frazione di secondo continuò a ridere, allegra, dentro di sé, ma il suo sorriso si era già rattrappito in un ghigno di terrore. Un mulo cadde con il ventre all'aria. A una bambina, all’improvviso, la piccola mascella si arrossò di sangue. La polvere si levava a spruzzi come se il vento avesse preso a danzare. C'era gente che cadeva, in silenzio, e non si alzava più. Altri scappavano urlando, come impazziti. E scappavano, in preda al terrore, i cavalli, travolgendo uomini, donne, bambini. Poi si udì qualcosa che fischiava contro i massi. Qualcosa che strideva e fischiava. E ancora quel rumore di mortaretti. Un bambino cadde colpito alla spalla. Una donna, con il petto squarciato, era finita esanime sulla carcassa della sua cavalla sventrata. Il corpo di un uomo, dalla testa maciullata cadde al suolo con il rumore di un sacco pieno di stracci. E poi quell'odore di polvere da sparo. La carneficina durò in tutto un paio di minuti. Alla fine la mitragliatrice tacque e un silenzio carico di paura piombò sulla piccola vallata. In lontananza il fiume Jato riprese a far udire il suo suono liquido e leggero. E le due alture gialle di ginestre, la Pizzuta e la Cumeta, apparvero tra la polvere come angeli custodi silenti e smarriti. Era il l° maggio 1947 e a Portella della Ginestra si era appena compiuta la prima strage dell'Italia repubblicana” Il 1º maggio 1947, nell'immediato dopoguerra, si tornava a festeggiare la festa dei lavoratori, spostata al 21 aprile durante il regime fascista. Circa duemila lavoratori della zona di Piana degli Albanesi, in prevalenza contadini, si riunirono nella vallata di Portella della Ginestra per manifestare contro il latifondismo, a favore dell'occupazione delle terre incolte, e per festeggiare la vittoria del Blocco del Popolo nelle recenti elezioni per l'Assemblea Regionale Siciliana, svoltesi il 20 aprile di quell'anno e nelle quali la coalizione PSI PCI aveva conquistato 29 rappresentanti (con il 29% circa dei voti) contro i soli 21 della DC (crollata al 20% circa). Sulla gente in festa partirono dalle colline circostanti numerose raffiche di mitra che lasciarono
sul terreno, secondo le fonti ufficiali, 11 morti (9 adulti e 2 bambini) e 27 feriti, di cui alcuni morirono in seguito per le ferite riportate. La CGIL proclamò lo sciopero generale, accusando i latifondisti siciliani di voler “soffocare nel sangue le organizzazioni dei lavoratori”. Solo quattro mesi dopo si seppe che a sparare materialmente erano stati gli uomini del bandito separatista Salvatore Giuliano, colonnello del E.V.I.S.. Il rapporto dei carabinieri sulla strage faceva chiaramente riferimento a "elementi reazionari in combutta con i mafiosi locali". Nel 1949 Giuliano scrisse una lettera ai giornali, in cui affermava lo scopo politico della strage. Questa tesi fu smentita dall'allora ministro degli Interni Mario Scelba. Nel 1950, il bandito Giuliano fu as-
sassinato dal suo luogotenente Gaspare Pisciotta, il quale morì avvelenato in carcere quattro anni più tardi, dopo aver affermato di voler rivelare i nomi dei mandanti della strage. Attualmente vi sono forti dubbi sul fatto che Pisciotta fosse l'autore dell'omicidio. Sul movente dell'eccidio furono formulate alcune ipotesi già all'indomani della tragedia. Il 2 maggio 1947 il ministro Scelba intervenne all'Assemblea Costituente, affermando che dietro all'episodio non vi era alcuna finalità politica o terroristica, ma che doveva essere considerato un fatto circoscritto e identificò in Salvatore Giuliano e nella sua banda gli unici responsabili. Il processo del 1951, dapprima istruito a Palermo, poi spostato a Viterbo per legittima suspicione, si
concluse con la conferma di questa tesi, con il riconoscimento della colpevolezza di Salvatore Giuliano (morto il 5 luglio 1950, ufficialmente per mano del capitano Antonio Perenze) e con la condanna all'ergastolo di Gaspare Pisciotta e di altri componenti la banda. Pisciotta durante il processo, oltre ad attribuirsi l'assassinio di Giuliano, lanciò pesanti accuse sui presunti mandanti politici della strage: “Coloro che ci avevano fatto le promesse si chiamavano così: L'onorevole deputato democristiano on. Bernardo Mattarella, l'onorevole deputato regionale Giacomo Cusumano Geloso, il principe Giovanni Alliata di Montereale, l'onorevole monarchico Tommaso Leone Marchesano e anche il signor Scelba… Furono Marchesano, il principe Alliata,
7 luglio 1960, Strage di Reggio Emilia La strage fu l'apice di un periodo di alta tensione in tutta l'Italia, in cui avvennero scontri con la polizia. I fatti scatenanti furono la formazione del governo Tambroni, monocolore democristiano con il determinante appoggio esterno del MSI, e l'avallo della scelta di Genova (città "partigiana", già medaglia d'oro della Resistenza) come sede del congresso del partito missino. Le reazioni d'indignazione furono molteplici e la tensione in tutto il paese provocò una grande mobilitazione popolare. L'allora Presidente del Consiglio, Fernando Tambroni, diede libertà di aprire il fuoco in "situazioni di emergenza" ed alla fine di quelle settimane drammatiche si contarono undici morti e
centinaia di feriti. Queste drammatiche conseguenze avrebbero costretto alle dimissioni il governo Tambroni. La sera del 6 luglio la CGIL reggiana proclamò lo sciopero cittadino di protesta contro le violenze dei giorni precedenti. La prefettura proibì gli assembramenti nei luoghi pubblici e concesse unicamente i 600 posti della Sala Verdi per lo svolgimento del comizio. L'indomani il corteo di protesta era composto da circa 20.000 manifestanti. Un gruppo di circa 300 operai delle Officine Meccaniche Reggiane decise quindi di raccogliersi davanti al monumento ai Caduti, cantando canzoni di protesta. Alle 16.45 del pomeriggio una carica di un reparto di 350 poli-
ziotti, al comando del vicequestore Giulio Cafari Panico, investì la manifestazione pacifica. Anche i carabinieri, al comando del tenente colonnello Giudici, partecipano alla carica. Incalzati dalle camionette, dai getti d'acqua e dai lacrimogeni, i manifestanti cercarono rifugio nel vicino isolato San Rocco, per poi barricarsi letteralmente dietro ogni sorta di oggetto trovato, seggiole, assi di legno, tavoli dei bar e rispondendo alle cariche con lancio di oggetti. Respinte dalla disperata resistenza dei manifestanti, le forze dell'ordine impugnarono le armi da fuoco e cominciarono a sparare. Sul selciato della piazza caddero: Lauro Farioli (1938), operaio di 22 anni, orfano di padre, spo-
sato e padre di un bambino; Ovidio Franchi (1941), operaio di 19 anni, il più giovane dei caduti; Marino Serri (1919), pastore di 41 anni, partigiano della 76a, primo di sei fratelli; Afro Tondelli (1924), operaio di 36 anni, partigiano della 76a SAP, è il quinto di otto fratelli; Emilio Reverberi (1921), operaio di 39 anni, partigiano nella 144a Brigata Garibaldi era commissario politico nel distaccamento "G. Amendola". Furono sparati 182 colpi di mitra , 14 di moschetto e 39 di pistola , una guardia di PS dichiarò di aver perduto 7 colpi di pistola. Sedici furono i feriti "ufficiali", ovvero quelli portati in ospedale perché ritenuti in pericolo di vita, ma molti altri preferirono curarsi "clandesti-
l'onorevole Mattarella a ordinare la strage di Portella… Dopo le elezioni del 18 aprile 1948, Giuliano mi ha mandato a chiamare e ci siamo incontrati con Mattarella e Cusumano; l'incontro tra noi e i due mandanti è avvenuto in contrada Parrini, dove Giuliano ha chiesto che le promesse fatte prima del 18 aprile fossero mantenute. I due tornarono allora da Roma e ci hanno fatto sapere che Scelba non era d'accordo con loro, che egli non voleva avere contatti con i banditi.” Una tesi più recente attribuisce invece la strage a una coincidenza di interessi tra i post-fascisti che durante la guerra avevano combattuto nella Xª Flottiglia MAS di Junio Valerio Borghese, i servizi segreti USA (preoccupati dell'avanzata comunista in Italia) e i latifondisti siciliani.
