Inserto "Merce di scambio" - Maggio 2011

Page 1

supplemento al numero 5 - Anno III - maggio 2011 di Piazza del Grano - www.piazzadelgrano.org

Merce di scambio

"Scortati dalla polizia fino alla nuova residenza belga, partivano dalla stazione di Milano tutti stretti in piccoli convogli che sembravano non fermarsi mai. Alle spalle, centinaia di chilometri prima, le delusioni e le miserie di una terra arida di promesse. Ma infine, quando il treno ferma, ci si ritrova tra italiani nei campi per prigionieri e la casa, naturalmente in condivisione con altre famiglie, non è altro che una vecchia baracca lasciata libera dai carcerati tedeschi circondata perfino, in alcuni casi, dal filo spinato. Non c'è neanche tempo di rendersi conto del posto nuovo perché subito, il giorno dopo l'arrivo, inizia il lavoro in un mondo sotterraneo assolutamente sconosciuto. Con addosso tutto il peso del mondo. Accovacciati in un trabiccolo che fa le veci di uno strano ascensore incomincia così la discesa nel cuore della terra. Poi il lavoro è sempre quello, sempre identico. Con la pistola pneumatica si apre un varco e dopo ci si aiuta con le pale, con le mani, con tutto quello che si può. Si forma un cunicolo e lo si puntella, pronti a proseguire" 23 giugno 1946 viene firmato a Roma dal governo De Gasperi lo storico accordo Italia-Belgio poi denominato “Uomo/Carbone”. A quell’epoca il Belgio aveva urgente bisogno di manodopera per estrarre il carbone dalle miniere, la cui produzione era in netto calo. I belgi rifiutano di scendere in miniera, consapevoli della pericolosità del lavoro e del basso salario percepito in cambio. Il Governo decide allora l’importazione di manodopera straniera e intraprese la trattative con il Governo italiano guidato da Alcide De Gasperi, dettando condizioni durissime: l'Italia organizzava l'emigrazione di 50 mila lavoratori, in cambio il Belgio si impegnava a vendere all’Italia un minimo di 2500 tonnellate di carbone ogni 1000 operai inviati. L’Italia si assicura

così entrate in valuta straniera e la possibilità di dotarsi di carbone, indispensabile per la ripresa economica del Paese. I bei manifesti rosa, affissi in tutti i comuni d’Italia, parlavano di un lavoro sotterraneo nelle miniere belghe. Naturalmente non fornivano alcun dettaglio su questo lavoro, soffermandosi invece sui vantaggi dei salari, delle vacanze e degli assegni familiari. La realtà che trovarono i lavoratori italiani in Belgio fu, invece, ben altra cosa: un lavoro durissimo e pericolosissimo da affrontare senza alcuna preparazione specifica. I candidati minatori venivano concetrati a Milano dove usufruivano dei tre piani sotto la stazione. Dopo aver superato le visite mediche e dopo un viaggio che poteva durare anche 52 ore, gli italiani sono scaricati non nelle sta-

zioni riservate ai passeggeri ma nelle zone destinate alle merci. Qui venivano allineati secondo il pozzo nel quale dovranno andare a lavorare. Dopo il viaggio massacrante venivano trasferiti negli "alloggi" che consistevano nelle baracche di legno utilizzate dai prigionieri russi durante l’occupazione nazista. Questo popolo di lavoratori era tenuto lontano dalle città nascosto in campi sconosciuti alla maggioranza dei belgi: era un popolo invisibile. Li chiamavano anche "musi neri" per il particolare tipo di lavoro che svolgevano. Le condizioni dei minatori erano scandalose ma nessuno volle vederlo fino all’8 Agosto 1956. 275 uomini scendono nelle miniere Bois du Cazier di Marcinelle. Le gabbie degli ascensori avevano distribuito le squadre nei vari piani, a quota 765 e

1.035. Un carrello esce dalle guide e va a sbattere contro un fascio di cavi elettrici ad alta tensione senza rete di protezione. Subito divampa l’incendio e le fiamme si propagano immediatamente. Solo 13 lavoratori sopravviveranno. Le vittime sono 262 di cui 136 italiani, il più giovane di 14 anni e il più anziano di 53 anni. Il processo che seguì si concluse con l’assoluzione dei dirigenti della società mineraria e la responsabilità fu attribuita all’addetto alla manovra del carrello, un italiano anch’egli morto nel disastro. La tragedia colpì la comunità italiana e fece conoscere a tutti le condizioni proibitive del lavoro nelle miniere. Il governo italiano, incalzato dalle opposizioni, fu costretto a bloccare le vie ufficiali dell’emigrazione verso il Belgio.

Protocollo Italo-Belga per il trasferimento di 50.000 minatori italiani in Belgio La Conferenza che ha riunito a Roma i delegati del Governo italiano e del Governo belga per trattare del trasferimento di 50.000 lavoratori nelle miniere belghe, è giunta alle seguenti conclusioni: 1) Il Governo italiano, nella convinzione che il buon esito dell'operazione possa stabilire rapporti sempre più cordiali col Governo belga e dare la dimostrazione al mondo della volontà dell' Italia di contribuire alla ripresa economica dell'Europa, farà tutto il possibile per la riuscita del piano in progetto. Esso provvederà a che si effettui sollecitamente e nelle migliori condizioni l'avviamento dei lavoratori fino alla località da stabilirsi di comune accordo in prossimità della frontiera italo svizzera, dove a sua cura saranno istituiti gli uffici incaricati di effettuare le operazioni definitive di arruolamento. 2) Il Governo belga mantiene integralmente i termini dell'«accordo minatoricarbone» firmato precedentemente. Esso affretterà, per quanto è possibile, l'invio in Italia delle quantità di carbone previste dall'accordo ... 5) Il Governo italiano si adoprerà a

che gli aspiranti all'espatrio in qualità di minatori siano, nel miglior modo, edotti di quanto li concerne, attirando, in particolar modo, la loro attenzione sul fatto che essi saranno destinati ad un lavoro di profondità nelle miniere, pel quale sono necessarie un'età relativamente ancor giovane (35 al massimo) e un buono stato di salute ... 11) Il Governo italiano farà tutto il possibile per inviare in Belgio 2.000 lavoratori la settimana 12) I convogli saranno formati nel luogo designato di comune accordo fra le Autorità italiane e belghe. Per verun motivo detto luogo potrà essere modificato senza provio accordo dei due Governi. Nella stazione di partenza saranno apprestati locali ai fini di un'accurata visita medica di ciascun operaio, della firma del suo contratto di lavoro e del controllo della polizia belga. Un servizio d'ordine organizzato nella stazione avrà il compito di impedire l'accesso al treno ad ogni persona che non abbia adempiuto a tutte le formalità sopra indicate.. Roma, il 23 giugno 1946.

