supplemento al numero 4 - dicembre 2009 di Piazza del Grano
“MamaAfrika” Miriam Makeba dalla lotta all’apartheid alla lotta alla camorra; la gioia della musica contro la sopraffazione, la violenza, l’ignoranza Miriam Makeba per cinquanta anni ha rappresentato nel mondo la lotta alla discriminazione razziale e per la libertà del suo popolo nel Sudafrica dell’apartheid. La fine di quel regime non ha segnato la fine dell’impegno della grande artista africana contro ogni forma di sopraffazione in tutto il mondo. Miriam Makeba è morta in Italia a Castel Volturno il 10 novembre 2008 dopo un concerto anticamorra organizzato da Roberto Saviano
Là dove ha avuto inizio la storia dell’umanità Parlare dell’Africa significa “lambire” la storia dell’umanità. È in quella terra che è nata la specie umana e da lì si è diffusa e dispersa nel globo cambiano di colori, lingue e culture. Il “mal d’Africa” è forse in questa memoria atavica. Chiunque abbia avuto la possibilità di vedere, anche per pochissimo tempo, l’Africa ne è rimasto colpito e segnato nel profondo, affascinato dalla grandiosità della sua natura. Un solo aspetto ha sempre “stonato” allo sguardo dei bianchi colonizzatori: la presenza degli “uomini neri”. Per oltre cinque secoli l’Africa è stata saccheggiata dai bianchi e le sue popolazioni nere ridotte in schiavitù con una violenza ed una crudeltà che non ha avuto nulla da imparare dalla folle ferocia nazista e ciò anche molti anni dopo la fine delle dittature europee. Questa disumanità ha caratterizzato tutte le colonizzazioni occidentali, compresa quella italiana nella grottesca invasione del “corno d’Africa”, dapprima con la conquista del ridicolo Impero di Etiopia e
poi, anche se con minore violenza, nei protettorati di Eritrea e di Somalia. Negli anni sessanta è iniziato il processo di decolonizzazione, in parte per spinte rivoluzionarie, soprattutto nell’africa araba, in parte per il collasso economico degli Stati colonizzatori quali il Portogallo e la Spagna, in parte infine per l’avvio di una nuova politica di dominio appresa ed indotta dall’emergere della nuova potenza colonialista degli Stati Uniti d’America, politica caratterizzata dal “cambiare tutto per non cambiare nulla”. Molti Stati fantoccio sono così stati creati secondo confini tracciati dalle potenze occidentali sull’alb u m
geografico del “continente nero”, senza alcun rispetto per le identità etniche e culturali ed anzi spesso (vedi il Ruanda ex belga) col il preciso scopo di costringere più etnie in una difficile convivenza costantemente “manipolabile” per aizzare conflitti tribali quanto mai opportuni per spezzare dall’interno pericolosi tentativi di vera autonomia. Innumerevoli governi fantocci, capeggiati da elite corrotte e comunque di
formazione e dipendenza occidentale sono stati “inventati” dalle potenze coloniali nascoste dietro società nazionali e multinazionali che hanno in tal modo continuato a possedere e saccheggiare le risorse naturali dell’Africa. La “guerra fredda”, che ha garantito l’occidente dal rischio di una terza guerra mondiale potenzialmente nucleare, ha spostato anche in Africa i “campi di battaglia” tra i due blocchi sulla testa, o meglio sulla pelle, delle popolazioni africane. In quegli anni hanno comunque preso avvio numerosi percor-
si di indipendenza, alcuni soffocati nel sangue che ancora oggi scorre copioso in talune regioni centro africane, altri invece, più fortunatamente, seppure a grandissimo prezzo, approdati ad esiti positivi. Non pretendiamo in questo piccolo inserto di trattare la complicatissima e variegatissima storia dell’Africa post coloniale. Racconteremo, o almeno proveremo a ripescare da una memoria sapientemente rimossa, alcuni episodi che hanno visto fare ingresso anche in quell’immenso continente di quello “spettro”
che verso la fine dell’ottocento ha cominciato ad “aggirarsi per l’Europa”: il comunismo.