namente", allo scopo di non farsi identificare. I fatti furono cantati in una celebre canzone di Fausto Amodei, dal titolo Per i morti di Reggio Emilia e, più recentemente, alla base del romanzo di Paolo Nori del 2006 Noi la farem vendetta. In seguito ai fatti di Reggio Emilia in data 29 novembre 1962 la Sezione Istruttoria della Corte d'appello di Bologna rinviava a Giudizio il vicequestore Giulio Cafari Panico per omicidio colposo plurimo e l'agente Orlando Celani per omicidio. Il dibattimento venne celebrato avanti la Corte d'Assise di Milano e non a Reggio Emilia; Il vice-questore fu assolto con formula piena, per non aver commesso il fatto, mentre l'agente venne assolto con formula dubitativa.
Il processo che doveva far luce sulla morte di Giuseppe Pinelli si è arrestato davanti alla bara del ferroviere ucciso senza colpa. Chi porta la responsabilità della sua fine, Luigi Calabresi, ha trovato nella legge la possibilità di ricusare il suo giudice. Chi doveva celebrare il giudizio, Carlo Biotti, lo ha inquinato con i meschini calcoli di un carrierismo senile. Chi aveva indossato la toga del patrocinio legale, Michele Lener, vi ha nascosto le trame di una odiosa coercizione. Oggi come ieri - quando denunciammo apertamente l'arbitrio calunnioso di un questore, Michele Guida[9], e l'indegna copertura concessagli dalla Procura della Repubblica, nelle persone di Giovanni Caizzi e Carlo Amati - il nostro sdegno è di chi sente spegnersi la fiducia in una giustizia che non è più tale quando non può riconoscersi in essa la coscienza dei cittadini. Per questo, per non rinunciare a tale fiducia senza la quale morrebbe ogni possibilità di convivenza civile, noi formuliamo a nostra volta un atto di ricusazione. Una ricusazione di coscienza - che non ha minor legittimità di quella di diritto - rivolta ai commissari torturatori, ai magistrati persecutori, ai giudici indegni. Noi chiediamo l'allontanamento dai loro uffici di coloro che abbiamo nominato, in quanto ricusiamo di riconoscere in loro qualsiasi rappresentanza della legge, dello Stato, dei cittadini 13 giugno 1971 Seguono 757 firme Il 12 dicembre 1969 una bomba scoppia nei locali della Banca dell’Agricoltura in Piazza Fontana a Milano causando la morte di 17 persone e il ferimento di altre 88. Poco dopo una seconda bomba inesplosa verrà rinvenuta nella sede della Banca Commerciale in Piazza della Scala sempre a Milano, mentre una terza esploderà invece a Roma nel sotterraneo della Banca Nazionale del Lavoro di via Veneto ferendo 13 persone, una quarta sempre a Roma esploderà davanti all’Altare della Patria e una quinta all’ingresso del Museo del Risorgimento in Piazza Venezia a Roma ferendo quattro persone. E’ l’inizio della “strategia della tensione” che in pochi anni collezionerà ben 144 attentati, alcuni con conseguenze enormi come la strage del 2 agosto 1980 alla Stazione di Bologna che causò la morte di 85 persone e il ferimento di oltre 200. Sono le “stragi di Stato”, quelle che non hanno mai avuto colpevoli, ma che avevano un preciso obiettivo che, almeno in parte, hanno realizzato, fermare la crescita democratica del nostro Paese, la spinta rivoluzionaria del ’68, la crescita del Partito Comunista e del suo sindacato operaio; forse anche preparare un colpo di Stato fascista con la connivenza di una “certa” presidenza della Repubblica e l’avvallo e il sostegno se non la vera e propria istigazione degli Stati Uniti, colpo di Stato abortito nel grottesco tentativo di Junio Valerio Borghese dell’8 dicembre 1970. Per la strage di Piazza Fontana tuttavia non vi furono dubbi per la questura di Milano: i colpevoli erano gli anarchici, uno in particolare che il Commissario Luigi Calabresi a capo dell’Ufficio Politico ben conosceva personalmente: il ferroviere Giuseppe Pinelli. Pinelli venne arrestato e portato alla Questura di Milano con altri anarchici il giorno successivo alla strage, il 13 dicembre 1969. Alle ore 24 di quella stessa notte il suo copro cadde giù dal quarto piano schiantandosi sul selciato del cortile; all’arrivo dell’ambulanza, che risultò essere stata chiamata alcuni minuti
prima della “caduta”, era ancora vivo ma morì durante il trasporto all’ospedale. Solo pochi anni di indagini giudiziarie e nel 1975 i responsabili della morte di Pinelli vennero tutti assolti: “mentre era sotto interrogatorio nella stanza del Commissario Calabresi, Pinelli, vistosi perduto, al grido ‘l’anarchia è morta’ si divincolò dalla stretta degli agenti e si lanciò dalla finestra casualmente aperta”. Pinelli era innocente e questo è un dato accertato indiscutibilmente, così come lo erano tutti i suoi compagni anarchici lungamente perseguitati, detenuti e pestati anche se, fortunatamente, almeno loro rimasti vivi. Per denunziare questa vergogna e questa gravissima offesa alla legalità e alla dignità dello Stato democratico 757 politici, sindacalisti, intellettuali, artisti e lavoratori d’ogni mestiere e professione firmarono già nel 1971 la denuncia pubblica sopra trascritta. Non servì sostanzialmente a nulla, le stragi continuarono e continuarono i depistaggi, le confusioni, in una parola il “terrore”; sino al livello politicamente più elevato, sino alla strage di via Fani e all’esecuzione di Aldo Moro. Tre anni dopo l’uccisione di Giuseppe Pinelli un commando, che la giustizia ha accertato essere stato ispirato da alcuni dirigenti storici di Lotta Continua, anche se gli stessi hanno sempre negato, uccise il Commissario Luigi Calabresi. Dell’assassinio di Giuseppe Pinelli s’è completamente persa la memoria, di quello del Commissario Calabresi ancora ripetutamente se ne parla con toni da martirio, sino alla proposta, lungamente coltivata da alcune frange cattoliche, della sua beatificazione. Ora è assolutamente fuori discussione che nessuno può arrogarsi il diritto di disporre della vita altrui, chiunque sia questo “altrui” e qualsiasi cosa abbia commesso o di qualsiasi più tremenda infamia si sia macchiato. Per i comunisti, che non credono in una seconda vita, che non credono che ci sia un essere immaginario che può dare e togliere la vita a suo piacimento,