I


Un popolo migrante

57.000.000 contro 58.000.000 il più grande esodo migratorio della storia moderna 57 milioni sono gli italiani censiti residenti in Italia; 58 milioni sono gli italiani di prima, seconda o terza generazione stimati al di fuori dell’Italia. La cifra è impressionante: un’altra nazione, un altro popolo al di fuori dei confini della così detta “patria”. Si può obiettare che le seconde o le terze generazioni “non contano”, perché oramai non si possono più considerare italiani ma cittadini degli Stati di nuova residenza. Questo in parte è vero perché la “nostalgia” dell’Italia che sicuramente colpiva la prima generazione, che ha sempre continuato a sperare di ritornare, anche per ricongiungersi ai parenti lasciati, e forse ha colpito an-

cora la seconda generazione cresciuta nell’ascolto dei racconti e delle speranze dei genitori, per la terza generazione si è in buona parte mutata nella mera ricerca, o meglio nella pura rivendicazione di un identità etnica da affermare di fronte alle altre tante identità etniche vantate dalle innumerevoli minoranze dei paesi di emigrazione. Una identità etnica sicuramente “minore”, come minore era il peso mondiale della loro “patria” di provenienza e ancora “minimo”, per non dire rifiutato e negato, era il legame identitario tra i governanti della loro patria e i suoi figli più miserabili spediti a cercare fortuna (sopravvivenza!) all’estero. I dati “veri”, i dati cioè censiti, del numero degli emigrati nei 100 anni dalla prima crisi economica europea degli anni 70/80 dell’ottocento all’ultimo decennio del secolo scorso, sono comunque “mostruosi”: 26 milioni di emigrati! In alcune fasce

temporali di maggiore esodo (perché di questo si è trattato: di un esodo biblico!) è emigrata circa un terzo dell’intera popolazione residente. Alcuni numeri secondo i tre periodi statistici di maggiore emigrazione. Primo periodo 1876-1914: oltre 14 milioni, con punte di vero e sproprio esodo di massa a ridosso della prima guerra mondiale, provenienti nella prima fase in prevalenza dalla “sacche” di estrema povertà del nord Italia e poi sempre di più dal mezzogiorno, diretti per meno della metà verso l’Europa e per il resto in grande maggioranza verso il nord America e in minoranza verso il sud America; secondo periodo 19181940: poco più di 4 milioni anche in ragione del “blocco” all’emigrazione imposto dal fascismo, in direzione per la metà verso l’Europa e il resto verso l’America maggiormente verso il sud America a causa delle restrizioni all’immigrazione imposte dagli Stati Uniti; terzo periodo 1946-1976, circa 8 milioni in ampia parte in direzione dell’Europa. 26 milioni partiti, solo circa 8 milioni tornati in larghissima maggioranza negli anni del boom economico dopo la seconda guerra mondiale.

Questo popolo che ci disprezza

II

Limon, Costarica 25 agosto 1927 In questi giorni, in questi due mesi ti ho scritto tante volte senza spedirti mai una delle mie lettere. Pigrizia e insoddisfazione. Un poco anche la coscienza di non avere niente da scriverti che veramente valesse la pena. Di quanto io mi ostino a pensare e a credere che valga la pena. Impiegato ora in una compagnia americana dove non sto imparando nient’altro che l'odio per questo popolo che prima ammiravo. Popolo che si crede il dominatore del mondo, che forse lo è e che da questo trae la conseguenza di una superiorità assoluta sugli altri popoli e un disprezzo inflessibile per tutto ciò che non è americano. Stipendio, ore di ufficio, nessuna prospettiva avvenire. Grigiore infinito di vita in porto tropicale, abbastanza sudicio, difficoltà propositi nuovi, alcune nuove esperienze e rimpianto. Rimpianto di quello che non ho avuto. Niente di brillante. Però la vita raccolta, riposata, silenziosa che conduco da due mesi mi sta facendo risorgere nell’animo nuove energie e nuovi progetti. Sono sicuro: preferisco non essere mai niente che essere troppo. Preferisco soffrire per tutta la vita quello che ho sofferto in questi ultimi anni che rassegnarmi. Sono troppo giovane per questo. Riprenderò la lotta appena abbia forza suffi-

ciente. Stamani, in ora in cui non avevo niente da fare, mi esercitavo a scrivere in ispagnolo un articolo per supposto giornale più che altro con lo scopo di esercitarmi a scrivere la lingua. Ad un certo momento arrivai a scrivere di Firenze. Per la seconda volta nella mia vita un nostalgia che mi si velava di pianto si è impadronita di me. Rivedevo Firenze dal Viale dei Colli in una di quel-

le giornate opaline di primavera o di ottobre che ti rivedrai fra qualche mese soltanto e che io forse non rivedrò più. Come ero triste… Rimpiangevo tante, tante cose. Rimpiangevo te che forse nemmeno rivedrò più benché tu sia entrata nella mia vita come nessuna altra persona ha mai entrato né mai entrerà più. Non sono vinto, ma stanco. Mi manca forse lo stimolo ad andare, a pensare in domani. Ma non posso, non posso rimanere qui. In questo porto del tropico, caldissimo, asfissiante, monotono, triste dove a volte mi prende una disperazio-

ne terribile che va fino allo schifo del mio corpo pieno di sudore, sudore, sudore. Vincere, riposare, rivedere le cose lontane, abbandonate, mie. Allora tu non sari più la. La vita è una perdita continua, una perdita esasperante, una perdita che non ammette sostituzioni. Ed io mi ribello inutilmente. Molta acqua è fra noi. Molti giorni ci separano. Le vecchie illusioni sono morte, le ultime speranze disfatte della distanza. Ma non mi rassegno. Mi sento stanco, mi sento triste ma non vinto. La povertà di domani non mi spaventa perché troppo soffro la povertà di oggi. E devo vincere. Ah Maria è necessaria molta forza, molta pazienza per passare attraverso questa terribile prova. Quando mi scriverai scrivimi più a lungo. Raccontami più cose. Tu sei la ultima voce che mi viene di costà. Tutti I miei vecchi amici a poco a poco hanno cessato di scrivermi e mi hanno dimenticato. Mio padre quasi non scrive e quando scrive non fa altro che aumentare la mia tristezza. Io necessito qualcosa che mi ricordi, che mi faccia rivivere dinanzi quello che non è più mio. Perché di mio ora non ho niente, qui. Tutto è qui come provvisorio, come in un sogno, come in un racconto. Saluti

“Coltivavano il basilico nella vasca da bagno” 300.000 ogni anno dal Sud agricolo al Nord industriale

I meridionali furono dipinti in vari modi: come insofferenti verso il lavoro metodico e monotamente svolto, come incapaci di adattarsi ai ritmi ed ai lavori imposti dalle società moderne. In molti li consideravano sporchi, incivili e non erano rari cartelli con scritto: “non si fitta ai meridionali”. Tutti i meridionali a prescindere dalla loro regione di provenienza erano chiamati "i napule", era meglio non fidarsi e poi facevano arrivare troppi parenti e "coltivavano il basilico nella vasca da bagno”. A Torino gli immigrati trovarono alloggio negli scantinati e nei solai del centro, negli edifici destinati a demolizione, in cascine abbandonate all'estrema periferia. Nelle cittadine alla periferia di Milano gli immigrati trovarono una diversa soluzione al problema della casa, la costruzione delle cosiddette «coree»: gruppi di case edificate di notte da-

gli stessi immigrati, senza alcun permesso urbanistico, su terreni agricoli comprati coi loro risparmi. Il nome «coree» sembra derivare dal fatto che queste costruzioni apparvero per la prima volta ai tempi della guerra di Corea. Il boom economico esigeva sempre più manodopera e fu così che l'agricoltura e la piccola industria insieme all’edilizia e al piccolo commercio, svolsero un ruolo di “polmone della nuova industrializzazione del nord”. Le strategie dell’imprenditoria nazionale, tentando un’integrazione nel tessuto economico dei paesi più avanzati, avevano portato a una concentrazione degli investimenti nei distretti industriali del nord, rispetto alla quale uno spostamento di capitali verso il sud avrebbe

significato disperdere tecnologie e risorse. Quindi il Meridione, nel boom economico, era destinato ad avere una funzione subordinata e funzionale agli interessi dell’economia del nord. La concentrazione delle grandi fabbriche nelle regioni settentrionali mise in moto un flusso migratorio dal sud agricolo al nord industrializzato che impoverì le regioni meridionali anche delle risorse umane.

