Mensile. Numero 72, Maggio 2009
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Phoenix
Depolique, Cate & Piotr. Foto di Zimen
PIG magazine 72, Maggio 2009 Direttore Editoriale: Daniel Beckerman Direttore Responsabile e Creativo: Simon Beckerman Senior Editor: Sean Beolchini Managing Editor: Valentina Barzaghi (valentinab@pigmag.com) Production Manager & Pr: Stefania Mapelli (stefania@pigmag.com) Fashion: Sean Beolchini (moda@pigmag.com) Ilaria Norsa (moda@pigmag.com) Music: Giacomo De Poli (musica@pigmag.com) Cinema: Valentina Barzaghi (cinema@pigmag.com) Art & Media: Giovanni Cervi (verbavolant@pigmag.com) Design: Maria Cristina Bastante (design@pigmag.com) Books: Marco Velardi (libri@pigmag.com) Videogames: Janusz Daga (jan@pigmag.com) Redazione Grafica: Stefania Di Bello (teffy@pigmag.com) Info: mail@pigmag.com Contributors Gaetano Scippa (musica), Marco Lombardo (musica), Piotr Niepsuj, Fabiana Fierotti, Romain Bernardie James (photo), Ángela Esteban (stylist), Beatriz Stuckenschmidt Maues (stylist assistant), Adeline Mai (model), Travis
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Hayd, Sannah Kvist (photo), James Pearson-Howe (photo), Ada Korvafaj (photo), Sun Hye, Shin (photo), Chris Heads (photo), Melanie Brault (stylist), Markus Lambert e Eny Whitehead (hair&makeUp), Sophie Vlaming (model) , Megan Butterworth (model). Special Thanks Caterina Napolitani, Piera Mammini, Caterina Panarello, Chiara Bonfanti, Marco Aimo e Laurence Muller. Marketing Director & Pubblicità: Daniel Beckerman adv@pigmagazine.it Pubblicità per la Spagna: SDI Barcelona Advertising & Graphic Design Tel +34 933 635 795 - Fax +34 935 542 100 Mov.+34 647 114 842 massi@sdibarcelona.com Gestione & Risorse Umane: Barbara Simonetti Edizioni B-arts S.r.l. www.b-arts.com Direzione, Redazione e Amministrazione: Via S. Giovanni sul Muro 12 - 20121 Milano. Tel: +39 02.86.99.69.71 - Fax: 02.86.99.32.26 Presidente: Daniel Beckerman Pig Magazine: Copyright ©2002 Edizioni B-Arts S.r.l. Autorizzazione del Tribunale di Milano n° 453 del 19.07.2001 Stampa: Officine Grafiche DeAgostini S.p.A. Corso della Vittoria 91 - 28100 Novara (Italy). Tel: +39 0321.42.21 Fax: +39 0321.42.22.46 Distribuzione per l’Italia: SO.DI.P. “Angelo Patuzzi”
S.p.A. Via Bettola 18 - 20092 Cinisello Balsamo (MI). Tel: +39 02.66.03.01 Fax: +39 02.66.03.03.20 Distribuzione per l’estero: S.I.E.S. Srl Via Bettola, 18 - 20092 Cinisello Balsamo (MI). Tel. 02.66.03.04.00 Fax 02.66. 03.02.69 - sies@siesnet.it Abbonamenti: B-Arts S.r.l. Tel. +39 02.86.99.69.71 email: abbonamenti@pigmag.com I versamenti devono essere eseguiti sul CC Postale numero 38804795 intestato a B-Arts S.r.l Spedizione in abbonamento postale 45% art. 2 comma 20/B Legge 662/96 Milano. Contenuto pubblicitario non superiore al 45%. Per informazioni su distribuzione e abbonamenti internazionali: international@pigmag.com Pig all’estero: Grecia, Finlandia, Singapore, Spagna, Inghilterra, Brasile, Hong Kong, Giappone, Turchia, Germania. Pig è presente anche nei DIESEL Store di: Berlino, Londra, Parigi, Tokyo, Milano, Roma e Treviso. Pig Magazine è edita da B-arts editore srl. Tutti i diritti sono riservati. Manoscritti, dattiloscritti, articoli, disegni non si restituiscono anche se non pubblicati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta in alcun modo, senza l’autorizzazione scritta preventiva da parte dell’Editore. Gli Autori e l’Editore non potranno in alcun caso essere responsabili per incidenti o conseguenti danni che derivino o siano causati dall’uso improprio delle informazioni contenute. Le immagini sono copyright © dei rispettivi proprietari. Prezzo del numero 5 Euro. L’Editore si riserva la facoltà di modificare il prezzo nel corso della pubblicazione, se costretto da mutate condizioni di mercato.
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Sommario Interviste:
76: Phoenix Foto di copertina di Sean Michael Beolchini.
90: Jonas & Francois
66: School Of Seven Bells
72: Buraka Som Sistema
56: Casely - Hayford
62: Zuek
86: Tomas Alfredson
Moda:
Street Files:
96: Smile
110: Adeline
44: Milan
Servizio di Chris Heads
Servizio di Romain Bernardie James
Foto di Sun-Hye, Shin
Regulars 08: Bands Around 12: Fart 14: Shop 16: Libro: Linda Berlin, Cristopher Nying e Tony Cederteg 18: Design 20: Pig files 38: Moda: Real Wild One 40: Flickr Buddy of the Month 120: Musica 124: Cinema 130: Libri 132: Whaleless 134: Webster 136: Videogames
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Bands Around
Foto di Meschina
Yuksek Bugged out @ Magazzini Generali - Milano Nome? Yuksek Età? 31 Da dove vieni? Francia Cos’hai nelle tasche? Sigarette e accendino. Qual è il tuo vizio segreto? Cammino sulle mani. Chi è l’artista/ band più sorprendente di oggi? Brodinski, Breakbot e The Shoes. Di chi sei la reincarnazione? Di Luigi XIV. Che poster avevi nella tua camera quando eri piccolo? Kurt Cobain Ci dici il nome di un artista o una canzone italiana? Rondò Veneziano
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Bor The T n fr op D om own spo rt © 2009 Reebok International. Reebok ®
Bands Around
Foto di Meschina
Drop The Lime Dont’ fuck about @ Rocket - Milano Nome? Drop The Lime Età? Infinito Da dove vieni? New York City Cos'hai nelle tasche? Sicilian Thunder e la chiave della città d'oro. Qual è il tuo vizio segreto? Bere tanti Manhattan on the rocks. Chi è l'artista/band più sorprendente di oggi? Rhianna Di chi sei la reincarnazione? Sol Lewitt e Johnny Cash Che poster avevi nella tua camera quando eri piccolo? Sonic Youth, Dirty Ci dici il nome di un artista o una canzone italiana? La Tarantella
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Fart uno spazio dedicato al sacro fuoco dell’arte
Di Giovanni Cervi (verbavolant@pigmag.com)
Luke Fowler, Serpentine Gallery (www.serpentinegallery.org), Kensington Gardens, Londra, Milano, dal 7 Maggio al 14 Giugno 2009. All photos by Courtesy of The Modern Institute, Glasgow © 2009 Luke Fowler.
La storia è una risorsa infinita d’ispirazioni. E si sbaglia sempre a denominare ciò che è trascorso “passato”, perché prima o poi ritorna, magari rimodellato o remixato, ma torna sempre. Inutile chiudere gli occhi quando tutto quello che abbiamo davanti scorre e si evolve, per guardare avanti dobbiamo guardare indietro. E l’arte ha il compito di farci fare repentini salti nel tempo. E i vecchi sono montagne di storie. 12 PIG MAGAZINE
Shop
Intervista a Anh Do e Andie Cusick di Fabiana Fierotti
Space 15 Twenty Space 15 Twenty è un mega studio hollywoodiano trasformato in spazio commerciale, in collaborazione con Urban Outfitters. Oltre a ben 4 sezioni dedicate a diversi brand, potrete trovare anche una galleria, uno spazio all’aperto per concerti e proiezioni cinematografiche e infine una libreria storica, Hennessey & Ingalls, specializzata in arti visive.
Ciao. Raccontatemi delle origini di Space 15 Twenty. A cosa puntavate inizialmente? Il carattere estetico dello Spazio è stato ispirato dalla funzione originale del luogo stesso, costituito da una serie di edifici che ospitavano un magazzino adibito a studio di illuminazione hollywoodiano. Los Angeles è la città perfetta per testare questo nuovo tipo di spazio per la vendita al dettaglio. Complessivamente, il progetto Space 15 Twenty mira a dare un contributo al quartiere di cui fa parte, parlando al cliente in un modo significativo, non solo come impresa commerciale, ma come esperienza. Inoltre, crea un’opportunità per la Urban Outfitters di collaborare con marchi creativi che riteniamo entusiasmanti e interessanti. Space 1520 è veramente enorme ed è diviso in sezioni. Qual è la loro funzione? Abbiamo diversi brands in ogni spazio: Alife, Urban Outfitters, We The Free e What Comes Around Goes Around. Alife (www.alifenyc.com) è stato fondato alla fine degli anni ‘90 da un gruppo di giovani artisti e designers nel centro di New York. Lavorando nei campi di moda,
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musica e arte, Alife ha collaborato con artisti e marchi, includendo tra gli altri Wu Tang Clan, Q-tip, Moby, Kangol, Reebok, Levi’s e Deitch Projects. Il marchio rispettato a livello internazionale sta aprendo ora un negozio autonomo all’interno di Space 15 Twenty. We the Free (www.freepeople.com) offre una linea ispirata al vintage, rivolta a una clientela femminile lievemente più adulta. Come negozio autonomo all’interno di Space 15 Twenty propone una vasta gamma di abiti fatti a maglia, magliette con grafiche, vestiti ricamati a mano oltre a jeans e accessori. What Comes Around Goes Around (www.nyvintage.com) è il terreno di caccia per la maggior parte degli stilisti di moda della costa orientale in cerca di vintage raro. Oltre ai negozi, sono presenti anche spazi dedicati alla musica o alla lettura? Si, certo! Abbiamo la Libreria Hennessey & Ingalls (www.hennesseyingalls.com/Hennessey), la più grande libreria d’arte e architettura negli Stati Uniti occidentali che fornirà una nuova pietra miliare a Hollywood per le arti visive. Accanto a questa vi è uno spazio che funziona anche
come cortile all’aperto, galleria e spazio per esibizioni; la Galleria è una componente chiave dello Space 15 Twenty. A rotazione mensile, viene occupata da giovani gallerie d’arte, case editrici indipendenti e sognatori di moda che catturano lo spirito creativo coerente con il marchio e l’estetica di Urban Outfitters. Il cortile all’aperto è utilizzato per mostre, film ed esibizioni musicali. Ci sono infinite possibilità di collaborare con fondazioni di musica, arte e film confinanti così come di realizzare un vero e proprio mercato delle pulci. Progetti futuri per il vostro negozio? Continueremo con il nostro negozio Popup alla Urban Outfitters all’interno di Space 15 Twenty. Impianti eccezionali daranno ai designers ogni mese l’opportunità di curare lo spazio pop-up e di mostrare le loro linee accanto alla loro scelta di designers, arte, libri e musica.I Pop-up passati hanno coinvolto Samantha Pleet e Steven Alan. Avete uno shop online? Si, potete acquistare acquistare la nostra merce online su space15twenty.com e www.urbanoutfitters.com
Books
Intervista e foto di Marco Velardi
Linda Berlin, Cristopher Nying e Tony Cederteg LIBRARYMAN nasce dall’esperienza ed energia del nostro amato paladino dell’editoria Tony Cederteg, che avete già conosciuto sulle pagine di PIG, con l’aiuto di Cristopher Nying, fondatore del marchio Our Legacy, e Linda Berlin, che coordina l’archivio di immagini del marchio Filippa K. Un trio perfetto di Svedesi che siamo andati ad intervistare per capirne qualcosa di più sul loro piano di conquista del mondo… quello dei collezionisti ovviamente.
Com’è nata l’idea di iniziare LIBRARYMAN? La motivazione iniziale nel mettere in piedi una nuova casa editrice è venuta dall’idea di onorare il collezionismo di libri di fotografia, semplicemente stampandone di nuovi. Ma il nostro obiettivo finale va ben oltre questo semplice spunto iniziale, anche se non possiamo rivelarti molto. Il tutto verrà allo scoperto quando saremo pronti, e sarà una bomba! Quali sono le gemme del vostro catalogo? Artisti del calibro di Keiko Nomura, Yuichi Hibi, Frode & Marcus, Ola Rindal, Viviane Sassen, Nigel Shafran, Henry Roy, Yosuke Bandai per dirne alcuni. Come selezionate gli artisti da pubblicare? Per quanto riguarda la serie A day in the life of... i designer Andreas och Fredrika hanno creato un format standard, per cui loro decidono con la nostra supervisione chi pubblicare. Per tutto il resto, le decisioni sono prese da noi tre insieme (Tony Cederteg, Cristopher Nying and Linda Berlin) e si basano sul nostro gusto personale. Vi occupate di altro oltre a LIBRARYMAN? Certamente. Facciamo consulenze di grafica sotto il nome Cederteg. Nying. Berlin. Ad esempio abbiamo appena prodotto un catalogo per la mostra iloveyouihateyou di Lee Ranaldo e Leah Singer presso Magasin 3 Stockholm Konsthall.Inoltre, Tony insegna a dei workshop di grafica e fotografia presso ECAL di Losanna e il Beckmans College of Design di Stoccolma. Linda lavora per la sezione di immagini e web del marchio Filippa K, mentre Cristopher disegna il marchio di moda maschile Our Legacy oltre ad esserne il proprietario. Ma questo è solo una piccola parte, ci sono sempre nuovi progetti all’orizzonte. Se vi chiedo di darmi una definizione di editoria indipendente? Noi siamo degli editori indipendenti, anche se non ci piace il termine perchè ha una connotazione di poca serietà, perchè siamo ancora al punto in cui ci occupiamo personalmente di gestire la distribuzione, non perchè ci piaccia, ma perchè senza intermediari si riescono a massimizzare i guadagni. Inoltre, essere indipendenti nella scelta dei contenuti ci permette di avere una migliore performance rispetto
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ad editori più strutturati dove molte cose non sono possibili. Del futuro dell’editoria cosa ne pensate? Per quanto ci riguarda, abbiamo creato un modello di business che pensiamo funzioni bene, anche se siamo ancora in fase di sviluppo. Per quanto riguarda la scommessa che sta portando il mondo digitale all’editoria non credo ci saranno problemi, perchè la base di collezionisti è sempre in crescita e rimarrà tale
negli anni a venire, nutrendo il commercio di edizioni limitate. Un libro che consigliereste? Quinault di Yoshikhiko Ueda, pubblicato da Seigensha. Un libro perfetto in ogni aspetto: la rilegatura, il numero di pagine, la selezione di immagini, il formato, la carta, i colori,.. Non si trova facilmente e non ha un prezzo decisamente alla mano, ma ne vale la pena. www.libraryman.se
Joon&June Due nomi, lo stesso suono. Come il loro design, diverso nelle soluzioni, comune nelle intenzioni. Joon&June (si legge Jun ‘n Jun) sono un giovanissimo duo coreano. Lavorano sui piccoli oggetti, i piccoli inconvenienti e le grandi sorprese. Quelle che possono accadere tutti i giorni... Di Mariacristina Bastante (kikka@pigmag.com)
joon&June, chi siete? Joon: Sono un designer che progetta in allegria. June: Sono una designer di vent'anni, analog styled e appassionata. Che cos'è il design per voi? Joon: Lavoro, studio e gioco. June: E' il momento in cui trovo in me stessa chi sono. Il design deve avere una funzione pratica? La funzione pratica è indispensabile, altrimenti le cose possono essere nocive. Però, dopo che gli oggetti “incontrano” la loro funzione di base devono anche avere a che fare con le
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emozioni, la bellezza, il caso. Che cos'è Joon&June? E' un duo che esiste dal 2007. E' composto da Kim Joon Hyun e Kwon MinJoo. Il nome viene dai nostri nickname che si scrivono in maniera diversa, ma si pronunciano allo stesso modo. Così anche le nostre intenzioni sono simili, ma le soluzioni che troviamo sono differenti. Quando avete deciso che sareste diventati dei designer? Joon: Seoul è una città veloce e vibrante, quando ero al liceo mi sono accorto all'improvviso che tutte le cose che mi circondavano erano il risultato di quello che avevano fatto dei
designer. Tutto questo mi ha affascinato. June: Mi piace moltissimo disegnare e fare. Ho iniziato a sognare di diventare una designer quando ero al liceo, perchè per me il design è la creazione di qualcosa di nuovo che è simultaneamente disegnato e fatto. Minjoo, mi piace moltissimo il tuo progetto Plant's Earth. Vuoi parlarmene? Adoro le piante perchè molti dei miei ricordi di quando ero piccola sono legati al negozio di fiori dei miei genitori. Nel febbraio 2008, quando lavoravo per preparare la mostra in Giappone, ho iniziato a riflettere sul mio stile e ho concluso che non potevo
parlare di me stessa senza piante e fiori. Così ho iniziato a pensare ad un progetto che avesse a che fare con loro. Come sappiamo le piante crescono. E quando crescono bisogna travasarle dal vaso piccolo ad uno più grande. Ho cercato di fare un vaso che potesse stare sempre con la pianta. Joonhyun, invece, hai realizzato alcuni progetti con clips e puntine. Sembra che ti piacciano questo tipo di piccoli oggetti “da scrivania”... Quando abbiamo iniziato Joon&June volevamo mostrare alle persone scettiche come il design potesse essere semplice e lucido piuttosto
cadano a terra grazie alla loro forma sono subito riconoscibili e se le calpesti non rischi di farti male! Un vostro progetto è dedicato al cibo... A Meal è un vassoio per i senzatetto. I vassoi di solito fanno il loro dovere contenendo il cibo, ma non fanno sentire il “calore” del cibo come quello che sentiamo a casa. Abbiamo cercato di far sentire questo tipo di sensazione ai senzatetto, qualcosa che va oltre il semplice dare da mangiare. Purtroppo il vassoio ha un aspetto “orientale” e temiamo che difficilmente possa ispirare questi sentimenti in occidente... Mi sembra che l'interazione sia un aspetto
Com'è la vita a Seoul? In Italia nelle città il passato si avverte ancora. Seoul è una città dinamica, che cambia ogni giorno. Di solito lavoriamo dalla sera e fino a tarda notte e il panorama notturno della città che vediamo attraverso la vetrata del nostro studio è grandioso. Quali sono i vostri prossimi progetti? Stiamo pianificando la partecipazione a London Design Block. Abbiamo ricevuto molti commenti positivi per il 100% Design Tokyo. Vorremmo arrivare a questo evento con dei pezzi nuovi e completamente finiti!
che serioso e complicato. Questo è il motivo per cui progettiamo prodotti piccoli, facili per chiunque. Uno dei miei progetti si chiama Corner Clip: considerando che le persone generalmente usano le clips per tenere assieme dei gruppi di fogli, ho pensato che sarebbe stato meglio dare alle clips la forma esatta che ha l'angolo di un foglio. Clpin parte da un'idea abbastanza simile: le pins sono fatte in modo da non lasciare buchi indesiderati sui fogli quando vengono attaccati per esempio su una parete. Le Greenpin invece sono piatte, così nel caso
principale nel vostro lavoro... La maggior parte delle persone non riconosce le piccole sensazioni di disagio della vita di tutti i giorni. Il nostro design vuole dissolvere questo inconscio malessere quotidiano. Chi sono i vostri designer/artisti preferiti? Joon: Mi piace il design di Bruno Munari. Nonostante non abbia mai lavorato qui, ho potuto vedere molti dei suoi lavori in mostre. Il suo design razionale mi ha influenzato molto. June: Laszlo Moholy-Nagy. Ha lavorato più che altro come graphic designer, ma la sua logica può applicarsi benissimo anche al product design.
Quale tra i vostri progetti già realizzati è quello che amate di più? Flat Bulb. In questo periodo in molti paesi la vendita di questo tipo di lampadine è in calo, per via della questione energetica. Così abbiamo progettato queste lampadine pensando che fosse l'ultimo momento utile per farlo. E' stato interessante perchè il nostro progetto rompe con l'idea comune di lampadina. Che cosa vi ispira? Gli inconvenienti della vita di tutti i giorni. Noi cerchiamo di risolverli!
www.joon-june.com 19
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Di Giovanni Cervi
Golden Age Daniel Loves è un giovane designer residente a Singapore. La sua peculiarità è di creare oggetti belli, originali e con una profonda critica sociale. Come la serie “Of War & Wits & Power”, forse ispirata alla corsa al nucleare della Nord Corea e le lampade di “At Your Command”, che mettono a nudo la desolazione e la solitudine della vita contemporanea. Potrebbero essere uscite da un film di Wong Kar-Wai. Una nuova età dell’oro è alle porte, nella quale il prezioso metallo rappresenta non un sogno, ma un incubo. O forse ne siamo alla fine. Lo capiremo presto.
City puma Qualche anno fa il Segway era stato annunciato come un’invenzione in grado di trasformare le nostre città e il nostro modo di vivere nel giro di pochi anni. Ciò non è stato, per il prezzo troppo alto, per problemi burocratici e perché, secondo me, non tutti sono dotati dell’equilibrio necessario per usarlo. Ora ci riprovano, in collaborazione con la barcollante General Motors, con Puma (Personal Urman Mobilità & Accessibility). Sembra uno scooter ma non lo è, sicuramente più intuitivo da manovrare e annunciato in modo meno roboante. Vedremo tra qualche tempo se ce la faranno. www.segway.com/puma
L’ora mimetica Gli orologi ormai sono diventati un accessorio di lusso. La produzione di massa è crollata e la conseguenza, forse per fortuna, è stata l’innalzamento della qualità e dell’originalità. Questo Faceless di Hironao Tsuboi ne è un esempio. All’apparenza è un braccialetto, nelle cui pieghe, in realtà, sono nascosti dei Led che illuminano l’ora quando richiesto o ad intermittenza. L’idea è originale e fascinosa. Come se fossimo noi a controllare il tempo che scorre e non viceversa… www.100per.com/items/item01.html
©Takumi Ota
3x3
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Un cubo bianco denominato Paco, nomignolo piuttosto rassicurante, sottende quello che per molti potrebbe essere un incubo claustrofobico, per altri un sogno, tipo fare l’astronauta. Paco è un progetto sperimentale che elabora un nuovo stile di vita, bianco, razionale e 3x3. Numero perfetto, ma lo sarà per vivere? Tutto è compresso, cucina, camera, bagno e pure una stanza per gli ospiti. Il progetto, naturalmente, è giapponese, di Jo Nagasaka e dello Schemata Architecture Office. Sarà come vivere su un modulo lunare. O in un film. Oppure in una qualsiasi metropoli tra qualche anno. www.sschemata.com
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Di Giovanni Cervi
The medium is the future Come sarà la vita in un futuro a medio termine? Una possibile risposta arriva dalla Danimarca. Radiant Copenhagen è un progetto che integra Google Maps alla tecnologia Wiki e una fantasia dirompente. La città, la sua vita e la sua società sono stati ricreati in un futuro non troppo lontano, tra festival di arti lontane, nuove sedi di utopiche compagini politiche, scuole ideali…. Il tutto spiegato illustrato come fosse storia vissuta. Un intrigante e spaesante progetto di architettura sociale. Così sia. radiantcopenhagen.net
La musica mette le aliii Nokia qualche tempo fa ha lanciato un concorso per giovani designer. L’intento era di far creare cuffie per ascoltare la musica. Sicuramente tra le più interessanti ci sono queste di Rodshakur, ispirate a “I Believe I Can Fly” di R Kelly. Si chiamano “I’m flying” e sono degne di Zeus, Apollo e di tutto l’Olimpo. Personalmente non reggo molto gli auricolari per ascoltare la musica, troppe interferenze. La speranza è che qualcuno le metta in commercio presto. www.nokiamaheadsetdesign.com
Books 4 books La mia fissa per le librerie prosegue con Book Book Shelf, una brillante idea di riuso. I libri che non leggiamo o consultiamo più diventano lo scaffale su cui mettere quelli che ci interessano. Molto semplice e di grande effetto, oltre che sostenibile, che sembra essere la nuova parola d’ordine del design, anche se credo che alla fine i prodotti davvero “green” siano davvero pochi. Riusare dovrebbe essere l’imperativo. www.not-tom.com
Giochi d’Acqua Abbiamo già affrontato in questa rubrica idee semplici, ma geniali, al servizio dei poveri. Questa ne è un’ennesima prova. Nei paesi poveri spesso l’acqua potabile è un problema serio e senza soluzione. Carenza e malattie sono all’ordine del giorno. Quelli di Playpump hanno trovato un uovo di Colombo. Una pompa che funziona con l’energia dei bambini che giocano. L’acqua viene pompata dalle profondità della terra attraverso una piccola giostra girevole (“girello”, n.d.r.) senza bisogno di elettricità o eccessivi sforzi fisici. Ne vogliono installare 4000 entro il 2010. Aiutiamoli. L’acqua malsana è responsabile dell’80% delle malattie in molte nazioni africane. www.playpumps.org
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Feature on Designer: Gemma Slack
Intervista di Fabiana Fierotti. Foto di Yara De Nicola.
Ciao Gemma, come stai? Bene grazie! Cosa hai fatto ultimamente? Dopo lo show mi sono soltanto rilassata un pò con gli amici e ho trascorso un week end a casa. Ma è stato breve… sono di nuovo impegnatissima! Ho cambiato casa poche settimane prima dello show (pessima scelta), quindi sto finalmente iniziando a spacchettare le cose e preparare tutto per la prossima stagione… oltre a destreggiarmi tra buyers e stampa… Raccontaci un po’ dei tuoi studi… Inizialmente mi sono trasferita a Londra per studiare Arte a Chelsea. Poi ho cambiato con il corso di Moda del London College of Fashion. Non avevo un’idea ben precisa su dove studiare… Ho solo seguito le indicazioni del mio insegnante di Arte Antica, che mi aveva sconsigliato la Central Saint Martin’s. In effetti, in termini di abilità, ho imparato molto all’LFC (non avevo idea di come fosse fatta una macchina da cucire prima di entrare lì). Poi 26 PIG MAGAZINE
passavo tutte le vacanze a imparare nuove tecniche e metterle in pratica. Ho sempre trovato che i compiti assegnati erano troppo noiosi e limitanti, ma ripensandoci in fondo ti spingono solo a dare il meglio di te. Come sei arrivata al London Vauxhall Fashion Scout? È successo tutto all’ultimo minuto. Stavo preparando la mia collezione per la settimana della moda, che inizialmente doveva essere esposta nello showroom. Quella sera ho ricevuto una telefonata da Micheal (il direttore di Blow Pr) che mi chiedeva se mi andasse di sfilare nei giorni a seguire! Ovviamente ho colto l’occasione al volo! Abbiamo fatto un guerrilla show con Komakino e Craig Lawrence. Qual è il concept centrale della collezione? Non c’è un concept preciso… il mio punto di partenza è stato un articolo che ho letto sulla religione e la tecnologia oggi: la fede e i culti nella società odierna applicati alla storia, all’ingegneria. Insieme e
tutto questo mi ha influenzata molto l’idea di protezione che ogni scuola di pensiero offre. A cosa punti, a livello estetico? Mmmm… è un po’ difficile. Cambio sempre idea. Di solito è un mix tra la creazione di una donna sexy molto sicura di sé e un gusto molto dark-gothic. Mi interessa anche il modo in cui accessori e vestiti possano cambiare a seconda della persona. Qualche progetto per i prossimi mesi? Sto sviluppando la prossima collezione, lavorando su nuove tecniche. Sono a un punto in cui ho bisogno di fare un passo indietro e filtrare tutte le idee, in modo da cominciare una ricerca seria. La tua top5 della settimana della moda di Londra? Ho amato Pam Hogg, Todd Lynn, Ioannis Dimitrousis, Josh Goot e Maria Francesca Pepe. In quali negozi possiamo trovare la tua collezione? Potete comprare tutto sul mio sito: www.gemmaslack.com
Blog of the Month: Advanced Style
Intervista ad Ari Cohen di Fabiana Fierotti.