la vita è il bene più grande che un essere umano può possedere, è il bene per eccellenza, nessuno dunque ne può disporre se non il suo proprietario. Chi ha ucciso il Commissario Calabresi, chiun que esso sia ed è forte il dubbio che siano realmente stati gli attuali condannati, merita comunque il massimo del dissenso. Tuttavia non può essere dimenticato che il Commissario Luigi Calabresi era il responsabile, l’autore, forse materiale certamente solidale, dell’omicidio di un cittadino italiano affidato alle sue funzioni di tutore della incolumità pubblica, e non rileva neppure precisare che lo stesso fosse manifestamente innocente; Giuseppe Pinelli era un cittadino nelle mani dello Stato e lo Stato lo ha ucciso e poi ha coperto le proprie responsabilità abusando del proprio potere. In uno Stato diverso, in uno Stato di giustizia e legalità il Commissario Luigi Calabresi sarebbe stato condannato a una lunga, lunghissima detenzione per avere ucciso, con l’aggravante massima delle sue specifiche funzioni, un cittadino italiano, un essere umano. Con l’invito a voler comprendere correttamente i termini che ora verranno usati, deve essere affermato che “è sicuramente grave se un mafioso uccide un magistrato, ma è enormemente più grave se è un magistrato a uccide un mafioso”, perché in questo caso si mettono in discussione le fondamenta stesse dello Stato di diritto e si mina non solo la fiducia, ma lo stesso rispetto dei cittadini verso le proprie istituzioni. E anche questo, anzi forse soprattutto la perdita di fiducia nelle istituzioni è “terrore” e indurla è “terrorismo”.
III
Guerre “asimmetriche” e terrorismo
Giuseppe Pinelli
ferroviere anarchico innocente, ucciso nei locali della questura di Milano
L'Fbi definisce il terrorismo come “atti violenti... miranti a intimidire o a coartare la popolazione civile, a influenzare la politica di un governo, o a interferire nella condotta di un governo”. Chi è il “terrorista”, chi invade o chi resiste? da un articolo di Sergio Romano pubblicato sul Corriere della sera del 5 febbraio 2009
“Come lei sa, la definizione di terrorismo è un difficile esercizio a cui sono stati dedicati studi importanti e dibattiti interminabili, soprattutto alle Nazioni Unite. Personalmente uso quella che mette l'accento sulla clandestinità dell'organizzazione, la segretezza e l'imprevedibilità dell'attentato e, come nel caso del terrorismo religioso, l'uso della vita dell'attentatore come arma suprema. Nella guerra dei missili contro i territori israeliani queste caratteristiche non sono presenti. Le milizie di Hamas non sono una organizzazione segreta e ne hanno dato la prova, tra l'altro, combattendo contro le forze armate israeliane durante le scorse settimane. Si spostano rapidamente dopo il lancio del missile e cercano di
sfuggire alla rappresaglia. Ma questo è uno stile di combattimento comune a tutti i corpi speciali (arditi, commando, incursionisti, raiders, Seals) creati dalle forze armate di molti Stati nel corso del Novecento. Qualcuno potrebbe osservare, tuttavia, che i missili colpiscono centri abitati e sono diretti contro la popolazione civile. È vero. Ma l'uso della popolazione civile come obiettivo militare non è una novità introdotta dai movimenti dell'islamismo radicale. Il fenomeno comincia con i primi bombardamenti della Grande guerra. Assume proporzioni maggiori durante la guerra cino-giapponese e la guerra civile spagnola. Diventa una componente fondamentale della strategia dei Paesi combattenti durante la Seconda guerra mondiale. I bombardamenti tedeschi di Coventry, le V1 e le V2
lanciate su Londra, le bombe americane su Milano e Roma nel 1943, i bombardamenti anglo-americani di Dresda e di Amburgo, le bombe atomiche lanciate dagli Stati Uniti su Hiroshima e Nagasaki, non si proponevano la distruzione di un obiettivo militare. Il loro bersaglio era il «morale», vale a dire quel valore intangibile da cui dipende in ultima analisi la capacità di combattere e di resistere. Si colpiscono i civili, in altre parole, per piegare la loro volontà o, meglio ancora, aizzarli contro il loro governo. Se usiamo questo criterio, tra l'assedio israeliano di Gaza e i missili di Hamas contro Sderot e altre città esistono meno differenze di quanto non appaia a prima vista. Lo scopo, in ambedue i casi, è quello di attaccare il «fronte interno» del nemico e creare alle sue spalle un diffuso senti-
mento di rabbia e paura. Gli israeliani assediavano Gaza nella speranza di spingere il suo popolo alla rivolta. Hamas bombardava Sderot nella speranza di provocare Israele. E ha raggiunto il suo obiettivo. Aggiungo un'altra considerazione. Quella di Israele contro Hamas è una guerra doppiamente asimmetrica. È tale, anzitutto, perché i due combattenti hanno arsenali totalmente diversi e il piccolo non può permettersi di giocare la parte con le regole rese possibili da armi di cui non dispone. Ed è asimmetrica, in secondo luogo, perché Israele non riconosce all'organizzazione palestinese lo statuto di combattente legittimo. Quando è considerato brigante il nemico tende inevitabilmente a comportarsi come tale. Ma non è necessariamente un terrorista.”