I
Comun d’Afr
PatriceLumumba ilLeninNero “Due occhi iniettati di sangue che roteano dietro gli occhiali in quella testa da Lenin africano”
II
Così i suoi assassini, il militare belga Gerard Soete e l’agente CIA Lawrence Devlin, descrivevano il primo ministro democraticamente eletto della neonata Repubblica del Congo. Patrice Lumumba, nato in una piccola città del centro del Congo, avendo avuto la possibilità di studiare dapprima in scuole cattoliche e poi protestanti in totale mancanza di strutture scolastiche pubbliche, riuscì a far parte di quella esigua minoranza di poco più di centomila congolesi, su milioni di abitanti, ai quali il governo belga aveva concesso il diritto di poter lavorare per imprese belghe, più o meno come un liberto (schiavo liberato) dell’antica Roma. Nel 1958, a poco più di trenta anni, Lumumba è a capo della prima formazione politica “nera” congolese, il Movimento Nazionalista Congolese che, alle prime elezioni libere dopo la dichiarazione di indipendenza del Congo “graziosamente” concessa dal re Baldovino nel giugno 1960, vince le elezioni e Lumumba viene nominato primo ministro. Lumumba aveva studiato Marx e si era avvicinato al movimento comunista mondiale senza mai averlo ufficialmente reso pubblico, tanto che fu uno shock inatteso il suo primo discorso di insediamento alla presenza del re belga quando, dopo avere ascoltato con crescente nervosismo la paternale del “buon re” che spiegava ai congolesi quanto fossero debitori del Belgio per la concessione della loro indipendenza, prese la parola e disse: “Nessun congolese degno di questo nome potrà mai dimenticare che l’indipendenza è stata conquistata giorno per giorno. Noi abbiamo conosciuto le ironie, gli insulti, le sferzate e dovevamo soffrire da mattina a sera perché eravamo negri, Chi dimenticherà le celle dove furono gettati quanti non volevano sottomettersi a un regime di ingiustizia, di sfruttamento e di oppressione?”. La reazione del Belgio, sostenuta da tutte le potenze coloniali europee e dagli Stati Uni-
ti, fu immediata. La paura di un contagio indipendentista rivoluzionario e comunista, dopo l’esperienza della rivolta algerina, indusse le potenze coloniali a provocare ed organizzare la secessione della regione del Katanga ricchissima di minerali preziosi e strategici, “inventando” il leader secessionista Tciombè ed armandolo con un esercito di mercenari belgi. Lumumba ricorse all’intervento dell’ONU che si limitò, tuttavia, a mandare alcuni caschi blù tra i quali, per chi lo ricorda, anche un contingente italiano della Folgore che venne massacrato dagli stessi mercenari di Tciombè. Per fermare definitivamente il “Lenin africano” le potenze coloniali ricorsero allora al consumato espediente del colpo di stato militare assoldando per tale compito un colonnello alcolizzato, Joseph Mobutu, che depose il governo democraticamente eletto assumendo tutti poteri, fece arrestare Lumumba, ma anziché processarlo, lo consegnò nelle mani dei mercenari dell’esercito secessionista del Katanga. Il 17 gennaio 1961 Patrice Lumumba fu fucilato, il suo corpo fu fatto a pezzi e sciolto nell’acido. Allora regnava in Belgio il “mite” re Baldovino, governava in Francia l’antifascista generale De Gaulle, negli Stati Uniti era stato eletto presidente John Fitzgerald Kennedy. Lumumba aveva solo 35 anni; dopo, 35 anni di potere assoluto del capo tribù Mobutu, corrotto ed indebitato, abbandonato e deposto dagli stessi che lo avevano portato al potere per essere sostituito da un altro generale, Desirè Kabila, a sua volta ucciso e sostituito dal figlio, attuale presidente. Lumumba diversi anni fa è stato riabilitato come eroe nazionale dal suo stesso assassino Mobutu, ma il suo paese è ben lontano dall’avere raggiunto non solo la democrazia, ma la stessa pace interna, ancora percorso da eserciti tribali sempre sul punto di
Thomas Sankara il Che Guevara africano “Per l’imperialismo è più importante dominarci culturalmente che militarmente La dominazione culturale è la più flessibile, la più efficace, la meno costosa Il nostro compito consiste nel decolonizzare la nostra mentalità” Thomas Sankara è stato un leader carismatico per tutta l’Africa Occidentale subsahariana. Nato da una famiglia cattolica scelse la carriera militare e durante il periodo dell’addestramento in Madagascar scoprì il marxismo. Più tardi, divenuto presidente della Repubblica, introdusse nelle accademie militari l’obbligo dell’istruzione sostenendo che i militari, per svolgere bene la loro funzione di difesa democratica, dovevano essere istruiti. Tornato nel suo paese, allora chiamato Alto Volta, fondò il Raggruppamento degli Ufficiali Comunisti. Divenuto per elezione democratica primo ministro venne destituito ed arrestato dopo una visita in Alto Volta del figlio dell’allora presidente della Repubblica francese il socialista Francois Mitterand. L’arresto provocò una rivolta che sfociò in una vera e propria rivoluzione e nel 1983 Sankara divenne presidente della Repubblica dell’Alto Volta alla quale lui stesso cambiò il nome in Burkina Fasu, coniugando due parole delle due lingue prevalenti nella regione, termine che vuol dire “paese degli uomini integri”. Nei quattro anni del suo governo Sankara introdusse in-