Ciao Ari, quanti anni hai? Cosa fai nella vita? Mi chiamo Ari Seth Cohen, ho 27 anni. Vivo a New York da quasi un anno e lavoro come organizzatore di eventi al New Museum. Come va oggi? Cosa hai fatto durante la giornata? Sto fantasticamente bene. Ho avuto una giornata fantastica, girando per il centro con MISTER MORT, scattando foto. Abbiamo conosciuto gente favolosa. Raccontaci delle origini di Advanced Style. Quando mi sono trasferito a New York mi sono accorto subito di tutti quegli anziani super cool che giravano in città. Li ho sempre ammirati e volevo condividere il loro grande stile con qualcun altro. Penso che essere stato molto vicino a mia nonna, vedere tutte le sue foto e ascoltare
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i suoi racconti, mi abbia molto influenzato nella vita. Quante persone collaborano al blog? MISTER MORT è quello che contribuisce di più. Ha anche un suo blog e un gran buon occhio per il menswear. Mi piace molto pubblicare anche le proposte dei lettori. Come ti è venuta l’idea di dedicare il blog solo agli anziani? Abbiamo una cultura così ossessionata dalla gioventù che molte volte la gente dimentica che lo stile è innato. Gli anziani seguono così poco i trend e preferiscono il loro stile personale, con il quale si sentono perfettamente a loro agio. Spero che la gente prenda più a modello i più anziani e capisca quanto possano essere fighi. Quali caratteristiche ti spingono a fotografare qualcuno? Sono attratto dalle
persone con una spiccata personalità. Mi attraggono sicuramente gli accessori particolari e gli stili personali. Cos’è l’eleganza? Penso che l’eleganza sia una cosa molto naturale. È parte del carattere. Mimi Weddell, nel film Hat’s Off la definisce perfettamente. Pensi sia legata alla crescita? Penso che più vai avanti con gli anni, più ti senti a tuo agio con te stesso. Puoi essere sofisticato a qualsiasi età, ma vestirsi con cappelli, tailleurs e abiti con i guanti, è decisamente un trend del passato che spero possa tornare nel presente. Hai mai conosciuto qualcuno un po’ bizzarro durante le tue ricerche per strada? Non molti… una volta ho conosciuto una donna sull’ottantina che adorava fare Bungee Jumping.www.advancedstyle.blogspot.com
Brand highlight
Di Fabiana Fierotti
Happy Birthday Levi’s Engineered! Photography: SEAN MICHAEL BEOLCHINI Styling: FABIANA FIEROTTI Model: JENNY at Women Hair & Make-Up: SARA GERACI at Orea Malià Asstnt Ph: GIOVANNI GALILEI Special Thanks: VIVIENNE
Vi ricordate i mitici Engineered di Levi’s? Nel 1999, io ero al liceo e la mia scuola era letteralmente infestata da ogni modello di questi jeans. Bene, quest’anno si festeggia il loro decimo anniversario. Per l’occasione è stata prevista l’uscita di una collezione in edizione limitata, che consiste nella totale rivisitazione del loro look urbano e prettamente americano. Saranno nuovamente disponibili i modelli storici, 1st Standard e 1st Giant per uomo e Culotte per donna, in uno speciale packaging celebrativo. Ma c’è anche un’altra novità. Se recentemente avete fatto un salto in Rinascente, vi sarete sicuramente imbattuti nell’evento Denim Mania, organizzato in onore della nuova versione coloured dei Levi’s 501, dove il designer Carlo Spreafico si è esibito in una performance artistica, personalizzando i jeans acquistati. Dando un’occhiata proprio alla collezione estiva, non potevamo non scegliere e proporvi questo gilet pieno di borchie… We love it! www.levi.com 30 PIG MAGAZINE
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Caitlin Mociun loves Morocco Ciao Caitlin, come va? Tutto ok. Che combini? Un po' di cose per me... è un periodo abbastanza rilassato. Credo che inizierò a stressarmi tra un mesetto. Parlaci della tua collezione per la primavera/estate 2009: E' completamente ispirata al mio viaggio in Marocco dell'anno scorso. In quel paese i colori, le stoffe e i gioielli sono semplicemente meravigliosi; sono rimasta affascinata dai mercati e dal modo in cui le cose in vendita sono disposte, così una volta tornata a casa ho creato la mia collezione ispirandomi proprio a tutto questo. Descrivila con tre parole: colorata; spiaggia; brezze leggere. Descrivi il Marocco con tre parole: magico; Terra; radici. La cosa più divertente che ti è capitata in questo viaggio: sono andata in un Hammam tutta sola senza parlare una parola della lingua e sono stata lavata da una persona sconosciuta. Più che divertente come esperienza è stata strana... E il momento più stimolante? Perdersi nel mercato delle spezie. Qual è la destinazione del tuo prossimo viaggio? Copenhagen, poi Berlino, la Sardegna e infine Stoccolma. C'è un posto del mondo che ancora non hai visitato e in cui vorresti fortemente andare? Sì cavolo! La Nuova Zelanda e il Brasile. Progetti per il futuro? Libri! www.mociun.com Di Ilaria Norsa.
BOY Spring Summer 2009 Per il lookbook della collezione estiva di Boy, Scott Sternberg ha ritratto l'attrice e musicista Sarah Silverman all'interno del famoso Canter's Deli di Los Angeles, storico 24hours diner situato sulla Faifax Avenue e aperto dal 1931. Dopo Michelle Williams e Kirsten Dunst, Scott ha dichiarato di aver scelto l'affascinante Silverman come musa e soggetto delle sue ormai celeberrime polaroid proprio perché completamente diversa da Kirsten Dunst e dunque in grado di dimostrare la versatilità della collezione. Il look è quel tipico "boy-meets-girl" - preppy, sexy e sbarazzino, fatto di blazer e gonne al ginocchio - che ci ha fatto innamorare di Boy; mentre le scarpe dal tacco killer e dai colori neon sono ancora una volta il frutto della fortunata collaborazione di Sternberg con Manolo Blahnik. A questo punto la curiosità di scoprire chi sarà la prossima fortunata "it girl di Boy" è forte. http://boy.bandofoutsiders.com I.N.
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Scott Ramsay Kyle SS09 Ciao Scott, parlami della tua collezione per la primavera/estate 2009: ha a che fare col mare e la vita da spiaggia; il look è casual ma di lusso e potrebbe andar bene per una festa su uno yacht a Dubai o una serata a bordo piscina sui tacchi alti. Descrivila in tre parole: rilassata, forte, agghindata. A cosa ti sei ispirato? La silhouette a forma di "scatola" deriva dal costume dello scagnozzo della regina in "Alice nel paese delle meraviglie": l'ho applicata alle tutine e ai tagli sartoriali; per quanto riguarda i ricami sono stato influenzato dalla tradizione spagnola con le sue decorazioni in oro e questo si è sposato bene alla mia ossessione per i fili metallici. Cosa avete scelto come colonna sonora della sfilata? Abbiamo utilizzato un uber-remix di "Pull up to the Bumper" di Grace Jones, al quale sono stati aggiunti miagolii di gatto, suoni di clacson e rumori di strada per dar quell'idea di una sporca calda estate in città. Cosa ti piace fare in questo periodo? Io adoro l'estate a Londra e non vedo l'ora di andare al parco coi miei amici a bere limonata e divertirmi! Faccio molta ginnastica ultimamente e come sempre ascolto un sacco di musica... Ah, e poi ho appena visto un gran bel film Tokyo Sonato... E cosa ti tiene indaffarato dal punto di vista lavorativo? Ho appena presentato un video per la mia collezione invernale: è stato molto divertente. Vorrei lavorare ancora alla produzione di video e sviluppare le mie consulenze per altri brand... mi piace collaborare! Progetti imminenti? Lavorare alla mia collezione per l'estate 2010 che sarà tutta concentrata sulle stampe e molto, molto sexy: spero che un finanziamento mi sia assegnato per le sfilate di settembre a Londra! Ah e poi ci sono un sacco di progetti editoriali in ballo... il che è ottimo! www.scottramsaykyle.com I.N.
55DSL: News and Projects Anno ricco di novità per 55DSL, brand street influenzato dalla grafica, dalla cultura urbana e dalla musica e sempre pronto a supportare artisti emergenti. Per questo sarà partner ufficiale di Cut&Paste, concorso di design digitale 2D, che coinvolgerà 16 città in tutto il mondo. I partecipanti dovranno realizzare una grafica con Illustrator e Photoshop. La finale è prevista per giugno e il vincitore potrà realizzare una capsule collection per yoox.com. A proposito di Yoox, Andrea Rosso, direttore creativo di 55DSL, ha creato per lo shop on line un flash di collezione che celebra la creatività, ispirandosi alla musica e alla televisione: un k-way, due t shirt e due felpe. www.55dsl.com - www.yoox.com di Fabiana Fierotti
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The Rodnik Band Intervista a Philip Colbert di Fabiana Fierotti. Foto di Piotr Niepsuj.
“The Rodnik Band by Phil Colbert” farebbe giustamente pensare a un documentario su un gruppo musicale fatto dal solito regista indipendente… e invece no! Si tratta di una collezione, creata appunto da Colbert e presentata al WHITE di Milano a febbraio, che unisce musica, arte e moda in un unico concetto di brand/band. Noi lo abbiamo incontrato in occasione del lancio di una limited edition di t shirt in collaborazione con ENERGIE. Ispirandosi alle opere di Marcel Duchamp e alla Pop Art, Colbert punta a trasmettere un profondo senso simbolico e allo stesso tempo ironico alle sue creazioni, guardandosi bene dal cadere nella macchina impietosa che è l’industria fashion. È per questo che tende spesso a sottolineare l’importanza dell’interdipendenza tra band e brand, osservando proprio come nel secolo passato, molte delle band più importanti e rappresentative siano diventate icone di stile, anche senza precisi intenti commerciali. Il brand diventa mezzo di trasmissione di valori, opera d’arte, oggetto di discussione, divertimento. 34 PIG MAGAZINE
Ciao Phil! Cominciamo con una piccola presentazione di te e del gruppo… Allora… io sono Phil, faccio parte dei Rodnik, un brand oltre che una band; siamo qui ad esibirci sul palco per il lancio della nuova collezione in collaborazione con ENERGIE. Abbiamo iniziato a disegnare T shirt, che si adattano di più al nostro modo di lavorare. Usciranno tutte in edizione limitata con delle stampe speciali. (Indica una ragazza seduta di fronte a noi) Lei invece è Shana, la mia ragazza, oltre che musa ispiratrice e chitarrista del gruppo…Quindi vi esibirete stasera… Si! Tutta la band indosserà t shirt e jeans della collezione Rodnik ft. ENERGIE. Quindi è più una sorta di vetrina…Come avete sviluppato l’idea di una collaborazione con ENERGIE? Abbiamo conosciuto il loro team un paio di mesi fa e si parlava della possibilità di fare qualcosa insieme, visto il ricco bagaglio di collaborazioni con band musicali di ENERGIE. Si sono interessati molto alle mie idee di sviluppare la narratività della moda e della musica, di presentare la moda in un modo differente, cercando di fonderla con il concetto di band, per creare una sorta d’incrocio tra band/brand. In senso artistico, desideravo sortire una domanda: “ Di cosa si tratta esattamente? Qual è il punto d’incontro tra musica e moda?”. Perché negli anni ’80 un sacco di grandi concept creati dalle band stavano al centro dell’attenzione? È stato molto stimolante analizzare tutte queste idee con ENERGIE ed è per questo che credo sia venuta fuori una grande collaborazione… Come avete affrontato la questione “stile”? Avete avuto molta libertà nel proporre il vostro o siete giunti a dei compromessi? Penso che sia stato interessante cercare di creare un punto di incontro e soprattutto provare a raggiungere lo stile di ENERGIE, che è molto sviluppato e ha già una clientela forte, dandogli un tocco di stile Rodnik Band, che è molto matto, eccentrico ed ironico. Quindi si tratta di un’unione tra i due brand. Mi piace pensare che la gente che ama ENERGIE, adorerà la nostra collezione, apprezzando quel gusto di qualcosa di diverso… Parliamo un pò della vostra band… Mi sono sempre interessato a nuovi modi di presentare la moda e renderla interessante ed è così che è venuta fuori l’idea della band, guardando proprio a quelle che sono riuscite poi a diventare brand (pensate a quando si compra un libro dei Rolling Stones o degli U2, con un sacco di foto di backstage che danno a tutti gli effetti il senso di un brand dallo stile marcato). È un modo interessante per presentare una collezione perché spesso i designer si limitano a proporre sfilate su sfilate su sfilate, in un mercato super esagerato, e questo
può rivelarsi estremamente noioso, tanto da far perdere l’essenza della moda, che è quella di creare una fantasia con la quale si possa scappare in mondi paralleli. È praticamente ciò che accade con l’arte moderna, dove gli artisti reinventano i loro generi, le idee, se stessi, per estendere il concetto d’arte stesso… Quindi la band è un mezzo per spingere il brand, o le due cose vanno di pari passo? Assolutamente. L’idea di un pop brand/band non è presentare l’uno o l’altro. Certo non ho la pretesa di presentare la nostra come una band a tutti gli effetti, ma mi piace disegnare vestiti e fare musica divertente e credo che creare un brand che faccia di queste due cose la propria idea costitutiva, sia la cosa che ci possa rappresentare al meglio. Che direzione avete dato alla collezione da un punto di vista estetico? Volevamo che fosse ironica, auto consapevole. Si tratta di vestiti comodi che siano classici e abbiano un grande senso
ironico. Secondo me tutti possono indossare abiti basic che non appartengano a questo o quel designer, ciò che rende la moda emozionante è l’idea, non semplicemente una firma su un tessuto; sto cercando di fare in modo che il brand dia dei valori, facendo commenti interessanti, associazioni… per esempio, mi interessa molto il simbolismo e quindi l’idea che dietro ogni capo ci sia un significato preciso. Ho lavorato sodo alla collaborazione con ENERGIE in questo senso… Sei legato molto al concetto di moda in quanto arte, giusto? Certamente. Penso di usare il piccolo schema che ho costruito per il mio brand, per presentare il mio concetto di moda attraverso la musica e l’arte. Penso che il 20° secolo in generale sia stato dedicato alla creazione di brand che si riflettessero anche in termini artistici, oltre che commerciali. Quindi cerco di sviluppare il valore del brand come coordinamento tra moda e arte.
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Pictures for Photographs by Miles Aldridge Si tratta della prima raccolta delle foto più rappresentative e dei disegni preparatori di Miles Aldridge, fotografo inglese molto conosciuto a livello mondiale. L’edizione, pubblicata da Edition 7L, mostra l’universo decadente di Aldridge in tutta la sua estrema e artefatta perfezione, nelle sue donne-bambola con gli occhi vitrei spalancati, nella sua realtà colma di lusso e colori sfavillanti. In più, fino al 10 Maggio, potrete ammirare alcuni dei suoi lavori alla mostra “Doll Face”, alla Hamiltons Gallery di Londra. www.steidlville.com F.F.
Breaking news and shocking gossips Svelati i nomi dei finalisti dei Cfda Fashion Awards del 2009. E' iniziato dunque il conto alla rovescia in attesa della cerimonia d'assegnazione dei prestigiosi premi che si terrà il 15 giugno a New York. And the nomenees are: rullo di tamburi... Marc Jacobs, Narciso Rodriguez e il duo Kate & Laura Mulleavy per Rodarte si sfideranno per il womenswear. Italo Zucchelli di Calvin Klein, Michael Bastian e Scott Sternberg di Band of Outsiders per il menswear. Per gli accessori di nuovo Marc Jacobs insieme a Jack McCollough & Lazaro Hernandez di Proenza Schouler e Vera Wang. www.cfda.com Sarà Proenza Schouler, marchio di Jack McCollough e Lazaro Hernandez, lo special guest della prossima edizione di Pitti che si terrà a Firenze dal 16 al 19 giugno. www.pittimmagine.com Al capolinea la liason tra Alessandro dell'Acqua e Malo che dalla prossima stagione tornerà a concentrarsi unicamente sul cachemire, senza divagare... Si rafforza invece quella tra Giles Deacon e Fay: la capsule collection "F" si appresta infatti a diventare una vera e propria collezione. Evviva Giles.
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I.N. Inaugurata in Corea "Transformer", l'avveniristica struttura mutante di Prada, progettata da Rem Koolhaas/Oma e realizzata con il supporto di Lg Electronics, Hyundai Motor Company e Red Resource Inc. L'edificio - che a seconda di come viene girato da una gru, assume valenze e utilizzi diversi - ospita l'esposizione "Waist DownSkirts by Miuccia Prada": un excursus sulle gonne più belle e particolari di Prada dagli inizi ai giorni nostri. www.prada.com E a proposito di strutture avveniristiche (e per chi si lamenta di aver un armadio troppo piccolo...) Claudia Schiffer ha recentemente ristrutturato un hangar per elicotteri situato di fianco alla sua magione nel Suffolk per farne un guardaroba in grado di ospitare il suo enorme archivio di abiti: pare infatti che la modella 38enne in più di vent'anni di onorata carriera abbia ammassato vestititi per un ammontare di 31 milioni di dollari. Il guardaroba è climatizzato e dispone di una suddivisione in closet diversi per ogni stilista. Naturalmente il tutto è stato assicurato per diversi milioni. D'altra parte io pagherei il biglietto solo per farci un giretto...
Hope
Photo by christoph pirnbacher
L’avventura del team di Hope per la collezione pe09 nasce durante un concerto in un club di Londra. Qui conoscono Coco Sumner, figlia del leader dei Police: Sting. Proprio la sua spiccata attitudine caratterizza l’intera campagna pubblicitaria, nella quale le viene affiancato il famoso (e non a caso) modello danese Mathias Lauridsen. La collezione è strutturata sullo sviluppo di due capi fondamentali, il cappotto oversize e il pantalone khaki, puntando a giocare sulle loro possibili rese estetiche. Il risultato è molto basico, un mix di funzionalità ed eleganza. www.hope-sthlm.com F.F.
One of Some by Petar Petrov Spring/Summer 2009 Petar Petrov è un giovane designer bulgaro classe 1977 che dopo una laurea in arti applicate conseguita a Vienna, un po' di anni passati a fare il costumista per spot pubblicitari e video musicali, una discreta gavetta presso Wendi & Jim e altri marchi del settore, nel 2003 ha fondando la sua label personale: "One of Some". E ha fatto bene. Con la sua collezione per l'estate 2009 Petar ha voluto creare un'immagine estetica che fosse distaccata da ogni concetto ideologico. Ha così giocato sui contrasti, indagando il rapporto tra una cultura "alta" e "bassa" e rivisitando il confronto tra l'eleganza e la strada. www.petarpetrov.com I.N.
Nike Air Yeezy La Nike Air Yeezy è la nuova freschissima sneaker che vede la collaborazione tra il direttore creativo di Nike, Mark Smith, e il rapper pluripremiato Kanye West. I loro stili si fondono in una scarpa che presenta le caratteristiche classiche della tradizione Nike, insieme ad alcuni dettagli che rispecchiano lo stile del rapper. Ma West è stato talmente preciso da voler testare personalmente il comfort della propria creazione prima di mandarla sul mercato, così si è fatto 3 ore di performance con le Nike Air Yeezy ai piedi… a quanto pare il test è andato a buon fine… www.nike.com F.F.
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Real Wild One
Di Ilaria Norsa
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1.Givenchy 2.Alexander Wang 3.Givenchy 4.Alexander Wang 5.Rick Owens 6.Maria Francesca Pepe 7.Proenza Schouler 8.Miss Sixty 9.Givenchy 10.Diesel 11.Rick Owens 12.Alexander Wang 13.Ter Et Bantine
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1.Chanel 2.Max Mara 3.Givenchy 4.Alexander Wang 5.Givenchy 6.Alexander Wang 7.Mark Fast 8.Alexander Wang 9.Jil Sander 10-11.Givenchy 12.Maria Francesca Pepe 13.Diego Dolcini 14.Ter Et Bantine
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Flickr buddy of the month: Julia Prokhorova www.flickr.com/photos/lasvegassucks A cura di Sean Michael Beolchini.
Come ormai avrete capito, ogni mese ci piace girovagare su flickr e dopo ore perse dietro foto di belle figliole, paesaggi mozzafiato e tanti maghi di photoshop, si riescono a trovare anche delle piccole gemme di fotografia amatoriale, che non dovreste lasciarvi sfuggire. Questo mese abbiamo scelto il lavoro di Julia Prokhorova, una giovane di talento russa che, come la maggior parte di questi ragazzi, non riesce a vivere solo con la sua fotografia, nonostante esprima molto pi첫 di numerosi fotografi professionisti della scena mondiale.
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Da dove vieni? Dalla Russia. Dove vivi? Ho sempre vissuto a Mosca. Che lavoro fai? Faccio traduzioni dal tedesco. Ci campi con la fotografia? No Descrivi le foto che pubblichi su Flickr. La fotografia è il mio modo per comunicare. Tutte le immagini sono sentimenti, suoni, colori, movimenti della mente e del corpo. Perché hai deciso di far parte di una fotoblog community? Solo perché volevo trovare un altro aspetto della realtà. Fai parte di qualche altra fotoblog community di questo tipo? No, flickr è abbastanza per me. In questo senso, non posso ritenermi una persona particolarmente socievole. Qual è la miglior cosa che hai ottenuto attraverso il tuo spazio su Flickr? Non saprei davvero dirti. Chi è il tuo fotografo preferito? Ci sono un sacco di fotografi di cui amo e rispetto il lavoro, ma i miei preferiti sono senza dubbio Rembrandt Van Rijn, Diane Arbus e il mio occhio. Che macchine fotografiche usi? Canon Eos 300v, Mamiya 645 m1000s e Mamiya 67 pro-sd Usi Flickr anche a scopi sessuali? O per broccolare? No Lo usi mai a scopi di lucro? Sì, qualche volta uso flickr come portfolio.
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Street Files. Milan di Sun Hye, Shin.
Nome? Noey Età? 29 Da dove vieni? Corea Cosa fai a Milano? Studio E' vero che "Italians Do It Better"?Perché? No. Perché no. Quante relazioni hai avuto nella tua vita? Otto Cosa farai questa sera? Una ricerca.
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Nome? Julia Joharsen Età? 19 Da dove vieni? Helsinki, Finlandia Cosa fai a Milano? La settimana della moda E’ vero che “Italians Do It Better”?Perché? Gli italiani amano la notte Quante relazioni hai avuto nella tua vita? Tre Cosa farai questa sera? Ancora non lo so, ma mi sa che finirò di incontrare gli amici che ho qui.
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Nome? Tommaso Lipari Età? 23 Da dove vieni? Milano Cosa fai a Milano? Disegni e video E' vero che "Italians Do It Better"?Perché? Italians do it mafia Quante relazioni hai avuto nella tua vita? Zero o forse mille Cosa farai questa sera? Mi avvarrò della falsa credenza che "Italians Do It Better" per provarci con le giapponesi
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Nome? Daria Virginia Baldan Età? 20 Da dove vieni? Padova Cosa fai a Milano? Shopping E’ vero che “Italians Do It Better”? Perché? Yes, of course! Quante relazioni hai avuto nella tua vita? Poche, ma divertenti! Cosa farai questa sera? Plastic, of course!
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Nome? Bianca Millan Molinari Da dove vieni? Milano Cosa fai a Milano? Studio Lingue E’ vero che “Italians Do It Better”?Perché? Sì, perché mettono la creatività personale in progetti o sogni Quante relazioni hai avuto nella tua vita? Dipende... Serie tre! Cosa farai questa sera? Andrò a bere qualcosa con gli amici o a fare qualche foto in giro
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Nome? Giulio Calvino Età? 33 Da dove vieni? Milano Cosa fai a Milano? Gioco E’ vero che “Italians Do It Better”? Perché? Non saprei. A dire il vero penso che lo facciamo male... Vedi Berlusconi! Quante relazioni hai avuto nella tua vita? Un po’ Cosa farai questa sera? Dormo con Alessia
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Nome? Silvia Giacomelli Età? 24 Da dove vieni? Brescia Cosa fai a Milano? IED, Fashion Communication E’ vero che “Italians Do It Better”?Perché? We are the best! Quante relazioni hai avuto nella tua vita? Più di dieci Cosa farai questa sera? Plastic!!!
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Nome? Martina Alemani Età? 22 Da dove vieni? Milano Cosa fai a Milano? Studio all’Accademia delle Belle Arti E’ vero che “Italians Do It Better”?Perché? Better than english ones! Quante relazioni hai avuto nella tua vita? E’ privato, dai! Cosa farai questa sera? Cenetta e poi?
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Rachel Comey Intervista di Ilaria Norsa.
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Ha cominciato vestendo David Bowie, che scelse una delle sue camicie per una celebre apparizione al David Letterman Show. Ha continuato con Courtney Love, Kim Gordon, Maggie Gyllenhaal, Kirstend Dunst e Michelle Williams (praticamente manco solo io). Ma voi probabilmente non la conoscete ancora Rachel, vera perla della scena newyorkese amata tanto dalle sciure ingioiellate dell’Upper East Side quanto dall’universo artistico/musicale e dalle giovani downtown hipsters che non possono fare a meno di indossarne le creazioni per scorrazzare allegramente da un happening a un opening al concerto dei the-virgins-del-momento. Così ho democraticamente pensato sarebbe stato il caso di parlarvene: sono sicura infatti che appena darete un occhio ai suoi graziosissimi abiti ve ne innamorerete. E mi sarete eternamente riconoscenti - che non guasta. In pratica dunque, vi ho incastrati.
Iniziò tutto con David Bowie...
ciati e bermuda.
i pezzi, combinandoli con altri vestiti in modi
Così tante belle cose iniziano con Bowie! È
E quando hai deciso di passare al women-
interessanti.
stata una grande iniezione di fiducia avere
swear?
Chi sono i tuoi musicisti preferiti?
un’icona culturale così prominente che mo-
Quando mi sono resa conto che solo le don-
Sono cresciuta con il rock classico e ora ascol-
strasse il suo interesse nelle fasi iniziali, puoi
ne comprano vestiti! Seriamente, è una sfida
to principalmente i gruppi dei miei amici come
immaginare, ma il modo in cui io lavoro è più
fantastica creare una linea per donne. La
gli Heloise e i Savoir Faire, Mike Bones e Hex
sballato e svitato che tutto “champagne e
complessità e l’infinita varietà dell’universo
Message.
celebrities”, quindi c’è una buona dose di am-
femminile lo rende difficile, ma alla fine è in-
Canzone preferita di tutti i tempi?
bivalenza in questo.
credibilmente stimolante. Inoltre, si lavora con
“Uptown Ranking” di Althia&Donna.
Ma torniamo un po’ indietro e raccontaci la
molteplici tipi di materiali e tessuti. I ragazzi
E in questo periodo cosa ascolti di più?
tua storia: da dove vieni?
non sono molto interessati alle tecniche di un-
“Temporary Secretary”, una canzone di Paul
Da Suburban Hartford, Connecticut, USA. La
cinetto peruviane!
McCartney contenuta in McCartney II. E’ un
capitale mondiale dell’assicurazione.
Nel 2002 hai collaborato con i Gogol Bor-
fantastico tentativo di mescolare electro e new
E come hai deciso di diventare una fashion
dello: in che cosa consisteva questa collabo-
wave.
designer nella capitale mondiale dell’assicu-
razione?
Parlando di persone favolose che indossano
razione?
Eugene Hutz (leader della gipsy-punk band
i tuoi vestiti non dimentichiamoci Kirsten
In realtà è sorprendente che io l’abbia fatto.
N.d.R.) ed io ai tempi eravamo una coppia
Dunst e Maggy Gillenhaal... ma chissà per-
Sono cresciuta facendo molto sport e stando
così iniziai a vestirlo per alcuni spettacoli e a
chè qualcosa mi dice che non è finita qui…
all’aria aperta: sai un po’ di tutto, dallo sci alla
realizzare dei props per illustrare la filosofia
Oddio! Sono tutti favolosi hai ragione! Kim
ginnastica; la mia famiglia dà molto valore ai
romantica degli immigranti che lui stava soste-
Gordon si è recentemente aggiunta alla lista,
giochi e allo sport (è curioso pensare che ora
nendo. La popolarità del gruppo cominciò a
lei è sicuramente un’icona! E anche Michelle
passo tutto il mio tempo chiusa tra fabbriche
crescere e i loro spettacoli sul palco divennero
Williams ha preso un po’ di roba… ha il tem-
e showrooms…). Ma ho studiato arte e pro-
più coinvolgenti: io mi adattavo semplicemen-
peramento e il tocco tipici di RC!
gettazione artistica al college ed ero partico-
te al mood dello show aiutando a crearne il
Chi altro vorresti vedere indossare i tuoi
larmente attratta dalla pratica della scultura.
look. In quel periodo mi occupavo anche della
abiti?
Tutte le ore passate nel laboratorio artistico
realizzazione dei costumi per degli spettacoli
Penso sia figo quando le donne più mature
mi hanno insegnato come gli oggetti sono co-
off-bowery, produzioni “super underground”…
mettono le mani sulle mie cose. New York è
struiti e composti: questo aspetto è confluito
La dimensione della collaborazione è tuttora
piena di cinquantenni estremamente chic che
naturalmente nel mio interesse per i vestiti.
molto importante per me.
possono dare un tocco di sicurezza ed espe-
Inoltre sono stata direttrice di una galleria d’ar-
Cosa ti attira dell’industria musicale e della
rienza ai miei vestiti.
te contemporanea per qualche anno e questo
possibilità di collaborarvi?
E qualcuno che ti auguri non li indossi mai?
mi ha aiutato ad affinare un po’ le mie abilità
Mi piace moltissimo realizzare i vestiti per i
George Bush, a meno che non si tratti della
imprenditoriali.
musicisti perché questo implica una dimensio-
collezione femminile, in quel caso, lo vorrei
Hai iniziato con l’abbigliamento maschile,
ne così attiva come quella della performance.
vedere.
perchè?
I vestiti sembrano belli quando si muovono,
Dov’è la tua sede?
Mi sembrava che fossero proprio gli uomini ad
prendono vita e diventano veri e propri co-
Manhattan e North Fork di Long Island.
avere maggiormente bisogno di aiuto e che
stumi con un ruolo attivo nella trasformazione
Come vanno le cose da quelle parti?
fosse semplicemente il modo migliore e più
nella performance.