Attacco di via Rasella ed eccidio delle Fosse Ardeatine: un atto di guerra e una reazione di terrorismo
II
Il 23 marzo 1944 in via Rasella a Roma alcuni partigiani dei Gruppi di Azione Patriottica (GAP) attaccarono un reparto delle truppe di occupazione tedesche. Tale azione si svolse nell'ambito della lotta di liberazione nazionale condotta contro il nazifascismo. L'attacco fu sferrato contro un reparto di polizia militare tedesca incorporato nel comando delle SS. Seguì l'efferata rappresaglia consumata alle Fosse Ardeatine con l’eccidio di 335 civili italiani. L'attacco di via Rasella e l'eccidio delle fosse Ardeatine, sono due degli episodi più drammatici e sanguinosi dell'occupazione tedesca di Roma. Con l'armistizio dell'8 settembre 1943 e la fuga del re e del governo, Roma divenne teatro di una battaglia contro i tedeschi nel corso della quale caddero 1.167 militari e oltre 120 civili italiani. Pesanti perdite soffrirono anche ai tedeschi, che però si impadronirono in breve della capitale. Roma passò nominalmente sotto il governo della Repubblica Sociale Italiana, ma di fatto era nelle mani delle autorità militari tedesche. I tedeschi, consapevoli del valore politico di Roma, con la presenza del Vaticano, tentarono di far fruttare propagandisticamente la dichiarazione di "città aperta" emessa da governo Badoglio, mantenendo all'interno della cerchia cittadina reparti di polizia militare SS-Polizei, nonché truppe di comando e servizi. Lo sbarco di Anzio cambiò il quadro tattico e il 22 gennaio 1944, l'intera provincia di Roma fu dichiarata "zona di operazioni" e capo della Gestapo di Roma, gestore dell'ordine pubblico, divenne l'ufficiale delle SS Herbert Kappler. Kappler pianificò frequenti rastrellamenti, arrestò numerosi sospetti antifascisti, organizzò in Via Tasso un centro di detenzione e tortura, creò nella città un clima di terrore, più volte violando le extraterritorialità vaticane in cui avevano trovato ospitalità centinaia di esponenti dell'antifasci-
smo ed ebrei. Nonostante ciò i GAP, formati per la maggior parte da partigiani del partito comunista, attaccarono i tedeschi numerose volte continuando la guerra parallela e coordinata con lo sforzo alleato. Toccò quindi a Giorgio Amendola, rappresentante del Partito Comunista Italiano presso la giunta militare del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), organizzare l'azione partigiana. La data dell’attacco, il 23 marzo 1944, fu scelta non casualmente per farla coincidere con il XXV anni-
versario della fondazione dei Fasci Italiani di Combattimento, e avrebbe dovuto svolgersi con due azioni contemporanee: un attacco al teatro Adriano in Piazza Cavour dove i fascisti avevano programmato la commemorazione dell’anniversario e uno contro una formazione militare tedesca. Il primo attacco venne annullato perché i tedeschi non consentirono la manifestazione fascista e l’azione dei GAP si concentro sull’attacco al reparto di polizia delle SS denominato SS Polizei Regiment Bozen, composto da 156 uomini altoatesini/sudtirolesi arruolati nella polizia in seguito all'occupazione tedesca dopo il 1º ottobre 1943 delle province di Bolzano, Trento e Belluno, fondamentalmente impiegati nella guerra anti-partigiana, nella cac-
cia agli ebrei, agli antifascisti, ai renitenti alla leva militare e del lavoro, ecc.; alla fine della guerra molti di loro furono processati e condannati da tribunali militari Alleati per aver compiuto crimini di guerra. Numerosi partigiani partecipato all'azione che si svolse dapprima con l’esplosione di un ordigno collocato all’interno di un carrettino della nettezza urbana e, quindi, con pistole e bombe a mano contro i superstiti dell’esplosione. L’azione venne diretta da Franco Calamandrei (detto Cola) e Car-
lo Salinari (detto Spartaco), ad innescare l’esplosivo fu Rosario Bencivenga (detto Paolo). Nell'immediatezza dell'attacco rimasero uccisi 32 militari tedeschi e 110 rimasero feriti, oltre a 2 vittime civili. Dei feriti, uno morì poco dopo il ricovero, mentre era in corso la preparazione della rappresaglia, che fu dunque calcolata in base a 33 vittime germaniche. Nei giorni seguenti morirono altri 9 militari feriti portando così a 42 il totale. Immediatamente dopo la cessazione dei combattimenti in via Rasella, i superstiti del SS Polizei Bozen iniziarono a rastrellare la popolazione della zona circostante, arrestando abitanti e passanti, raccogliendoli nel cortile del vicino Palazzo Barberini e quindi trasferendoli direttamente alle Fosse Ar-
deatine, assieme a un altro consistente numero di prigionieri forniti dal direttore delle carceri di Roma (poi linciato dalla popolazione durante il processo al questore di Roma). Il massacro dei rastrellati e dei prigionieri venne qualificato dalle truppe di occupazione naziste come atto di “rappresaglia” calcolata con la percentuale di 10 civili per ogni militare ucciso. Difendendosi dall’accusa dell’eccidio Kappler affermò di avere diramato un comunicato con il quale aveva intimato ai responsabili dell’attacco di consegnarsi per evitare il massacro dei civili, avendo dato un termine di 24 ore. Di questo avviso non è mai stata data prova mentre è certo e provato che il massacro delle Fosse Ardeatine venne compiuto esattamente 21 ore dopo l’attacco di via Rasella, di nascosto e con la tecnica dell’occultamento immediato delle vittime che vennero sepolte collettivamente con l’esplosione delle volte della cava di tufo. La ferocia del massacro delle Fosse Ardeatine, una volta scoperto, ha giustificato nel tempo numerosi tentativi di addossare ai partigiani la responsabilità di un “legittimo atto di reazione” da parte delle truppe di occupazione naziste, cercando di de-qualificare l’azione partigiana come atto di terrorismo. La Cassazione si è numerose volte espressa sul punto sempre affermando la natura dell’attacco di via Rasella come atto di lotta partigiana “considerata dalla legislazione italiana quale legittima attività di guerra” (Sentenza n. 3053 del 19 luglio 1957, le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione). I GAP romani erano dunque combattenti di una guerra di liberazione “asimmetrica” contro truppe di occupazione straniere sostenute dai traditori fascisti e agevolate dalla vigliacca fuga del re e della sua corte. La rappresaglia delle truppe di occupazione naziste era indubbiamente un atto di terrorismo.