L’emigrazione senza fine Ellis Island “Isola delle lacrime”

“Fra il 1880 e il 1915 approdano negli Stati Uniti quattro milioni di italiani, su 9 milioni circa di emigranti che scelsero di attraversare l'Oceano verso le Americhe. Le cifre non tengono conto del gran numero di persone che rientrò in Italia: una quota considerevole ( 50/60%) nel periodo 1900-1914. Circa il settanta per cento proveniva dal Meridione, anche se fra il 1876 ed il 1900 la maggior parte degli emigrati era del Nord Italia con il quarantacinque per cento composto solo da Veneto, Friuli Venezia Giulia e Piemonte. Le motivazioni che spinsero masse di milioni di Meridionali ad emigrare furono molteplici. Durante l'invasione Piemontese, operata senza dichiarazione di guerra, del Regno delle due Sicilie, i macchinari delle fabbriche, non dimentichiamo che Napoli era allora una città all'avanguardia in campo industriale, furono portati al Nord dove in seguito sorsero le industrie del Piemonte, della Lombardia e della Liguria. Le popolazioni del Meridione, devastato dalle guerra con circa un milione di morti, da cataclismi naturali (il terremoto del 1908 con l'onda di marea nello Stretto di Messina uccise più di 100,000 persone nella sola città di Messina) depredato dall'esercito, dissanguato dal potere ancora di stampo feudale, non ebbero altra alternativa che migrare in massa. Il sistema feudale, ancora perfettamente efficiente, permet-

teva che la proprietà terriera ereditaria determinasse il potere politico ed economico, lo status sociale, di ogni individuo. In questo modo, le classi povere non ebbero praticamente alcuna possibilità di migliorare la propria condizione. Da aggiungere ai motivi dell'esodo la crisi agraria dal 1880 in poi, successivamente l'aggravarsi delle imposte nelle campagne meridionali dopo l'unificazione del paese, il declino dei vecchi mestieri artigiani, delle industrie domestiche, la crisi della piccola proprietà e delle aziende montane, delle manifatture rurali. Gli Stati Uniti dal 1880 aprirono le porte all'immigrazione nel pieno dell'avvio del loro sviluppo capitalistico; le navi portavano merci in Europa e ritornavano cariche di emigranti. I costi delle navi per l'America erano inferiori a quelli dei treni per il Nord Europa, per questo milioni di persone scelsero di attraversare l'Oceano. L'arrivo in America era caratterizzato dal trauma dei controlli medici e amministrativi durissimi, specialmente ad Ellis Island, l'Isola delle Lacrime. Nel Museo dell'Emigrazione a New York ci sono ancora le valigie piene di suppellettili e di povero abbigliamento delle persone che reimbarcate per l'Italia, nella disperazione si buttavano nelle acque gelide della baia andando quasi sempre incontro alla morte.” (da “Remembering Ellis Island on Columbus Day”, di Ro Pucci)

(tratto da Angela Molteni, www.antoniogramsci.com) Fino al 1850 circa non esistevano procedure ufficiali per l’immigrazione a New York. In questa data l’impennata del numero di immigrati europei che fuggivano dalle grandi carestie del 1846 e dalle rivoluzioni fallite del 1848 spinse le autorità ad aprire un centro di immigrazione a Castle Clinton in Battery Park, sulla punta meridionale dell’isola di Manhattan. Verso il 1880 le privazioni che si soffrivano nell’Europa orientale e meridionale e la forte depressione economica nell’Italia meridionale spinsero migliaia di persone ad abbandonare il Vecchio Continente. Al contempo in America stava prendendo il via la rivoluzione industriale, con un crescente processo di urbanizzazione. Ellis Island fu aperta nel 1894, quando l’America superò un periodo di depressione economica e cominciò a imporsi come potenza mondiale. In tutta Europa si diffusero le voci sulle opportunità offerte dal Nuovo Mondo e migliaia di persone decisero di lasciare la loro patria. Quando le navi a vapore entravano nel porto di New York, i più ricchi passeggeri di prima e seconda classe venivano ispezionati a loro comodo nelle loro cabine e scortati a terra da ufficiali dell’immigrazione. I passeggeri di terza classe venivano portati a Ellis Island per l’ispezione, che era più dura. Ogni immigrante in arrivo portava con sé un documento con le informazioni riguardanti la nave che l’aveva portato a New York. I medici esaminavano brevemente ciascun immigrante e marcavano sulla schiena con del gesso coloro per i quali occorreva

un ulteriore esame per accertarne le condizioni di salute; se vi erano condizioni particolari di infermità ciò comportava che venissero trattenuti all’ospedale di Ellis Island. Dopo questa prima ispezione, gli immigranti procedevano verso la parte centrale della Sala di Registrazione dove gli ispettori interrogavano gli immigranti a uno ad uno. A ogni immigrante occorreva perlomeno una intera giornata per passare l’intero processo di ispezione a Ellis Island. Le scene sull’isola erano veramente strazianti: per la maggior parte le persone arrivavano affamate, sporche e senza una lira, non conoscevano una parola di inglese e si sentivano estremamente in soggezione per la metropoli sull’altra riva. Agli immigranti veniva assegnata una Inspection Card con un numero e c’era da aspettare anche tutto un giorno, mentre i funzionari di Ellis Island lavoravano per esaminarli. Dopo l’ispezione, gli immigranti scendevano dalla Sala di Registrazione per le “Scale della Separazione” che segnavano il punto di divisione per molte famiglie e amici verso diverse destinazioni. Il centro era stato progettato per accogliere 500.000 immigrati all’anno, ma nella prima parte del secolo ne arrivarono il doppio. Truffatori saltavano fuori da ogni dove, rubavano il bagaglio degli immigrati durante i controlli, e offrivano tassi di cambio da rapina per il denaro che questi erano riusciti a portare con sé. Le famiglie venivano divise, uomini da una parte, donne e bambini dall’altra, mentre si eseguiva una serie di controlli per eliminare gli indesiderabili e i malati. Questi ultimi venivano