novazioni e realizzò opere straordinarie. In un paese in cui l’aspettativa di vita non raggiungeva i 40 anni Sankara diede vita a quella che la stessa Unicef definì la più grande campagna di vaccinazione di massa di bambini mai realizzata. In uno storico discorso all’O-
NU Thomas Sankara disse: “Parlo a nome delle madri che noi nostri Paesi impoveriti vedono i propri figli morire di malaria o di diarrea, senza sapere dei semplici mezzi che la scienza delle multinazionali non offre loro, preferendo investire in laboratori cosmetici o nella chirurgia
plastica a beneficio del capriccio di pochi uomini e donne il cui fascino è minacciato dagli eccessi della assunzione calorica nei loro paesi, così abbondanti e regolari da dare le vertigini a noi del Sahel”. Governando un paese di forte influenza musulmana Sankara proibì l’infibulazione e la poligamia, inserì un grande numero di donne negli esecutivi del governo e per primo denunciò la gravità della diffusione dell’AIDS in Africa dando vita ad una grande campagna sanitaria per la diffusione dell’uso dei profilattici. Tom, come lo chiamavano i suoi sostenitori, passò anche alla “leggenda” per avere venduto tutte le Mercedes blu, sostituendole con la Renault 5, proclamata automobile ufficiale di rappresentanza del governo. Venne ucciso il 15 ottobre 1987 nel corso di un colpo di stato organizzato da un ex compagno d’armi, Blaise Compaorè, attuale presidente del Burkina Fasu; molti hanno visto dietro quell’esecuzione l’ombra lunga della Francia di Francois Mitterand. Dopo la sua morte il Burkina Fasu è ripiombato nella miseria e nell’ignoranza.
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Chi si ricorda di lui? Dag Hammarskjold, svedese, fu segretario generale dell’Onu e premio Nobel per la pace alla memoria
Dag Hammarskjold, svedese, diplomatico, economista, scrittore, premio Nobel per la pace “alla memoria”. Chi si ricorda di lui? Eppure fu segretario generale dell’Onu per due mandati dal 17 aprile 1953 al 17 settembre 1961. Nel suo secondo mandato Hammarskjold si trovò ad
affrontare la crisi della neonata Repubblica del Congo, opponendosi strenuamente alla secessione della ricca regione mineraria del Katanga, secessione ordita dal governo belga con l’accordo degli Stati Uniti. Scomparve in un incidente aereo nei cieli dello Zambia. Le cause di quell’inci-
dente non vennero mai chiarite ma resta forte la convinzione che, in verità, si fosse trattato di un attentato organizzato direttamente dall’Unione Mineraria belga, “padrona” delle risorse minerarie del Katanga e finanziatrice dell’esercito mercenario di Tciombé.
Agostino Neto, medico, guerrigliero, presidente, poeta: il padre dell’Angola indipendente
Eduardo Mondlane pastore, sociologo e guerrigliero Eduardo Mondlane è considerato il padre del Mozambico indipendente anche se non ebbe la fortuna di vedere realizzato il suo sogno. Nato come pastore riuscì caparbiamente a studiare dapprima nelle scuole private inferiori in Mozambico, poi nelle superiori in Sudafrica da dove venne cacciato con l’avvento delle leggi dell’apartheid. Proseguì gli studi negli Stati Uniti dove riuscì persino a laurearsi. Tornato in Africa fondò in esilio a Dar-es-Salam in Tanzania il Frelimo, Fronte di Liberazione del Mozambico, del quale rimase a capo sin al 1969 quando venne ucciso in un attentato terroristico dalla Gladio portoghese, emanazione della Cia statunitense. La sua morte non fermò la guerriglia del Frelimo che nel 1975 ottenne l’indipendenza dal Portogallo e diede vita ad un governo comunista del Mozambico. La pace seguita alla vittoria della lunga guerra di liberazione durò assai poco, interrotta da un colpo di stato provocato e sostenuto dalle nuove potenze coloniali occidentali e dai razzisti bianchi del Sudafrica e della Rhodesia, che condusse ad una unga guerra civile guidata dal Renamo cessata solo nel 1992 con la sconfitta dei mercenari controrivoluzionari. Da allora il Frelimo governa democraticamente il Mozambico forte di un consenso elettorale ampiamente maggioritario.