Nolita è diventato sempre più mediocre e di
diretto per iniziare. Pantaloni, camicie, i fonda-
I tuoi abiti infatti sono indossati non solo da
cattivo gusto, soffocato da negozi di borsette
mentali insomma. Inoltre, i ragazzi erano così
Bowie, ma anche da Beck e Courtney Love.
e occhiali da sole ordinari, ma ha tuttora una
belli in quelle prime sfilate..
Niente male cara Rachel, niente male...
parte di viuzze e angolini meno inflazionati.
Che tipo di look volevi creare?
Ummmm, sì, è vero, ma è stato un bel po’ di
Greenport, a Long Island è l’esatto opposto:
Una specie di look eccentrico da rock n’ roller.
tempo fa… È fantastico! Però sono i giovani
allegria, gelato e Whiskey Wind bar. Amo quel
Ma sono stata certamente influenzata anche
che indossano i miei vestiti oggi la vera fonte
posto.
dalla scena dell’Europa orientale nelle fasi ini-
d’ispirazione ed entusiasmo per me; quelle
Descrivi una tipica giornata lavorativa nel
ziali. Lo stile casual glamour di Brighton Beach
giovani donne che sono abbastanza sicure di
tuo studio:
con un tocco sportivo... sai, mocassini intrec-
sé da realizzare qualcosa di inaspettato con
Arrivo per le 9 circa, salgo 6 rampe di scale
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con le mie borse. Lavoro, lavoro, lavoro fino
Anche secondo me! A breve pubblicheremo
ferite e perché?
alle 9 di sera o più tardi a meno che uno dei
le foto...
A volte. Mi piacciono quelle straniere, proba-
miei amici non venga a salvarmi con una con-
Si è tenuta nella galleria d’arte del mio amico
bilmente per lo stesso motivo per cui gli stra-
fezione di birre da sei.
Pascal, la “Taxter & Spengemann”, che una
nieri amano le riviste americane.
E oggi?
volta era lo studio del pittore leggendario
C’è qualche talento della moda under-
Lavoro, lavoro, lavoro. Studio, showroom, mo-
Frank Stella. Le persone erano entusiaste e ho
ground di NYC che vorresti consigliare?
dellista, fabbrica, e ritorno in studio. E stasera
ricevuto un gran consenso. L’atmosfera a New
Mi piacciono davvero i modelli di Nellie
andrò a vedere il concerto degli Heloise.
York è di speranza, ma siamo comunque pre-
Fleischer. Ha realizzato recentemente un fan-
Quante persone lavorano con te?
parati al peggio.
tastico vestito a ciambella per uno spettacolo
Al momento nella mia squadra ho 4 professio-
Hai visto altre sfilate? Ce n’è qualcuna che ti
teatrale.
nisti scrupolosi.
è davvero piaciuta?
Chi ammiri come designer?
Animali?
Mi è piaciuto Tao, molto divertente.
Dries Van Noten, Charles Kleibacker, Junya
Il mio amato cane Mona è morto qualche
Mi piacciono sempre molto le acconciature
Watanabe, Claire McCardell.
tempo fa quindi è ancora presto per avere
delle tue sfilate... Sono davvero graziose e
Hai un’icona di stile?
altri animali. Ci occupiamo però qualche volta
un po’ retrò. Penso che dettagli come que-
No a dire il vero, no. Vedo persone interessan-
del cane di un mio amico, Bunny, il che è un
sto siano importanti per rispecchiare una
ti ogni giorno in metropolitana.
piacere.
certa estetica... Come nasce il concept di
Indossi spesso i tuoi vestiti?
A che tipo di ragazza pensi quando disegni?
una tua sfilata?
Sì.
La tua linea è stata definita “per spensierate
Alterno solitamente grandi produzioni e pas-
E oggi cosa indossi?
ragazze del centro”… Trovi appropriata
serelle abbastanza dirette. Ho fatto tutto, dal
Un vestito di Trader, zoccoli di Hall, una colla-
questa descrizione?
Teatro dell’Assurdo, al Bryant Park Tents n’
na di Eyes on You con un cardigan a scacchi.
Nessuno è più spensierato al giorno d’oggi!
Techno. Ogni collezione richiede il suo am-
Qual è il tuo negozio preferito in tutto il
Mi piace pensare che i miei vestiti siano per
biente ideale per essere presentata. Lo show
mondo?
persone con la giusta dose di preoccupazioni
dell’autunno/inverno 2009, per esempio, è
“Alice’s Fish Market” (il mercato del pesce di
ma con la sicurezza e la forza necessarie per
stato reso speciale dall’audio: un monotono
Alice n.d.r.) e “Beal & Bell” a Greenport, NY.
sopportare il peso della realtà.
spettacolo di cabaret dell’attrice comica He-
E a Manhattan?
C’è un tocco vintage nei tuoi abiti...
ather Lawless. Ho sempre voluto provare a
La panetteria Magnolia nel West Village.
Penso ci sia un “tocco vintage” in tutti i vestiti
contrapporre commedia e moda: le persone
Scherzo. Mi piace “Russ and Daughters” dove
e in tutta l’arte. I riferimenti sono inevitabili
coinvolte nella moda si prendono troppo sul
prendo le teste e le code del loro pesce affu-
e in gran parte auspicabili. Mi piace vedere
serio... mi chiedevo se avessi potuto farle ride-
micato per fare lo stufato di pesce.
aspetti familiari “abusati” nel giusto modo.
re ad una sfilata. Alla fine credo che sia stato
Dove si vende la tua collezione?
Hai un archivio di vestiti cui attingere? Un
divertente ma anche serio in un certo senso,
Opening Ceremony, Bergdorf Goodman, Bird,
negozio preferito di vintage?
visto che la commedia è piuttosto dark.
Creatures of Comfort.
Ho un buon numero di vestiti ma non sono
Ma semplicemente perché c’erano battute e
Cosa ti appassiona in questo momento?
una collezionista di indumenti. Preferisco ne-
un tempismo stupido in tutta la cosa, mentre
Mi sono appassionata ai video della scena
gozi di vintage economici che sono lontani dai
la sua consegna seriosa ha dato in qualche
Sharpie dei primi anni Settanta in Australia
centri urbani e per questo lontani sia dagli au-
modo serietà alla collezione. Per quel che
(quella degli Sharpies era una violenta sot-
tocarri sia dai dogmi della moda e dall’unifor-
riguarda le acconciature, sono state realizzate
tocultura giovanile diffusasi in Australia, so-
mità che inseguono New York, Parigi e Milano.
poco prima dello spettacolo e solitamente rie-
prattutto a Melbourne, tra gli anni ‘60 e ‘80 e
Per esempio “Ludlow”, un negozio economico
scono piuttosto facilmente. Sono un modo per
influenzata dalla cultura ska, mod e skin n.d.r.).
nel Vermont, è una miniera d’oro.
spiegare l’animo e il carattere che cerchiamo
Impazzisco per i Mullet e i denti mancanti.
Dicci qualcosa sulla tua collezione per la pri-
di costruire. Lavoro sempre con Shiseido. Han-
Adoro i denti mancanti.
mavera/estate 2009 (nelle foto):
no un team molto piacevole e di talento.
La tua attuale Top 5 di New York:
Spiritosa, pratica, colorata, strana, malleabile,
Ti servi anche di uno stylist?
La Galleria Taxter & Spengemann; J & L Bo-
stampe familiari, calda, monella, misteriosa.
Dipende dalla stagione. A volte sì, a volte
oks; Gimme Coffee; Heather Lawless, attrice
Amo le stampe delle tue collezioni...
no. Solitamente è un amico. Per la collezione
comica; Northeast KIngdom, un delizioso
Le stampe sono state a lungo una parte im-
FW09, ho lavorato con Haidee Findley-Levin,
ristorante Bed Sty.
portante della linea. È un bellissimo modo di
che è una brillante stylist di NYC. Lei porta
Cosa ti rende felice?
collaborare con altri artisti e produttori di stof-
molto intrigo e vita per le strade di NYC. Per
La Sierra Nevada e la commedia.
fe e fornisce un’impronta consistente a tutta la
la primavera 2009, ho lavorato con un altro
Cosa ti fa arrabbiare?
collezione. È un piacere lavorare duramente su
amico, Brian Molloy, un uomo divertente e di
La Tequila e le pornografia.
questo aspetto della linea.
talento (è anche un attore comico!).
A cosa stai lavorando in questo momento?
E per quanto riguarda gli accessori? Li dise-
Chi sceglieresti come fotografo per la cam-
Calzature maschili per il mondo intero.
gni tu?
pagna pubblicitaria del tuo brand?
Progetti per il futuro?
Sì, le mie collezioni di calzature sono una parte
Mi piace molto il lavoro di Jason Nocito - una
Sto comprando una barca. Spero di farcela e
importante dell’intera collezione.
sorta di poetica violenta e un po’ spinta. An-
navigare attorno a Long Island, suona un po’
Com’è andata la sfilata newyorkese per l’au-
che Willy Somma ha fatto per me molti servizi
come Andy Samberg e TPain.
tunno/inverno 2009?
fotografici di successo.
E’ stata bellissima (secondo me).
Leggi riviste di moda? Quali sono le tue pre-
54 PIG MAGAZINE
www.rachelcomey.com
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Casely -Hayford
Foto di Ben Weller
Intervista a Joe e Charlie Casely-Hayford di Ilaria Norsa. Foto di Tyrone Lebon.
In un'era post-moderna in cui tutto é contemporaneamente “di moda” e “fuori moda” e in cui l'avanguardia più sfacciata finisce per apparire un cliché, Joe e Charlie Casely-Hayford hanno visto nella reinterpretazione delle forme classiche e nella loro decontestualizzazione la vera rivoluzione: partendo da componenti tendenzialmente classiche hanno dunque modellato una nuova estetica radicale fondata sulla dicotomia creata dall'ossessione per la Tradizione Inglese e l'Anarchia Britannica. E proprio su questa sinergia e sull'affinità per il concetto di dualità, questo non ortodosso duo della moda, formato da padre e figlio, ha costruito la forza di un brand nato nel 2007 ma con una straordinaria storia da raccontare. In esso il classicismo esiste in forma moderna, l'innovazione è raggiunta attraverso la tradizione e il passato è celebrato senza cedere il passo a nostalgia e sentimentalismi. Così Savile Row incontra Hoxton Square ed io mi imbatto in due gentiluomini del XXI, restandone conquistata. 56 PIG MAGAZINE
Joe, raccontaci la tua storia: J: Sono nato nel Kent ma quando ero molto piccolo coi miei genitori ci trasferimmo a Fulham, proprio accanto a Kings Road. Probabilmente fu così che avvenne il mio primo incontro subliminale con la moda. La famiglia da cui provengo ha un background piuttosto tradizionale anche se ricordo che mia zia Gladys durante la Repubblica di Weimar si unì a una troupe di ballerini che girava l’Europa (cosa ancor più bizzarra se si considera che la zia Gladys zoppicava) eppure fu una delle prime poetesse nere di origine Africana ad essere pubblicata in lingua inglese. Mio nonno invece era il proprietario di un quotidiano, nonché avvocato e uomo di politica. La sua prima moglie divenne famosa come femminista vittoriana: le è anche stata dedicata un’interessante biografia chiamata “Il diario di una femminista vittoriana africana”. Per quanto riguarda mio padre, anche lui era avvocato, ma io capii molto presto che quella strada non faceva per me... Cosa ti portò ad avvicinarti al mondo della moda? J: L’essere un giovane uomo di colore in Inghilterra in quel periodo era una condizione che portava con sé un forte senso di isolamento: per quanto infatti io mi rapportassi senza difficoltà alla realtà inglese e a tutti i suoi aspetti, allo stesso tempo non potevo fare a meno di sentirmi “inclassificabile”. Credo che proprio allora si sia formata la mia visione sulla vita e sullo stile. Mio padre aveva studiato legge a Cambridge e curiosamente aveva scelto di indossare all’università le sue stoffe Kente (le tuniche tradizionali della cultura Africana) e in Ghana i suoi abiti sartoriali di Saville Row: questa idea di dualità culturale non mi ha mai abbandonato. L’osservare i diversi gruppi sociali che esistevano all’interno della società inglese e la forte influenza esercitata dal sistema delle classi sociali mi portò a considerare una vita in cui il singolo individuo fosse in grado di celebrare le cose belle indipendentemente dal contesto sociale in cui si collocavano. Così cominciai a disegnare abiti in cui gli elementi più formali della società britannica si fondevano con l’energia violenta del Punk. Credo che desiger come Vivienne Westwood e Alexander McQueen abbiano approciato il design da un simile punto di partenza, contando sempre sulla tipica ironia Britannica, per cui la celebrazione e la satira vanno a braccetto. Pensai poi che seguendo la rotta scolastica più convenzionale sarei entrato in possesso dei requisiti necessari per creare qualcosa d’interessante; così studiai presso una scuola molto tradizionale, la “Tailor and Cutter Academy” di Londra e poi feci un periodo di apprendistato presso un famoso sarto chiamato Dougie Hayward. Dopo questo periodo di formazione decisi di contrastare le norme tradizionali apprese con la libertà e sperimentazione tipiche della St. Martins, dove fui così fortunato da incontrare anche la mia bellissima moglie, Maria - compagna eccezionale,
nonché artista dotata di una formidabile mente per gli affari. Dopo la St. Martins completai la mia educazione accademica con un corso in Storia dell’Arte all’Institute of Contemporary Arts di Londra. Sono colpita. Inizialmente ti sei dedicato sia alla moda maschile che a quella femminile: come sei giunto a una scelta tra le due? J: In effetti ho sempre amato fare entrambe le cose, anche se devo ammettere che alcune tra le mie prime collezioni vantavano solo qualche pezzo maschile che alla fine veniva comunque venduto alle signore. E’ curioso tra l’altro che tutti i riconoscimenti e premi che mi sono stati assegnati nel corso della mia carriera siano sempre stati dedicati al mio lavoro nell’ambito della moda femminile. Ho prodotto la mia ultima collezione di womenswear nel 2004, quando ho cominciato a dare più spazio al mio lavoro di consulenza. In quel periodo fui infatti chiamato come consulente per Gieves and Hawkes, casa di Savile Row per cui lavorai come direttore creativo per ben tre anni. E’ stato allora che cominciai a interessarmi sempre più alla creazione artigianale e agli elementi
tecnici della moda maschile più formale. Nacque in me la consapevolezza della presenza di una nuova generazione di giovani uomini, con una rinnovata attenzione ai dettagli rispetto ai loro predecessori e con un maggior apprezzamento per la tradizione e l’artigianalità. L’uomo del XXI secolo è un gentleman “trans-culturale”. Durante il periodo di Gieves intrapresi una collaborazione con una società giapponese e fu proprio da quella collaborazione che nacque Casely-Hayford. Sembrava il momento giusto per creare vestiti concepiti all’interno di un contesto quale il XXI secolo ma che celebrassero la qualità dell’artigianalità, per un uomo pratico, colto e aperto a diverse influenze ma capace di una dichiarazione estetica concisa. Due sono concetti su cui si fonda l’universo di Casely-Hayford: “Sartorialismo Inglese” e “Anarchia Britannica”. Hai vestito i Clash e l’aristocrazia... Parlami della dualità intrinseca alla tua estetica: J: Questa dualità è proprio la somma delle mie esperienze di vita. Sono cresciuto nell’Inghilterra della Tatcher guardando il movimento punk venir fuori dalle ceneri di tutti i movimenti
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cultural-giovanili britannici del periodo precedente. I diversi pezzi dell’abbigliamento tradizionale venivano tagliati e poi tenuti insieme a caso da spille da balia ed io lo trovavo molto eccitante. Trovarmi simultaneamente “all’interno” e “all’esterno” per l’intero corso della mia vita mi ha portato ad abituarmi a questa strana dicotomia. Quando venni approciato da Bernie Rhodes dei Clash creavo abiti dalle tende militari utilizzate durante la II Guerra Mondiale: erano adeguatamente macchiate e strapazzate, e creavano dunque quel look di “già usato” che al tempo faceva un certo effetto. Per tutti gli anni ‘80 hai continuato a realizzare gli abiti per molte punk bands... puoi raccontarci di più del tuo rapporto con la musica? J: Credo che la cultura giovanile abbia sempre avuto a che fare con il collegamento tra moda e musica, entrambe realtà che nelle loro forme più estreme sono state utilizzate come simboli dell’insoddisfazione giovanile o semplicemente per mettere in discussione lo status quo. Nel corso della mia vita sono stato attratto da molte forme di musica underground perché in esse vedevo un’alternativa alla tradizionale visione della società. La musica per me ha un ruolo fondamentale: sono sempre stato io ad occuparmi della scelta musicale per le mie sfilate fin dagli anni ‘80. Negli anni ‘80 eri un mito... che memorie hai di quel periodo? J: Era un periodo molto stimolante e a Londra si respirava un energia violenta, tutto era nuovo. Ho avuto un discreto successo con le mie creazioni verso la fine degli anni ‘80, ma sono stati i ‘90 a segnare definitivamente la mia fortuna. Ricordo che a quel tempo i miei abiti comparivano in ogni numero di The Face e i-D ed erano anche venduti molto bene in tutto mondo! Fu negli anni ‘90 che la gente cominciò a chiedermi di collaborare in modo serio: venni anche invitato a fare dei workshops ad Arheim in Olanda dove insegnai ad allievi come Viktor e Rolf e Lucas Ossendrijiver di Lanvin. Ho dei bellissimi ricordi di quel periodo. Tu Joe tra l’altro sei stato il primo designer a collaborare con Topshop nel 1993... J: Per quei tempi fu una collaborazione rivoluzionaria, posto che i designer e i marchi di grande diffusione come Topshop abitavano due pianeti diversi... Io la vidi come una grandissima opportunità di raggiungere un pubblico decisamente più ampio. Così disegnai una collezione ispirata al Punk e andò subito sold out. Ci sono state altre collaborazioni negli anni seguenti che ti hanno dato simili soddisfazioni? J: Ho collaborato con così tante persone interessanti in un così gran numero di campi, dal balletto ai film, ma la lista è così lunga... Quest’anno abbiamo stretto una collaborazione con Sir Terence Conran: siamo infatti stati
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invitati a disegnare le uniformi del personale del suo nuovo hotel, il “The Albion/Boundary”, un complesso con ristorante, caffè e alimentari che ha appena aperto a Shoreditch. Finora abbiamo parlato di te, ma passerei la parola a tuo figlio Charlie che a soli 22 anni ha già lasciato un segno sulla scena creativa londinese... Charlie, parlaci di te: C: La mia vita è sempre gravitata intorno a un ambiente creativo. I miei genitori hanno lavorato insieme fin dal loro primo incontro alla St. Martins 30 anni fa, quindi per me è stato inevitabile avere a che fare col mondo della moda. Pensa che sono stato così fortunato da ricevere il mio primo abito fatto su misura a soli 3 anni: mio padre mi disegnò un completo in tweed per un servizio fotografico sui padri e i loro figli per una rivista inglese... tutti gli altri bambini indossavano tutine! Ho passato gran parte della mia infanzia nel suo studio: invece che fare i compiti passavo il tempo ad osservare come gli abiti prendevano vita dagli schizzi e venivano poi spediti in giro per il mondo. Passare così tanto tempo in quel contesto, negli anni della mia formazione, si è rivelata una vera e
propria scuola. Hai studiato Belle Arti a Firenze: perché Firenze? C: L’arte mi ha interessato fin dalla giovane età. Prima di cominciare lo studio dell’arte contemporanea all’università, ho sentito la necessità di imparare qualcosa sui grandi maestri dell’arte antica; volevo capire ciò che mi aveva preceduto, prima di creare io stesso qualcosa di nuovo. Ho sempre dato molta importanza all’idea di “narrativa” e credo che molti concetti siano nascosti e che possano essere portati alla luce da un osservatore colto; applico questo concetto anche alla moda, creando abiti che abbiano dei riferimenti discreti, da scoprire senza fretta. Mi piace pensare che gli abiti crescano col loro proprietario, e non che esauriscano il loro fascino la prima o seconda volta che vengono indossati. Quando frequentavo la St. Martins ero consapevole del fatto che ci fosserò un gran numero di studenti che si servivano del “potere dello shock” per coprire in realtà una lacuna di profondità e significato. Io non volevo assolutamente rientrare in questa categoria ed è per questo motivo che ho deciso di
dedicarmi allo studio del passato. Firenze era il posto migliore per imparare le fondamenta della pittura rinascimentale europea. Hai anche vissuto a Tokyo, facendo un po’ lo stylist e un po’ il modello... com’è stato? C: In realtà non ci ho mai davvero vissuto, però ci vado molto spesso per lavoro. La prima volta che ci sono andato era per un lavoro da modello per uno stilista giapponese: scattare la campagna fu molto divertente ma sfilare indossando scarpe e vestiti di tre misure più piccoli non lo fu altrettanto! Per quanto riguardo lo styling in Giappone é una cosa che faccio ormai da 3 anni: molti degli editoriali che realizzo per riviste giapponesi in realtà sono scattati a Londra in esclusiva per Tokyo. I giapponesi sono molto interessati alla cultura giovanile di Londra, così cerco di trasmettere quello che sta avvenendo nella scena fashion e sulle strade dell’East London. C’è un’energia piuttosto violenta a Londra che viene direttamente dalla forza della sua scena musicale e c’è sicuramente stata una rinascita per quanto riguarda il concetto di “club kid” che è stato ripescato dagli anni ‘80 da serate come Boombox, All You
Can Eat, Foreign e recentemente Ponystep. I ragazzini hanno ricominciato a usare i vestiti come un mezzo di espressione. Sei il volto della campagna Dr. Martens... hai una carriera parallela? C: Preferirei essere quello che sta dietro alla macchina fotografica piuttosto che davanti, quindi tendo a lavorare solo con brand o persone che rispetto. Ho recentemente realizzato un fantastico servizio “rosa” con la super stylist Judy Blame per i-D...sono sicuro che farà scalpore. La campagna di Dr. Martens con Coco Sumner (la figlia di Sting), risale a un po’ di tempo fa. Avevo appena cominciato a usare un paio di Dr. Martens quando mi hanno avvicinato: è un brand con una grande storia. Ogni tanto dunque sì, mi capita di fare il modello, ma il design è sicuramente la mia prima occupazione! Come i tuoi genitori hai studiato alla St. Martins: raccontaci qualcosa di quel periodo. C: E’ stato un passo importantissimo per me: lì ho conosciuto un sacco di persone che mi hanno fatto scoprire il mondo della musica live. Ho cominciato in quel periodo a organizzare serate
nei club con i miei amici e mia sorella Alice, fondendo i generi musicali più disparati. Una sera per esempio avevamo gli Horrors nella main room, l’artista grime Lethal Bizzle al piano di sotto e il rockabilly di Daisy, Kitty e Lewis al piano di sopra. C’è un’intera scena a Londra che sembra emergere dall’energia di quella scuola di arte e inevitabilmente definisce lo spirito underground della città. Non sono sicuro che questa magia continui quando la scuola si trasferirà a Kings Cross nel 2010: gran parte di essa è dovuta alla location e alla sua storia. Anche quando ci andavano i miei genitori le cose erano le stesse: a mio padre capitò addirittura di assistere a un live dei Sex Pistols nel caffè della scuola! Non ti sembrava abbastanza, così hai deciso di laurearti anche in Storia dell’Arte al Courtauld Institue of Art, proprio come tuo padre... C: In un mondo che gira così velocemente a volte trovo l’idea di stabilità piuttosto affascinante. Sapevo che al Courtauld avrei imparato una forma di osservazione più ponderata: l’idea di trovarsi a confronto con realtà dal significato culturale così grande da restar valido per centinaia di anni mi sembrava potesse mettere in discussione alcuni dei criteri di valutazione che tendiamo ad adottare oggi. Lì sono stato portato a mettere a confronto ciò che è transitorio con ciò che è permanente e ho imparato quanto sia importante rivalutare continuamente la nostra storia e guardare oltre la superficie. Hai sempre saputo che avresti seguito le orme paterne? C: Abbiamo sempre avuto un ottimo rapporto e abbiamo sempre condiviso gli stessi interessi: è stato piuttosto naturale decidere di lavorare insieme. Ma non ho sempre pensato che sarei finito nel mondo della moda e continuo ad avere un paio di progetti paralleli al di fuori di esso. Cosa hai imparato da lui? C: La sua passione per l’antropologia e l’attenzione per i dettagli. La sua continua richiesta di tirar fuori il massimo da ogni idea mi tiene coi piedi per terra. Sto ancora imparando… la sua mente lavora così velocemente che non faccio in tempo a comprendere un concetto che lui è già con la testa a quello successivo. Se vuoi lavorare con lui devi imparare a stare al passo, non ripete mai le cose due volte! In termini pratici ho imparato le basi della costruzione, il design, i dettagli sartoriali che definiscono un gentiluomo inglese, la loro importanza e significato. E che il buon gusto non è sempre buono. E tu Joe cos’hai imparato da Charlie? J: La pazienza! Avete unito le forze nel 2007 per creare una partnership unica: come siete giunti a questa decisione? C: Volevamo creare qualcosa di nuovo e radicale partendo da qualcosa di molto clas-
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sico: quello che stiamo facendo è modellare una nuova estetica partendo da componenti tendenzialmente familiari. Anche se il vocabolario dei vestiti è limitato è sempre possibile presentare una forma narrativa nuova che rifletta la dinamicità della nostra cultura. E’ la nostra affinità al concetto di dualità la forza che muove il nostro brand; questa ossessione per la tradizione inglese e l’anarchia britannica e l’interessante dicotomia che i due elementi creano dà ai nostri vestiti, spero, un’idea di forza e permanenza che permette al classicismo di esistere in una forma moderna. I nostri vestiti nascono da un punto di partenza tradizionale, ma non vogliamo che siano nostalgici o incostanti, piuttosto che riflettano lo spirito del gentiluomo del XXI secolo, un personaggio colto che decide di esprimersi esteticamente in modo conciso. Le cose sono cambiate dai giorni del Duca di Windsor e anche se tutt’oggi egli rappresenta una grande fonte d’ispirazione per il brand, il sartorialismo moderno si deve nutrire di altre cose. Dove avete sede? J: Shoreditch, East London. E’ il quartiere con la più alta concentrazione di artisti in tutta Europa. Ho lo studio qui da più di 20 anni... La vostra attenzione per la tradizione è quasi maniacale… J: Crediamo fortemente nell’idea di continuità dell’eccellenza artigianale e che sia importante sfruttare e affinare le caratteristiche regionali: senza questi elementi il design diventerebbe rapidamente omologato e privo di cuore. “Tradizione attraverso l’innovazione” è il nostro mantra. Oggi è tutto contemporaneamente “di moda” e “fuori moda”: sembra quasi che il disegnare e ridisegnare le cose ciclicamente sia inutile: lavorando nell’ambito del design di menswear nel XXI secolo mi trovo sempre più ad approcciare la mia professione come quella di un designer del prodotto, cercando di volta in volta di trovare una ragion d’essere per ogni mio pezzo. Il design fine a sé stesso, senza un significato genuino è inutile. Siete “vicini” a Hoxton Square come lo siete a Savile Row... come ci riuscite? J: Le due dimensioni sono più vicine di ciò che si pensi: Savile Row è sempre stata frequentata da danides, spacciatori e dilettanti, gli stessi personaggi che potresti trovare ad Hoxton Square. Immagino che abbiate influenze molto diverse tra voi... Come riuscite a farle confluire in un unico progetto senza compromessi? J: Beh, come si può immaginare, io sono quello che fornisce la parte di “esperienza”, anche se allo stesso tempo la mia testa è sempre affamata di cose nuove.Charlie dal canto suo ha ovviamente uno spirito nuovo e una visione contemporanea, ma è anche un tradizionalista che sa riconoscere il bello nelle cose del passato. Tra me e Charlie c’è armonia e spesso i nostri riferimenti finiscono per essere gli stessi, seppur spazino dallo sfondo di un quadro di
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Jacopo Bellini (che ha ispirato lo sfondo del nostro look book per l’AI09) agli stivali utilizzati di un muratore di Dalston (che hanno influenzato i nostri stivali per la PE09) La vostra prima collezione insieme è quella per la PE 2009: parlatecene. C: Ci siamo concentrati sullo sportswear contemporaneo della street culture di Londra e l’abbiamo fuso col sartorialismo inglese di Edward VIII, il duca di Windsor. L’architettura e lo sforzo di creare delle strutture architettoniche tramite i nostri abiti è stato un altro stimolo: i trucchi ottici utilizzati dagli antichi greci per far sembrare le loro colonne più lunghe hanno ispirato le nostre silhouette. Cosa ci puoi dire degli accessori? C: Siamo molto interessati al valore aggiunto dato dalla produzione locale dei singoli prodotti. Crediamo ad esempio che lo spirito della tipica scarpa del Northampton non può essere riprodotto da nessun altra parte. Al momento sono rimasti solo una manciata di artigiani inglesi specializzati nella produzione di scarpe dal XIX secolom e noi siamo fieri di contribuire alla continuità di questa importante tradzione lavorando con questi artigiani altamente preparati. La stessa cura è da noi applcata anche nelle altre aree della nostra produzione di accessori. Joe, descrivi l’uomo di Casely-Hayford: ha la tua età? O quella di tuo figlio? J: E’ un amalgama di entrambi; uno spirito nuovo che apprezza la sostanza più che la superficialità: noi la definiamo “sostanziosa leggerezza”. Nella pratica creiamo pezzi che si adattino a tutte le età, che siano multi funzionali e che vadano al di là delle stagioni. Ci date qualche anticipazione sulla collezione per l’AI09? C: Riprende il tema della dualità spostando l’attenzione sull’idea della mobilità culturale. La collezione si chiama “Crepe nel soffitto di vetro”: è una metafora che richiama la mobilità culturale di oggi e il modo in cui molti confini sociali e culturali si stanno gradualmente dissipando. Vuole far confluire forme opposte prendendo gli elementi più funzionali del workwear e facendoli assorbire dal contesto sartoriale più formale. Chi sono le tue icone di stile Charlie? C: La maggior parte delle mie influenze vengono dai libri e dal vivere a Londra, ma due individui di cui al momento apprezzo lo stile sono i cantanti di due band di Londra: quello dei Friendly Fires e quello dei Golden Silvers. Hanno entrambi uno look unico e una personalità forte: mi piacerebbe vestirli. Quali sono le tue riviste preferite? C: Il mio appartamento è letteralmente sommerso dalle riviste! Colleziono quelle degli anni ‘70, ‘80 e primi ‘90. Riviste come Fantastic Man e Man About Town hanno dato una bella scossa al tradizionale concetto editoriale di presentare il menswear; Mi piacciono anche i-D, Huge, Vogue Homme Japan e Purple Magazi-
ne, tutte riviste con una forte identità estetica e un contenuto culturale che le distingua e che corra parallelo alla moda. Per quanto riguarda l’Italia - oltre a PIG naturalmente - apprezzo l’Uomo Vogue e Apartamento. Stai lavorando anche presso il Dover Street Market: immagino che questo ti permetta di tenere sempre un occhio sulle tendenze... cosa hai visto d’interessante ultimamente? C: In effetti per il DSM passano ogni giorno le persone più stilose del pianeta, così non è difficile accorgersi della nascita dei trend e si comincia a comprendere meglio la potenza dello stile individuale. Il futurismo combinato con la rinascita del movimento punk che sta prendendo piede a Londra è stato una fonte d’ispirazione per me negli ultimi tempi. Sembra quasi che durante ogni recessione della storia, ci sia un qualche movimento giovanile che emerge dall’insoddisfazione generale. Ho sempre visto nella mia generazione una sorta di “cleptomania”, per quella tendenza a rubacchiare i vestiti con un qualche contenuto sociale dai diversi strati della società o da fasi storiche precedenti (è avvenuto per esempio con le giacche Barbour, le camicie a scacchi, i Dr. Martens, ecc.) per mischiarli facendo una sorta di pastiche - qualcosa di simile al post-modernismo in architettura. Tuttavia sono anche sempre stato scettico nei confronti dell’idea che lo street style di Londra facesse affidamento esclusivamente sul passato e sull’idea di riflessione piuttosto che innovazione e che la mia generazione non stesse creando niente di nuovo. Ho potuto riscontrare una nuova fonte d’energia recentemente, soprattutto al DSM, mossa dal concetto di purezza insito nel futurismo, dall’idea di vestirsi senza per forza far riferimento al passato; questa tendenza è stata sicuramente ispirata da designer come Raf Simons, Ute Ploier e Gareth Pugh, che hanno creato un futuro dissociato dal nostro. Si tratta di minimalismo monocromatico in evoluzione: le linee sono lisce e le proporzioni audaci. E’ un momento interessante per Londra perché si stanno fondendo questi concetti futuristici a uno stile punk aggressivo. C’è qualche talento della moda underground che vorresti consigliarci? C: Pla Stanchina, una designer che ho seguito per un po’... Sono molto interessato al collegamento tra un tipo di moda che sia eticamente corretta e “alta”: lei sembra in grado di soddisfare entrambe le esigenze. Sicuramente da tenere d’occhio! Dov’è venduta la vostra collezione? J: Al momento ci stiamo concentrando sui mercati giapponesi da cui vendiamo a store selezionati di tutto il mondo tra cui Barneys, Beams, Corso Como, Comme des Garcons e United Arrows. Al di fuori del Giappone abbiamo un’esclusiva con Lane Crawford a Hong Kong e il Dover Street Market a Londra.
www.casely-hayford.com
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Zuek
Intervista ad Ale Simonetti di Ada Korvafaj.