portati al secondo piano, dove i dottori controllavano la presenza di “malattie ripugnanti e contagiose” e manifestazioni di pazzia. Coloro che non superavano gli esami medici venivano contrassegnati, come già accennato, con una croce bianca sulla schiena e confinati sull’isola fino a diversa decisione, oppure venivano reimbarcati. I capitani delle navi avevano l’obbligo di riportare gli immigrati non accettati al loro porto di origine. Secondo le registrazioni ufficiali tuttavia solo il due per cento veniva rifiutato, e molti di questi si tuffavano in mare e cercavano di raggiungere Manhattan a nuoto o si suicidavano, piuttosto che affrontare il ritorno a casa. Fatto che meritò a Ellis Island il nome di “Isola delle lacrime”. Quando gli Stati Uniti entrarono nella prima guerra mondiale nel 1917, i sentimenti anti-immigrazione e le ostilità isolazioniste erano all’apice. Il KluKlux-Klan, costituito nel 1915, rifletteva le opinioni di coloro che disprezzavano gli immigrati non inglesi considerandoli di “razza inferiore”. Mentre gli immigrati dovevano affrontare ostilità di ogni tipo, il ruolo di Ellis Island cambiava rapidamente da centro di smistamento per gli immigrati a centro di detenzione. Dopo il 1917 l’isola divenne principalmente campo di raccolta e di smistamento per deportati e perseguitati politici. L’immigrazione diminuì sensibilmente all’inizio della prima guerra mondiale e i decreti sull’immigrazione del 1921 e del 1924 di fatto posero fine alla politica di “porte aperte” degli Stati Uniti. Cittadini giapponesi, italiani e tedeschi furono detenuti a Ellis Island durante la secon-

da guerra mondiale e il centro venne utilizzato principalmente per detenzione fino alla sua chiusura, il 12 novembre 1954. Il 28 dicembre 1939 lo scrittore e giornalista praghese Egon Erwin Kisch (18851948) così scrive nel suo libro Sbarcando a New York. . “Sono di nuovo prigioniero sulla nave. Dall’oblò chiuso vedo il Nuovo Mondo verso il quale da due settimane, due settimane di guerra, sto navigando sulla ‘Pennland’ della linea olandese-americana [...]. L’immigration officer dice che il mio passaporto non è valido, perché un visto cileno ottenuto a Parigi non è sufficiente come visto di transito per l’America [...] Mentre parlava con me, un funzionario gli mostrò un fogliettino, senza dubbio conteneva qualcosa sul mio conto. ‘Lo so’, disse. Quindi mi tocca andare a Island - un eufemismo per Ellis Island, L’isola delle lacrime [...] Giù dalla ‘Pennland’ sulla quale abbiamo trascorso più di due settimane, giù con tutto il bagaglio (il mio è rimasto in Belgio), nei dock gelidi dove fanno la revisione doganale, poi con un tender all’isola-prigione sorvegliata dalla Statua della Libertà (si riempiono la bocca con la Statua della Libertà) [...]. Ciò che contraddistingue la nostra prigione da ogni altra è la cabina telefonica. Una cella del carcere con cabina telefonica non esiste da nessun’altra parte. Ammesso che uno abbia un nichelino, si può mettere in contatto con il resto del mondo, e al tempo stesso non può. Nessuno può chiamarti [...]. Faccio una passeggiata nel cortile che invece di quattro pareti ne ha soltanto due: quelle mancanti sono acqua.”

Non è un caso che all’interno di molti paesi della metropoli capitalista vi siano forti squilibri fra regione e regione e che tali disparità, nonostante durino da molto tempo, non siano mai state risolte. Tale ineguale sviluppo è voluto, cercato, utilissimo al rafforzamento dei capitalismi nazionali. Da questo punto di vista il caso italiano è eclatante e peculiare. In Italia la questione meridionale nasce insieme all’Unità, e anzi, in un certo senso è proprio l’Unità a creare la questione meridionale: i centri industriali del regno borbonico, infatti, invece di essere sostenuti e incentivati furono spazzati via per favorire le nascenti industrie del nord, e la monarchia sabauda gestì il controllo dei territori conquistati con le tipiche armi del colonialismo: feroce repressione del dissenso (dietro il nome di “lotta al brigantaggio”) e alleanza con l’inetta borghesia locale, latifondista e parassitaria. E così, dalla fine dell’Ottocento ai giorni nostri, una generazione dopo l’altra di lavoratori meridionali hanno dovuto lasciare la propria terra per cercarsi un futuro in luoghi lontani o lontanissimi: Nord Italia, Belgio, Germania, America, Australia… e oggi siamo al punto di partenza: un’indagine del 2010 redatta dall’Ufficio Studi della Banca d’Italia ha rilevato che il numero di emigrati dal Sud al Nord Italia è di nuovo molto vicino a quello dei primi anni Sessanta, quando migliaia di figli di contadini meridionali raggiungevano il trian-

golo industriale Milano-Genova-Torino per diventare operai. Un’emigrazione molto diversa qualitativamente, ma che tocca però le stesse vette numeriche di allora. Ogni anno, infatti, si spostano dalle regioni meridionali verso quelle del Centro-Nord circa 270 mila persone: 120 mila in maniera permanente, 150 mila

per uno o più mesi. Un dato vicino a quello dei primi anni Sessanta, quando a trasferirsi al Nord erano 295 mila persone l’anno. Parlare di 270 mila uomini e donne che ogni anno vanno da Sud a Nord per lavorare o per studiare significa immaginare una città come Caltanissetta che si sposta tutta intera per trovare un futuro. Tra il 1990 e il 2005 quasi 2 milioni di cittadini italiani sono stati costretti ad abbandonare il Sud per andare a trovare un impiego in qualche cittadina del Nord. E le cose sono persino peggiorate rispetto a 40 anni fa! Allora la “valigia di cartone”, comunque sinonimo di sacrificio e di dolore,

significava anche poter contare un lavoro pressoché sicuro (probabilmente sino alla pensione) e su un futuro di più ampie prospettive per sé e per i propri figli. Ora, invece, con precarietà e flessibilità a farla da padrone, si parte con un carico di incognite ben più pesante e difficile da gestire. La “questione meridionale”, lungi dall’essere risolta almeno sul fronte occupazionale, quello del lavoro al sud per intenderci, esiste in tutta la sua drammaticità. Un Mezzogiorno incapace di trattenere il proprio capitale umano (tra l’altro ora se vanno anche moltissimi laureati), perde uno dei fattori chiave per tenere viva la speranza in un reale cambiamento per tutto il Paese. “Dal punto di vista del Mezzogiorno, l’emigrazione dei lavoratori, e in particolare di quelli con qualifiche più elevate, può comportare un impoverimento di capitale umano che, a sua volta, potrebbe riflettersi nella persistenza dei differenziali territoriali in termini di produttività, competitività e, in ultima analisi, di crescita economica. In questo contesto, l’intervento delle autorità di politica economica deve essere teso, piuttosto che a frenare l’emigrazione, a rimuoverne le determinanti, che hanno come comune denominatore la quantità e la qualità della crescita economica nel Mezzogiorno.” (Banca d’Italia gennaio 2010). Ma allora, da sessant’anni a questa parte, cosa è cambiato?