“La vecchia credeva che fossero mortaretti e cominciò a battere le mani festosa. Rideva. Per una frazione di secondo continuò a ridere, allegra, dentro di sé, ma il suo sorriso si era già rattrappito in un ghigno di terrore. Un mulo cadde con il ventre all'aria. A una bambina, all’improvviso, la piccola mascella si arrossò di sangue. La polvere si levava a spruzzi come se il vento avesse preso a danzare. C'era gente che cadeva, in silenzio, e non si alzava più. Altri scappavano urlando, come impazziti. E scappavano, in preda al terrore, i cavalli, travolgendo uomini, donne, bambini. Poi si udì qualcosa che fischiava contro i massi. Qualcosa che strideva e fischiava. E ancora quel rumore di mortaretti. Un bambino cadde colpito alla spalla. Una donna, con il petto squarciato, era finita esanime sulla carcassa della sua cavalla sventrata. Il corpo di un uomo, dalla testa maciullata cadde al suolo con il rumore di un sacco pieno di stracci. E poi quell'odore di polvere da sparo. La carneficina durò in tutto un paio di minuti. Alla fine la mitragliatrice tacque e un silenzio carico di paura piombò sulla piccola vallata. In lontananza il fiume Jato riprese a far udire il suo suono liquido e leggero. E le due alture gialle di ginestre, la Pizzuta e la Cumeta, apparvero tra la polvere come angeli custodi silenti e smarriti. Era il l° maggio 1947 e a Portella della Ginestra si era appena compiuta la prima strage dell'Italia repubblicana” Il 1º maggio 1947, nell'immediato dopoguerra, si tornava a festeggiare la festa dei lavoratori, spostata al 21 aprile durante il regime fascista. Circa duemila lavoratori della zona di Piana degli Albanesi, in prevalenza contadini, si riunirono nella vallata di Portella della Ginestra per manifestare contro il latifondismo, a favore dell'occupazione delle terre incolte, e per festeggiare la vittoria del Blocco del Popolo nelle recenti elezioni per l'Assemblea Regionale Siciliana, svoltesi il 20 aprile di quell'anno e nelle quali la coalizione PSI PCI aveva conquistato 29 rappresentanti (con il 29% circa dei voti) contro i soli 21 della DC (crollata al 20% circa). Sulla gente in festa partirono dalle colline circostanti numerose raffiche di mitra che lasciarono
sul terreno, secondo le fonti ufficiali, 11 morti (9 adulti e 2 bambini) e 27 feriti, di cui alcuni morirono in seguito per le ferite riportate. La CGIL proclamò lo sciopero generale, accusando i latifondisti siciliani di voler “soffocare nel sangue le organizzazioni dei lavoratori”. Solo quattro mesi dopo si seppe che a sparare materialmente erano stati gli uomini del bandito separatista Salvatore Giuliano, colonnello del E.V.I.S.. Il rapporto dei carabinieri sulla strage faceva chiaramente riferimento a "elementi reazionari in combutta con i mafiosi locali". Nel 1949 Giuliano scrisse una lettera ai giornali, in cui affermava lo scopo politico della strage. Questa tesi fu smentita dall'allora ministro degli Interni Mario Scelba. Nel 1950, il bandito Giuliano fu as-
sassinato dal suo luogotenente Gaspare Pisciotta, il quale morì avvelenato in carcere quattro anni più tardi, dopo aver affermato di voler rivelare i nomi dei mandanti della strage. Attualmente vi sono forti dubbi sul fatto che Pisciotta fosse l'autore dell'omicidio. Sul movente dell'eccidio furono formulate alcune ipotesi già all'indomani della tragedia. Il 2 maggio 1947 il ministro Scelba intervenne all'Assemblea Costituente, affermando che dietro all'episodio non vi era alcuna finalità politica o terroristica, ma che doveva essere considerato un fatto circoscritto e identificò in Salvatore Giuliano e nella sua banda gli unici responsabili. Il processo del 1951, dapprima istruito a Palermo, poi spostato a Viterbo per legittima suspicione, si
concluse con la conferma di questa tesi, con il riconoscimento della colpevolezza di Salvatore Giuliano (morto il 5 luglio 1950, ufficialmente per mano del capitano Antonio Perenze) e con la condanna all'ergastolo di Gaspare Pisciotta e di altri componenti la banda. Pisciotta durante il processo, oltre ad attribuirsi l'assassinio di Giuliano, lanciò pesanti accuse sui presunti mandanti politici della strage: “Coloro che ci avevano fatto le promesse si chiamavano così: L'onorevole deputato democristiano on. Bernardo Mattarella, l'onorevole deputato regionale Giacomo Cusumano Geloso, il principe Giovanni Alliata di Montereale, l'onorevole monarchico Tommaso Leone Marchesano e anche il signor Scelba… Furono Marchesano, il principe Alliata,
7 luglio 1960, Strage di Reggio Emilia La strage fu l'apice di un periodo di alta tensione in tutta l'Italia, in cui avvennero scontri con la polizia. I fatti scatenanti furono la formazione del governo Tambroni, monocolore democristiano con il determinante appoggio esterno del MSI, e l'avallo della scelta di Genova (città "partigiana", già medaglia d'oro della Resistenza) come sede del congresso del partito missino. Le reazioni d'indignazione furono molteplici e la tensione in tutto il paese provocò una grande mobilitazione popolare. L'allora Presidente del Consiglio, Fernando Tambroni, diede libertà di aprire il fuoco in "situazioni di emergenza" ed alla fine di quelle settimane drammatiche si contarono undici morti e
centinaia di feriti. Queste drammatiche conseguenze avrebbero costretto alle dimissioni il governo Tambroni. La sera del 6 luglio la CGIL reggiana proclamò lo sciopero cittadino di protesta contro le violenze dei giorni precedenti. La prefettura proibì gli assembramenti nei luoghi pubblici e concesse unicamente i 600 posti della Sala Verdi per lo svolgimento del comizio. L'indomani il corteo di protesta era composto da circa 20.000 manifestanti. Un gruppo di circa 300 operai delle Officine Meccaniche Reggiane decise quindi di raccogliersi davanti al monumento ai Caduti, cantando canzoni di protesta. Alle 16.45 del pomeriggio una carica di un reparto di 350 poli-
ziotti, al comando del vicequestore Giulio Cafari Panico, investì la manifestazione pacifica. Anche i carabinieri, al comando del tenente colonnello Giudici, partecipano alla carica. Incalzati dalle camionette, dai getti d'acqua e dai lacrimogeni, i manifestanti cercarono rifugio nel vicino isolato San Rocco, per poi barricarsi letteralmente dietro ogni sorta di oggetto trovato, seggiole, assi di legno, tavoli dei bar e rispondendo alle cariche con lancio di oggetti. Respinte dalla disperata resistenza dei manifestanti, le forze dell'ordine impugnarono le armi da fuoco e cominciarono a sparare. Sul selciato della piazza caddero: Lauro Farioli (1938), operaio di 22 anni, orfano di padre, spo-
sato e padre di un bambino; Ovidio Franchi (1941), operaio di 19 anni, il più giovane dei caduti; Marino Serri (1919), pastore di 41 anni, partigiano della 76a, primo di sei fratelli; Afro Tondelli (1924), operaio di 36 anni, partigiano della 76a SAP, è il quinto di otto fratelli; Emilio Reverberi (1921), operaio di 39 anni, partigiano nella 144a Brigata Garibaldi era commissario politico nel distaccamento "G. Amendola". Furono sparati 182 colpi di mitra , 14 di moschetto e 39 di pistola , una guardia di PS dichiarò di aver perduto 7 colpi di pistola. Sedici furono i feriti "ufficiali", ovvero quelli portati in ospedale perché ritenuti in pericolo di vita, ma molti altri preferirono curarsi "clandesti-
l'onorevole Mattarella a ordinare la strage di Portella… Dopo le elezioni del 18 aprile 1948, Giuliano mi ha mandato a chiamare e ci siamo incontrati con Mattarella e Cusumano; l'incontro tra noi e i due mandanti è avvenuto in contrada Parrini, dove Giuliano ha chiesto che le promesse fatte prima del 18 aprile fossero mantenute. I due tornarono allora da Roma e ci hanno fatto sapere che Scelba non era d'accordo con loro, che egli non voleva avere contatti con i banditi.” Una tesi più recente attribuisce invece la strage a una coincidenza di interessi tra i post-fascisti che durante la guerra avevano combattuto nella Xª Flottiglia MAS di Junio Valerio Borghese, i servizi segreti USA (preoccupati dell'avanzata comunista in Italia) e i latifondisti siciliani.
namente", allo scopo di non farsi identificare. I fatti furono cantati in una celebre canzone di Fausto Amodei, dal titolo Per i morti di Reggio Emilia e, più recentemente, alla base del romanzo di Paolo Nori del 2006 Noi la farem vendetta. In seguito ai fatti di Reggio Emilia in data 29 novembre 1962 la Sezione Istruttoria della Corte d'appello di Bologna rinviava a Giudizio il vicequestore Giulio Cafari Panico per omicidio colposo plurimo e l'agente Orlando Celani per omicidio. Il dibattimento venne celebrato avanti la Corte d'Assise di Milano e non a Reggio Emilia; Il vice-questore fu assolto con formula piena, per non aver commesso il fatto, mentre l'agente venne assolto con formula dubitativa.