Ho conosciuto Ale Simonetti qualche anno fa, e seguo il suo percorso lavorativo da altrettanto tempo. Nato a cresciuto a Bassano del Grappa, Ale si sta facendo strada da qualche anno a NYC dove trascorre il suo tempo a immortalare attimi di vita ma anche a realizzare scatti per brand di culto come Zoo York, Carhartt, 55DSL, Lee, Bijules e Slam Jam tra i tanti. I suoi lavori sono apparsi, durante gli ultimi anni su numerose riviste tra cui Tema Celeste, Rolling Stone e GQ e non sono da meno le mostre a cui ha partecipato. La prossima sarà alla Leica Gellery di NYC, l’ultima alla Jarach Gallery di Venezia, occasione che ho colto per scambiare con lui qualche parola su passato, presente e futuro.
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Per iniziare mi piacerebbe sapere qual è il tuo background? Il mio background è lo stesso di molti miei coetanei che alla fine degli anni ‘80 e durante il decennio successivo furono attratti dalle cosiddette ‘culture di nicchia’ quali la musica Hard Core-Punk, i concerti Hip Hop negli squats e tutto quello che girava attorno a queste realtà. Hai conseguito particolari studi nel campo della fotografia o ti sei formato sul campo? Non ho mai frequentato una vera e propria scuola di fotografia e quindi non ho mai affrontato la cosa in modo scolastico diciamo. Ammetto che in un primo momento lo consideravo una mancanza. Oggi penso che il fatto di essere stato a contatto con un ambiente artistico non prettamente legato a una scuola o a un corso di fotografia, mi abbia lasciato la
possibilità di muovermi in maniera autonoma e di seguire un percorso più spontaneo nel mio lavoro. Com'è nato l'interesse per la fotografia? E’ nato parallelamente al mio interesse per le culture di strada. Coincideva con l'ultima fase della mia adolescenza, ovvero gli anni in cui da solo cominciavo a capire e decidere che musica mi piaceva ascoltare, come portare i pantaloni o che patches attaccare sull'Invicta. Si tratta dell’età in cui si inizia a preoccuparsi di come presentarsi al mondo e di ciò che gli altri dovranno pensare di te. Insomma, per la prima volta, anche se in maniera del tutto naif, mi approcciai a qualcosa che all'epoca era nuovo e che aveva influenzato prima di me solo la generazione precedente, cresciuta nella seconda metà degli anni '80, come i concerti Punk e Hardcore negli squats o nei garage o i graffiti e i concerti Hip Hop nella discoteca accanto alla base americana di Vicenza. Capii che avevo scelto il mio mondo di riferimento e contemporaneamente iniziai a scattare per documentare ciò che mi succedeva attorno. E’ stato un riflesso incondizionato, in principio forse più un fattore culturale che estetico. Altre influenze (hobby e passioni) o ispirazioni oltre a quelle che hai già menzionato? Se dovessi individuare un soggetto, un'opera di un artista che più degli altri mi motivò e al quale maggiormente mi ispirai, sceglierei l'opera del fotografo Glen E. Friedman. Il suo libro Fuck You All era una sorta di Treccani fotografica della cultura di strada. Tra le pagine del libro, che mi fu regalato da Alex Fakso nei primi anni novanta, mi colpirono molto i ritratti dei Minor Threat vicino a Tony Alva, Slick Rick e le pose michelangiolesche di Henry Rollins all'epoca dei Black Flag, gli Adolescent e i Badbrains live al CBGB's… Insomma, tutte le realtà che guardavo da lontano, ma nello stesso tempo vivevo di riflesso attraverso la scena italiana che aveva assunto caratteristiche proprie legate anche ad un aspetto politicamente impegnato. I miei hobby? Non penso di averne… rischio probabilmente di sembrare monotono ma mi dedico essenzialmente alla fotografia e a progetti paralleli legati ad essa. La musica è stata una componente sempre molto presente nelle mie foto, importante anche a livello formativo, anche se sono forse più interessato all'aspetto dell'immagine legata ad essa. Mi spiego; se vado a vedere un concerto voglio andarci con la macchina fotografica e scattare, soprattutto quando chi suona è un artista che mi piace. Sugarhill Gang, James Brown, Casinò Royale, Skatalites, Beastie Boys, Santo Gold, Slick Rick, Kudu, KRS and Busy Bee, Fugazi, Blank Dog, sono alcuni degli artisti che ho fotografato. Ovviamente, sono anche appassionato di letteratura. L’ultimo libro che ho letto è stato
Gomorra e l’ho trovato molto interessante. Ormai vivi a NYC da un po'. Cosa ti ha spinto a trasferirti? Che aspettative avevi e qual è stata poi la realtà dei fatti una volta là? Ero attratto da questa città per svariati motivi. NYC era nella mia testa una tappa che prima o poi avrei voluto toccare. Cominciai ad andarci in maniera sporadica, a singhiozzi, poi mi ci sono fermato. Sono arrivato là senza troppe aspettative e lo scenario che vi ho trovato è stato un atteggiamento di apertura mentale e disponibilità del tutto favorevole alla mia figura. Di questa città amo il mix culturale ed etnico che in Italia è ancora poco presente. Penso di essermi integrato in maniera adeguata e mi ci sento a casa. Non è una città facile e qualsiasi cosa tu venga a fare qui, troverai una moltitudine di gente che vuole fare la stessa cosa che ti sei prefissato. La mia ragazza dice che se sputi in aria a NY di sicuro becchi in testa un fotografo... ma quello forse anche a Milano! Hai trascorso gran parte della tua vita a Bassano del Grappa, città piena di energia e creatività, ma piccola. Come e quanto è cambiata la tua vita professionale da quando vivi in una città come New York? E quella sociale? Bassano e le zone limitrofe sono incredibilmente ricche di realtà artistiche e aziendali la cui affermazione e sviluppo è forse da ricondursi ad un fattore storico e culturale. Venezia nel ‘500 aveva caratteristiche simili alla Manhattan che conosciamo, era meta di artisti e commercianti e fulcro dell'economia e dello smistamento delle merci tessili per tutta l'Europa. Penso che l'atteggiamento produttivo del nord-est affondi le radici nel passato. La tappa di NY è forse coincisa con una fase matura del mio linguaggio artistico/professionale. Mi sto vivendo questa città da trentenne, che si sa è un "campanello" importante. I rapporti sociali qui a NY si plasmano alla velocità della città, a volte si deformano, assumono caratteristiche lontane rispetto a quelle a cui ero abituato in Italia. C'è un continuo flusso di gente che arriva e se ne va velocemente. Di solito NY viene vissuta come una città di passaggio e la gente dopo un po' di anni riparte. Non è facilissimo crearsi situazioni sociali che durino nel tempo. Con la tua fotografia spazi dalla moda street ai reportage, oserei chiamarli sempre ‘street’, dove il set è molto improvvisato e realistico. Quale delle due situazioni ti appassiona di più e per quale motivo? Penso sia davvero difficile cercare, oggi, di tracciare dei generi nei quali riconoscersi. E’ evidente la contaminazione che i vari "settori culturali" hanno avuto e le persone come me, che si sono formate nelle culture underground (permettetemi il termine da sociologo neo laureato!) negli ultimi quindici anni, ora scrivono per riviste, operano in settori creativi e am-
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bienti non riconducibili all’aspetto street come l'abbiamo concepito finora e che oggi ha forse assunto delle forme a tratti stereotipate. Questa fetta culturale è ora, a mio avviso, una grande forza per tutto ciò che è legato alla comunicazione. Le persone che come me hanno attinto dalla cultura street hanno maturato il proprio linguaggio e fatto tesoro dell'imprinting che un'esperienza del genere può offrirti. Il mio lavoro, quello artistico e quello commerciale, spesso si mischiano e il secondo, il più delle volte, mi dà la possibilità di lavorare in maniera del tutto personale. La moda in genere è un aspetto che mi piace e che ho sempre seguito. Ho sempre prestato molta attenzione a ciò che le culture giovanili hanno creato a livello stilistico: i Mods, gli Skinheads e lo Ska, la musica Hardcore e Hip Hop, culture queste rigidamente legate ad uno stile e a un concetto di "divisa" e militanza. Come si concilia l’evoluzione nel mondo della fotografia con la tua personale evoluzione professionale? Come in ogni espressione artistica l'evoluzione fa parte di un processo naturale, che ovviamente investe anche la fotografia. Ne prendo atto e mi ci tuffo se ne ho bisogno. Sicuramente abbiamo vissuto un'evoluzione culturale e anche una tecnica, ma non mi dilungherò sulla noiosa polemica “digitale vs. analogico” anche se mi sento molto legato al secondo aspetto, quello materiale. Se dovessi individuare un'evoluzione nel mio linguaggio, probabilmente sarebbe legata alla mia crescita, al cambiamento dei miei gusti che riflettono sulla scelta di un tema o di un soggetto. E invece cosa ne pensi dell'evoluzione che c'è stata nel mondo dei graffiti? Ci sono pochi esempi legati all'evoluzione dei graffiti di fronte ai quali mi entusiasmo ancora. Sono più attaccato alla forma, se vuoi classica, legata ad essi, la base. Tra i milioni di scatti che avrai realizzato negli anni, qual è la tua foto preferita? In realtà non ho uno scatto preferito. Mi soffermo ancora però ad osservare una foto del piccione fotografato vicino al mio vecchio appartamento a Chinatown. Recentemente ho realizzato una stampa molto grande ed è pazzesco come possa in questa guardare dentro il bulbo del suo occhio, ma è forse la posizione che ha assunto che mi colpisce di più, molto elegante, il che non si addice proprio a questi volatili. Sono inoltre affezionato ad alcuni ritratti, ma forse per l'aspetto umano e l'apporto culturale che questi possono celare tra i quali menziono Harold Hunter, James Brown, Stay High 149, Ricky Powell, Lady Pink, Mark Gonzales. E invece qual è il lavoro o cliente preferito? Ho avuto la fortuna di coltivare dei rapporti con alcuni clienti con i quali partecipo in prima persona al processo creativo della realizzazione del progetto o campagna che sia. Questo mi concede un grande spazio di azione, anche
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quando ci sono delle esigenze di mercato da soddisfare. Sono diverse le situazioni in Europa e qui negli stati uniti in cui mi sono trovato a lavorare in questo modo, ma se dovessi citare una realtà, una fra tutte, con la quale collaboro in maniera continuativa e con la quale partecipo in maniera assolutamente personale e passionale, penserei a Bijules, della designer Jules Kim. Sono molto soddisfatto anche del mio progetto Japanese Rockabilly, appena stampato dalla Automatic Books. Si tratta di un mio racconto fotografico su un gruppo di anacronistici rockabilly giapponesi che si ritrovano ogni mese dietro casa mia a ballare. I rockabilly giapponesi della 14th str. a NYC sono molto affascinanti nonostante siano la nicchia, nella nicchia, nella nicchia, insomma una matriosca culturale! Un altro progetto molto interessante al quale ho lavorato recentemente è Read Between the Lines, una serie di postcard realizzate per il PS1 del Moma, con sei diverse immagini sul retro delle quali ho invitato altrettante personalità newyorkesi ad esprimere un pensiero scritto sulla città. Sara Rosen (Powerhouse Books), Tony Arcabascio (fondatore di Alife), Jules Kim (Bijules), Olivia Fincato (scrittrice e curatrice), Mark Nardelli (5boro Skateboarding) e JK5 (artista e tatuatore), sono gli autori di brevi pensieri sulla città che sono stampati in modo da formare delle sottili linee di testo sulle quali verranno scritti i classici saluti da cartolina dando a chi riceve la postcard altra scelta se non di leggere tra le righe. Altra realtà che merita attenzione e nel quale sono stato coinvolto è ITWA (Ithoughtiwasalone.com), un progetto che raccoglie diverse esperienze e altrettanti approcci fotografici selezionati con un criterio validissimo. Quali sono, in un soggetto, i criteri o i fattori che fanno scattare la voglia di fotografarlo? E’ la curiosità verso il soggetto che mi intriga. Può essere il suo aspetto o la storia che ha alle spalle, la storia di un singolo o di un gruppo. Non c'è un argomento in particolare su cui mi focalizzo. Molte delle storie che ho scattato non mi sono state commissionate ma mi ci sono scontrato da solo, per caso o cercando di scontrarmici di proposito. Quale situazione o paese ti piacerebbe fotografare se potessi scegliere? Vorrei lavorare su realtà lontane dal mio quotidiano.. ora mi incuriosisce l'est Europa o il sud America, ma anche il mio vicino di casa potrebbe essere un potenziale soggetto. Chi sono i tuoi fotografi o artisti di riferimento o con quale ti piacerebbe collaborare? Una vera e propria lista di nomi non ce l’ho ma ci sono diversi nomi nell'ambito delle arti figurative e della musica con i quali mi piacerebbe lavorare e il fatto di contaminare due linguaggi differenti e creare dei concept con altri artisti mi alletta moltissimo. Alle collaborazioni con altri fotografi non ci ho
mai pensato, ma sarebbe un buon esercizio "anti-ego" visto che la fotografia è sempre il frutto di un unico punto di vista, molto personale. E’ vero che ultimamente hai cambiato attrezzatura o sono solo chiacchiere di cortile? Scatto con svariati mezzi. Mi piace scegliere la camera a seconda del soggetto. Mi affezziono molto agli apparecchi che uso e tendo a conservarli anche quando, per qualche motivo, non li utilizzo più. La macchina è il tramite e spesso ti aiuta a realizzare al meglio un'idea, ma credo di più nell' approccio del fotografo ad un soggetto, allo sviluppo di un'idea, piuttosto che all'apporto che un marchio o un modello può darti. Il passaggio dall'attrezzatura della Nikon a quella della Canon che ho fatto ultimamente (anche se alla fine scatto in realtà con entrambe le macchine) è stato dettato solo da un fattore tecnologico. Ti sei mai trovato in mezzo a delle situazioni bizzarre e/o minacciose durante il tuo percorso? Qualche aneddoto da raccontarci? Certo. Ad esempio, ero decisamente imbarazzato quando dovetti vestire i panni di lattice per riuscire ad entrare in un club fetish in Florida a scattare un lungo reportage sui meeting underground negli stati uniti. Un’altra situazione imbarazzante l’ho vissuta in un club a Manhattan dove un signore di mezza età con una maglia di rete e un pantalone di lattice, molto composto e posato, dopo averlo fotografato mi invitò in malomodo a cancellare lo scatto dalla scheda della macchina. Solo che non stavo scattando in digitale ma in pellicola quindi puoi immaginare la fatica che ho fatto per ovviare a questo problema. Fu meno imbarazzante ma decisamente straniante quando ho scattato la storia di L.A. Guns. Ero tra i booth dello shooting range con un gruppo di ragazzi di east L.A., Campton, una banda di motociclisti. Uno di loro aveva una t-shirt commemorativa di un membro deceduto in una sparatoria. Altri indossavano la giacca di pelle con il nome della Banda con cucito il nome sulle spalle: Mongols. Quel pomeriggio avevano affittato i fucili più grossi, forse anche un M16. Qualche mese a seguire, a NY, stavo guardando un documentario su National Geographic Channel su un poliziotto infiltrato in una pericolosissima Gang di L.A. per sgominare un traffico di armi e droga... erano proprio loro, i Mongols. Su cosa stai lavorando attualmente? Sto mettendo assieme gli scatti realizzati a Chinatown per il progetto The Last Neighborhood Standing che sarà pubblicato e presentato a breve come un tabloid fotografico con testi in lingua cinese; sto collaborando con Carhartt Europe qui a NY, e a Maggio avrò una mostra assieme a Renato D'Agostin alla Leica Gallery, sulla Broadway a Downtown. Ora mi preparo alla bella stagione. Quest'inverno è stato davvero troppo lungo! Cheers, Ale.
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School Of Seven Bells Si sono conosciuti cinque anni fa a Los Angeles durante il tour degli Interpol e da allora non si sono più separati. Benjamin Curtis, chitarrista prodigio dei Secret Machines, e Alejandra e Claudia Deheza, due affascinanti gemelle in un’unica voce. Insieme, a New York, hanno dato vita agli School Of Seven Bells per l’uscita di “Alpinism”, il loro primo album che fa seguito a ottimi singoli prodotti da Robin Guthrie (Cocteau Twins) o in collaborazione con Prefuse 73. Un disco sognante per sognatori, lisergico ma non troppo, tessuto con apparente semplicità da eteree armonie vocali, ritmi incalzanti e melodie pop. Un piccolo miracolo discografico che ha catturato l’attenzione di grandi (U2) e piccini (Blonde Redhead), ma che non solo per questo merita di essere scoperto. Intervista di Gaetano Scippa. Foto di James Pearson-Howes.
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Di dove siete esattamente e come vi siete conosciuti? Alejandra Deheza: Io e Claudia siamo per metà del Costa Rica e per metà della Bolivia, ma siamo nate in Guatemala e cresciute negli Stati Uniti in vari posti. Da Washington DC ad altre città più al sud, prima di trasferirci a New York nove anni fa. In realtà non abbiamo una famiglia in Guatemala. Nostro padre lavorava per una società americana che operava in quei paesi, ecco perché ci siamo spostate molto. Benjamin Curtis: Io invece sono nato in Oklahoma, ma vivo a New York da nove anni. Ho incontrato Ale e Claudia alla fine del 2004. Eravamo in tour insieme, loro negli On!Air!Library! e io con i Secret Machines, di supporto agli Interpol nel tour americano per l’uscita del loro secondo album. Trascorrendo due settimane insieme a Los Angeles, abbiamo avuto modo di conoscerci bene anche se è stato un processo graduale che ci ha portato a formare gli School Of Seven Bells soltanto due anni dopo. E’ stata una sensazione strana quella di conoscere altri musicisti che vivono a NY come te, in un contesto così lontano da casa, mentre stanno suonando sul tuo stesso palco in modo fantastico. Tra di noi non è scoppiata la creatività, ci siamo semplicemente trovati sulla stessa strada ed è stato emozionante così. Cosa significa il nome del vostro gruppo? AD: Deriva da una leggendaria scuola di furto che operava negli anni Ottanta in Sud America. Per superare l’esame finale, gli allievi dovevano rubare sette oggetti da altrettanti portafogli con attaccati dei campanelli antifurto, senza far suonare questi ultimi. Non si sa se questa scuola sia esistita sul serio, di fatto una notte abbiamo visto in tv un documentario in cui mostravano con quanta abilità e scaltrezza lavoravano queste persone, ne siamo rimasti affascinati e abbiamo preso sul serio la cosa. Pensando anche alla cover surreale del vostro album, che rapporto avete con la numerologia, il simbolismo o il mondo dell’astratto? BC: Siamo tutti e tre molto attenti a quello che ci circonda, a ciò che accade, ci piace osservare. Però non sappiamo razionalizzare su cosa ci ha spinto realmente a scrivere queste canzoni, a fare una cover del genere. Sappiamo solo che siamo attratti da certe cose, in particolare quelle che accadono in modo rituale. Le persone non devono prendersi troppo sul serio ed è qui che nasce anche il titolo, Alpinism. La montagna è una metafora della vita. Bisogna credere in ciò che si fa per arrivare in cima, ma la si può scalare anche in modo artistico e creativo, come gli allievi di quella pazza scuola di furto alla ricerca di un mistico numero sette. Ci piace immaginare che la nostra musica sia
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altrettanto liturgica. Ben, è vero che hai mollato i Secret Machines perché annoiato dal rock? BC: Beh, non ero stufo del rock come musica, che ovviamente è grandioso, ma della formula ripetuta, dell’atteggiamento in generale tenuto dalle band. Ho lasciato i Secret Machines per dedicarmi ad un altro tipo di musica, che trova perfetta espressione in questo disco degli SO7B. Se non sei sulla strada giusta devi cambiare. Artisticamente hai lasciato un fratello (bassista dei Secret Machines) per trovare due sorelle gemelle, curioso no? BC: Eh già, ho mollato il business di famiglia (ride, ndr). AD: Si è unito a un altro business di famiglia (ride, ndr). Con gli SO7B avete intrapreso una strada pop. Cosa significa essere pop per voi? BC: Questa è una domanda difficile… AD: Per me musica pop significa una canzone che chiunque, ogni giorno, può cantare per conto suo. Quello che conta è una melodia semplice o qualsiasi altra cosa che risulti comprensibile e familiare all’istante. Ed era anche ciò che mi attraeva quando ero giovane e la musica non era facile da trovare se non alla radio. BC: Esatto, è la qualità universale delle canzoni. Il che non significa per forza essere popular. E’ anche molto più difficile e stimolante cercare di fare una buona canzone pop piuttosto che cazzeggiare creativamente con gli strumenti per un’ora. Sbagliare un pezzo pop è molto peggio che sbagliarne uno dissonante, dove nessuno capisce dove sta l’errore. AD: E non puoi nemmeno nasconderti dietro una maschera facendo finta che non ti interessi, perché ti interessa eccome. Come descrivereste la vostra musica? BC: Vorrei non doverla descrivere, c’è gente che lo sa fare meglio di noi. AD: Siamo troppo coinvolti per farlo. Personalmente riesco a visualizzare la nostra musica, ma sono meno brava a descriverla. Se trovo una cosa che mi piace, automaticamente qualcun altro non la trova. BC: Ci sono però tre cose che ci piacciono in assoluto: il ritmo, la struttura e la melodia. Sono tre qualità basilari di ogni musica, è vero, ma è ciò che ci piace esplorare. Vi siete mai sentiti parte del “Cathedral of Sound”? AD: Ti riferisci ai gruppi shoegaze tipo My Bloody Valentine? No, non direi. Cioè, li adoriamo, però in realtà assorbiamo di tutto e la nostra musica è il risultato delle cose più diverse. Qualcuno ci ha associati a loro e va bene, perché sono grandi. Ma se ti dicessimo quali sono le nostre influenze, capiresti che non si potrebbero minimamente dedurre dalla nostra musica.