III


Un popolo migrante

57.000.000 contro 58.000.000 il più grande esodo migratorio della storia moderna 57 milioni sono gli italiani censiti residenti in Italia; 58 milioni sono gli italiani di prima, seconda o terza generazione stimati al di fuori dell’Italia. La cifra è impressionante: un’altra nazione, un altro popolo al di fuori dei confini della così detta “patria”. Si può obiettare che le seconde o le terze generazioni “non contano”, perché oramai non si possono più considerare italiani ma cittadini degli Stati di nuova residenza. Questo in parte è vero perché la “nostalgia” dell’Italia che sicuramente colpiva la prima generazione, che ha sempre continuato a sperare di ritornare, anche per ricongiungersi ai parenti lasciati, e forse ha colpito an-

cora la seconda generazione cresciuta nell’ascolto dei racconti e delle speranze dei genitori, per la terza generazione si è in buona parte mutata nella mera ricerca, o meglio nella pura rivendicazione di un identità etnica da affermare di fronte alle altre tante identità etniche vantate dalle innumerevoli minoranze dei paesi di emigrazione. Una identità etnica sicuramente “minore”, come minore era il peso mondiale della loro “patria” di provenienza e ancora “minimo”, per non dire rifiutato e negato, era il legame identitario tra i governanti della loro patria e i suoi figli più miserabili spediti a cercare fortuna (sopravvivenza!) all’estero. I dati “veri”, i dati cioè censiti, del numero degli emigrati nei 100 anni dalla prima crisi economica europea degli anni 70/80 dell’ottocento all’ultimo decennio del secolo scorso, sono comunque “mostruosi”: 26 milioni di emigrati! In alcune fasce

temporali di maggiore esodo (perché di questo si è trattato: di un esodo biblico!) è emigrata circa un terzo dell’intera popolazione residente. Alcuni numeri secondo i tre periodi statistici di maggiore emigrazione. Primo periodo 1876-1914: oltre 14 milioni, con punte di vero e sproprio esodo di massa a ridosso della prima guerra mondiale, provenienti nella prima fase in prevalenza dalla “sacche” di estrema povertà del nord Italia e poi sempre di più dal mezzogiorno, diretti per meno della metà verso l’Europa e per il resto in grande maggioranza verso il nord America e in minoranza verso il sud America; secondo periodo 19181940: poco più di 4 milioni anche in ragione del “blocco” all’emigrazione imposto dal fascismo, in direzione per la metà verso l’Europa e il resto verso l’America maggiormente verso il sud America a causa delle restrizioni all’immigrazione imposte dagli Stati Uniti; terzo periodo 1946-1976, circa 8 milioni in ampia parte in direzione dell’Europa. 26 milioni partiti, solo circa 8 milioni tornati in larghissima maggioranza negli anni del boom economico dopo la seconda guerra mondiale.

Questo popolo che ci disprezza

II

Limon, Costarica 25 agosto 1927 In questi giorni, in questi due mesi ti ho scritto tante volte senza spedirti mai una delle mie lettere. Pigrizia e insoddisfazione. Un poco anche la coscienza di non avere niente da scriverti che veramente valesse la pena. Di quanto io mi ostino a pensare e a credere che valga la pena. Impiegato ora in una compagnia americana dove non sto imparando nient’altro che l'odio per questo popolo che prima ammiravo. Popolo che si crede il dominatore del mondo, che forse lo è e che da questo trae la conseguenza di una superiorità assoluta sugli altri popoli e un disprezzo inflessibile per tutto ciò che non è americano. Stipendio, ore di ufficio, nessuna prospettiva avvenire. Grigiore infinito di vita in porto tropicale, abbastanza sudicio, difficoltà propositi nuovi, alcune nuove esperienze e rimpianto. Rimpianto di quello che non ho avuto. Niente di brillante. Però la vita raccolta, riposata, silenziosa che conduco da due mesi mi sta facendo risorgere nell’animo nuove energie e nuovi progetti. Sono sicuro: preferisco non essere mai niente che essere troppo. Preferisco soffrire per tutta la vita quello che ho sofferto in questi ultimi anni che rassegnarmi. Sono troppo giovane per questo. Riprenderò la lotta appena abbia forza suffi-

ciente. Stamani, in ora in cui non avevo niente da fare, mi esercitavo a scrivere in ispagnolo un articolo per supposto giornale più che altro con lo scopo di esercitarmi a scrivere la lingua. Ad un certo momento arrivai a scrivere di Firenze. Per la seconda volta nella mia vita un nostalgia che mi si velava di pianto si è impadronita di me. Rivedevo Firenze dal Viale dei Colli in una di quel-

le giornate opaline di primavera o di ottobre che ti rivedrai fra qualche mese soltanto e che io forse non rivedrò più. Come ero triste… Rimpiangevo tante, tante cose. Rimpiangevo te che forse nemmeno rivedrò più benché tu sia entrata nella mia vita come nessuna altra persona ha mai entrato né mai entrerà più. Non sono vinto, ma stanco. Mi manca forse lo stimolo ad andare, a pensare in domani. Ma non posso, non posso rimanere qui. In questo porto del tropico, caldissimo, asfissiante, monotono, triste dove a volte mi prende una disperazio-

ne terribile che va fino allo schifo del mio corpo pieno di sudore, sudore, sudore. Vincere, riposare, rivedere le cose lontane, abbandonate, mie. Allora tu non sari più la. La vita è una perdita continua, una perdita esasperante, una perdita che non ammette sostituzioni. Ed io mi ribello inutilmente. Molta acqua è fra noi. Molti giorni ci separano. Le vecchie illusioni sono morte, le ultime speranze disfatte della distanza. Ma non mi rassegno. Mi sento stanco, mi sento triste ma non vinto. La povertà di domani non mi spaventa perché troppo soffro la povertà di oggi. E devo vincere. Ah Maria è necessaria molta forza, molta pazienza per passare attraverso questa terribile prova. Quando mi scriverai scrivimi più a lungo. Raccontami più cose. Tu sei la ultima voce che mi viene di costà. Tutti I miei vecchi amici a poco a poco hanno cessato di scrivermi e mi hanno dimenticato. Mio padre quasi non scrive e quando scrive non fa altro che aumentare la mia tristezza. Io necessito qualcosa che mi ricordi, che mi faccia rivivere dinanzi quello che non è più mio. Perché di mio ora non ho niente, qui. Tutto è qui come provvisorio, come in un sogno, come in un racconto. Saluti

“Coltivavano il basilico nella vasca da bagno” 300.000 ogni anno dal Sud agricolo al Nord industriale

I meridionali furono dipinti in vari modi: come insofferenti verso il lavoro metodico e monotamente svolto, come incapaci di adattarsi ai ritmi ed ai lavori imposti dalle società moderne. In molti li consideravano sporchi, incivili e non erano rari cartelli con scritto: “non si fitta ai meridionali”. Tutti i meridionali a prescindere dalla loro regione di provenienza erano chiamati "i napule", era meglio non fidarsi e poi facevano arrivare troppi parenti e "coltivavano il basilico nella vasca da bagno”. A Torino gli immigrati trovarono alloggio negli scantinati e nei solai del centro, negli edifici destinati a demolizione, in cascine abbandonate all'estrema periferia. Nelle cittadine alla periferia di Milano gli immigrati trovarono una diversa soluzione al problema della casa, la costruzione delle cosiddette «coree»: gruppi di case edificate di notte da-

gli stessi immigrati, senza alcun permesso urbanistico, su terreni agricoli comprati coi loro risparmi. Il nome «coree» sembra derivare dal fatto che queste costruzioni apparvero per la prima volta ai tempi della guerra di Corea. Il boom economico esigeva sempre più manodopera e fu così che l'agricoltura e la piccola industria insieme all’edilizia e al piccolo commercio, svolsero un ruolo di “polmone della nuova industrializzazione del nord”. Le strategie dell’imprenditoria nazionale, tentando un’integrazione nel tessuto economico dei paesi più avanzati, avevano portato a una concentrazione degli investimenti nei distretti industriali del nord, rispetto alla quale uno spostamento di capitali verso il sud avrebbe

significato disperdere tecnologie e risorse. Quindi il Meridione, nel boom economico, era destinato ad avere una funzione subordinata e funzionale agli interessi dell’economia del nord. La concentrazione delle grandi fabbriche nelle regioni settentrionali mise in moto un flusso migratorio dal sud agricolo al nord industrializzato che impoverì le regioni meridionali anche delle risorse umane.