Nel settembre 1975 in seguito al collasso del regime fascista del Portogallo di Salazar la colonia dell’Angola conquistò la propria indipendenza. La caduta del fascismo portoghese certamente agevolò l’indipendenza dell’Angola, ma la stessa fu soprattutto il frutto di una lunga e sanguinosa guerra di liberazione intrapresa dal Mpla, Movimento Politico per la Liberazione dell’Angola, fondato dal Partito Comunista Angolano nel 1956 con il braccio armato delle Fapla, Forze Armate per la Liberazione dell’Angola che, dopo la dichiarazione di indipendenza, costituirono l’esercito angolano. Di questo movimento popolare e del suo braccio armato Agostino Neto fu l’ispiratore e la guida e nel 1975 assunse la presidenza della Repubblica dell’Angola libera, carica che ricoprì sino alla morte per malattia avvenuta nel 1979 a Mosca. Agostino Neto, cresciuto a contatto con i quartieri più poveri di Luanda, durante gli studi universitari in Portogallo entrò nel Partito Comunista e venne più volte arrestato dal regime fascista portoghese provocando l’intervento di Amnesty International che nel 1957 lo dichiarò “prigioniero politico dell’anno”. Tornato nel suo paese alla guida del movimento politico e dell’esercito di liberazione riuscì a coniugare la lotta armata con la poesia alla quale si dedicò per tutta la vita nel-
“Noi dell’Africa immensa ecco le nostre mani aperte alla fratellanza del mondo per la Pace ecco le nostre voci” la ricerca della identità storica e culturale angolana soffocata dai secoli di dominazione portoghese. La conquista della indipendenza dal dominio portoghese non portò tuttavia la pace in Angola. Nuove potenze coloniali stesero le loro aspettative sulle risorse e ricchezze naturali dell’Angola scatenando e sostenendo, con denaro, armi e truppe mercenarie una guer-
ra civile che durò ancora trenta anni sino alla disfatta della formazione controrivoluzionaria dell’Unita direttamente organizzata dal regime sudafricano dell’appartheid. Nella difesa della libera Repubblica angolana fu determinante il contributo dell’esercito cubano giunto in soccorso tecnico e militare al piccolo esercito guerrigliero
ancora non strutturato del Fapla, per respingere il tentativo di invasione dell’Angola da parte dell’esercito sudafricano. Nell’Angola libera e pacificata, oggi governata con un ampio consenso elettorale dall’Mpla-Partito del Lavoro, resta forte l’insegnamento identitario di Agostino Neto: “Non stiamo ad aspettare gli eroi, se uniamo le nostre voci e le nostre braccia saremo nei stessi gli eroi. Difendiamo palmo a palmo la nostra terra, mandiamo via i nemici e cantiamo in una lotta viva ed eroica. Domani intoneremo inni alla libertà, quando commemoreremo la data dell’abolizione di questa schiavitù”
III
Che Guevara: «I miei sogni non avranno frontiere almeno finché le pallottole non avranno l’ultima parola» E’ la primavera del 1965 il “numero due” della rivoluzione cubana, truccato da signore di mezza età, quasi calvo, con gli occhiali ed ingrassato, parte dall’aeroporto di Avana, destinazione il Congo ex belga. In quell’immenso Stato centroafricano dilaniato dalla guerra interna innescata dalla secessione del Katanga di Tciombé, gli eredi della breve esperienza del governo democratico di Lumumba stanno organizzando la resistenza in un’area ai confini con la neo costituita Repubblica della Tanzania di Neyrere. Il Che parte per l’Africa seguendo il suo sogno dei “due, tre, mille Vietnam” per abbattere l’imperialismo “yanqui” che stava minacciando la sopravvivenza di Cuba. Il Che programma almeno cinque anni di presenza cubana in Congo necessari per creare ed addestrare un vero esercito rivoluzionario congolese. L’esperienza durerà solamente sette mesi e si concluderà con una rotta disastrosa dei sopravvissuti del piccolo manipolo di