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Per esempio? AD: Robert Wyatt ha un’influenza enorme per me. BC: Toto la Momposina, è una cantante molto popolare in Colombia. La sua voce si accompagna a musica tradizionale colombiana e ritmi afro-latini a base di percussioni. AD: Anche i Gas… BC: Sì, i Gas sono una band tedesca che fa musica elettronica astratta. Poi c’è la radio. La radio è fantastica! Ascoltiamo la radio molto più di qualunque altra cosa (Alejandra annuisce, ndr). Vuoi mettere, non fai neanche lo sforzo di impostare l’iPod perché qualcun altro al tuo posto sta programmando musica per te. Una goduria. Ma vorrei tornare al discorso “Cathedral of Sound”… Probabilmente ciò che ci accomuna a quelle band è il fatto di immaginare come loro la musica, in modo da esserne totalmente immersi. Una cascata di suoni a 360 gradi. Per il resto, noi suoniamo le chitarre come loro, così pure l’elettronica. Secondo voi oggi è in atto un movimento nostalgico, di revival dello shoegaze, o di nu-gaze come direbbe qualcuno? BC: Non so se è proprio così. Ho l’impressione che ci sia un trend per cui la musica produce uno stato di trance al quale gli ascoltatori reagiscono in un certo modo. I ragazzi di nuova generazione non erano ancora nati o erano piccolissimi ai tempi dei My Bloody Valentine, quindi forse non si tratta di nostalgia. Può darsi che vogliano solo ascoltare una musica del genere. AD: Sicuramente ci sono gruppi che emulano chi li ha preceduti, ma molti di questi esistevano già e magari sperimentavano involontariamente le stesse cose. Se oggi il focus è di nuovo sui MBV, sembra che tutti gli altri li abbiano copiati. E’ un po’ come quando visualizzi il blu o un altro colore nella tua testa, poi apri gli occhi e sei circondato da cose blu. Ragazze, avete seguito qualche scuola particolare per arrivare a cantare in questo modo? AD: Non abbiamo seguito alcun corso, ce l’abbiamo nel sangue. Nostro padre, da giovane adulto, era un cantante di opera. Abbiamo imparato insieme da bambine, naturalmente. Per divertimento, per trascorrere il tempo, poiché eravamo le uniche compagne di gioco. Pensa, nostra madre ci ha detto che abbiamo imparato a cantare una canzone per intero prima ancora di iniziare a parlare. Che influenza può avere sulla vostra musica il fatto di essere gemelle? AD: Non saprei, bisognerebbe vedere la cosa dal di fuori. Credo conti di più il fatto di cantare insieme da così tanto tempo. BC: Non penso che questo pesi sulle scelte musicali e tra l’altro loro sono due personali-
tà musicali estremamente distinte. Piuttosto è possibile che abbiano delle reazioni simili dovute al legame genetico. AD: A volte ci capita di pensare le stesse cose ed è effettivamente genetico, inconsapevole. Le nostre voci si combinano così bene insieme che le armonie si fondono e a volte non si capisce se è una soltanto o
“E’ anche molto più difficile e stimolante cercare di fare una buona canzone pop piuttosto che cazzeggiare creativamente con gli strumenti per un’ora. Sbagliare un pezzo pop è molto peggio che sbagliarne uno dissonante, dove nessuno capisce dove sta l’errore”.
sono due, con un effetto straniante per chi ascolta. State riscuotendo molti consensi, vi aspettavate tutto questo successo? BC: Ci piace immaginare che qualsiasi cosa facciamo possa avere successo, ma allo stesso tempo ogni volta che qualcuno ci fa i complimenti lo apprezziamo in modo genu-
ino perché ci fa sentire speciali. Quando abbiamo registrato quest’album non avevamo idea delle reazioni, anzi, pensavamo che ci avrebbero detto: “Perché fate un disco così al giorno d’oggi? Non è quello che vogliono i ragazzini”. Col senno di poi siamo molto contenti che sia piaciuto e ci riteniamo fortunati, anche perché se tornassimo indietro lo
faremmo allo stesso identico modo. AD: Il fatto curioso è che se il disco fosse uscito un anno fa, magari non avrebbe ricevuto lo stesso consenso. BC: E’ molto importante per noi avere dei riscontri, sapere che non siamo così insoliti. In fondo è bello sapere che c’è qualcun altro sul pianeta che condivide gli stessi gusti
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musicali, no? AD: Per me l’album non suona poi così strano, anzi, è tanto immediato e melodico da poter essere suonato in ogni radio. Condivido, penso per esempio al singolo Half Asleep… AD: E’ davvero pop! BC: Eravamo in tour a Boston con i Blonde Redhead e stavamo suonando Sempiternal. Immagina, dal vivo, in apertura per giunta, una versione di oltre 11 minuti. A un certo punto Kazu Makino iniziò a urlare entusiasta: “Questa canzone è una hit, una smash hit!”. Beh, mi piacerebbe davvero vivere in un mondo dove un pezzo simile sia una hit, ma penso che non accadrà mai. I musicisti sono dei pessimi critici (risata, ndr). La vostra musica non piace solo ai ragazzini. Anche The Edge ha apprezzato. BC: The Edge è un ragazzino (risata, ndr)! Ci conosciamo dai tempi dei Secret Machines. Ultimamente eravamo in contatto per alcune cose tecniche che riguardano la chitarra. Gli ho suggerito alcuni pedali, che ha usato nel nuovo disco degli U2, e gli ho mandato il nostro album. Quando sono andato a trovarli in studio di registrazione, stavano provando il basso sul nostro disco e ho pensato che suonasse pazzesco. Sapere che a The Edge e a una band che hai mitizzato per vent’anni piaccia la tua musica fa un certo effetto, ti stimola a proseguire sulla tua strada. Come nascono le vostre canzoni, partite dai testi o dalle musiche? AD: Partiamo sempre dai testi, perché ci aiuta iniziare da una prospettiva limpida, dove ci sono solo le parole. BC: Il processo di scrittura è strano. Può capitare che cominciamo a buttar giù i testi e finiamo a registrare in contemporanea. Siamo in grado di fare tutto assieme, scrivere, produrre, registrare e fare gli arrangiamenti. A volte una melodia nasce al volo, altre volte invece occorrono mesi prima di trovarne una che ci convince. Chi scrive i testi e dove trae ispirazione? AD: Io e Claudia. Per quanto mi riguarda non smetto mai di scrivere. Non so se sia un fatto nervoso, ma scrivo in continuazione fin da piccola perché è l’unico modo che ho di tirar fuori le cose che ho dentro. Sento il bisogno di farlo, senza necessariamente mostrarlo agli altri. Poi, certo, anch’io ho alcuni scrittori a cui mi ispiro. Alfreda Benge prima di tutti. E’ straordinaria. E’ l’autrice di molti dei testi di Robert Wyatt. Ma adoro anche Borroughts. L’unica cosa a cui penso sempre è come vedo le cose. Cerco di capire il perché le vedo in un certo modo. Ripeto, non so se siano i miei nervi, per esempio io vedo questa parete verde e mi chiedo se sia più blu o gialla. Non è un’elaborazione ossessiva, mi piace solo poter visualizzare su carta ciò che ho in testa, dare concretezza a
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pensieri astratti mantenendo intatta la loro purezza. Non penso di dover per forza semplificare le cose per farle capire alla gente. Le persone sono più coraggiose e percettive di quanto si pensi. Quanto avete impiegato a registrare Alpinism? BC: Mi ci sono voluti due anni per imparare a capire come registrare un album, circondato in studio da grandissimi ingegneri del suono con cui scambiare input creativi in ogni fase del processo. E tre settimane per farlo, cercando di ripetere su piccola scala quanto imparato. AD: Benjamin ha avuto un ruolo molto importante per la produzione di questo album. Senza di lui non ce l’avremmo mai fatta. C’è una canzone dell’album a cui siete particolarmente legati? BC: E’ difficile rispondere, conosciamo l’album al microscopio, l’abbiamo sentito nei dettagli così tante volte… Forse la parte che preferisco è quella che non abbiamo fatto noi, ovvero quella in cui Simone Pace dei Blonde Redhead suona la batteria in Sempiternal/Amaranth. E’ l’unico ospite dell’album e quando ascolto quel pezzo avverto il mistero. Per registrarlo avevamo prenotato la sala di un amico, economica e scrausa, solo per poche ore. Lui è venuto lì e ha suonato senza problemi. E’ stato molto divertente. All’etichetta non è piaciuto molto quel pezzo, dura troppo. A me invece sì, posso mettermi lì ed ascoltarlo per un po’ senza pensare ad altro. Claudia, come hai conosciuto Scott Herren (Prefuse 73) con cui hai collaborato? Claudia Deheza: Scott ha un progetto parallelo che si chiama Savath & Savalas con una cantante molto brava, ma che al tempo non aveva esperienza dal vivo. Quando andarono in tour lui mi chiamò di supporto alla sua voce, su segnalazione di un amico in comune. Da lì nacque la nostra collaborazione, che ci portò all’album Singular sotto il nome di A Cloud Mireya. BC: In realtà siamo presenti su vari dischi di Prefuse 73, a partire da Surrounded By Silence. Come si fa ad emergere da una scena artistica così fitta come quella di Brooklyn? AD: Ti sembrerà banale, ma è solo questione di fortuna. Ci sono così tanti gruppi incredibilmente bravi, le persone giuste nei posti giusti. BC: Non per contraddire Ale, ma secondo me c’è una componente non trascurabile di ambizione e di carattere senza cui non si emerge. Perché a NY è davvero dura e anche molto costoso farsi notare. I gruppi di Brooklyn partono tutti da una formula comune, ma poi la fanno in modo diverso, la rigirano a loro immagine. AD: Oggi le band che provengono da lì
sono uniche, nate come reazione al 2004 quando al contrario suonavano tutte uguali, perché così le volevano le etichette. La situazione è nettamente migliore. BC: La competizione è sana, forse l’unica cosa giusta che ci ha lasciato il capitalismo, ciò che può rendere il prodotto migliore. Voglio dire, se vedi Lee Ranaldo suonare in un club dei passaggi di chitarra che ti mandano fuori di testa, oppure se attraversi la strada e incroci qualcuno dei Black Dice, Animal Collective o TV On The Radio, non puoi che sentirti una merda a confronto. Ma puoi essere spronato a diventare bravo come loro. AD: Sono felicissima di sapere che alcune band come gli Animal Collective hanno fatto il pieno di pubblico qui a Milano e anche a Roma. Anni fa non ci avrei mai scommesso. Se penso a come erano all’inizio, dissonanti e sperimentali, suonavano nei posti più assurdi tipo gallerie d’arte. Adesso sono diventati melodici… E’ incredibile! Ogni loro cambiamento è stato grandioso. Come sta andando il vostro tour? AD: Benissimo, siamo appena tornati dal Giappone dove è stato assolutamente folle. Poi torneremo in Uk con Bat For Lashes e White Lies e infine faremo il nostro tour. Qualche concerto memorabile? AD: Manchester, sensazionale. Siamo saliti sul palco tardissimo e senza aver fatto il soundcheck. La gente è impazzita, tanto che il promoter a un certo punto, quando abbiamo finito, ci ha detto: “Non ci crederete, ma dovete tornare su e fare un altro pezzo, subito!”. Quando ero alle superiori volevo trasferirmi a Manchester, perché da lì veniva la musica migliore. E’ stato un concerto speciale anche per questo motivo, non sai quanto ho sudato! Cosa fate quando siete a casa? BC: Viviamo tutti insieme, siamo tipi molto casalinghi. Ci piace cucinare il riso, guardare film, trascorrere il tempo con il bimbo di Claudia… Anche se ha solo due anni e mezzo, è già appassionato di sintetizzatori e batteria, un vero spasso. Mi fate la lista della spesa con i vostri 10 brani del momento? Alejandra: Dry + Dusty – Fever Ray Alien – Robert Wyatt Sangre Gitana Y Mora – Lole Y Manuel Claudia: You Came To Me – Beach House Pilgrimage – Om I Believe In You – Talk Talk Roche – Sebastien Tellier Benjamin: 23 – Blonde Redhead Deluxe (Immer Weider) – Harmonia Jesus’ Blood Never Failed Me Yet – Gavin Bryars
“La montagna è una metafora della vita. Bisogna credere in ciò che si fa per arrivare in cima, ma la si può scalare anche in modo artistico e creativo, come gli allievi di quella pazza scuola di furto alla ricerca di un mistico numero sette”.
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Buraka Som Sistema Intervista di Gaetano Scippa. Foto di Piotr Niepsuj.
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Alzi la mano chi non ha ancora sentito parlare del kuduro, una musica street africana caratterizzata dai ritmi percussivi che da anni spopola in Portogallo e, solo di recente, ha trovato approdo nel nostro paese. Il kuduro (che sta per “ku-duro” ovvero “culo duro”) esportato in occidente, in realtà, viene rivisitato e mescolato con altri generi a noi più familiari in una sorta di ghetto funk terzomondista dall’approccio grezzo e l’intento nobile. Ne parliamo con i Buraka Som Sistema, la band che più di ogni altra ne rappresenta l’essenza, l’anima e il sudore. Perché, dicono loro, “la gente ha bisogno di ballare, sudare e urlare alla follia”. E di riflettere, come suggerisce il titolo del loro primo album “Black Diamond”.
Da chi è composto il gruppo?
mo provato a suonare in band rock. Ma senza
idea di Africa. Una musica che per noi ha
Joao Barbosa: Il cuore del gruppo è formato
successo. Per cui ci siamo buttati su samples,
perfettamente senso, perché è presente nella
da quattro persone, cioè io (Lil’ John), Rui Pité
computer e roba simile. Non abbiamo co-
vita di tutti i giorni e si adatta al nostro modo
(Riot), Andro Carvalho (Conductor) e Kalaf,
minciato subito dal kuduro, anche se questo
di svilupparla senza scavare particolarmente
anche se usiamo voci ed MC diversi. Io, Rui
genere si era diffuso sin dagli anni Novanta,
dal passato. Gli angolani usano i computer
e Andro siamo cresciuti ad Amadora, vicino
ma da cose stupide tipo rompere una bottiglia
come tutti, magari meno belli, ma pur sempre
Lisbona, dove ci siamo conosciuti. Kalaf invece
o aprire una porta cigolante per registrarne i
dei computer. Ho visto città disastrate dove la
viene dall’Angola, ma qualche anno fa si è tra-
suoni e farne delle canzoni. Abbiamo trascorso
gente utilizza computer scadenti da cui esce
sferito anche lui a Lisbona.
intere giornate al computer a fare esperimenti
una musica incredibile. L’Africa è un paese di-
Come vi siete formati?
del genere, che però alla fine sono serviti
vertente e strano, per molti versi arretrato ma
JB: Ognuno di noi arriva da progetti diversi.
perché per fare buone canzoni bisogna prima
per altri sorprendentemente all’avanguardia.
Un giorno, nel 2006, abbiamo deciso di met-
aver fatto canzoni di merda. Non ci prendeva-
Quanto è importante per voi l’approccio
tere su una serata club di kuduro, perché è un
mo molto sul serio. Dovevamo anche fare un
fisico al kuduro?
genere che a Lisbona va tantissimo. Non ave-
album per Kalaf per cui avevamo preparato 4
JB: Una musica che faccia ballare e scatenare
vamo canzoni nostre, solo una gran voglia di
o 5 pezzi, ma erano troppo strani…
per noi è essenziale, ma allo stesso tempo
riunire tutte le tracce di kuduro che riuscivamo
E come vi siete conosciuti con Kalaf?
cerchiamo di avere delle idee, un concept
a recuperare in giro, acquistando CD o dagli
Kalaf: Lisbona è una città molto piccola, basta
affinché non vada sprecata. Ecco perché ab-
Mp3 dei ragazzini, per suonarle di fronte a una
starci poche settimane per vedere le stesse
biamo fatto un album come Black Diamond,
platea. Anche il nome Som Sistema, che signi-
persone appassionate della stessa musica ne-
che ha tutti quei riferimenti politici. Vogliamo
fica Sound System, spiega che l’intento iniziale
gli stessi posti. A tutti noi piace sperimentare
trasmettere qualcosa alla gente, magari infor-
era quello di partire come DJ, non come grup-
con l’elettronica, a me anche con lo spoken
mazioni che in genere non vengono diffuse in
po. Buraka (Buraca) invece è il quartiere dove
word. Loro avevano idee molto fresche e so-
modo oggettivo.
siamo cresciuti. E così siamo diventati resident
prattutto non avevano paura di provare nuove
RP: Abbiamo semplicemente preso quella
a Lisbona ogni ultimo venerdì del mese. Pian
strade. E così ci siamo incontrati, condividen-
musica e l’abbiamo trasformata nella nostra
piano abbiamo rieditato ogni brano di kuduro
do la stessa idea di come la musica poteva e
maniera. Le nostre influenze dal punto di vista
che ci piaceva per renderlo più pesante, dargli
doveva essere, e siamo partiti. Ci siamo con-
musicale e sociale sono diverse da quelle
un beat più forte, calcare i bassi e così via.
frontati e abbiamo sperimentato in continua-
dell’Angola o di altri paesi africani, quindi non
Questo perché il pubblico di Lisbona lo voleva
zione, fino a sviluppare le tracce a nostro piaci-
avremmo potuto né voluto riproporre il kuduro
più da club, ma anche noi lo volevamo più
mento, in modo da dargli un suono più ghetto
angolano. Non definiamo la nostra musica
potente per il club. L’esperienza è durata per
e suburbano non adatto ai locali più patinati,
kuduro. Siamo influenzati dal kuduro, tanto
4 mesi, ma ogni serata è stata memorabile.
ma per girare in tutte le città del mondo.
quanto dall’hip-hop, dal metal e dal dubstep.
Ogni volta si formavano lunghe code di gente
Come mai secondo voi il kuduro, diffuso da
K: Sono tutti generi molto fisici…
per entrare nel locale, che aveva una capienza
anni in Portogallo, è una novità in altri paesi
E’ il motivo per cui l’avete definito “pro-
massima di 200 persone ed era sempre pieno
come l’Italia?
gressive kuduro”?
zeppo. Questo fin dalla prima serata, perché il
Rui Pité: Credo che l’esportazione di questa
K: Quello è stato uno scherzo (ride, ndr).
concetto già da solo era un’attrazione. Lì den-
musica a Lisbona sia un fatto normale, perché
Non si può sintetizzare in una parola sol-
tro tutti sudati (non c’era l’aria condizionata),
l’Angola è una ex colonia portoghese. E’ un
tanto?
nudi, macchie di sudore sulle pareti, un’atmo-
processo simile a quello accaduto in Francia
RP: E’ musica dance.
sfera davvero hot.
con lo zouk, genere musicale che proviene
K: Chi discute di musica e di arte in genere
Poi cos’è successo?
dalle sue colonie africane e diventato popola-
deve sempre trovare una definizione esatta
JB: Poi purtroppo la polizia ha chiuso quel
re in tutto il mondo solo grazie ai francesi. Nel-
che metta d’accordo tutti.
locale per problemi di licenza. Da allora ab-
le periferie di Lisbona ci sono molti ragazzini
RP: Oppure no. E’ questa la parte più diver-
biamo deciso di fare le cose più seriamente e
angolani che, attraverso Internet, si tengono
tente (ride, ndr).
di sviluppare il progetto di band in modo più
informati su tutto quello che accade nel loro
Come avete scelto i collaboratori del disco?
concreto, arrivando a registrare l’album.
paese d’origine.
JB: Tra il 2006 e metà del 2007 abbiamo
Avevate già fatto qualche esperienza live
JB: I portoghesi sono un popolo lento e timo-
girato e suonato in parecchi posti. Abbiamo
prima dei BSS?
roso, per questo il kuduro è rimasto intrappo-
viaggiato molto, spesso a Londra, due volte
JB: Come tutti i ragazzi di Lisbona, anche io e
lato lì per oltre dieci anni.
in Angola. Ovunque abbiamo preso contat-
Rui, prima di diventare DJ e produttori, abbia-
K: E’ una musica molto urbana, una nuova
ti e instaurato rapporti con altre persone,
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cercando di coinvolgere soprattutto quelle
E’ corretto pensare al titolo Black Diamond
te. E’ più veloce.
interessate a contribuire alla nostra musica
come al traffico di diamanti e al loro sfrutta-
JB: E soprattutto puoi parlare di te stesso, per-
senza pianificare le collaborazioni in modo da
mento da parte di paesi occidentali?
ché ogni volta trovi qualcuno che dice o scrive
raggiungere questo o quel target. Con M.I.A.
K: Lo si può leggere in questo modo, ma non
cazzate sul tuo conto!
(che canta in Sound Of Kuduro, ndr) è succes-
solo.
Per esempio?
so che una sera ci ha chiamati per proporci di
Volete lanciare qualche messaggio politico?
RP: I nostri nomi li sbagliano sempre.
fare qualcosa insieme sul kuduro e così, alla
K: Il nostro primo obiettivo è arrivare allo stes-
K: Oppure nelle comunicazioni confondono i
prima occasione in cui siamo andati a suonare
so livello di comunicazione con chi ci circonda,
nostri dj-set con i live…
al Fabric di Londra, ci siamo incontrati e chiusi
con le persone di varie parti del mondo che
RP:…che sono due versioni completamente
in studio con lei per un paio d’ore. Con Deize
hanno un background sociale diverso dal no-
diverse. Dal vivo siamo molto più devastanti!
Tigrona (presente in Aqui Para Voces, ndr), che
stro. Poi, ovviamente, in quanto esseri umani,
In attesa di vedervi dal vivo al festival Dis-
era a Lisbona per alcune date, è stato ancora
non possiamo esimerci dal dire o fare cose che
sonanze, potete raccontare com’è un vostro
più semplice.
possono influenzare altre persone senza essere
live rispetto a un dj-set?
Chi di voi e in base a cosa ha scelto i pezzi
considerate politiche. Solo il fatto di dire certe
K: Non so se gli altri condividono, ma mi piace
per l’album?
cose sul palco, essere felici o fare una rivolta,
pensare che quando facciamo un dj-set (come
JB: In generale pensiamo molto a cosa ci pia-
può rientrare in una affermazione politica.
stasera al Wonka) abbiamo sotto controllo la
cerebbe fare prima di farlo, ci domandiamo se
Cosa ne pensate del fatto di essere stati pa-
situazione, mentre se facciamo uno show live
stiamo seguendo la strada giusta oppure no.
ragonati ai primi esperimenti di world music
può succedere di tutto, le persone impazzire
Siamo molto critici verso noi stessi e il nostro
di David Byrne?
e noi insieme a loro. Dal vivo siamo in sei ele-
lavoro, ma in modo diverso. Del resto questo
K: Credo ci sia un legame.
menti, a volte sette o anche più se contiamo i
identifica i nostri ruoli in modo ben definito
JB: Anch’io penso ci sia un legame con lui,
ballerini…
all’interno della band. Io, Rui e Conductor
con Paul Simon e con tutti gli artisti che hanno
JB: …e suoniamo strumenti come batteria e
siamo tre producer di musica che si muovono
girato il mondo. Ma oggi i tempi sono cam-
percussioni mischiandoli a sintetizzatori e pro-
in ambiti distinti: Rui segue la parte tecnica
biati, come pure le forme di comunicazione.
gramming. Abbiamo anche due MC donne,
ed è il più critico, per cui per esempio se c’è
E’ cambiata la nostra posizione: non siamo
ma tutto dipende dal contesto in cui si suona,
qualche parte di sintetizzatore che non torna,
più artisti occidentali che vogliono lanciare
dalle dimensioni del palco e dal budget (ride,
lui ci sta dietro anche per quattro ore fino ad
musicisti africani di talento ma senza mezzi per
ndr). Nei dj-set suoniamo soprattutto pezzi
ottenere il suono giusto; Conductor è cresciu-
raggiungere un pubblico.
nostri o di altri ma affini al nostro sound, tran-
to in Angola e possiede un background di mu-
Non produciamo i loro album, non apriamo
ne quando l’atmosfera si surriscalda e ci richie-
sica africana maggiore del nostro, portandoci
un’etichetta apposta per loro e non ce ne fac-
dono dei brani più popolari.
quindi su livelli differenti; io invece sto dietro
ciamo carico sulle nostre spalle. Ai tempi era
Quante serate avete fatto finora?
il concept, ho già la musica in testa prima
la cosa migliore da fare perché non c’erano i
K: Dopo la decima io ho smesso di contarle.
ancora di buttar giù una canzone. Kalaf infine
mezzi, appunto, come Internet, Youtube e via
JB: Il nostro manager ha detto che lo scorso
è quello che scrive i testi, ma anche il saggio
dicendo.
anno solo in Portogallo abbiamo fatto 25 live
che emana sentenze. E’ la mente lucida del
Oggi è invece possibile stabilire un rapporto
show, quindi circa un centinaio contando gli
gruppo che, anche dopo dieci ore passate
molto più diretto e paritario con tutti gli arti-
altri paesi e senza includere i dj-set.
a discutere su un beat, può sciogliere ogni
sti, compresi i produttori di kuduro in Africa.
RP: Ormai suoniamo ogni fine settimana, e la
dubbio con frasi del tipo: “Hey ragazzi, perché
Ormai hanno tutti un account su Youtube,
situazione sta peggiorando (dice scherzando,
diamine volete distruggere questa splendida
MySpace, Msn e Hi-Five. Ognuno può fare
ndr).
canzone? Per favore andiamo a dormire, ne
da solo, senza bisogno di un David Byrne che
Qualcuna memorabile?
parliamo domani”. Comunque siamo ben bi-
indichi il prossimo talento africano da tenere
K: Ogni volta penso sia impossibile fare di me-
lanciati e fin dall’inizio del processo compositi-
d’occhio. Basta andare lì e verificare di per-
glio, cosa che puntualmente accade la volta
vo non ci poniamo limiti. Raccogliamo le idee
sona.
successiva.
e i beat di ognuno di noi, poi li sviluppiamo
K: E’ il bello dei nostri tempi.
RP: Mi viene in mente un dj-set davvero sel-
insieme.
RP: E’ vero che alcuni usano i social network
vaggio in un club underground di San Franci-
Prima la musica quindi e poi i testi?
solo come vetrina, senza interagire, magari
sco, l’Elbo Room. Il posto era impregnato di
JB: Esatto. Per Kalaf, che è un produttore non
aprendo account gestiti da qualcun altro. Noi
sudore, le ragazze tutte nude e Kalaf in fuga
di musica ma di parole, abbiamo coniato un
non siamo così, ci teniamo davvero, rispondia-
inseguito da alcune di loro (ride, ndr).
termine: bitaque (in gergo portoghese signi-
mo a tutte le mail e in questo modo troviamo
K: Ricordo anche una vecchia stazione della
fica qualcuno che si immischia in una discus-
spesso nuovi collaboratori.
metro a Bruxelles diventata club, un posto
sione, ndr).
Com’è invece il vostro rapporto con la tv?
perfetto nonostante il suono non fosse otti-
K: Il titolo dell’album è nato di getto, senza
Siete stati nominati più volte agli Mtv Euro-
male.
pensarci troppo. Era forte e abbiamo pensato
pe Music Awards…
RP: Una volta a Lisbona dovevamo suonare
di tenerlo ancor prima di avere le canzoni,
JB: E’ stato semplicemente ridicolo andare lì.
in un posto terribile in pieno pomeriggio ed
per “cucinarlo” lentamente. Solo dopo sono
Far parte di una scena marginale come quella
eravamo poco carichi, ma quando si riempì
venute fuori le idee legate al concetto dei
portoghese, così come quella italiana, rispetto
divenne praticamente un concerto metal!
diamanti, ma anche ad altre questioni del Sud
a quella inglese e americana, significava star
I vostri prossimi passi?
Africa. Mi piace molto occuparmi di questa
seduti nell’ultimo anello di una arena enorme
K: Andremo in tour in Africa.
fase, quando abbiamo già pronti i pezzi e i
senza riuscire a vedere alcunché dello show.
JB: Trascorreremo molto tempo on the road,
suoni e dobbiamo legarli ai concetti. Adoro
E quindi alzarsi e andarsene via dopo dieci
faremo remix e mixtape o cose più strane, tra
ascoltare tutti gli elementi sonori per raffigu-
minuti.
cui registrare dei pezzi con cantanti giappone-
rarli a parole.
K: Molto meglio Internet della tv, decisamen-
si di kuduro.
74 PIG MAGAZINE
“Abbiamo semplicemente preso quella musica e l’abbiamo trasformata nella nostra maniera. Le nostre influenze dal punto di vista musicale e sociale sono diverse da quelle dell’Angola o di altri paesi africani, quindi non avremmo potuto né voluto riproporre il kuduro angolano. Non definiamo la nostra musica kuduro. Siamo influenzati dal kuduro, tanto quanto dall’hip-hop, dal metal e dal dubstep“. 75
Phoenix
Se penso ai Phoenix penso a “Stand By Me”. Penso a quei racconti che narrano di lunghe amicizie, ad esperienze intense che legano per sempre. Quelle che ricorderai tutta la vita come epiche avventure, anche se si trattava di una semplice gita lunga un pomeriggio. Me li sono sempre immaginati così: jeans e maglietta a camminare lungo il fiume, seduti a scherzare all’incrocio di un angolo del quartiere, del loro quartiere. Amici per sempre. Sullo sfondo il tempo scorre. E diventiamo tutti più grandi. Davanti agli occhi le immagini del “Giardino Delle Vergini Suicide”, per ovvi motivi. Rivivere il momento in cui tutto a un tratto ti accorgi di avere un cuore, perchè all’improvviso fa malissimo. Non conosco altre band che riescano a trasmettere queste sensazioni, capaci di evocare un immaginario così nitido, un mondo in cui ciascuno di noi ha vissuto almeno un giorno della sua vita. Sono quei quattro ragazzini inseparabili al centro di quella Polaroid sbiadita. Quelli che poi hanno formato la band, hanno fatto un disco che ha venduto un sacco di copie e sono diventati famosi. Uno prima suonava con quelli là che poi sono diventati giganti, l’altro invece è volato negli States per stare con quella regista. Adesso sono diventati grandi ma se guardi bene sono sempre gli stessi, perché questo è il loro segreto. Siamo volati a Parigi per incontrarli e parlare di “Wolfgang Amadeus Phoenix”, il loro quarto album. Prima seduti attorno ad un tavolo e poi a passeggio per le rue parigine, insieme a noi ci sono Thomas, il cantante, Laurent e Christian, le due chitarre e Deck, bassista della band. Intervista di Depolique. Foto di Sean Michael Beolchini.
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Ciao come state? T, L, C, D: Bene Non basterebbe una giornata per chiedervi tutte le cose che mi sono appuntato. Cercherò di concentrarmi sul nuovo album, date le circostanze, tornerò a casa senza un sacco di risposte e tutti mi odieranno per questo. Però non posso non chiedervi come mai Phoenix... T: (ridono) Ad essere sinceri... Non ce lo ricordiamo neanche. L: E' passato così tanto tempo... E' un nome che abbiamo fin da quando eravamo dei ragazzini, ci piaceva molto. T: E' un nome molto esotico. Vi piace ancora? T: Si. Perchè è... Vuoto. E' una qualità che lo rende eterno. Ho sempre pensato alle eventuali difficoltà di convivenza tra una band e il suo nome... L: Il nome è un nome. E' il tuo nome. Dopo tanto tempo non ti ricordi più di averlo e smetti di pensarci. Finita la grande opera, è ora di cominciare a raccontarla... Siete pronti? T, C: Si, sempre pronti. A parte Deck che, come vedi, è troppo impegnato con il suo flipper per iPhone... Com'è nato Wolfgang Amadeus Phoenix? L: E' nato al termine di un lavoro lunghissimo, cominciato due anni fa. Ci siamo trasferiti in uno studio qui a Parigi, a Montmartre, lo studio del nostro amico Philippe Zdar... E ci siamo rimasti un anno. Epico. Possiamo dire che è l'album che vi ha impegnato maggiormente? T: A loro modo ci hanno impegnato tutti e tanto. C: Ogni album è diverso. Una sofferenza diversa... L: Questa volta è stata una lunga agonia. Adesso che è finito potete fare un confronto con gli album precedenti: se doveste definirli tutti con degli aggettivi? T: United mmm... Giovane, fresco. E' stato l'inizio di tutto. E' stato anche molto rischioso: cercare di mettere insieme tutti quei generi diversi. L: Temerario. T: Naive... Alphabetical? C: Clinico... Bianco T: Clinico è perfetto. Chirurgico. It's Never Been Like That? D: Grezzo. Immediato. Istintivo. Il contrario di Alphabetical. Se per quello abbiamo passato molto tempo in studio per It's Never Been Like That è stato l'opposto. Veniamo all'ultimo... L: Con WAP inizia il nuovo corso. E' innocente, appassionato. Come quando abbiamo iniziato. Il mood è più o meno lo stesso.