L’emigrazione senza fine Ellis Island “Isola delle lacrime”

“Fra il 1880 e il 1915 approdano negli Stati Uniti quattro milioni di italiani, su 9 milioni circa di emigranti che scelsero di attraversare l'Oceano verso le Americhe. Le cifre non tengono conto del gran numero di persone che rientrò in Italia: una quota considerevole ( 50/60%) nel periodo 1900-1914. Circa il settanta per cento proveniva dal Meridione, anche se fra il 1876 ed il 1900 la maggior parte degli emigrati era del Nord Italia con il quarantacinque per cento composto solo da Veneto, Friuli Venezia Giulia e Piemonte. Le motivazioni che spinsero masse di milioni di Meridionali ad emigrare furono molteplici. Durante l'invasione Piemontese, operata senza dichiarazione di guerra, del Regno delle due Sicilie, i macchinari delle fabbriche, non dimentichiamo che Napoli era allora una città all'avanguardia in campo industriale, furono portati al Nord dove in seguito sorsero le industrie del Piemonte, della Lombardia e della Liguria. Le popolazioni del Meridione, devastato dalle guerra con circa un milione di morti, da cataclismi naturali (il terremoto del 1908 con l'onda di marea nello Stretto di Messina uccise più di 100,000 persone nella sola città di Messina) depredato dall'esercito, dissanguato dal potere ancora di stampo feudale, non ebbero altra alternativa che migrare in massa. Il sistema feudale, ancora perfettamente efficiente, permet-

teva che la proprietà terriera ereditaria determinasse il potere politico ed economico, lo status sociale, di ogni individuo. In questo modo, le classi povere non ebbero praticamente alcuna possibilità di migliorare la propria condizione. Da aggiungere ai motivi dell'esodo la crisi agraria dal 1880 in poi, successivamente l'aggravarsi delle imposte nelle campagne meridionali dopo l'unificazione del paese, il declino dei vecchi mestieri artigiani, delle industrie domestiche, la crisi della piccola proprietà e delle aziende montane, delle manifatture rurali. Gli Stati Uniti dal 1880 aprirono le porte all'immigrazione nel pieno dell'avvio del loro sviluppo capitalistico; le navi portavano merci in Europa e ritornavano cariche di emigranti. I costi delle navi per l'America erano inferiori a quelli dei treni per il Nord Europa, per questo milioni di persone scelsero di attraversare l'Oceano. L'arrivo in America era caratterizzato dal trauma dei controlli medici e amministrativi durissimi, specialmente ad Ellis Island, l'Isola delle Lacrime. Nel Museo dell'Emigrazione a New York ci sono ancora le valigie piene di suppellettili e di povero abbigliamento delle persone che reimbarcate per l'Italia, nella disperazione si buttavano nelle acque gelide della baia andando quasi sempre incontro alla morte.” (da “Remembering Ellis Island on Columbus Day”, di Ro Pucci)

(tratto da Angela Molteni, www.antoniogramsci.com) Fino al 1850 circa non esistevano procedure ufficiali per l’immigrazione a New York. In questa data l’impennata del numero di immigrati europei che fuggivano dalle grandi carestie del 1846 e dalle rivoluzioni fallite del 1848 spinse le autorità ad aprire un centro di immigrazione a Castle Clinton in Battery Park, sulla punta meridionale dell’isola di Manhattan. Verso il 1880 le privazioni che si soffrivano nell’Europa orientale e meridionale e la forte depressione economica nell’Italia meridionale spinsero migliaia di persone ad abbandonare il Vecchio Continente. Al contempo in America stava prendendo il via la rivoluzione industriale, con un crescente processo di urbanizzazione. Ellis Island fu aperta nel 1894, quando l’America superò un periodo di depressione economica e cominciò a imporsi come potenza mondiale. In tutta Europa si diffusero le voci sulle opportunità offerte dal Nuovo Mondo e migliaia di persone decisero di lasciare la loro patria. Quando le navi a vapore entravano nel porto di New York, i più ricchi passeggeri di prima e seconda classe venivano ispezionati a loro comodo nelle loro cabine e scortati a terra da ufficiali dell’immigrazione. I passeggeri di terza classe venivano portati a Ellis Island per l’ispezione, che era più dura. Ogni immigrante in arrivo portava con sé un documento con le informazioni riguardanti la nave che l’aveva portato a New York. I medici esaminavano brevemente ciascun immigrante e marcavano sulla schiena con del gesso coloro per i quali occorreva

un ulteriore esame per accertarne le condizioni di salute; se vi erano condizioni particolari di infermità ciò comportava che venissero trattenuti all’ospedale di Ellis Island. Dopo questa prima ispezione, gli immigranti procedevano verso la parte centrale della Sala di Registrazione dove gli ispettori interrogavano gli immigranti a uno ad uno. A ogni immigrante occorreva perlomeno una intera giornata per passare l’intero processo di ispezione a Ellis Island. Le scene sull’isola erano veramente strazianti: per la maggior parte le persone arrivavano affamate, sporche e senza una lira, non conoscevano una parola di inglese e si sentivano estremamente in soggezione per la metropoli sull’altra riva. Agli immigranti veniva assegnata una Inspection Card con un numero e c’era da aspettare anche tutto un giorno, mentre i funzionari di Ellis Island lavoravano per esaminarli. Dopo l’ispezione, gli immigranti scendevano dalla Sala di Registrazione per le “Scale della Separazione” che segnavano il punto di divisione per molte famiglie e amici verso diverse destinazioni. Il centro era stato progettato per accogliere 500.000 immigrati all’anno, ma nella prima parte del secolo ne arrivarono il doppio. Truffatori saltavano fuori da ogni dove, rubavano il bagaglio degli immigrati durante i controlli, e offrivano tassi di cambio da rapina per il denaro che questi erano riusciti a portare con sé. Le famiglie venivano divise, uomini da una parte, donne e bambini dall’altra, mentre si eseguiva una serie di controlli per eliminare gli indesiderabili e i malati. Questi ultimi venivano