Il processo che doveva far luce sulla morte di Giuseppe Pinelli si è arrestato davanti alla bara del ferroviere ucciso senza colpa. Chi porta la responsabilità della sua fine, Luigi Calabresi, ha trovato nella legge la possibilità di ricusare il suo giudice. Chi doveva celebrare il giudizio, Carlo Biotti, lo ha inquinato con i meschini calcoli di un carrierismo senile. Chi aveva indossato la toga del patrocinio legale, Michele Lener, vi ha nascosto le trame di una odiosa coercizione. Oggi come ieri - quando denunciammo apertamente l'arbitrio calunnioso di un questore, Michele Guida[9], e l'indegna copertura concessagli dalla Procura della Repubblica, nelle persone di Giovanni Caizzi e Carlo Amati - il nostro sdegno è di chi sente spegnersi la fiducia in una giustizia che non è più tale quando non può riconoscersi in essa la coscienza dei cittadini. Per questo, per non rinunciare a tale fiducia senza la quale morrebbe ogni possibilità di convivenza civile, noi formuliamo a nostra volta un atto di ricusazione. Una ricusazione di coscienza - che non ha minor legittimità di quella di diritto - rivolta ai commissari torturatori, ai magistrati persecutori, ai giudici indegni. Noi chiediamo l'allontanamento dai loro uffici di coloro che abbiamo nominato, in quanto ricusiamo di riconoscere in loro qualsiasi rappresentanza della legge, dello Stato, dei cittadini 13 giugno 1971 Seguono 757 firme Il 12 dicembre 1969 una bomba scoppia nei locali della Banca dell’Agricoltura in Piazza Fontana a Milano causando la morte di 17 persone e il ferimento di altre 88. Poco dopo una seconda bomba inesplosa verrà rinvenuta nella sede della Banca Commerciale in Piazza della Scala sempre a Milano, mentre una terza esploderà invece a Roma nel sotterraneo della Banca Nazionale del Lavoro di via Veneto ferendo 13 persone, una quarta sempre a Roma esploderà davanti all’Altare della Patria e una quinta all’ingresso del Museo del Risorgimento in Piazza Venezia a Roma ferendo quattro persone. E’ l’inizio della “strategia della tensione” che in pochi anni collezionerà ben 144 attentati, alcuni con conseguenze enormi come la strage del 2 agosto 1980 alla Stazione di Bologna che causò la morte di 85 persone e il ferimento di oltre 200. Sono le “stragi di Stato”, quelle che non hanno mai avuto colpevoli, ma che avevano un preciso obiettivo che, almeno in parte, hanno realizzato, fermare la crescita democratica del nostro Paese, la spinta rivoluzionaria del ’68, la crescita del Partito Comunista e del suo sindacato operaio; forse anche preparare un colpo di Stato fascista con la connivenza di una “certa” presidenza della Repubblica e l’avvallo e il sostegno se non la vera e propria istigazione degli Stati Uniti, colpo di Stato abortito nel grottesco tentativo di Junio Valerio Borghese dell’8 dicembre 1970. Per la strage di Piazza Fontana tuttavia non vi furono dubbi per la questura di Milano: i colpevoli erano gli anarchici, uno in particolare che il Commissario Luigi Calabresi a capo dell’Ufficio Politico ben conosceva personalmente: il ferroviere Giuseppe Pinelli. Pinelli venne arrestato e portato alla Questura di Milano con altri anarchici il giorno successivo alla strage, il 13 dicembre 1969. Alle ore 24 di quella stessa notte il suo copro cadde giù dal quarto piano schiantandosi sul selciato del cortile; all’arrivo dell’ambulanza, che risultò essere stata chiamata alcuni minuti
prima della “caduta”, era ancora vivo ma morì durante il trasporto all’ospedale. Solo pochi anni di indagini giudiziarie e nel 1975 i responsabili della morte di Pinelli vennero tutti assolti: “mentre era sotto interrogatorio nella stanza del Commissario Calabresi, Pinelli, vistosi perduto, al grido ‘l’anarchia è morta’ si divincolò dalla stretta degli agenti e si lanciò dalla finestra casualmente aperta”. Pinelli era innocente e questo è un dato accertato indiscutibilmente, così come lo erano tutti i suoi compagni anarchici lungamente perseguitati, detenuti e pestati anche se, fortunatamente, almeno loro rimasti vivi. Per denunziare questa vergogna e questa gravissima offesa alla legalità e alla dignità dello Stato democratico 757 politici, sindacalisti, intellettuali, artisti e lavoratori d’ogni mestiere e professione firmarono già nel 1971 la denuncia pubblica sopra trascritta. Non servì sostanzialmente a nulla, le stragi continuarono e continuarono i depistaggi, le confusioni, in una parola il “terrore”; sino al livello politicamente più elevato, sino alla strage di via Fani e all’esecuzione di Aldo Moro. Tre anni dopo l’uccisione di Giuseppe Pinelli un commando, che la giustizia ha accertato essere stato ispirato da alcuni dirigenti storici di Lotta Continua, anche se gli stessi hanno sempre negato, uccise il Commissario Luigi Calabresi. Dell’assassinio di Giuseppe Pinelli s’è completamente persa la memoria, di quello del Commissario Calabresi ancora ripetutamente se ne parla con toni da martirio, sino alla proposta, lungamente coltivata da alcune frange cattoliche, della sua beatificazione. Ora è assolutamente fuori discussione che nessuno può arrogarsi il diritto di disporre della vita altrui, chiunque sia questo “altrui” e qualsiasi cosa abbia commesso o di qualsiasi più tremenda infamia si sia macchiato. Per i comunisti, che non credono in una seconda vita, che non credono che ci sia un essere immaginario che può dare e togliere la vita a suo piacimento,
la vita è il bene più grande che un essere umano può possedere, è il bene per eccellenza, nessuno dunque ne può disporre se non il suo proprietario. Chi ha ucciso il Commissario Calabresi, chiun que esso sia ed è forte il dubbio che siano realmente stati gli attuali condannati, merita comunque il massimo del dissenso. Tuttavia non può essere dimenticato che il Commissario Luigi Calabresi era il responsabile, l’autore, forse materiale certamente solidale, dell’omicidio di un cittadino italiano affidato alle sue funzioni di tutore della incolumità pubblica, e non rileva neppure precisare che lo stesso fosse manifestamente innocente; Giuseppe Pinelli era un cittadino nelle mani dello Stato e lo Stato lo ha ucciso e poi ha coperto le proprie responsabilità abusando del proprio potere. In uno Stato diverso, in uno Stato di giustizia e legalità il Commissario Luigi Calabresi sarebbe stato condannato a una lunga, lunghissima detenzione per avere ucciso, con l’aggravante massima delle sue specifiche funzioni, un cittadino italiano, un essere umano. Con l’invito a voler comprendere correttamente i termini che ora verranno usati, deve essere affermato che “è sicuramente grave se un mafioso uccide un magistrato, ma è enormemente più grave se è un magistrato a uccide un mafioso”, perché in questo caso si mettono in discussione le fondamenta stesse dello Stato di diritto e si mina non solo la fiducia, ma lo stesso rispetto dei cittadini verso le proprie istituzioni. E anche questo, anzi forse soprattutto la perdita di fiducia nelle istituzioni è “terrore” e indurla è “terrorismo”.