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Possiamo parlare di un nuovo inizio? D: E' il vero inizio T: Si. Che cosa avete fatto nel tempo libero? L: Nulla! Solo questo! T: Io amo i videogiochi e ho cercato più volte di coinvolgere anche loro... Ma niente: erano troppo impegnati... Adesso che è tutto finito, però vi piace e siete contenti... T: Si, molto. Contenti soprattutto perchè siamo riusciti a finirlo. Gli abbiamo dedicato una mole tale di tempo ed energie... Ci eravamo illusi di riuscire a non portarcelo a casa, la notte, una volta lasciato lo studio. Ma non è andata così. Due anni di stress! Essere riusciti a finirlo è un grande sollievo, gli ultimi giorni di registrazione sono stati i migliori. Pensate sia il vostro miglior disco? L: Sicuramente. Non so dirti però se il nostro pubblico la penserà allo stesso modo. Come mai questo titolo Wolfgang Amadeus Phoenix? C: Semplicemente per sentirlo pronunciare. Come hai fatto tu adesso... Ci saranno altri motivi, significati nascosti... T: Si ci sono altri significati, ma siamo abituati a non dare troppe spiegazioni. Se li svelassimo si perderebbe la magia. E cosa mi dite della copertina? Queste bombe, missili... (ridono) C: Si è occupato Branco (Laurent Brancowitz) della cover. Come per l'album precedente. L: Volevamo qualcosa di... stilizzato. Qualcosa che potesse essere ridotto visivamente alla sua forma più semplice. Un po' come del resto abbiamo fatto con l'album, cercando di togliere tutto quello che ritenevamo superfluo. Di ridurre tutto all'osso, all'essenza, alla sua forma più pura. L'idea è stata quella di togliere. Togliere con stile. Sei tu quindi che ti occupi di tutta la parte grafica? L: Diciamo di si. Ci siamo accorti con il tempo che è meglio fare peggio, ma da soli e con molta passione, che ricorrere ad un professionista. Non sono bravo ma ci ho messo tutto quello che ho. La stessa cosa vale per la musica. Crediamo nelle cose semplici, nelle emozioni pure, magari anche un po' naif e infantili. E' per questo che avete sempre lavorato da soli ai vostri dischi? D: Si, probabilmente. L: Anche questa volta non avevamo intenzione di lavorare con un produttore. E' semplicemente successo. Eravamo nello studio di Philippe a registrare e ogni tanto, ovviamente, lui passava di lì a salutarci, a prendere dei
dischi quando partiva per i suoi DJ Set... E così, un consiglio di qua, uno di là... Conosci Philippe? Si, l'ho conosciuto a Milano, ha suonato ad uno dei nostri party... L: Davvero?! Milano?... Quando? Si, a Settembre del 2007 L: Davvero? Abbiamo un aneddoto davvero curioso per te allora. T: Avevamo appena cominciato a lavorare nel suo studio. Lui è tornato abbastanza sconvolto da quel viaggio. Credo proprio si trattasse della vostra festa. C: Abbiamo parlato molto di quell'episodio insieme. Mentre suonava, una persona si è avvicinata alla consolle e gli ha fatto leggere un messaggio sul cellulare. Lui pensava fosse una richiesta, così ha guardato. C'era scritto: "Per favore, non dimenticarti chi sei". Ci ha detto che è stata una specie di rivelazione. Tu pensa... Tornando al disco... C: Philippe non è stato un produttore vero e proprio per noi. Se non per circa sei ore al giorno (ride). L: Philippe aveva le idee chiare su come secondo lui avrebbero dovuto suonare i nostri pezzi. E' stato fondamentale questo suo ruolo per noi perché non eravamo alla ricerca di un produttore vero e proprio. D: Si è comportato da amico qual è, un amico che ti dà consigli. Quello di cui avevamo bisogno. Avete voglia di introdurre i nuovi brani? T: Certo, Lisztomania... D: Lisztomania è il primo brano dell'album, ma è anche il primo che abbiamo registrato, è stato il punto di partenza. Probabilmente è riuscito a catturare l'entusiasmo e la creatività dell'inizio più di ogni altra canzone... E ne abbiamo registrate molte per questo disco. Ci è sembrato giusto metterla all'inizio. T: E' la mia preferita. Quella di cui sono più orgoglioso per i testi, per le parole e per come sono costruite le frasi. 1901.. L: E' l'esaltazione di Philippe Zdar. E' l'unione di tante parti semplici. Come diverse facce che vanno a formare qualcosa di tridimensionale. Ci piace partire da elementi semplici per creare qualcosa di più elaborato. Fences... L: E' stato abbastanza complicato metterla giù. Avevamo questo demo registrato molto frettolosamente e avevamo voglia di conservarne la semplicità e il suo essere naif. Non è un'operazione che ci riesce bene solitamente, ma questa volta grazie a Philippe ci siamo riusciti. T: Io non sono ancora riuscito a capire la strofa. Ogni volta che la ascolto non la capisco... Ma va bene così: mi piacciono le cose mi-
“Siamo cresciuti insieme, a Versailles. Non avevamo tanti amici, il più delle volte eravamo solo noi. Abbiamo sempre condiviso quasi tutto, il nostro è sempre stato un rapporto fortissimo”.
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steriose. Love Like A Sunset Part 1 L: Non c'è più una prima e una seconda parte (nella copia advance del disco Love Like A Sunset era divisa in una part 1 e una part 2), uscirà come una traccia unica Love Like A Sunset. Ok, comunque la parte finale è il momento che preferisco dell'album... L: Grazie! T: Questa che piace a te, la "parte due", l'ho scritta mentre volavo dalla Francia all'Italia. Stavo andando a Roma e all'improvviso ho guardato fuori dal finestrino e ho visto le Alpi. Un viaggio bellissimo, non c'è niente come volare sopra le Alpi innevate. Avevo dietro questa piccola chitarra e... Poi c'è Lasso... D: Lasso ha un che di matematico, una combinanzione di forme matematiche. L: Si, siamo molto attratti dall'idea di riuscire a dare una forma matematica alle idee, a tutto quello che abbiamo dentro. Rome... C: Siamo stati una settimana a Roma, è stato bellissimo, è una città meravigliosa. Abbiamo girato come dei matti su degli scooter. Abbiamo provato a registrarla a Milano, alle Officine Meccaniche, uno studio incredibile. Qualità e tecnologia. Probabilmente lo studio dove ci siamo trovati meglio. Ci abbiamo registrato delle chitarre acustiche per la colonna sonora di Maria Antonietta. Countdown... T: Countdown mi fa pensare ai fuochi d'artificio, qualcosa che continua ad esplodere senza fermarsi. L: Dai Thomas, che stai andando benissimo... T: C'è anche un momento molto Brian Ferry... Girlfriend... L: Anche qui vale un po' il discorso fatto per Fences. Siamo partiti da un'idea molto semplice e abbiamo cercato di svilupparla. Solo che, data la sua fragilità, ogni volta che aggiungevamo qualcosa ci sembrava di rovinare tutto. Man mano che passa il tempo la nostra musica diventa sempre più scarna, più semplice. Se andiamo avanti di questo passo tra dieci anni ci ritroveremo solo con una nota in mano... L'ultima, Armistice C: E' l'epilogo dell'album. Immagina di dividerlo in tre parti: l'apertura, Lisztomania, la parte centrale, Love Like A Sunset, e Armistice che chiude. Questi, diciamo, sono i tre punti fermi del disco. T: Con perfetto, intendiamo sensato. Quali sono stati i momenti più importanti da quando avete cominciato? T: Sicuramente questo. Quello che stiamo vivendo è un momento molto importante;
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avvertiamo un grande entusiasmo attorno a noi. Sentiamo di poter fare qualcosa di diverso da quello che abbiamo fatto in passato. Mmm... Altri momenti importanti... L: Per me i momenti migliori sono quelli in cui ad un tratto, dal nulla, compare una canzone. Arriva. Da sola. E' come una rivelazione. Succede all'improvviso ed è una cosa che ti fa sentire enormemente bene. D: Quando questo capita e siamo tutti insieme in studio è un'emozione davvero indescrivibile. E i momenti peggiori? Magari momenti in cui avete pensato di farla finita... T: Non ci siamo mai sciolti. L: Abbiamo liti periodiche, è vero... Ma poi tutto torna alla normalità. D: Ci conosciamo da trent'anni: siamo praticamente una famiglia. C: Siamo cresciuti insieme, a Versailles. Non avevamo tanti amici, il più delle volte eravamo solo noi. Abbiamo sempre condiviso quasi tutto, il nostro è sempre stato un rapporto fortissimo. T: Persino i nostri genitori sono amici. Allora probabilmente è questo il vostro segreto... E' vero che siete nati come backing band degli Air? D: Si T: Si, in verità esistevamo già da prima ma la Source, la nostra prima casa discografica, ci ha firmato in quella circostanza. E' stata un'esperienza di pochi mesi, ma che ci sentivamo di fare prima di diventare un gruppo vero e proprio. Io a quei tempi suonavo la batteria... C: Anche loro sono di Versailles, ma fino a quel momento li conoscevamo solo di nome. Pensa che abitavano nel nostro quartiere, un quartiere degli anni '60 dove tutti i palazzi erano uguali e tutti gli appartamenti pure. Quando abbiamo cominciato a trovarci a casa di uno o dell'altro per lavorare non faceva differenza: le nostre stanze erano praticamente identiche. Anche musicalmente a quel tempo non eravate poi così lontani. Sono riuscito a recuperare il vostro primo singolo ufficiale, Heatwave, e devo dire che mi è sembrato esattamente un incrocio tra voi e gli Air... C: E' vero... T: L'abbiamo registrato mentre lavoravamo con loro quindi immagino che abbia risentito della loro influenza. Respiravamo la stessa aria, ci scambiavamo continuamente idee quindi... Prima di quello c'è stato un singolo che non sono riuscito a trovare però... T: Party Time, si, è la prima cosa che abbiamo registrato, ancora prima di avere un contratto. Era il nostro manifesto. L: Credo che ora sia praticamente introvabile, all'epoca ne abbiamo stampate solo 500 copie.
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E come suonava? T: Davvero indie e rumoroso. L: Il lato A era un pezzo veramente punk rock, il lato B una cosa più elettronica... Ma con una spruzzata di Serge Gainsbourg. Laurent, hai voglia di raccontarmi qualcosa dell'esperienza con Thomas Bangalter e Guy-Man de Homem-Christo nei Darling? L: Abbiamo cominciato giovanissimi, non eravamo una band vera e propria. Pubblicammo questo EP sull'etichetta degli Stereolab, la Duophonic, ma più che altro era la classica esperienza che fai da teenager: uscire insieme, andare a comprare i dischi, registrare qualcosa di tanto in tanto... Comunque è stato qualcosa di speciale, soprattutto per Parigi, a quei tempi. Come è finita, come è avvenuta la loro trasformazione nei Daft Punk? L: Non c'è mai stata una fine vera e propria. Si è trattato più che altro di un'evoluzione. Hanno cominciato a interessarsi sempre di più a quella che era la scena rave, una cosa che personalmente a me non piaceva. Pur essendo sempre stati una rock band, siete tra gli artisti identificati e raggruppati sotto l'ombrello del french touch, anche perchè siete amici o avete lavorato con praticamente tutti gli artisti dance di quel periodo... Come vedete questa seconda ondata? L: Ci piacciono, davvero. Mi piace molto il tocco barocco che hanno i Justice. T: Si, anche se ci siamo sempre ritenuti qualcosa di diverso dal french touch, abbiamo amato tutti questo genere. Così come ci piacciono queste "nuove leve"... Hanno stile, sono bravi, e mi dispiace sinceramente che vengano etichettati genericamente come french dance. Penso che sia una definizione riduttiva. L: La cosa interessante è che si potrebbe disegnare una sorta di albero genealogico che ci include quasi tutti. E' un po' come se facessimo tutti parte di una grande famiglia allargata. E' un dato di fatto. La Ed Banger nasce da Pedro, che come sicuramente saprai è legato ai Daft Punk e agli altri nomi della prima ondata. E' come se fossimo un gruppo di persone che condividono lo stesso segreto. C'è qualche altro artista in Francia, al di fuori dei vostri "familiari", che apprezzate? D: A me piace molto Sebastien Tellier, un artista unico, un genio. Però anche lui è uno della "famiglia". L: Credo che i più conosciuti, quelli che abbiamo citato, siano effettivamente i più bravi. C'è voluta e ci vuole ancora oggi una grande forza per emergere in Francia. Quando abbiamo registrato il nostro primo sette pollici era inimmaginabile per una band
come noi soltanto sperare di avere un po' di visibilità. Figuriamoci un discreto successo. Dovevamo andare a suonare in Belgio, perchè qui, per una band che cantava in inglese, sembrava non esserci alcuna possibilità... C'è voluta una grande fiducia nei propri mezzi. Non siamo in Inghilterra o in America, dove la musica è sempre stata un business. Restando su Tellier: cosa ne pensate del lavoro fatto da Guy-Man con Tellier... D: Lo adoro C: Mi ha colpito molto. Ci ho messo un po' a farlo mio, di solito mi bastano un paio di ascolti per capire se un disco mi piace. Sexuality ha richiesto più impegno. Avete mai pensato di cantare in francese? T: No, proprio perchè ce l'hanno sempre chiesto, fin dall'inizio, e ci sembrava una forzatura. Non ci abbiamo mai pensato veramente, non è mai stata una scelta ragionata quella dell'inglese. Non abbiamo fatto calcoli, è sempre stata una questione di come ci sentivamo e come immaginavamo la nostra musica. C: E' stato anche quello che ha permesso alla nostra musica di varcare i confini nazionali. Ci sono più possibilità in futuro di vederci cantare in italiano che in francese... Beh, si è dimostrata una scelta vincente, anche perché mi sembra siate più famosi all'estero che in patria... Che effeto vi fa? L: Ci fa molto piacere! C: E' un aspetto del nostro lavoro che ci stimola molto dal punto di vista creativo. T: E' bello, pensiamo sia una delle conseguenze del cantare in inglese tra l'altro. Poi forse abbiamo un fascino esotico: sai arrivando da Versailles magari... Dopo due anni di studio siete pronti per ripartire i tour? D: Non vediamo l'ora. Ci piace molto cambiare, alternare il lavoro in studio con il tour. Per due anni siamo rimasti chiusi in un posto di fronte a cui c'è un grosso locale per concerti, ogni giorno si fermavano dei tourbus giganti che accompagnavano le band. Non puoi immaginare che voglia di tornare on the road ci è venuta! L: Suonare in giro per il mondo è bellissimo T: Tanto che a volte ci sentiamo un po' in colpa per quanto siamo fortunati ad avere questa possibilità. Siete stati anche una delle prime band pop/rock a "servirvi" dello strumento del remix... Oggi lo fanno più o meno tutti... C: E' proprio per questo che abbiamo smesso. Con il secondo album ci abbiamo dato un taglio perchè abbiamo visto che cominciavano a farlo tutti e non ci sembrava più una cosa fresca e innovativa. E poi per noi è sempre stata una cosa tra amici, naturale: Buffalo Bunch, Le Knight Club... Oggi è
“Lisztomania è il primo brano dell’album, ma è anche il primo che abbiamo registrato, è stato il punto di partenza. Probabilmente è riuscito a catturare l’entusiasmo e la creatività dell’inizio più di ogni altra canzone...”
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diventato un business. Così abbiamo deciso di regalare il nostro primo brano via internet anche in tracce separate, perché avesse una seconda vita. Ognuno può farci quello che vuole, può farsi il suo remix. Noi abbiamo la nostra versione, quella originale, che suona come volevamo suonasse. Ne avete sentito qualcuno che vi ha colpito? T: Si, ce n'è uno di un ragazzo che si chiama Lapse che ho trovato davvero interessante. E' divertente vedere cosa la gente combina con la tua musica. Ci saranno arrivate quattrocento versioni di 1901. C: Ci piace la possibilità di eliminare gli intermediari, i filtri; saltare quello che in qualche modo ti separa dalla gente. Superare i vecchi meccanismi promozionali; anche perchè questo è un ottimo modo di farsi promozione, diverso, moderno, veloce. E' grazie ad internet che tutto questo può accadere. Fare uscire un inedito, poi l'artwork... Senza intermediari. Ovviamente ci sono effetti collaterali: il nostro album è in rete da ormai due settimane. E non nella versione definitiva. Ma la cosa importante è che noi stessi accettiamo questo rovescio della medaglia. Non ci interessa che la gente scarichi gratis il nostro album, ci dispiace piuttosto non essere stati in grado di controllare il momento dell'uscita, non poterlo fare rovina un po' le cose... Ma sono così tanti gli aspetti positivi che ce ne siamo fatti una ragione. D: E' un momento di grande confusione questo. E la confusione è perfetta per creare. Mi ricordo che poco prima di Alphabetical ci incontrammo e mi regalaste un vostro mixtape: The Phoenix Mixtape. Adesso è uscito Tabloid per Kitsuné... C: ... Beh il primo che ti abbiamo regalato non è ufficiale, questo si. Un pezzo raro allora... Possiamo dire che queste compilation sono un po' il vostro manifesto? L: Si, sono canzoni fondamentali per noi, brani che ci hanno formato, che hanno influenzato e plasmato il nostro modo di fare musica. Si tratta per lo più di artisti del passato; c'è qualcuno tra i gruppi di oggi che vi piace particolarmente? T: A me i Vampire Weekend. Hanno un approccio che mi piace molto, li trovo molto freschi, davvero. C: Io dico Dirty Projectors, che tra l'altro sono nostri amici. Loro però li abbiamo messi anche nella compilation. Purtroppo il tempo a nostra disposizione è finito... Grazie e a presto. Quando potremo vedervi finalmente in Italia? L: Grazie a te. Credo passeremo dalle vostre parti in autunno.
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Tomas Alfredson Intervista di Marco Lombardo. Foto di Sannah Kvist.
Lasciami entrare ha riportato il cinema svedese alla ribalta con il suo bagaglio di sofisticato lirismo e genuino rigore estetico. Un piccolo caso mondiale che ha rivelato il suo autore, Tomas Alfredson, come un nuovo talento internazionale. Un vampire movie crepuscolare in grado di rompere ogni legame con il genere, affrontato con il linguaggio e la personalità del cinema d’autore, che mette in scena una storia d’amore adolescenziale raccontata con garbo e talento purissimo. A fare da sfondo la neve e il buio dell’inverno svedese, personaggio aggiunto di questa bellissima favola per adulti. Abbiamo incontrato il suo autore a Stoccolma, eccone il resoconto. 86 PIG MAGAZINE
L’appuntamento è fissato alle cinque del pomeriggio davanti a Frippes, bar-ristorante alle spalle del Dramaten, il teatro nazionale svedese. Uno dei luoghi simbolo della città nonché un must per i fanatici delle cartoline, con il suo stile art noveau e l’ eleganza imponente. Tomas in questi giorni è impegnato in una pièce teatrale e decidiamo d’incontrarci durante una sua pausa di lavoro, in un locale intimo che frequenta regolarmente: Frippes appunto, covo esclusivo dove registi, attori e drammaturghi svedesi si rifugiano per staccare dalle tensioni del palcoscenico o vengono a far baldoria dopo i successi di scena. Arrivo in anticipo e mi maledico per non aver messo in valigia un paio di guanti: la primavera è arrivata da un giorno sul calendario, ma a Stoccolma il termometro segna ancora meno cinque. Decido ugualmente di aspettarlo fuori; il posto è parecchio “laccato” e provo un po’ di soggezione all’idea di avventurarmi da solo nel bunker del gotha intellettuale svedese. Lo vedo arrivare in lontananza e, sarà la suggestione, mi sembra che i passanti si voltino a guardarlo con curiosità, come una star di successo. Infreddoliti sbrighiamo i soliti convenevoli di circostanza e ci precipitiamo all’interno del locale accolti da un tepore quasi aggressivo. Il posto è vuoto, a parte un paio di tavolini occupati da personaggi che più che intellettuali tormentati sembrano direttori di banca, e lascio volentieri a Tomas l’onere di gestire la situazione. Ho vissuto in Svezia quattro anni ma ancora ci sono lati della cultura svedese che mi sorprendono. E’ tutto prenotato, anche se non c’è nessuno, ma le regole sono regole, si devono rispettare, non importa se sei un cliente abituale o il più famoso regista svedese del momento. La risposta dell’avvenente cameriere incravattato è semplice: dobbiamo cercarci un altro posto. Alfredson non fa una piega, registra l’informazione e me la trasmette mentre m’invita a guadagnare l’uscita. Sono quasi sollevato. Ho voglia di una birra ma mi ero rassegnato a un noiosissimo e costosissimo bicchiere di rosso francese, seguito da un istantaneo mal di testa. Per un secondo però provo a immaginare la stessa scena girata a Roma, con Gabriele Muccino, da qualche parte ai Parioli. Anche lì ci avrebbero risposto che era tutto occupato? Dopo il piccolo incidente Tomas mi sembra istintivamente più simpatico mentre la Svezia si conferma, ancora una volta, un segreto affascinante, pieno di contraddizioni. Ci spostiamo di pochi metri e Alfredson inizia, impacciato, a maneggiare una chiave elettronica, davanti a un portone del medesimo palazzo del locale incriminato. Per un istante penso che voglia provare ad entrare dal retro, preso da un raptus di orgoglio e vendetta assassina. In realtà m’introduce negli splendidi uffici del teatro nazionale, dove lavora in questo periodo. Sbaglia strada un paio di volte, sempre in difficoltà con quella maledetta chiave elettronica, mentre percorriamo lunghissimi corridoi color
panna. Alla fine, dopo qualche minuto, raggiungiamo il luogo dove faremo l’intervista e rimango senza parole. Una stanza riunioni al terzo piano di un elegantissimo palazzo signorile di inizio novecento, propria sopra a Frippes e grande quasi altrettanto, arredata solo da un tavolo rotondo gigantesco e un camino d’epoca, illuminata da due vetrate a muro con vista sul lato posteriore del Dramaten. “Perché non ci hai pensato subito Tomas?”. Mi viene da sussurrare. Completamente all’oscuro di quello che mi passa per la testa Alfredson invece si mette comodo, completamente a suo agio, e mi guarda in attesa che mi accomodi anch’io. Rimango in piedi ancora un paio di secondi, a godermi la vista, dopodiché tiro fuori il mio registratore e inizio con le domande, lasciandomi prima scappare la gag di sedermi all’estremo opposto al suo (con sei metri abbondanti a dividerci): idea fighissima esteticamente (se ci avesse ripreso qualcuno), disastrosa ai fini dell’articolo; il registratore non avrebbe mai captato la sua voce da quella distanza. Sorride sorpreso. Prima di girare questa pellicola hai lavorato principalmente con la commedia e facevi parte di un collettivo satirico chiamato Killingganget. Come sei arrivato a un film sui vampiri? Scelgo i miei progetti intuitivamente, senza una strategia precisa. Non importa il genere a cui appartengono. Quando un amico mi ha consigliato il libro dal quale ho poi tratto il film ero dubbioso: un libro horror? Non fa per me. Non mi piacciono le storie con troppi elementi fantastici, irrealistici, poco credibili. Perdo subito interesse. Ho letto il libro e ho cambiato idea. La storia era credibile, molto terrena. Il mix tra elementi fantastici e realismo sociale mi ha tolto il fiato. Qual è l’elemento che ti ha colpito di più del libro e che ti ha spinto a girarne un film? Ho subito riconosciuto la storia del ragazzino vittima di atti di bullismo a scuola come uno degli elementi cardine del libro e mi sono concentrato subito in quella direzione. Non ti nascondo che ci sia stato un certo grado di immedesimazione in quella scelta. Un racconto per funzionare deve essere vissuto in maniera personale, con coinvolgimento, altrimenti è difficile trasmettere qualcosa. Ho contattato l’autore del libro John Ajvide Lindqvist per discutere l’idea di girare un film e il suo editore mi ha risposto che avrei dovuto mettermi in coda, si erano già fatti avanti una trentina di registi. Più tardi io e John ci siamo incontrati di persona, si è fidato di me, delle mie idee, della direzione che avrei voluto dare al film. Eravamo d’accordo su tutto e abbiamo iniziato il progetto. Quanto tempo delle tua vita hai dedicato a questo film? A giugno saranno quattro anni. Se ci pensi questa intervista dimostra come il lavoro attorno a Lasciami entrare non sia ancora finito.