portati al secondo piano, dove i dottori controllavano la presenza di “malattie ripugnanti e contagiose” e manifestazioni di pazzia. Coloro che non superavano gli esami medici venivano contrassegnati, come già accennato, con una croce bianca sulla schiena e confinati sull’isola fino a diversa decisione, oppure venivano reimbarcati. I capitani delle navi avevano l’obbligo di riportare gli immigrati non accettati al loro porto di origine. Secondo le registrazioni ufficiali tuttavia solo il due per cento veniva rifiutato, e molti di questi si tuffavano in mare e cercavano di raggiungere Manhattan a nuoto o si suicidavano, piuttosto che affrontare il ritorno a casa. Fatto che meritò a Ellis Island il nome di “Isola delle lacrime”. Quando gli Stati Uniti entrarono nella prima guerra mondiale nel 1917, i sentimenti anti-immigrazione e le ostilità isolazioniste erano all’apice. Il KluKlux-Klan, costituito nel 1915, rifletteva le opinioni di coloro che disprezzavano gli immigrati non inglesi considerandoli di “razza inferiore”. Mentre gli immigrati dovevano affrontare ostilità di ogni tipo, il ruolo di Ellis Island cambiava rapidamente da centro di smistamento per gli immigrati a centro di detenzione. Dopo il 1917 l’isola divenne principalmente campo di raccolta e di smistamento per deportati e perseguitati politici. L’immigrazione diminuì sensibilmente all’inizio della prima guerra mondiale e i decreti sull’immigrazione del 1921 e del 1924 di fatto posero fine alla politica di “porte aperte” degli Stati Uniti. Cittadini giapponesi, italiani e tedeschi furono detenuti a Ellis Island durante la secon-

da guerra mondiale e il centro venne utilizzato principalmente per detenzione fino alla sua chiusura, il 12 novembre 1954. Il 28 dicembre 1939 lo scrittore e giornalista praghese Egon Erwin Kisch (18851948) così scrive nel suo libro Sbarcando a New York. . “Sono di nuovo prigioniero sulla nave. Dall’oblò chiuso vedo il Nuovo Mondo verso il quale da due settimane, due settimane di guerra, sto navigando sulla ‘Pennland’ della linea olandese-americana [...]. L’immigration officer dice che il mio passaporto non è valido, perché un visto cileno ottenuto a Parigi non è sufficiente come visto di transito per l’America [...] Mentre parlava con me, un funzionario gli mostrò un fogliettino, senza dubbio conteneva qualcosa sul mio conto. ‘Lo so’, disse. Quindi mi tocca andare a Island - un eufemismo per Ellis Island, L’isola delle lacrime [...] Giù dalla ‘Pennland’ sulla quale abbiamo trascorso più di due settimane, giù con tutto il bagaglio (il mio è rimasto in Belgio), nei dock gelidi dove fanno la revisione doganale, poi con un tender all’isola-prigione sorvegliata dalla Statua della Libertà (si riempiono la bocca con la Statua della Libertà) [...]. Ciò che contraddistingue la nostra prigione da ogni altra è la cabina telefonica. Una cella del carcere con cabina telefonica non esiste da nessun’altra parte. Ammesso che uno abbia un nichelino, si può mettere in contatto con il resto del mondo, e al tempo stesso non può. Nessuno può chiamarti [...]. Faccio una passeggiata nel cortile che invece di quattro pareti ne ha soltanto due: quelle mancanti sono acqua.”

Non è un caso che all’interno di molti paesi della metropoli capitalista vi siano forti squilibri fra regione e regione e che tali disparità, nonostante durino da molto tempo, non siano mai state risolte. Tale ineguale sviluppo è voluto, cercato, utilissimo al rafforzamento dei capitalismi nazionali. Da questo punto di vista il caso italiano è eclatante e peculiare. In Italia la questione meridionale nasce insieme all’Unità, e anzi, in un certo senso è proprio l’Unità a creare la questione meridionale: i centri industriali del regno borbonico, infatti, invece di essere sostenuti e incentivati furono spazzati via per favorire le nascenti industrie del nord, e la monarchia sabauda gestì il controllo dei territori conquistati con le tipiche armi del colonialismo: feroce repressione del dissenso (dietro il nome di “lotta al brigantaggio”) e alleanza con l’inetta borghesia locale, latifondista e parassitaria. E così, dalla fine dell’Ottocento ai giorni nostri, una generazione dopo l’altra di lavoratori meridionali hanno dovuto lasciare la propria terra per cercarsi un futuro in luoghi lontani o lontanissimi: Nord Italia, Belgio, Germania, America, Australia… e oggi siamo al punto di partenza: un’indagine del 2010 redatta dall’Ufficio Studi della Banca d’Italia ha rilevato che il numero di emigrati dal Sud al Nord Italia è di nuovo molto vicino a quello dei primi anni Sessanta, quando migliaia di figli di contadini meridionali raggiungevano il trian-

golo industriale Milano-Genova-Torino per diventare operai. Un’emigrazione molto diversa qualitativamente, ma che tocca però le stesse vette numeriche di allora. Ogni anno, infatti, si spostano dalle regioni meridionali verso quelle del Centro-Nord circa 270 mila persone: 120 mila in maniera permanente, 150 mila

per uno o più mesi. Un dato vicino a quello dei primi anni Sessanta, quando a trasferirsi al Nord erano 295 mila persone l’anno. Parlare di 270 mila uomini e donne che ogni anno vanno da Sud a Nord per lavorare o per studiare significa immaginare una città come Caltanissetta che si sposta tutta intera per trovare un futuro. Tra il 1990 e il 2005 quasi 2 milioni di cittadini italiani sono stati costretti ad abbandonare il Sud per andare a trovare un impiego in qualche cittadina del Nord. E le cose sono persino peggiorate rispetto a 40 anni fa! Allora la “valigia di cartone”, comunque sinonimo di sacrificio e di dolore,

significava anche poter contare un lavoro pressoché sicuro (probabilmente sino alla pensione) e su un futuro di più ampie prospettive per sé e per i propri figli. Ora, invece, con precarietà e flessibilità a farla da padrone, si parte con un carico di incognite ben più pesante e difficile da gestire. La “questione meridionale”, lungi dall’essere risolta almeno sul fronte occupazionale, quello del lavoro al sud per intenderci, esiste in tutta la sua drammaticità. Un Mezzogiorno incapace di trattenere il proprio capitale umano (tra l’altro ora se vanno anche moltissimi laureati), perde uno dei fattori chiave per tenere viva la speranza in un reale cambiamento per tutto il Paese. “Dal punto di vista del Mezzogiorno, l’emigrazione dei lavoratori, e in particolare di quelli con qualifiche più elevate, può comportare un impoverimento di capitale umano che, a sua volta, potrebbe riflettersi nella persistenza dei differenziali territoriali in termini di produttività, competitività e, in ultima analisi, di crescita economica. In questo contesto, l’intervento delle autorità di politica economica deve essere teso, piuttosto che a frenare l’emigrazione, a rimuoverne le determinanti, che hanno come comune denominatore la quantità e la qualità della crescita economica nel Mezzogiorno.” (Banca d’Italia gennaio 2010). Ma allora, da sessant’anni a questa parte, cosa è cambiato?