guerriglieri cubani attraverso il lago Tanganica, in salvo nell’ancora amica Tanzania. L’esperimento rivoluzionario era fallito, l’innesco non aveva funzionato. Si dice che fu persino necessario un accordo ai massimi livelli internazionali per salvare la vita al “numero due” di Cuba e consentirgli di tornare libero e vivo in Europa. Molti avvenimenti di importanza mondiale erano accaduti nei pochi mesi della permanenza del Che nella giungla congolese, l’esperimento socialista di Ben Bella nell’Algeria liberata dalla dominazione coloniale francese era stato bruscamente interrotto dal colpo di stato di Boumedienne, la “guerra fredda” tra gli USA e l’URSS aveva congelato anche l’Africa, la Cina di Zhou Enlai aveva dato inizio alla penetrazione cinese in Africa, soprattutto Cuba, con la storica conferenza della Tricontinentale di Avana del febbraio 1966, aveva assunto la leadership dei blocco dei “paesi non allineati” con la Yougoslavia di Tito e
l’India di Ghandi. Ma un altro e ben più grave fu l’errore di interpretazione politica nel quale cadde l’Eroico Guerrigliero, errore del quale lui stesso prese consapevolezza solo nella fase finale della ritirata ed annotò nei suoi diari dal Congo. Il Che era nato e si era formato nel cosiddetto “cono europeo” dell’America del Sud assorbendo, suo malgrado, l’idea “eurocentrica” della storia del mondo, e così cadendo anche lui nella presunzione della possibilità di “esportare” le esperienze rivoluzionarie occidentali nell’immenso continente africano, non conoscendone, se non molto sommariamente, la sua storia e la sua cultura. La “miccia” rivoluzionaria non si era innescata non per la incapacità dei popoli d’Africa di ribellarsi alla sopraffazione coloniale, ma perché il “detonatore” non era africano. Alcuni anni più tardi i cubani torneranno in Africa con un vero e proprio esercito composto da circa 60.000 effettivi, ma questa volta sarà in aiuto ad uno
Stato, l’Angola, che aveva già preso coscienza di se stesso ed aveva iniziato il suo autoctono ed autonomo percorso di liberazione. Il risultato fu estremamente positivo: con l’aiuto dell’addestrato esercito cubano la giovane repubblica angolana riuscì a respingere l’invasione delle truppe mercenarie organizzate e sostenute dal Sud Africa e mantenere la sua libertà ed indipendenza. Di quell’esperienza africana del Che ci piace ricordare un aspetto dell’uomo e del padre affettuoso che sosteneva l’immagine eroica dell’indomito combattente per la libertà del mondo. Un breve messaggio scritto in una cartolina che Ernesto invio alla piccola figlia Aliusha: “Piccolina, stavo guardano le gazzelline correre nella savana e mi sono ricordato di te. I leoni ci sono soltanto qui, così nel nostro paese le gazzelline potranno correre senza che nessuno le insegua. Continua ad andare a scuola e dai un bacino da parte mia al tuo nuovo fratellino. Un bacio papà”.