Dopo avere acquisito i diritti del libro ci sono voluti due anni prima di raccogliere i soldi per girarlo. E’ stato un progetto relativamente costoso per i nostri standard: tre milioni di euro in un’industria così piccola e periferica come quella svedese sono parecchi soldi. Qual è stato il momento più difficile di questa lunga avventura? L’editing finale. Avevo tutto il girato a disposizione, nella giusta sequenza lineare. La storia stava prendendo forma ma mancavano ancora tutti gli effetti speciali e il suono. Ci sono circa un centinaio di effetti visivi nel film e guardarlo senza che fossero pronti ha reso tutto poco credibile e difficile da guardare. La gente intorno a me è stata molto critica in quel momento, tutti avevano un’opinione su come migliorarlo. E’ stata dura da digerire: ci sono soltanto dieci persone in Svezia che hanno raggiunto il mio status professionale ma nonostante ciò tutti si atteggiavano da esperti. I chirurghi di alto livello in questo paese sono pochissimi e nessuno si sognerebbe di andare a suggerirgli come fare il loro lavoro. Nel cinema invece è una cosa che capita di continuo. E’ importante avere la forza di proteggere il proprio lavoro e le proprie idee andando avanti senza farsi influenzare, anche se a tratti può essere estenuante. Qual è l’obiettivo principale che volevi raggiungere con Lasciami Entrare? Si cerca sempre di esplorare una parte di se stessi quando c’è l’arte di mezzo. Da ragazzo ho avuto dei momenti difficili a scuola ed è stato importante rivivere intellettualmente quei giorni e quelle sensazioni. Se l’arte non è personale non arriva a destinazione. Il pubblico potrà non riconosce cosa nello specifico è personale e cosa non lo è ma è importante che la natura dell’opera sia fedele all’animo del suo autore. E’ stato complicato avere dei bambini come protagonisti? Quanto tempo c’è voluto per trovare gli attori giusti? Ho una certa esperienza lavorativa con i bambini quindi da quel punto di vista non è stato difficile. Ho impiegato circa un anno nella ricerca dei protagonisti. Il tempo necessario affinché arrivassero i soldi per iniziare a girare. La scelta degli attori è sempre cruciale nella riuscita di un film e io non volevo che i loro volti fossero troppo dolci o facili da amare. Dovevano essere due anime gemelle ma opposte nella loro diversità. I bambini sono le creature più cinematiche che esistono se diretti nel modo giusto: trasmettono una purezza e un’onestà unica. Kare e Lina sono stati straordinari. Non volevano essere in questo film per diventare delle star, al contrario erano genuinamente interessati alla complessità della storia. E’ stato un onore lavorare con loro. E’ stato difficile trovare le location giuste? Per me era importante rimanere il più fedele possibile alle ambientazioni del libro e all’estetica di Blackeberg, la periferia di Stoccolma dove il racconto è ambientato. Allo stesso tempo però avevamo bisogno di una certa quanti87
tà di buio, di neve, di freddo affinché il risultato fosse credibile. Nonostante la gente pensi il contrario, gli inverni a Stoccolma non sono poi così rigidi e sarebbe stato troppo complicato ricreare le condizioni ambientali necessarie rimanendo nella capitale svedese. Ci siamo spostati molto più a Nord, a Lulea, per trovare quello che stavamo cercando. Quali sono state le parti del libro più complesse da tradurre nella trasposizione cinematografica? I momenti più propriamente horror. Non c’è nulla di più imbarazzante di un film horror che non fa paura, come una commedia che non è divertente d’altronde. Perché hai deciso di eliminare dal film il tema della pedofilia che nel libro aveva una certa rilevanza? La pedofilia è un tema estremamente delicato che spesso viene trattato con troppa superficialità, come una sorta di effetto speciale emozionale, senza che ci si prenda l’adeguata responsabilità nel parlarne. Non volevo cadere in questo errore. Ero interessato a sviluppare altri aspetti del libro a me più congeniali. Se il personaggio di Hakan, l’uomo che accompagna Elin il vampiro, nel film fosse stato dichiaratamente un pedofilo avrebbe cambiato la storia e turbato lo spettatore, distraendolo da ciò che per me era più importante raccontare. Ho preferito lasciare il tema in sospeso, senza palesarlo, in modo che ognuno potesse interpretare quel personaggio autonomamente. Infatti quello di Hakan è il ruolo più equivoco e misterioso del film. Non si capisce se sia il padre, un amico, o il compagno di Elin, la protagonista femminile. Hai deciso di lasciare il dubbio irrisolto. Nella tua testa avevi una risposta, anche solo a livello personale? Sì, è inevitabile. Per me Hakan non è il padre di Elin ma un vecchio amante, proprio come Oskar, il protagonista maschile. Questa è la mia idea ma non volevo che fosse evidente, lasciando che la gente potesse decidere da sola. Quindi Oscar erediterà quel ruolo invecchiando? Sì, forse. C’è un’altra soluzione però: Oskar diventa anche lui un vampiro instaurando con Elin un amore adolescenziale eterno. Ciò che rende unico e speciale Lasciami Entrare è un profondo senso naturalistico, un realismo inusuale per questo tipo di film… Come ti accennavo prima, è sempre pericoloso avere a che fare con una storia fantastica. Il rischio di fare una pessima figura è dietro l’angolo. Quello che mi interessava era confrontarmi con un genere di cui non conoscevo la storia, i canoni e i meccanismi. La prima considerazione che ho fatto pensando alla vita di un vampiro è stata: deve essere di una noia mortale. Sempre in attesa di qualcos’altro o di qualcun altro, sia essa la notte o la prossima vittima. In completa solitudine. Ho cercato d’immaginare quella povertà emotiva e di descriverla. Nel mio film la figura del vampiro non ha alcuna componente erotica, vive di bisogni da 88 PIG MAGAZINE
soddisfare senza ricavarne alcun piacere. Il silenzio, il buio, la neve sembrano quasi dei personaggi aggiuntivi come se fossero dei veri attori… Il silenzio ricopre un ruolo importante in questo film perché è una parte fondamentale del modo di comunicare svedese, è un elemento significativo della nostra cultura. All’interno di quelle lunghe pause, di quei sospiri ci sono dei significati, delle sfumature. Quei silenzi generano una tensione, amplificano gli stati d’animo e danno un valore maggiore alle parole che li interrompono. Il silenzio da spazio all’immaginazione e al dubbio, che a sua volta si basa sulla fantasia. E la fantasia è l’origine di ogni racconto, di ogni storia. Inoltre il silenzio è un espediente narrativo di grande impatto quando accostato a un singolo suono che ne sottolinea la presenza. Spesso uno spettatore distratto non se ne accorge o tende a dimenticarsene ma per un regista la componente sonora ha un’importanza narrativa importantissima… Per quanto riguarda il buio invece abbiamo fatto un lavoro estenuante con le luci di scena per riuscire a trasformarlo in un qualcosa di soffice e vellutato, di vagamente luminoso in simbiosi con la neve. Un qualcosa di tangibile. Il vampiro come figura letteraria può essere visto come la personificazione della paura del diverso, o di ciò che non conosciamo. E’ un caso che l’attrice che interpreta Elin non rispecchi i canoni della classica ragazzina svedese ma al contrario abbia i tratti fisici tipici di una bambina figlia di immigrati? Prima di tutto mi sono attenuto alla descrizione fisica del libro e ho cercato di essere il più vago possibile. Sia per quanto riguarda il suo aspetto, sia per quanto riguarda il suo sesso. Elin in realtà, e questo credo siano in molti a non averlo afferrato subito, è un bambino castrato. Il suo è un personaggio fortemente dualistico. Lina, l’attrice che la interpreta, è per metà svedese e per metà iraniana ma ho cercato di complicare le cose facendole indossare delle lenti a contatto verdi. Le sue origini non dovevano risultare troppo ovvie. Volevo che fisicamente fosse l’opposto di Oskar. Per quanto riguarda la questione della paura del diverso, o più in generale dell’altro, credo che in questo caso l’altro sia rappresentato dal fatto che Oskar ancora non conosce la sua rabbia. Non sa di essere terribilmente arrabbiato con le persone che lo tormentano, non ha alcun modo di sfogarsi o di parlare: non lo fa con i suoi genitori, non lo fa con gli insegnanti. Semplicemente non sa come gestire e come interpretare tutto quel disagio e non è in grado di rispondere e controbattere agli attacchi dei suoi coetanei. Per me il vampiro rappresenta la personificazione della sua rabbia, che impara a riconoscere nel corso della storia. Quando ciò finalmente avviene, infatti, Elin lascia la città, e lui rimane solo con se stesso. C’è un momento abbastanza disturbante nel film, del quale non sono riuscito a capire a
pieno il significato. Un momento in cui la camera indugia sull’organo sessuale di Elin per pochi secondi, soffermandosi su una ferita. Cosa vuole dirci quell’inquadratura? Quella ferita è il segno della sua castrazione, del fatto che in precedenza fosse un bambino. Prima di quella scena Elin dice due volte nel film: se non fossi una ragazza mi ameresti lo stesso? Tutti credono si riferisca al fatto di essere un vampiro ma non è così… In quei momenti in realtà gli sta chiedendo: se fossi un ragazzo mi ameresti lo stesso? Il messaggio che volevo trasmettere è che Oskar l’avrebbe amata comunque. Volevo che lui vedesse i suoi genitali e dicesse: non importa, io ti amo, qualunque cosa tu sia. Nel libro la questione della castrazione è trattata molto chiaramente ma nel film avevo paura che potesse essere fraintesa, facendo pensare a una storia omosessuale. Mentre invece si tratta di un amore innocente, completamente asessuato. Perché hai deciso di usare come colonna sonora soltanto canzoni in svedese? Questo è un aspetto del film su cui ho riflettuto molto. Ho deciso di non usare canzoni internazionali conosciute perché non volevo che il pubblico potesse riconoscerle e mettere in moto un personale effetto nostalgia che distogliesse l’attenzione dalle atmosfere della pellicola. Non amo usare canzoni famose perché appartengono alla coscienza collettiva e non hanno più alcun valore significante specifico: ognuno ha dei ricordi, un passato, dei sentimenti legati a quei brani, non hanno più il potere di trasmettere un qualcosa di univoco. Le persone hanno già un luogo dell’anima destinato ad accogliere quei suoni, un luogo privato che non coincide con quello che accade nel film. Allora ho chiesto a Per Gessle dei Roxette di scrivere una canzone nello stile in cui l’avrebbe scritta nel 1982 e l’ho fatta diventare la canzone preferita di Oskar, quella che ascolta durante il film. E’ stato un espediente perché, almeno in Svezia, la voce appartiene a una coscienza collettiva ma la canzone no. Esiste solo nel film. L’unico brano riconoscibile è Flash in the night degli svedesi Secret Service, una hit del 1982. Fa da sottofondo alla scena finale in piscina, il culmine drammatico del film, creando un certo senso claustrofobico in contrapposizione alla violenza che si sta svolgendo in quel momento. Nel film c’è un altro indizio musicale che non mi è sfuggito: un poster dei The Clash. Sì è un altro riferimento specifico a quel febbraio del 1982. Ho chiamato la più grande agenzia di concerti svedese e mi sono fatto dare una lista degli eventi di quel mese a Stoccolma. Ho scelto quel poster perché conservo ancora il ricordo nitido di averlo visto dappertutto durante quell’inverno. Ascolti molta musica quando giri un film? Sì, anche se mi dedico a una sola canzone per volta. La uso come un mantra, per catturare un determinato stato d’animo, destinato a caratte-
rizzare un periodo. Ogni produzione ha la sua canzone, il suo mantra specifico, nel quale mi rifugio per non perdere la strada o dimenticare l’intuizione iniziale. Ogni volta che non so più che direzione prendere o come risolvere un problema ascolto quel brano e, dopo un po’, trovo la risposta. Quale era la canzone per Lasciami Entrare? Non lo dirò mai pubblicamente. E’ un qualcosa di troppo personale. Non avrei nessuna voglia di vedere le reazioni della gente a quell’eventuale risposta: sospiri, sorpresa, commenti, sguardi d’approvazione, stupore, e cose del genere. E’ un fatto privato che non mi va di condividere. E’ vero che in futuro continuerai a collaborare con John Ajvide Lindqvist all’adattamento cinematografico di altri sui libri? Mi piacerebbe molto. Ne stiamo parlando. Non abbiamo deciso come e quando, ma accadrà. Dopo il successo di Lasciami entrare negli Stati Uniti, Hollywood si è presentata alla tua porta con una valanga di proposte. Hai iniziato a lavorare a qualcosa in particolare? E’ vera la storia che dirigerai Joaquin Phoenix nel suo prossimo film? Non so dove i giornali abbiamo tirato fuori la
notizia ma non è vero. Lui poi non si era ritirato? Ho ricevuto parecchie proposte ma nulla di definitivo: sto solo leggendo qualche copione. Sarà un processo lungo e tortuoso e sono felice che questa occasione sia capitata ora. Non so come avrei reagito fossi stato più giovane. Il successo e la fama possono essere un elemento di disturbo per l’integrità di un regista, soprattutto quando si è ancora inesperti. Le cose si stanno muovendo abbastanza velocemente in questi giorni ma è ancora troppo presto per parlare di progetti specifici. Hai ricevuto il premio del Tribeca Film Festival dalle mani di Robert De Niro, che effetto ti ha fatto? E’ stato emozionante, uno dei giorni più importanti della mia carriera professionale nonché una profonda soddisfazione dal punto di vista personale. Robert De Niro ha fatto la storia del cinema del ventesimo secolo. Ti aspettavi un tale successo per un piccolo film come Lasciami Entrare? E’ stata una piacevole sorpresa ma non sono più un ventenne, il successo alla mia età ha un significato e un fascino diverso. E’ un onore poter girare il mondo mostrando il mio film. La cosa che mi rende più orgoglioso però è il fatto di aver costruito un’opera univer-
sale partendo dalla specificità dei miei sentimenti e del mio retaggio culturale. Danny Boyle si è più volte dichiarato un tuo fan. Tu cosa pensi del suo cinema e in particolare di The Millionaire? Posso solo dirti che la stima è reciproca, mi sembra una persona onesta e sensibile. Apprezzo molto il suo modo di rappresentare la rabbia anche se in realtà non sopporto dare giudizi su altri autori. Ci sono i critici e i giornalisti per questo. Cerco il più possibile di non avere un opinione sul lavoro altrui e di non farmi influenzare dal cinema: guardo i film come un qualunque altro spettatore. Dopodiché ci lanciamo in una lunga conversazione politica, sul ruolo del cinema e dell’arte nel processo di formazione della società. Mi racconta di quanto abbia apprezzato Gomorra e di quanto sia doloroso vedere una nazione, dal passato così importante come l’Italia, cadere vittima delle scelte personali di una classe dirigente inadeguata e criminale. Guardo fuori dalla finestra, ammirando ancora un po’ il panorama svedese che mi si presenta davanti. L’inverno è ancora lì, anche se non smetto di pensare che un giorno le cose cambieranno davvero.
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Jonas & Francois Jonas & Francois, 27 anni, sono i due filmmakers di Parigi che si sono fatti conoscere grazie al premiatissimo video di “D.A.N.C.E.” per Justice, realizzato in collaborazione con SoMe. Da allora è stata una parabola in continua ascesa, che li ha portati l’anno scorso a collaborare nientemeno che con tre pop stars di fama mondiale come Madonna, Timberlake e Timbaland per il video di “4 Minutes”, che non annoverano tra i loro lavori più riusciti ma che, mandato a loop per mesi, ha acceso parecchi riflettori su di loro. Nonostante tra le altre collaborazioni possano contare anche il sempre oculato Kanye West, per il video di “Good Life”, Kavinsky per “Testarossa Autodrive” o The Presets per “Talk Like That”, sono onesti nell’affermare che solo con i video non ci riescono a campare, ma che anche fare commercials può essere divertente: basta osare, riuscire a fare la differenza. Geometrici, colorati, semplici, ad effetto: il loro stile, nato con un connubio pop tra girato e grafica, è inconfondibile. Anche se ormai in molti tentano di scopiazzarlo, è difficile stare al loro passo: Jonas & Francois si rinnovano di continuo e come il vino che bevono a litrozzi da buoni francesi, migliorano col passare del tempo. Reduci dalla loro ultima fatica, il video di “Kilometer” per Sebastien Tellier, proprio ora si stanno dedicando ad un periodo che amano definire “preliminare”, in cui sperimentano nuove tecniche, inquadrature e stili registici. Chissà cosa ci riserveranno ancora... Intervista di Valentina Barzaghi. Foto di Maciek Pozoga.
Ciao ragazzi! Come state? Congelati Cosa state facendo? Dove siete? Jonas: Sono in Francia, a casa, sulla mia sedia da lettura; guardo il mio computer e ho il mouse in mano. Francois: Sono a Parigi, a casa, schiacciato sul divano con il laptop sulle mie ginocchia (sì, lo so... non va bene per il...) tentando di rispondere alle tue domande (per il magazine dei tre porcellini... ah ah ah... scherzo). Arrivate da un periodo di duro lavoro? Ho sentito che stavate finendo l’ultimo video di Tellier... Sì! Abbiamo lavorato forte, come se fossimo in un videogame fuori di testa, tipo Connect 4, Boggle e Scramble. Seriamente... a parte quello che vede la gente, che è solo la cima dell’iceberg (sto parlando del risultato finale, del video), noi scriviamo anche una buona quantità di video e commercials che poi non vanno da nessuna parte... è un aspetto della nostra vita da registi: lavoriamo tutti i giorni, ricerchiamo, scriviamo, proviamo a fare un sacco di cose con le nostre macchine da presa, sperimentiamo effetti video... attualmente ci siamo buttati in un sacco di questi lavori “preliminari”. Tornando a Tellier... L’idea era quella di mostrarlo come una sorta di Gainsbourg-
Timberlake-Guru. Volevamo realizzare un video in cui fosse visto come una star sexy e venerata, con intorno un sacco di ragazze adoranti, ma il tutto doveva comunque avere uno stile molto francese. Diciamo che non ci è dato sapere esattamente dove siamo o quando, l’idea era quello di mostrare un genio nel suo elemento, con qualcosa di allucinatorio (gli occhiali 3D), la sua violenta fame che traspare dalla camera e qualche bel culo da tastare. Volevamo rappresentare una pazzia gentile e dolce, solo a tratti sensuale... niente di eccitante o provocatorio, ma tranquillo, con un’atmosfera rilassata, quasi immobile. Solo gli hot dogs hanno un richiamo sessuale esplicito, il resto è tutto molto convenzionale e, dopo tutto, è esattamente come volevamo fosse. E’ stato un video divertente da realizzare e nato con le migliori intenzioni, proprio come potrebbe essere un video per Richard Clayderman (pianista francese). Com’è stato lavorare con Sebastien? E’ come un lecca lecca al caramello. Dolce, delizioso, vuoi sempre di più da lui perché in fondo lo ami. Il ragazzo è davvero adorabile, oltre che un vero brillante. Vi potete descrivere l’un l’altro? J: Enigmatico, introverso e soffice fuori. Vorrei parlarti del suo lato interiore, ma non
abbiamo molto tempo e onestamente potresti avere uno shock scoprendo quanto è sensibile. F: Un po’ sparso, ritardatario, amabile quanto basta. Allora... siete davvero giovani, avete 27 anni entrambi se non mi sbaglio, ma la vostra scalata al successo è inarrestabile. Come avete iniziato a lavorare nel campo dei videoclip? Ve lo saresti aspettati un simile successo? Sì, abbiamo entrambi 27 anni. Ora sappiamo di certo cosa vogliamo ci accada, ne abbiamo parlato con Marty McFly (da Ritorno al Futuro) giusto ora... A parte gli scherzi... Abbiamo sempre realizzato i video che ci piacevano, con il risultato che erano esattamente come li avevamo pensati in fase di lavorazione. Siamo comunque molto critici verso noi stessi. Parlando dei successi, ci teniamo a dire che comunque non è stato sempre tutto così facile come può sembrare... Cerchiamo sempre di vedere come reagisce l’audience, come lo trova la band, in quali cose dobbiamo ancora crescere e quali sono troppo tardi aggiungere. Fare le cose senza pensarci, fare video seguendo sempre la stessa direzione, solo per il proprio divertimento, è RIDICOLO. Noi abbiamo sempre mirato al risultato. Certo, 91
qualche volta ci siamo riusciti, altre no. E’ per questo che riteniamo che la fortuna del momento abbia davvero poco a che fare con il reale successo, in tutti i sensi; è più una storia d’intelligente combinazione di talenti, come per il video di D.A.N.C.E. Parlando appunto di D.A.N.C.E. per Justice. Come vi è venuta l’idea e come l’avete poi realizzato tecnicamente? Per prima cosa abbiamo fatto il teaser per l’Ed Banger Rec vol 2. L’idea era quella di animare la cover dell’album disegnata da SoMe. Il tutto ha avuto un buon riscontro e quindi la Ed Banger ci ha chiesto di fare D.A.N.C.E. nello stesso modo, con una versione su T shirt. Non ci aspettavamo certo tutto questo successo, ma ce lo godiamo ancora oggi. Il nostro rapporto con la Ed Banger è super, amiamo quei ragazzi e il loro spirito. Vi ricordate il momento esatto in cui avete avuto il vostro primo lavoro? Il primo che ha avuto un lavoro è stato Francois: lavorava nel sud della Francia, nella raccolta del grano. Era davvero giovane e aveva pochi soldi. Dopo siamo diventati amici. Vi considerate famosi? J: Ogni tanto prendiamo i costumi scintillanti e ascoltiamo Michael... F: No davvero. Sarebbe da bulli; molta gente è più famosa di noi, si può vedere solo da Youtube credo... Cosa rende una persona famosa? Penso che non significhi nulla, ognuno può essere famoso, basta che faccia quello di cui si occupa in modo fuori dal comune. No, non ci sentiamo famosi. Ci conoscono solo le persone interessate al nostro lavoro, non è lo stesso. Ma se doveste scegliere, qual è il lavoro che preferite tra quelli che avete realizzato fino ad oggi? E’ una domanda un po’ ambigua... Il migliore potrebbe essere D.A.N.C.E. per Justice perché è anche il più famoso tra quelli realizzati fino ad oggi, oltre che il più premiato e riconosciuto. Altri che ci piacciono sono quelli hip hop: sono assolutamente pazzi. E qual è, invece, quello a cui siete maggiormente legati, se ce n’è uno in particolare? Sulla carta, sicuramente quello di Madonna, davvero creativo. Poi però è stato veramente difficile da trattare e il risultato finale non ci ha reso del tutto felici. Guardandolo ora, ci sarebbe piaciuto che fosse un po’ diverso. Sul serio, l’idea era davvero incredibile, con un sacco di potenziale! Madonna ne era in-
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namorata, ma un anno dopo (ora) abbiamo capito che non ci eravamo mossi nella giusta direzione... capita... A proposito del video di 4 Minutes... Siete giovani e avete già diretto pop stars del calibro di Timbaland, Timberlake e Madonna. Come vi siete trovati con loro sul set? E’ andato tutto veramente alla grande sul set; gli artisti sapevano esattamente cosa fare, d’altronde fare le stars meticolose e irraggiungibili è una cosa stupida, che non aiuta i registi. Erano tutti molto disponibili e preparati sul da farsi. Certo, come situazione era abbastanza surreale, ma poi è stato più semplice del previsto, anche perché sono dei professionisti, allenati per lavorare duramente per molte ore sul set. Ok... fatelo per me che son una fan... Descrivete Madonna a chi non avrà mai la possibilità di lavorarci insieme? Come tutti d’altronde, si aspetta molto dal tuo lavoro, ti mostra quello che vorrebbe fosse il risultato, ma vuole che tu faccia altrettanto con lei. L’abbiamo trovata una persona sincera e possiamo dire che la cosa ci ha sorpreso. E’ adorabile e quindi è facile lavorare con lei, anche perché vuole essere sull’intera lavorazione del video, dalla A alla Z (davvero... dallo storyboard al montaggio), ma sta a sentire quello che dici. Questa è una cosa da non sottovalutare! Una cosa divertente accaduta sul set? J: Madonna ci chiamava “weirdos”, perché voleva vederci correre da una parte all’altra del set, come animaletti impazziti. Come organizzate il vostro lavoro sul set? Facciamo tutto insieme. Stiamo entrambi dietro al monitor, così come vicino alla camera ad annoiare i tecnici. Abbiamo un ottimo rapporto con il nostro direttore della fotografia. Ci piace che le cose riescano nel modo giusto e aiutiamo ognuno a dare il meglio di sé. Tra tutti gli “young talents” che ho intervistato, mi sembrate quelli che lavorano di meno con low budgets. E’ così o mi sbaglio? Lavoriamo ANCHE con low budgets, ma se non si vede credo sia un buon segno! E’ ovvio che se hai l’opportunità di lavorare con più soldi e gli artisti che ti piacciono, francamente... perché mai dire di no? La nostra casa di produzione (EL NINO) al momento è una delle migliori perché ci dà la possibilità di lavorare ad alcuni dei progetti più fighi che ci siano in circolazione! Credo sia raro, vista la competizione che c’è in giro... quello che voglio dire è che ormai non basta più
avere una buona idea! Da quanto tempo fate parte della EL NINO e com’è cominciata la vostra collaborazione con loro? Abbiamo iniziato tre anni fa con il video per Kavinsky. C’è qualcuno dei vostri colleghi che stimate in modo particolare? Megaforce, sono come un’associazione, una famiglia allargata. Hanno un sacco di idee, sono dei geni e riescono a reinventarsi di
continuo. Anche noi siamo giovani talenti giusto? Il meglio lo devi ancora vedere. Yes Olalala yes! Ma c’è qualcosa di frustrante nel vostro lavoro? Avere buone idee che non riescono ad essere realizzate e vedere poi le cose orribili che invece vengono prodotte. Qualche volta succede! Ma avete mai avuto problemi economici a causa del vostro lavoro? Ci riuscite a
vivere? No. Realizzare video musicali non paga, se non che in presenza di un grosso budget, cosa che però non accade pressoché mai, se non con grandi pop stars! Questo è il motivo per cui facciamo anche molti commercials, nonostante i videoclip rimangano il nostro primo amore. A proposito di star... Che mi dite di Kanye West? Com’è cominciata la collaborazione con lui?
Kanye è un artista straordinariamente dotato. Riesce sempre a guardare avanti, è attento su ciò che è innovativo e che gli può essere utile, soprattutto per quanto riguarda i video. Non esageriamo pensando che insieme a Bjork e Radiohead sia uno dei maggiori scopritori di talenti video oggigiorno, godendo anche di buon successo di critica per la sua musica. E’ stato davvero figo lavorare con lui, anche perché se dice qualcosa, lo fa sempre in modo intelligente!
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In tutti i vostri lavori l’aspetto grafico ha sempre una parte di rilievo... Cosa vi piace di questo processo e quanto dura la post produzione in questi casi? L’aspetto grafico non si raggiunge solo dipingendo e ci piace enfatizzare questa cosa nei nostri video. Un sacco di altri elementi intervengono per dare al lavoro ultimato una “veste grafica” innovativa. Sono queste le cose su cui ci concentriamo di più, per lavorare sì con la grafica, ma in un modo
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differente. E cosa mi dite invece del video per Kavinsky? Allora... Lui è arrivato da noi con un’idea particolare che riguardava una sorta di mondo oscuro: aveva un’immagine di una serie degli anni ‘80, di un videogame e di un fumetto americano... ovviamente aveva anche la storia. A noi è rimasto da sviluppare tutti questi elementi, assemblarli e costruirne la versio-
ne animata. Abbiamo lavorato con una combinazione di 2D e 3D, sia fissa che animata, come nelle serie di fumetti. Abbiamo fatto tutto da noi, come per D.A.N.C.E. Se doveste rappresentare il termine “vergogna” usando una sola immagine, quale scegliereste? Una qualsiasi di un porno spagnolo... Stiamo scherzando dai... Mi dispiace non essere stata a Parigi in Ottobre per il vostro evento insieme a
Flairs... Com’è andata? E’ stato tutto organizzato nello spazio Amélie Poulain, era tutto imballato! Ma a differenza del contesto, il lavoro che abbiamo presentato non era colorato (come lo era il film di Amélie) , ma bianco e nero. Abbiamo venduto il dipinto originale della clip per un prezzo non molto alto ed è stato bello vedere la gente che se ne andava con una, due o un’intera serie di stampe. I Flairs hanno fatto un buon concerto ed è stata
una nottata incredibile. Chi è, tra gli artisti con cui avete collaborato, quello di cui serbate il miglior ricordo? E il peggiore? Il prossimo. In entrambi i casi. Chi sono i vostri registi preferiti? Spike Jonze, David Fincher, Clint Eastwood e i fratelli Cohen. E l’ultimo film visto al cinema che vi è piaciuto? The Wrestler. Mickey Rourke è davvero credibile nella parte del wrestler ritiratosi dalla scena. Ti tiene inchiodato allo schermo e questo ormai è davvero raro per un film. Avete già iniziato a pensare a un vostro possibile lungometraggio? Su quale genere vi piacerebbe buttarvi? Non abbiamo ancora letto nessuno script. Se ne avete qualcuno voi di PIG... perché no!?! Eh, magari... Secondo voi qual è l’artista o la band più sorprendente d’oggi? Kanye West. Ci piace il suo approccio creativo, il modo con cui riesce a rinnovare ed offrire cose diverse senza però andare ad intaccare il “West touch”. E’ folle, uno dei più grandi talenti d’oggi crediamo. E con quale invece desiderereste collaborare? J: Porta sfiga parlarne... troppo “enigmatico” come argomento su cui riflettere... F: Non lo so proprio, speriamo che sia qualcuno che ci porti fortuna... Anche se in realtà io credo che la vera sorpresa sia nell’artista, in uno qualsiasi che un giorno diventa popolare e ti chiede di fargli un video. Voi invece avete mai suonato qualcosa o fatto parte di qualche band? F: Ci ho provato con violino e chitarra... ma è morta sul nascere! J: Quando ero bambino studiavo pianoforte e suonavo l’organo in chiesa, ma ora non credo sarei in grado di suonare un solo pezzo di quelli che facevo a quel tempo. Siete felici? J: In qualche modo posso davvero dire di esserlo. F: Mi manca la mia ragazza, ma sono abbastanza felice. Ok... E’ arrivato il momento in cui mi faccio i fatti vostri... Siete fidanzati? Come riuscite a coordinare la vostra vita sentimentale con il vostro lavoro? F: La mia fidanzata vive a L.A. Ci siamo conosciuti al Cinespace (un locale di L.A.) durante lo shooting di Kanye West. Siamo insieme da due anni e non è molto facile vedersi, ma entrambi capiamo che lo facciamo
per la passione che abbiamo in comune. J: Ho conosciuto la mia ragazza quattro anni e mezzo fa e viviamo insieme. E’ tutto sempre abbastanza tranquillo, abbiamo entrambi un lavoro che ci piace un sacco e trascorriamo bene il nostro tempo insieme. Se non faceste questo lavoro, cos’altro vi sarebbe piaciuto fare? Non ce lo siamo mai chiesti, non ne abbiamo idea e vorremmo continuare a non pensarci. Per scaramanzia. Ma avete mai avuto qualche rimpianto? Sì, uno solo, ma non ti possiamo dire il soggetto in questione. Il nostro rimpianto più grande è di aver rifiutato un video per un artista che poi ha fatto davvero il botto. Quello sarebbe stato un momento davvero importante nella sua carriera per lavorarci insieme. La cosa migliore che avete sentito dire su di voi? E la peggiore? Molte persone ammirano il vostro lavoro, alcune no, altre lo odiano perché sono gelose... questa è una cosa troppo forte da sentire. Cosa ammirate più uno dell’altro, e cosa proprio non sopportate? J: Francois è una persona saggia, ha questa particolare abilità di farsi rimbalzare le cose quando vuole. Ma odio come mangia. F: Lui mangia troppo piano e mette il ketchup ovunque. D’altronde, amo la sua mente, mi sa sempre dare buoni consigli. Ma uscite insieme anche fuori dal lavoro? A volte ci piace ammazzarci di porcherie come i donuts al Buttes Chaumont (parco di Parigi), soprattutto se è lunedì pomeriggio. No... stiamo scherzando. Ma usciamo spesso a bere vino e mangiare formaggio. Avete qualche abitudine che riuscirete mai a levarvi? J: Mi tocco i capelli quando incominciano ad essere un po’ lunghi. F: Mi spavento per ogni cosa e ovunque, anche quando sono sotto la doccia la mattina. E’ stupido, lo so. Una domanda che non vi ho fatto, ma a cui vi sarebbe piaciuto rispondere? F: Trovi che le ragazze abbiano un sapore? J: Quali sono i fiumi della Spagna? Prego... rispondete... F: Qualche volta, un sapore metallico. J: Guadalquivir, Guadiana, Tage e Douro. Vi lascio... cosa farete dopo questa intervista? J: Torno alla lettura de Il Giro del Mondo in Ottanta giorni di Jules Verne (1873) F: Bevo un bicchiere di vino e mi metto a letto. Sono le tre di mattina passate.