III


In questo mondo libero 8 marzo 1991, 20.000 albanesi sbarcano a Brindisi Una città che fece stupire l’Italia per la sua solidarietà ai migranti (tratto da Antonio Camuso per l’Osservatorio sui Balcani di Brindisi, 2008) Per circa due giorni, dal 6 a 7 marzo 1991, tra le acque internazionali e quelle territoriali italiane si era svolta la prima operazione di interdizione di migranti da parte della Marina Militare italiana. un'operazione " con manovre cinematiche e intimidatorie" avrebbe dovuto far invertire la rotta dei boat people, ripetuta poi nell'agosto 91 quando migliaia di albanesi cercarono di sbarcare a Bari e tragicamente poi nel marzo 97, in quel maledetto venerdì santo che causò l'affondamento della Kater I Rades e la morte di un centinaio di albanesi. In ogni caso queste non impedirono l'arrivo dei migranti rafforzando quanto le organizzazioni antirazziste del territorio pugliese affermavano da tempo che non con i cannoni si sarebbero potute fermare le ondate migratorie dai Paesi del Sud del Mondo. Quell'8 marzo era in programma una manifestazione di donne organizzata dall'Associazione Io Donna e da altre organizzazioni femministe , che fu interrotta e quindi annullata a causa ell'emergenza: le compagne insieme agli uomini, gli operatori e gli utenti del centro Sociale (contro l'emarginazione giovanile) di Via santa chiara di Brindisi si unirono allo sforzo corale di tutta la città di Brindisi che con i propri mezzi si trovò a gestire l'emergenza. Il Centro Sociale divenne il campo docce, disinfestazione e vestizione di migliaia di albanesi. Per giorni a turni massacranti tutti i militanti storici, i giovani da poco inseriti nelle attività ludiche, le donne spesero tutte le forze, le famiglie dei compagni arruolate tout court nelle mense familiari, nell'accoglienza, in un'esperienza irripetibile e che vale, vale... la pena ricordare per comprendere appieno il significato di solidarietà che è dentro in ogni essere umano … ci lanciammo in poche ore in un'operazione riuscitissima nel dar voce a coloro che sarebbero dovuti diventare nell'immediato futuro un grande fenomeno sociale, politico, economico: i MIGRANTI.

Riduzione in schiavitù

IV

Il 22 febbraio del 2008 il Gup del tribunale di Bari ha emesso la sentenza di primo grado (poi confermata dalla Corte d’Assise d’Appello di Bari) nel primo processo penale in Europa per il reato di riduzione in schiavitù di lavoratori immigrati. Sono stati condannati a 10 anni di reclusione cinque “caporali” per aver ridotto centinaia di braccianti immigrati in stato di schiavitù sui campi di raccolta dei pomodori della Capitanata, in Puglia. Vari loro complici, e sottoposti, hanno subito pene tra 4 e 5 anni. E' stato un evento storico nella lotta a questa forma di criminalità maturato, oltretutto in un contesto legislativo nazionale molto fragile che ancora interpreta il reato di riduzione in schiavitù nella sola forma estrema della costrizione fisica, continuando a sottovalutare il lato culturale ed economico. Di questo evento giudiziario in Italia se ne è interessata solo la stampa locale. Eppure sono centinaia di migliaia i lavoratori ridotti in schiavitù. Immigrati ricattati e sfruttati da organizzazioni non solo malavitose, ma anche legittimamente imprenditoriali senza scrupoli. Un fenomeno che non riguarda solo il profondo Sud, ma si sta diffondendo a macchia d’olio anche nelle regioni centrosettentrionali. Eppure oggi è possibile fare ben poco per contrastare questo ramo della criminalità

che balza agli onori della cronaca molto raramente, solo quando si assiste a fatti violenti come quelli di Rosarno. Perché i caporali rischiano, solo se colti in flagrante, una sanzione amministrativa di 50 euro per ogni lavoratore ingaggiato. Niente di più. Anzi, di più, perché con l’entrata in vigore del reato di clandestinità chi ha denunciato il proprio sfruttatore si è trovato in mano un decreto di espulsione. Secondo le recenti stime l’apporto del cosiddetto lavoro nero al Pil italiano è pari a circa il 17% contro una media dei Paesi avanzati dell’Europa del 4%. Dei 400 mila lavoratori sotto caporale la maggior parte si concentra al Sud, ma si stanno creando anche nuovi fronti. Come l’Emilia Romagna dove nel mantovano gli immigrati per lo più di nazionalità indiana, vengono reclutati per la raccolta dei meloni o il Trentino Alto Adige, dove si comprano le braccia per la raccolta delle mele. Nel Lazio, invece, i caporali si trovano da Latina in giù dove sono istituzionalizzati gli “smorzi”, così nel gergo si chiamano i punti dove gli immigrati si mettono in vendita, solitamente vicini ai depositi di materiale edile. Non solo. La crisi economica ha aperto nuovi drammatici scenari spingendo anche gli italiani ad affacciarsi dove all’alba si concentrano i lavoratori in cerca di lavoro.

Sfruttamento minorile Circa 400 mila minorenni sono sfruttati nei luoghi di lavoro del nostro Paese. E' quanto si evince dalla ricerca realizzata dall'Ires-Cgil. Gli autori dell'indagine sottolineano come siano sottostimate le rilevazioni dell'Istat che ha valutato il fenomeno dello sfruttamento di minori non oltre la soglia delle 144 mila unità. Sono molti di più, secondo l'Ires, appunto quasi 400 mila. Di questi il 17,5% (circa 70 mila bambini) lavora oltre 4 ore al giorno in modo continuativo, ma per 40 mila di loro il tempo sottratto allo studio e al gioco va anche oltre le otto ore quotidiane. La paga oscilla tra i 200 e i 500 euro. Tra i 400 mila minori calcolati dalla Cgil sono inclusi i bambini figli di immigrati e i circa 30-35 mila minori non accompagnati entrati clandestinamente nel nostro paese. Oltre ai 70 mila bambini impiegati in lavori impegnativi, il 32% dei minori sfruttati, circa 130 mila, sono impiegati in lavori stagionali e il 50%, circa 200 mila, aiutano i genitori in quelli che l'Istat definisce "lavoretti", retribuiti con "paghette", e che la Cgil considera invece "lavori precoci" all'interno di un "contesto familiare povero". Dei 70 mila minori impiegati in lavori continuativi il 57% lavora nel settore del commercio, il 20% nell'artigianato e l'11% nell'edilizia. Si tratta di un fe-

nomeno in forte aumento e destinato a diventare sempre più importante. In tre grandi realtà metropolitane: Milano, Roma e Napoli, la popolazione minorile tra i 7 e i 14 anni è pari a 846.640 unità e i minori che lavorano sono 26 mila, il 3,7% fino a 13 anni e l'11,6% i 14enni. Le tre cause principali, povertà, lavoro irregolare e dispersione scolastica, non sono diminuiti d’importanza per tre motivi: la crescita della povertà nelle aree di emarginazione; la crescita del lavoro clandestino malgrado le regolarizzazioni; la depenalizzazione della dispersione scolastica. L'Italia, infatti, è al secondo posto in Europa, dopo la Gran Bretagna, per la più alta percentuale di minori che vive sotto la soglia della povertà. Il 17% dei minori è povero e al Sud la percentuale sale al 29%. Inoltre, in base ai dati dell'Ires, si evince che il lavoro minorile è la punta dell'iceberg del sommerso e che l'Italia ha il più alto tasso di sommerso in Europa, pari al 22% del pil e a 4 milioni di lavoratori, di cui il 10% è composto di minori. Infine la terza causa, l'aumento della dispersione e dell'abbandono scolastico è conseguenza della riforma Moratti per cui chi non rispetta l'obbligo della frequenza scolastica dei figli non va più in carcere, ma è punito solamente con una mul-


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.