III
Palestina, dove è nato il terrorismo “Se fossi nato in un campo profughi palestinese sarei certamente diventato un terrorista anch’io” (Giulio Andreotti)
IV
Il tema “Palestina” è un tema “enorme”, non solo perché coinvolge la storia, la vita e la stessa sopravvivenza di un intero popolo, ma anche perché è stato e sempre più sta mostrando di essere al centro di “giochi” geopolitici giganteschi e straordinariamente superiori al ruolo effettivamente svolto da quel popolo che dunque ne è, di fatto e nell’indifferenza generale, ostaggio e vittima. Il tema è troppo vasto e complesso per pretendere di trattarlo in queste poche righe, l’impegno è dunque di farne oggetto di un futuro inserto interamente dedicato per la cui preparazione invitiamo sin d’ora chiunque abbia conoscenze ed esperienze in materia a voler offrire il proprio contributo prendendo contatto con il nostro giornale. Non possiamo tuttavia non parlarne, almeno sommariamente e per un limitato aspetto, in un inserto dedicato al terrorismo, poiché proprio a quella storia e quell’area geopolitica è stata imputata l’origine, circa quaranta anni fa, del terrorismo internazionale, sulla cui falsa, distorta e strumentalizzata immagine è stata da alcuni decenni fondata la “morale” della politica delle guerre preventive del nuovo imperialismo americano e non solo. In verità storica, invece, il terrorismo non nasce affatto nelle e dalle vicende della diaspora, della repressione, della negazione della dignità del popolo palestinese, che ancora oggi conduce una lotta di liberazione intesa nella più tipica espressione storica delle lotte per l’emancipazione e l’autodeterminazione dei popoli oppressi. Nell’immediato secondo dopoguerra il nascente impero USA, sino ad allora confinato (si fa per dire) nel suo giardino di casa centro e sud americano, intuì l’importanza strategica, per il dominio dello stesso mondo occidentale, dell’area geopolitica del mediterraneo e del medio oriente petrolifero. E’ da questa intuizione che nasce l’idea della creazione dello Stato di Israele, cioè del posizionamento in quell’area strategica di una “enclave”, sostanzialmente di una “base”, di controllo nord americano. Per l’occorrenza vennero utilizzati i superstiti dell’olocausto, i più poveri e i più disperati ebrei in fuga da un mondo, tutto sia occidentale che orientale, che li rifiutava e alla prima occorrenza li decimava. Quanto agli “indigeni”, ai “nativi” per usare una espressione tanto cara alla cultura devastatrice nord americana, non c’era alcuna considerazione, anche perché, nello specifico dell’area geografica denominata “Palestina” (termine utilizzato per la prima volta dall’imperatore Adriano dopo avere soppresso i termini Israele e Giudea), la popolazione insediata era di etnia diversa da quella dei più grandi e storici paesi confinanti che, dunque, offrirono ben poco sostegno alla espulsione dei
“nativi” da parte dei nuovi immigrati. Avvenne così, negli anni ’50, la diaspora di un intero popolo che ancora non aveva conquistato la sua identità di nazione. I profughi si dispersero negli stati confinanti ove furono rinchiusi in disumani campi profughi, dietro la promessa, mai mantenuta, di un loro sicuro e imminente ritorno alla terra e alle case di origine. La stessa sorte di “concentramento” toccò comunque anche quelli che invece deci-
(ovviamente arabe, gli israeliani non avranno perdite) decine di migliaia di morti. Tutto ciò si svolgeva nella totale indifferenza del mondo occidentale (a parte l’impotenza del così detto blocco orientale anche in virtù degli accordi di Yalta), che pure aveva sostenuto e sosteneva molte guerre di liberazione antiamericane e antioccidentali in genere, prima tra le quali quella del Vietnam. E’ in questo contesto che nasce ovvero, con la
1970 e il sequestro, seguito dal massacro, degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco del 1972. Dawson’s Field Il 6 settembre 1970, due aerei di linea vennero dirottati da un commando del Fronte per la Liberazione della Palestina e fatti atterrare a Dawson's Field, un vecchio aeroporto militare nel deserto giordano. Il dirottamento di un terzo fallì per la reazione del personale di sicurezza a bordo, che uccise uno dei di-
Olimpiadi di Monaco Ben diversa, ma solo per gli esiti finali, fu la vicenda che due anni più tardi coinvolse, causandone la morte, alcuni atleti della squadra israeliana alle Olimpiadi di Monaco di Baviera. Anche in qual caso, infatti, il progetto dei militanti palestinesi era quello di occupare l’attenzione pubblica mondiale concentrata sul massimo evento sportivo. Va precisato che a quella soluzione la frangia estrema
Aeroporto della Rivoluzione, 13 settembre 1970, esplosione dei 3 aerei dirottati sero o comunque furono costretti a restare al servizio dei nuovi padroni. Alla fine degli anni ’60 il popolo palestinese iniziò a manifestare autonomamente richieste di riconoscimento identitario e politico, ponendo mano anche alla creazione di un coordinamento unitario politico e militare. E’ nel 1970 che il movimento del popolo palestinese raggiunse la sua massima forza organizzativa e militare, fino a mettere in discussione la sopravvivenza dello stesso regno di Giordania, paese nel quale si trovava la maggioranza dei profughi palestinesi; ma è anche in quello stesso anno che le rivendicazioni della nazione palestinese vengono percepite appieno come minaccia per la stabilità del progetto di colonizzazione USA del medio oriente petrolifero tramite l’organizzazione e la difesa dello Stato di Israele. “Settembre nero” è il periodo che va dal settembre al novembre 1970 durante il quale: da un lato si consumò l’estremo tentativo palestinese della creazione di uno Stato nazionale, dall’altro gli USA per tramite degli israeliani riuscirono a rompere i legami di solidarietà, o quantomeno di tolleranza, tra gli Stati occidentalizzati arabi di Giordania e Libano e le minoranze profughe dei palestinesi, intervenendo con l’aviazione e l’esercito a sostegno del governo giordano per aiutarlo a vincere una vera e propria guerra civile che costerà ad ambedue le parti