La cartolina (fronte e retro) che Ernesto “Che” Guevara inviò dal Congo alla figlia Aliusha
La via per l’emancipazione La democrazia non si esporta, può nascere solo dall’interno
IV
Tutte le “grandi democrazie”, occidentali per prime, ma anche orientali “reali”, hanno avuto (ed ancora purtroppo hanno) l’arroganza di possedere il modello perfetto di democrazia e quindi la presunzione di poterlo/doverlo insegnare ai popoli sottosviluppati, ai primitivi, e quando questi ultimi mostrano di non gradire i loro insegnamenti “missionari”, hanno pensato di spiegarli meglio con invasioni, bombardamenti, occupazioni e “protettorati”. Ma la Storia, quella con la “S” maiuscola, ci ha insegnato da tempo che la democrazia può essere solo il risultato, il punto di approdo, di una crescita che parte dall’interno di quei popoli, della loro storia, della loro cultura, della loro capacità di autodeterminazione. Perché questo percorso prenda avvio occorre però che prima vengano sconfitti i tre “cavalieri dell’Apocalisse”: la fame, la malattia, l’ignoranza. Solo un popolo sano ed istruito può prendere consapevolezza di se stesso, delle proprie aspettative, dei propri diritti ed emanciparsi. Impedire questo percorso saccheggiando le ricchezze del così detto terzo o quarto mondo, inducendolo a disperdere e dissipare i propri patrimoni in guerre tribali aizzate e sostenute dall’esterno, creare governi corrotti e venduti tiranni dei loro stessi popoli, è stata da sempre la
Da Sharm el Sheikh a Copenaghen
strategia vincente delle “grandi democrazie”. Qualcosa sta cambiando. Il “mercato”, il “libero mercato” cuore del capitalismo moderno, paradossalmente, sta corrodendo dall’interno se stesso. Tutti ricorderanno l’esperienza dell’ENI di Enrico Mattei, quando tentò di sovvertire le “regole del gioco” imposte dalla “Sette Sorelle” (le grandi compagnie petrolifere che, unite in un “cartello”, un patto commerciale blindato, si erano spartite le risorse energetiche del mondo), proponendo ai governanti dei paesi produttori di condividere la gestione
dello sfruttamento dello loro risorse naturali. Oggi nuovi soggetti sempre più potenti stanno invadendo lo scenario del mercato mondiale delle risorse energetiche, offrendo a quei paesi, o almeno per ora ai loro governi, nuovi patti assai più vantaggiosi. La Cina, il nuovo gigante dell’economia mondiale, sta invadendo l’Africa, non con eserciti, né con denaro, ma con opere. La principale merce di scambio che la Cina propone oggi ai paesi del terzo mondo ricchi di risorse energetiche è la costruzione di infrastrutture: strade, ponti, dighe, porti e
strada facendo le strutture complementari: fabbriche, scuole, ospedali. Certamente anche le nuove potenze economiche emergenti perseguono il fine di acquisire le risorse energetiche necessarie al sostegno del loro sviluppo economico interno, ma creano e lasciano in quei paesi i presupposti per una autonoma crescita interna che sconfigga la fame, le malattie, l’ignoranza. Il resto spetterà a quei paesi, ai quei governanti, a quei popoli; spetterà a loro e solo a loro intraprendere la strada per una democrazia propria e non importata.
Lo sviluppo, la crescita economica, quello che noi comunemente chiamiamo il “benessere” ha un prezzo: l’ambiente. Il benessere utilizza e sfrutta e, infine, consuma l’ambiente. Negli ultimi cento anni una minoranza dell’umanità ha sostenuto la propria crescita, consumando a piene mani l’ambiente di tutti, anche quello degli altri. Questi “altri”, questa maggioranza ha iniziato a rivendicare il proprio diritto al benessere e quindi il diritto a consumare anche lei l’ambiente. Oggi ci si sta rendendo conto che non ce ne è per tutti; l’ambiente, il nostro mondo, non è in grado di sostenere l’attuale ritmo di crescita del “diritto al benessere” di tutti i suoi abitanti. Il mondo è diviso in due, anzi, in tre. L’occidente che punta il dito accusatore sulle nuove economie emergenti eccessivamente dinamiche ed affamate di benessere. Queste seconde puntano il loro dito sull’occidente incapace di porre un freno alla sete di ulteriore benessere. Poi ci sono i terzi, il terzo mondo che rischia di non trovare più lo spazio vitale per la sua speranza di benessere. L’occidente è in una crisi eco-
nomica della quale continua a non voler capire la ragione ed insiste nell’unica direzione che conosce: l’aumento dei consumi. Dall’altro gli immensi popoli emergenti che sono disposti a “bruciare” tutto per il loro diritto al benessere. Perché possa coesistere crescita e tutela dell’ambiente occorre un forte investimento nella ricerca scientifica e nell’applicazione di sistemi di produzione protetti. Ma non basta che i paesi ricchi facciano tale sforzo in casa loro sviluppando i loro sistemi di produzione ecocompatibili, occorre anche che gli stessi forniscano ai paesi emergenti i mezzi tecnologici e finanziari per consentire anche a loro di inseguire il legittimo diritto al benessere. Il 9 ed il 10 novembre scorsi si è tenuta in Egitto, a Sharm el Sheikh, la Quarta Conferenza della Cooperazione Cino-Africana. Tra gli otto nuovi punti del programma di cooperazione il primo concerne proprio i cambiamenti climatici con l’impegno della Cina a finanziare, raddoppiando le somme già promesse, 100 impianti di produzione di energia pulita: solare, bio gas ed idroelettrica.
Inserto a cura di Sandro Ridolfi