propaganda mediatica del poi, viene fatta risalire la nascita del terrorismo internazionale, con tale qualificazione “meta giuridica” classificandosi le azioni di forte impatto mediatico attraverso le quali la resistenza palestinese tentò allora di portare all’attenzione del mondo i presupposti storici, le ragioni giuridiche e la gravità contingente delle condizioni e delle aspettative del popolo palestinese. Quaranta anni di storia hanno inevitabilmente diversamente “modellato”, se così si può dire, il percorso politico e militare della lotta di liberazione del popolo palestinese che oggi, e questo lo si può sicuramente dire, versa in condizioni economiche e sociali di gran lunga peggiori e quasi senza speranza. Di questo però ci riserviamo di parlare in un prossimo inserto appositamente dedicato alla Palestina. Preme qui invece ricostruire almeno un minimo di verità storica, ricordano due episodi, oggi definiti di terrorismo, che allora segnarono con maggiore forza l’ingresso nella scena culturale e politica mondiale del popolo palestinese, fino ad allora oscurato dietro i “superiori” interessi (ovviamente dell’occidente capitalista) della stabilità del bacino del Mediterraneo e del medio oriente petrolifero. Gli episodi concernono il dirottamento di quattro aerei di linea eseguito da militanti del Fronte per la Liberazione della Palestina, guidato da George Habash, nel
rottatori e catturò il secondo, una donna. I terroristi chiesero la liberazione di alcuni prigionieri palestinesi detenuti in Svizzera e in Germania dell’ovest. Il 9 settembre un terzo apparecchio fu dirottato verso Dawson's Field, il quale nel frattempo era stato rinominato "aeroporto della Rivoluzione". In Europa si tenne un vertice tra il Primo Ministro britannico Edward Heath e altri capi di stato europei, per pervenire alla scarcerazione dei palestinesi detenuti e consentire il rilascio degli ostaggi. Sarà solamente venerdì 11 settembre che la vicenda avrà termine con la liberazione dei prigionieri palestinesi. La “questione” Palestina, ovvero del popolo palestinese, occupò allora per cinque giorni consecutivi i media di tutto il mondo. I palestinesi rilasciarono quindi tutti i passeggeri tenuti in ostaggio, ma non riconsegnarono gli aerei. In una epocale trasmissione video, quasi in diretta in tutto il mondo, i palestinesi fecero esplodere i tre aerei tra grida e canti di festa. Quella sera la campana dei Lloyd di Londra, che avevano assicurato i velivoli, suonò a lungo come era usanza per annunciare gravi sciagure; anche il cuore della finanza era stato raggiunto, ma nessuna vittima (tranne un dirottatore) era stata sacrificata, il messaggio intimidatorio era rivolto ai governi, ai popoli di quegli stessi governi era stata mostrata la realtà della repressione del popolo palestinese.
della resistenza palestinese responsabile si risolse dopo che il Comitato Olimpico aveva rifiutato anche solo di prendere in considerazione la richiesta formalmente avanzata dall’organizzazione palestinese di far partecipare una propria rappresentanza giovanile ai Giochi Olimpici. Questo fatto avrebbe rappresentato un riconoscimento della identità nazionale del popolo palestinese e un pari riconoscimento di legittimità giuridica alla organizzazione che lo rappresentava. Non ci fu neppure una risposta negativa: la richiesta non venne esaminata e basta. Il commando palestinese, del quale non è mai stato accertato il numero esatto, si introdusse nel Villaggio olimpico e sequestrò un gruppo di atleti israeliani, due dei quali rimasero uccisi nel tentativo di resistenza all’aggressione. Mentre proseguivano regolarmente le competizioni sportive che vennero sospese solo molto più tardi, intercorse un lungo negoziato tra i palestinesi e la polizia tedesca, che accordò agli stessi il trasferimento con due elicotteri in un aeroporto secondario dove li avrebbe attesi un aereo per portarli al Cairo. Quando i palestinesi con gli ostaggi giunsero all’aeroporto si resero conto della trappola e cercarono di risalire sugli elicotteri, mentre iniziava un violentissima sparatoria da parte della sicurezza tedesca con l’aiuto di mezzi blindati. Nel conflitto esplose uno dei due elicotteri e il bilancio fu
di diversi morti: tutti gli ostaggi e una buona parte dei sequestratori, quattro dei quali cercarono di fuggire e uno venne persino catturato molto più tardi lontano dall’aeroporto. La “storia ufficiale” ha propagandato la tesi secondo cui i palestinesi avrebbero ucciso per rappresaglia tutti gi ostaggi prima di sacrificarsi; ma in realtà i palestinesi non si sacrificarono, anzi cercarono di fuggire e, non riuscendovi, si arresero vivi (quelli che non erano già caduti nello scontro a fuoco), circostanza che esclude ogni logica kamikaze. Vero è che, forse proprio a causa della precedente esperienza del settembre 1970, era maturata una nuova linea di condotta antiterroristica (così vennero qualificati per la prima volta i combattenti palestinesi) che negava pregiudizialmente la possibilità di negoziato e dunque imponeva l’atto di forza per il quale, evidentemente, la polizia tedesca non era ancora adeguatamente attrezzata e addestrata. Certo è che nell’aeroporto della strage erano presenti agenti del Mossad israeliano. La strage di Monaco segna uno spartiacque determinante per la successiva condotta del terrorismo palestinese e non solo: la consapevolezza dell’esito mortale di ogni azione comunque qualificata terroristica. E’ allora che nasce la logica (se tale può essere chiamata) kamikaze. Ma una logica kamikaze non può trovare sostegno solo in pur profonde e radicate convinzioni di impegno e sacrificio politico o ideologico, occorrerà ancora un “salto”, occorrerà (e purtroppo arriverà) il supporto del fanatismo religioso che solo, come ha insegnato l’intera storia dell’umanità, può giustificare il sacrificio consapevole della vita, tanto propria che altrui: il martirio. In questo baratro piano piano scivolerà anche buona parte della resistenza palestinese, ma sarà un incendio che divamperà in tutto il mondo arabo e contagerà ogni luogo della terra ove alle ingiustizie, vere o presunte, verrà opposta una resistenza non più ideologica e politica, ma la verità assoluta del fanatismo sacrificale religioso. A questa folle deriva per certo tempo resisterà la diversa cultura europea e maggiormente quella italiana, forse grazie proprio alla ambiguità del cattolicesimo romano, tanto fondamentalista all’estero quanto compromissorio in casa propria; anche se non sarà per molto. L’Italia si opporrà alla logica americana e israeliana del massacro nell’episodio del dirottamento della Achille Lauro, ma alla fine cederà in occasione del rapimento di Aldo Moro. Così oggi si può negoziare con mafia e camorra perché sono Stato nello Stato, ma non si può, non si deve negoziare con l’emarginazione e la disperazione perché sono contro lo Stato, ovviamente contro “questo” Stato.