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Smile Photographer: CHRIS HEADS Stylist: MELANIE BRAULT Hair: MARKUS LAMBERT at markuslambert.com & puremanagementnyc.com Make-Up: ENY WHITEHEAD at Calliste Models: SOPHIE VLAMING at Viva MEGAN BUTTERWORTH at Ford
Sophie: Costume da bagno by MISS SIXTY, Bolero in seta by MANISH ARORA Megan: Bikini a strisce PUMA, collana by PELLINI
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Megan: Costume bianco in lycra by DIESEL, Sophie: costume oro in lycra by PULL IN
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Sophie: Vestito bianco in pizzo PAUL&JOE SISTER, scarpe CONVERSE, Megan: coulotte by FRANKLIN&MARSHALL, scarpe nere ed oro by SOPHIA KOKOSALAKIS
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Megan: Costume da bagno in lycra con fantasia panda by INSIGHT, gilet jeans by WRANGLER
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Sophie: Vestito bianco in pizzo PAUL&JOE SISTER, Megan: coulotte by FRANKLIN&MARSHALL, scarpe nere ed oro by SOPHIA KOKOSALAKIS
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Megan: Costume bianco in lycra by DIESEL, Sophie: costume oro in lycra by PULL IN, lustrino by ANTIK BATIK.
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Coprispalle by ALEXANDRE HERCHCOVITCH
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Sophie: Costume da bagno giallo e turchese in lycra by DELPHINE MURAT, maschera rossa in resina PHYLEA
Top JEREMY SCOTT FOR ADIDAS, gonna denim KSUBI, giacca di pelle, spillette e cappello by URBAN OUTFITTERS
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Adeline
Photographer: ROMAIN BERNARDIE JAMES Fashion stylist: ÁNGELA ESTEBAN LIBRERO www.aestebanlibrero.com Stylist assistant: BEATRIZ STUCKENSCHMIDT MAUES Model: ADELINE MAI Thanks: TRAVIS HAYDEN
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Maglione by ROMAIN KREMER da SEVEN NY, jeans KSUBI, fascia stylist’s own
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Vestitino nero con zip by URBAN OUTFITTERS, gonna JEREMY SCOTT, calzamaglia BERNARD WILHELM, scarpe by BETSEY JOHNSON
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Pelliccia GARETH PUGH da SEVEN NY, pantaloncini LEVI’S VINTAGE da URBAN OUTFITTERS, calzamaglia URBAN OUTFITTERS, scarpe by JEREMY SCOTT for ADIDAS
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Pelliccia GARETH PUGH da SEVEN NY, pantaloncini LEVI’S VINTAGE da URBAN OUTFITTERS, calzamaglia URBAN OUTFITTERS
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Catsuit a righe by BETSEY JOHNSON, poncho COSMIC WONDER at SEVEN NY, scarpe stylist’s own, benda per occhio da pirata AND_i by ANDREAS EBERHARTER
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Top nero by URBAN OUTFITTERS, gonna JEREMY SCOTT, calzamaglia BERNARD WILHELM, scarpe by BETSEY JOHNSON
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Top FREMONT, pantaloni a fiori BETSEY JOHNSON, leggins AMERICAN APPAREL, scarpe con tacco URBAN OUTFITTERS
Pelliccia GARETH PUGH da SEVEN NY, pantaloncini LEVI’S VINTAGE da URBAN OUTFITTERS, calzamaglia URBAN OUTFITTERS, scarpe by JEREMY SCOTT for ADIDAS
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Piglist: Questo mese ospite speciale per la nostra Piglist, Mr. Richard Norris con la sua psychedelic dancefloor top ten. Personaggio di culto della scena dance britannica negli anni ‘90 come metà del duo dance The Grid, Norris è tornato al centro dell’attenzione grazie al suo progetto in coppia con Erol Alkan (Beyond The Wizard’s Sleeve) e alla sue escursioni psichedeliche come The Time & Space Machine.
Richard Norris Jacques Dutronc - Le Responseable Fat Mattress - Magic Forest Wynder K.Frog - I'm A Man The Horrors - Sea Within A Sea The Salt - Lucifer Donovan - Barabarajal The Time and Space Machine - Zeitghost Apostolic Intervention - Madame Garcia The Shadows - Scotch On The Rocks Clouded Canyon - Krautwerk
Musica Album del mese Di Depolique e Marco Lombardo.
Phoenix - Wolfgang Amadeus Phoenix (Coop) Non c’è modo di parlare dei Phoenix senza pensare a tutto il resto. A tutto quello che vi lega. A tutti quei ricordi che ritornano a galla. E sono molti. E’ come rincontrare un amico di infanzia, dopo una vita, e in un attimo riconoscersi, rivivere tutto. Come quella persona che anche volendo non dimenticherai mai, perché ne avete passate tante insieme. La musica passa in secondo piano, tanto sai cosa ti aspetta e sai bene che ti piacerà comunque. Se no non saresti qui. Wolfgang Amadeus Phoenix è il miglior disco dei Phoenix. Wolfgang Amadeus Phoenix è l’album che potevano solamente sognare di fare e ci sono riusciti. Depolique
continua/segue a/da pagina 76
Grizzly Bear - Veckatimest (Warp Records) Corri per le strade di Brooklyn… Immagina un’esistenza parallela. Una vita diversa… Ti sei innamorato della ragazza che lavora nella libreria vicino casa. Hai da poco lasciato il suo appartamento, per la prima volta. Qualche fermata di metropolitana dalla caffetteria dove lavori. Una ragazza con i capelli scuri e gli occhi grandi. Dolcissima. Una mattina di primavera. Le sette circa. Il sole riscalda le braccia nude, scoperte da una maglietta bianca scollata a V. Il nuovo disco dei Grizzly Bear nelle cuffie. Il suo gruppo preferito. Vorresti tornare indietro ad abbracciarla di nuovo. Mentre quelle canzoni sospese nel tempo scorrono nella tua testa. Sofisticate e nitidissime. Quei cori angelici alla Beach Boys che ti scuotono dentro, quelle chitarre vintage così evocative. John Lennon che stringe la mano agli Animal Collective. E sogni di baciarla ancora, sulle note di Foreground, o di urlare in lacrime quando non l’amerai più, ascoltando While You Wait For The Others. Tutto quello siamo rimane nelle canzoni che scegliamo di vivere. Mi aspetti per cena? M.L.
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Musica Album del mese
Di Depolique, Marco Lombardo, Gaetano Scippa e Marina Pierri.
Lindstrøm & Prins Thomas II (Eskimo) Tornano gli alfieri della cosmic disco norvegese, genere che ha fatto proseliti e creato schiere di epigoni. La formula esibita con successo negli ultimi anni mostra però i primi segni di stanchezza. La classe è ancora tutta lì, manca il guizzo di un’idea innovativa. M.L.
The Field - Yesterday and Today (Kompakt) Svanito l’effetto sorpresa di From Here We Go Sublime, un classico minore nel mondo della dance contemporanea, Alex Willner aggiunge al sognante minimalismo melodico che lo contraddistingue una maggiore complessità ritmica e sonora, confermandosi un talento. M.L.
St. Vincent - Actor (4AD) Dopo il meraviglioso esordio torna Annie Clark, incantevole fatina del mondo indie. Armata dell’inseparabile chitarra magica si cimenta in nuovi e più complessi incantesimi. Basta la sola presenza a trasformare tutto in una fiaba.
Soap&Skin - Lovetune for Vacuum (PIAS) È austriaca, ha 18 anni e un cuore nero. Il suo canto cupo ed elettrico ricorda il songwriting femminile tutto 90s, quello dei tempi d’oro; ma i tasti del pianoforte di Soap&Skin hanno una voce diversa e una eco sperimentale. Una delle rivelazioni dell’anno. M.P.
Junior Boys - Begone Dull Care (Domino) Cuori in frantumi, in caduta libera tra arpeggiatori e drum-machine. Jeremy Greenspan e Matthew Didemu ora vivono lontani, uno in Canada e l’altro in Germania, ma non hanno smesso di condividere il loro mondo di perfezioni minimal pop malinconiche: prevedibili e necessarie. M.L.
Doves - Kingdom Of Rust (Heavenly) Pop epico e maestoso che nobilita la tradizione british più classica e reazionaria. Scrittura cristallina, tangenti psichedeliche, grandeur e malinconia a profusione. Alcuni guizzi elettronici di pregevole fattura e una manciata di cavalcate d’alta scuola. Accademici. M.L.
The Horrors - Primary Colours (XL) Noti più per l’hype tutto inglese dovuto al look che per il trascurabile contenuto dell’esordio, gli Horrors devono avere avuto un moto d’orgoglio. PC è un ottimo disco sospeso tra kraut e nuovo shoegaze e risulta più credibile di molti suoi simili. Sorpresa.
Ah, Wildness - Don’t Mess Up With The Apocalypse (Riotmaker) Come uno scontro frontale tra MC5 e volendo Gossip (anche se il paragone tra Beth e Silvia è scomodo per entrambe) gli Ah, Wildness, da Parma, entrano in scena come un treno senza freni. Per fortuna in Italia c’è chi oltre al pettine ci mette anche l’anima.
Dirty Projectors - Bitte Orca (Domino) Quinto album per il gruppo newyorkese dove musica classica, attitudine freak, prog-rock, cerebrali virtuosismi vocali, pop sperimentale ed elaborate strutture melodiche s’intersecano e dialogano tra loro magicamente creando un ibrido multiforme, impronunciabile. M.L.
Faze Action - Stratus Energy (Faze Action)
AAVV - Selected Label Works #1 (Permanent Vacation) Doppia selezione della label disco tedesca. Originali di Lullaibies In The Dark, Bostro Pesopeo e Lexx, remix d’autore firmati Aeroplane, Holy Ghost! Junior Boys e H&LA e pure l’anthem: Balearic Incarnation di Dølle Jølle. Due ore di benessere assicurato.
AAVV - Omnidance (Turbo) Oltre la coltre di coolness che lo avvolge e le pose da popstar Tiga, per chi non lo sapesse, è uno che lavora sodo e picchia molto duro. Qui ci sono dieci anni di Turbo, la sua etichetta. ZZT, Brodinski, Popof e i Dahlbäck: mica canzonette.
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I FA producono disco music da tempi non sospetti e si ripropongono ora con un album che unisce italo, disco funk cosmica e suoni balearici con tanto di theremin, moog e voci soul. I wanna dancer tonite… Ritmo, melodia e mirror ball: impossibile rimanere seduti. G.S.
Depeche Mode - Sounds Of Universe (Mute/Emi) Ventinove anni di onorata carriera che hanno cambiato la storia della musica pop. Quest’ultimo disco non aggiunge nulla di nuovo nell’universo della band inglese ma conferma una capacità e una sensibilità compositiva che sorprende per integrità e freschezza sonora. M.L.
Bronnt Industries Kapital Hard For Justice (Get Physical) Guy Bartell, con la collaborazione di Nick Talbot (Gravenhurst), si rivolge agli amanti di sci-fi movie con un’ipotetica colonna sonora di film anni ‘70, richiamando i suoni sintetici di Carpenter e Goblin con ritmiche kraut e un pizzico di groove. G.S.
Peaches - I Feel Cream (XL) E al quarto disco Peaches decise di cominciare a cantare sul serio. Con alle spalle Soulwax, Simian Mobile Disco, Drums of Death, Digitalism, Shapemod e l’amico Gonzales valeva la pensa provare. Di nuovo un paio di numeri italo, poi il solito electrough style. Un po’ poco.
Scary Mansion - Every Joke Is Half The Truth (Zum) Leah Hayes fa rivivere nell’arco di poche canzoni il grande spirito della Cat Power che fu cantando tra pene soffocate e rantoli di rabbia, ora su chitarre distorte ora acustiche. Peccato solo che il disco arrivi da noi con moltissimo ritardo sull’uscita originale. M.P.
Moderat - S/t (Bpitch Control) Modeselektor e Apparat insieme sulla lunga distanza. L’album si apre emozionale e continua con un manto sonoro Burial-iano (Rusty Nails, Out Of Sight). Oltre alla voce malinconica di Sascha Ring anche quella di Paul St. Hilaire nell’inno ai Massive Attack Slow Match. Spettacolo. G.S.
Mokira - Persona (Type) Andreas Tilliander concepisce un disco a base di elettronica ambient e glitch che, aldilà del mood notturno e decadente, è di piacevole ascolto. Strati di suoni ovattati e riverberi in loop si fanno sempre più profondi e pulsanti da Contour a Oscillations And Tremolo. Clima(x) post-rave. G.S.
Jason Lytle - Yours Truly, The Computer (Anti) Uno dei gruppi della mia adolescenza, i Grandaddy. Ricordo i pomeriggi d’estate trascorsi a far nulla. Steso su un prato. Ad ascoltare i loro dischi. Mentre sognavo di andar via. Son tornato da poco. Ascolto Jason Lytle e mi sembra di non essere mai partito. M.L.
Disrupt - The Bass Has Left The Building (Jahtari) Jan Gleichmar bissa l’ottimo Foundation Bit con un altro capitolo di musica SID, che vede sample di vecchi videogiochi del C64 sovrapporsi a bassi dancehall, tastiere e drum machine d’annata con voci effettate. Il risultato è tanto straniante quanto divertente. G.S.
Fischerspooner - Entertainment (Lo recordings) Odore di promesse mai mantenute. Un esordio folgorante nel 2001, sull’onda di un genere presto dimenticato come l’electroclash e poi una graduale discesa nell’anonimato e nella mediocrità. Dalla quale i Fischerspooner non riescono più a venir fuori. Peccato. M.L.
Savath & Savalas La Llama (Stones Throw)
Kenny Glasgow - Taste For The Low Life (No19 Music)
Kid 606 - Shout At The Döner (Tigerbeat6)
Progetto folktronico di Scott Herren (Prefuse 73) con la cantante catalana Eva Puyuelo Muns e Roberto Carlos Lange. La Llama è un piacevole viaggio atmosferico nella scena indipendente brasiliana dei primi anni ’70, con voci melodiche carioca e suoni velatamente psichedelici. G.S.
La musica dance è ancora viva. A sostenerla da oltre vent’anni ci pensa anche questo dj e producer di Toronto, che percorre la tratta old school Detroit-Chicago amalgamando deep house e techno con elementi electro morbidi e organici. Una sorpresa. G.S.
Linee di basso killer e synth distorti a go go. Kid 606 torna più agguerrito che mai con un lavoro trainato dallo schiaffo house-metal di Be Monophobic With Me e dai bassi hardcore con voce mortifera di Jamie Stewart (Xiu-Xiu) di Mr. Wobble’s Nightmare. Terrorismo sonico. G.S. 123
Film del mese
Di Valentina Barzaghi
Role Models Di David Wain. Wheeler (Seann William
maggior parte delle commedie made in U.S.A.
stici (motivo per cui vi consiglio vivamente di
Scott, in arte Stifler) e Danny (Paul Rudd)sono
Role Models ci riesce attraverso un giochino
vederlo in lingua, doppiato perde il 40% di
due rappresentanti delle bibite energetiche
stilistico, tanto azzeccato quanto semplice:
tutto ciò di cui sto parlando). La storia quindi
Minotaur per la zona di L.A. Mentre al primo
non cerca di far ridere sempre e ovunque,
c'è, ma in questo caso, visto che non stiamo
piace il suo lavoro, il secondo lo odia proprio,
rischiando dunque di non far ridere mai e per
parlando di un film impegnato o che si vuole
assumendo verso la vita in generale una pro-
nessun motivo, ma distribuisce il divertimento
vestire di una qualsiasi veste autorale, anche
pensione negativa che si ripercuote anche nel
in singole scene, che diventano quindi singole
se non l'avesse... chi se ne frega... fa ridere... e
suo rapporto di coppia. A causa del loro com-
gag all'interno di un contenitore narrativo.
chi va a vedere questi film vuole ridere. Punto.
portamento indisciplinato sul lavoro, corrono il
Qualcuno di voi so che sta pensando che al-
Una delle cose apprezzabili, fra l'altro, è che
rischio di finire dietro le sbarre. Il giudice però
lora è una cavolata, un escamotage narrativo
le grasse risa arrivano soprattutto da quelle
ha dato loro la possibilità di scegliere: o la
per nascondere la mancanza di un'idea vera
scene non colorate da una serie di scurrilità,
prigione o un centro di recupero per bambini
che sostenga il film, che siccome il regista Da-
che sembra siano d'obbligo in pellicole del
in cui fare assistenza e volontariato. Ovvia-
vid Wain è lo stesso che ha realizzato una por-
genere, ma che invece ne abbassano solo
mente scelgono la soluzione B ritenendola la
cheria che bandirei da qualsiasi mercato come
il livello. Mitici i personaggi interpretati da
più semplice, ma dopo pochi giorni al centro,
The Ten - I dieci comandamenti come non li
Christopher Mintz_Plasse, nei panni del super
incominceranno a pensare che il carcere non
avete mai visti bisogna eliminarlo prima che il
nerd in versione medievale Augie Farks, e da
sarebbe poi stato così male. Finalmente un
disastro si ripeta, ma non è così. Il film gioca
Bobb'e J. Thompson, in quelli dell'irrequieto e
film demenziale che ha quel livello di buon
con una trama già vista, l'uomo adulto che per
scurrile Ronnie Shields. Bene... Il mio film stu-
gusto tale da permettermi di recensirlo. Non
un caso fortuito reinventa la sua vita grazie
pido per il 2009 l'ho recensito, così ora torno a
è così facile oggigiorno trovare una pellicola
all'aiuto del ragazzino disadattato di turno,
quei mattoni che mi piacciono tanto senza che
che sia stupida al punto giusto, superando
ma lo fa attraverso uno humor politicamente
nessuno possa puntarmi il dito contro dando-
però la media da encefalogramma piatto della
scorretto e calcando su continui giochi lingui-
mi della palla mortale.
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Cinema
Taxi To The Dark Side
Di Alex Gibney. Giunti nell’era di Obama, è finalmente arrivato il momento di lavare i panni sporchi. Alex Gibney è uno dei documentaristi più in gamba d’oggi, uno che non ha peli sulla lingua e che a differenza di Michael Moore non tenta di condirtela con la simpatia in modo da fartela digerire meglio. Anzi... Reduce da Eron - L’Economia Della Truffa e Gonzo: The Life and The Work of Dr. Hunter S. Thompson, di cui vi avevamo parlato un po’ di tempo fa e mai distribuito in Italia, ci propone questa volta un documentario crudo e impressionante sulle pratiche di tortura applicate dall’esercito U.S.A. in Afghanistan, Iraq e a Guantanamo. Il film muove le fila dalla storia di un taxista afghano catturato dai soldati americani, condotto al centro di detenzione presso la base aerea di Bagram e da qui “condannato” a morte. Tutto questo accadeva nel 2002, ma la storia di Dilawar è solo una tra le tante, un escamotage narrativo per parlare dell’orrore e dei crimini commessi contro l’umanità. E’ tutto vero, oltre che essere il primo vero reportage contenente le immagini del campo di prigionia di Bagram. Non c’è molto da stare a parlare della qualità filmica, che comunque gode di un solido progetto e di una struttura adeguata alla resa finale, ma dell’importanza del film, che è una parte della raccolta intitolata Why Democracy?, serie di documentari girati in varie parti del mondo che affrontano, esaminandone gli aspetti, cosa voglia dire “Democrazia” oggi. Premiato come Miglior Documentario al Tribeca Film Festival, Taxi to The Dark Side esplora l’introduzione della tortura partendo proprio dalle argomentazioni messe in campo dal governo U.S.A. per giustificarne e farne approvare l’utilizzo, nonostante le Convenzioni di Ginevra (la prima, a cui già parteciparono gli U.S.A., fu del 1864) l’avessero completamente bandita. Non tralascia, di rimando e ovviamente, il ruolo fondamentale che l’amministrazione Bush giocò perversamente in tutto questo.
My Bloody Valentine 3D Di Patrick Lussier. Ogni circostanza ci dice che il 2009 sarà ricordato come l'anno di un'importante rivoluzione cinematografica, quella dell'introduzione del 3D. Siamo passati da Bolt (Disney) a Viaggio al Centro della Terra (01 Distribution), per poi finire un mese fa con Mostri contro Alieni (Dreamworks); tutte prove che testimoniano l'innovazione del prodotto, ma scarse sotto il profilo qualitativo (solo la storia del cane super eroe della Disney si salva, detto tutto). Storie banali, con personaggi un po' triti nell'immaginario cinematografico, per nulla divertenti, talmente prevedibili che ti trovi a sbroccare fuori dalla sala perché hai pagato un supplemento al biglietto base per avere in dotazione gli occhialini space, ma vorresti farti ridare i 7 euro del biglietto base perché gli occhiali li hai usati, ma il vero film (regia, sceneggiatura, montaggio) non l'hai visto. Insomma, uno stile innovativo e futuristico che deve ancora farsi le ossa lavorando sul passato, sulla storia del cinema, dando importanza alle reali componenti di un prodotto filmico. Il regista Patrick Lussier in questo senso è stato molto scaltro: ha preso l'omonimo film del 1981, un cult del genere horror, e lo ha trasformato. La pellicola racconta la storia di Tom Hanniger, un uomo che durante un incidente in miniera, uccide cinque uomini e ne fa finire uno in coma. A un anno di distanza dal fatto, quest'ultimo però si sveglierà deciso a cercare vendetta. Che sia ben chiaro che ne sto parlando, non perché lo ritengo un filmone da vedere a tutti i costi, ma perché devo stare al passo con i tempi e, parlando di 3D, l'unica cosa che stavo aspettando era proprio un horror con tanto di fiammata trash sul pubblico e asce che volano. A Maggio ho deciso che mi divertirò con poco...
Angeli e demoni Di Ron Howard. Che ne dite se parlo solo di Ron Howard tralasciando il resto? Potrei iniziare raccontandovi da quando ha iniziato la sua carriera recitando in Una fidanzata per papà di Vincent Minnelli (1963), ha acquisito fama con l’intramontabile telefim Happy Days in cui interpretava Richie Cunningham, per poi girare lui stesso film indimenticabili come Splash, una sirena a Manhattan (1984), Cocoon (1985), Apollo 13 (1995). Ok... va bene... Angeli e Demoni... è tratto, come tutti sanno, dal secondo libro di Dan Brown, lo scrittore più sopravvalutato del nuovo millennio (guardate... mi sto annoiando da sola) e ripropone la stessa squadra che stava dietro al successo planetario (ma immotivato) de Il Codice Da Vinci. Questa volta l’esperto di religioni Robert Langdon (Tom Hanks) si trova alle prese con gli Illuminati, un’altra segreta e protetta confraternita. Chiamato a far luce su un misterioso simbolo impresso col fuoco sul corpo dell’esperto fisico svizzero Leonardo Vetra, ucciso in circostanze misteriose, si troverà a portare a galla i misteri della setta insieme alla figlia (ovviamente figa) del defunto scienziato. Ci sono un sacco di buoni motivi per cui evito accuratamente film del genere, sono i classici che mi fanno anche un po’ incazzare: in primis perché tratti da un libro che viene dichiarato caso letterario, a mio avviso solo perché ha venduto milioni di copie, senza tener conto della sostanza, ovvero che è ha la stessa struttura de Il Codice Da Vinci, che è leggibile, ma non classificabile come letterario. Come avrete capito il mio astio è per Dan Brown, ma visto che siamo nella rubrica di cinema, faccio un passo indietro e dico che Ron Howard, con il materiale scarso che gli passava per le mani (per caso ve l’ho già detto che il libro fa schifo? altrimenti ci tengo a ribadirlo) ne ha comunque tirato fuori una pellicola di tutto rispetto, che ha il pregio di essere autorale nonostante la sua fruibilità commerciale, e che si trova su queste pagine solo perché, se la dovete vedere, è bene che lo facciate al cinema per poterne godere la spettacolarità. Grazie Ron, riesci a trasformare in oro anche la M....!
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DVD
Di Valentina Barzaghi
Come Dio comanda
Di Gabriele Salvatores. Per la seconda volta nella sua lunga e onorevole carriera, Salvatores raccoglie una difficile sfida lanciata da Ammaniti nel suo omonimo romanzo. Lo fa evidenziando il lato cinematografico del testo, sottolineandone la drammaticità e la desolazione, la poesia e la suspense. Siamo in una provincia del Nord Italia, in un paesino alle pendici di una montagna. Qui vive Rino (Filippo Timi, bravissimo) e Cristiano Zena (Alvaro Caleca), rispettivamente padre e figlio. Il primo è un lavoratore precario che si arrabatta come può per mantenere Cristiano, educandolo alla sua maniera, a tratti ignorante e violenta. Il loro rapporto è il lato più oscuro, dipendente, tragico e sbagliato di ogni grande storia d'amore. Il ragazzo venera suo padre, non mai in discussione ciò che fa o dice, lo rende la sua guida spirituale per ogni aspetto della sua vita. Hanno solo un amico: Quattro Formaggi (Elio Germano), il matto del paese, che trascorre le sue giornate a costruire un presepio fatto con ogni sorta di oggetto di riciclo ed è ossessionato da una bionda pornodiva. In una notte di pioggia, una ragazzina che assomiglia alla donna di cui Quattro Formaggi si dice innamorato, li farà intraprendere una strada senza vie di fuga. Salvatores è uno dei pochi veri autori del cinema nostrano e a differenza della sua precedente trasposizione da Ammaniti (Io Non Ho Paura) arriva questa volta a scavalcare il romanzo, tralasciando tutto ciò che è cornice della trama, per focalizzarsi meglio sui suoi personaggi, sulla loro dimensione ancestrale: Rino e Cristiano sono a tutti gli effetti un lupo e il suo cucciolo. Ci riesce con la sua solita maestria, creando un film devastante e intenso, che ha solo una pecca: una colonna sonora ridondante, frastornante e messa un po' a caso.
Australia Di Baz Luhrmann. Australia è uno di quei film che tra qualche anno troveremo nelle collezioni di dvd gold o platinum e che sarà d'obbligo avere nella propria cineteca domestica. La pellicola è ambientata nel continente australiano poco prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale e segue le vicende di un'aristocratica inglese (Nicole Kidman) che, arrivata nel lontano paese, incontra un uomo rude, chiamato Il Mandriano (Hugh Jackman), con il quale deve unire le forze per salvare la sua proprietà. I due intraprendono un viaggio che cambierà le loro vite attraverso un territorio tanto spettacolare quanto spietato, per poi ritrovarsi sotto i bombardamenti giapponesi della città di Darwin. Se guardando
Australia vi verranno in mente confronti con Via Col Vento, non stupitevi... Luhrmann ha voluto che la sua pellicola fosse un chiaro omaggio al film di Victor Fleming. Ma se il kolossal del 1939 era un melodrammone in costume confezionato ad hoc per commuovere le masse, dietro Australia si vede la mano ferma di un autore che non tradisce il suo modo totale di far cinema. A chi pensava che avesse abbandonato la musica (Trilogia del Sipario Rosso: Ballroom-Gara di Ballo, Romeo+Giulietta, Moulin Rouge) Luhrmann ricorda che i vecchi amori non muoiono mai e fa in modo che i suoi personaggi parlino attraverso una canzone. "Over the rainbow", la melodia più celebre del Mago di Oz, passa di bocca in
bocca, di cuore in cuore, scandendo il susseguirsi degli eventi. Non abbandona nemmeno un tema a lui caro come quello dell'amore che si oppone all'oppressione: era di natura familiare in Romeo+Giulietta, sociale in Moulin Rouge, razziale in Australia. Infatti, se in primo piano rimane la storia d'amore, in secondo Luhrmann denuncia lo scandalo delle Generazioni Rubate, bambini frutto di relazioni di sangue misto che nell'Australia degli anni '30 e '40 venivano strappati alle famiglie ed affidati ad organizzazioni religiose, nel tentativo di sbiancarne la cultura allontanandone la componente aborigena. Australia è un film di disarmante bellezza, ma che amerete davvero solo se amate Luhrmann.
The Orphanage Di Juan Antonio Bayona. Prodotto dal notoriamente oculato Guillermo del Toro, The Orphanage aggiunge un tassello elegante all'insieme di tutti quei film etichettabili come infanto-thriller. Laura è una madre adottiva che si trasferisce con il figlio gravemente malato in un ex orfanotrofio che vuole trasformare in una residenza per bambini disabili. Qui Simon (il bimbo) gioca con amici immaginari, che però... lasciano impronte sul pavimento. Laura cerca di assecondare il figlio, nonostante la paura, fino al giorno in cui il piccolo scompare misteriosamente. Il film di Bayona ha diversi pregi: nonostante la trama che potrebbe allontanare anche il meno scettico è un film autorale, con una fotografia che rende ancora più inquietante la storia, una scelta d'inquadrature perfetta per un film horror - dai dettagli delle porte che sbattono a una semplice giostra spinta dal vento. In un genere che sembra non possa più dare nulla, è rigenerante capire che ci sono registi che fanno di questa convinzione un metodo per andare oltre, cercando la tensione non nel semplice spavento.
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16th Barcelona’s International Festival of Advanced Music and Multimedia Art www.sonar.es
18.19.20 June
orbital, grace jones, animal collective, fever ray, crystal castles, late of the pier, crookers, moderat, deadmau5, sebastian, buraka som sistema, erol alkan presents disco 3000, micachu & the shapes, james murphy & pat mahoney (lcd soundsystem special disco set), mujava, konono nº 1, rriiccee, ebony bones, la roux, mary anne hobbs, heartbreak, snd, byetone, alva noto, atom tm, dan le sac vs scroobious pip, rob da bank, joker, lukid, shed, marcel dettman, beardyman, brodinski, breakbot, busy p, bullion, filastine, mike slott, martyn, roland olbeter + tim exile + jon hopkins, joe crepúsculo, michna, james pants, dsl, lars horntveth + bcn216, mark jones, xxxchange, jamie woon, dorian concept, cardopusher, tarántula vs. o.c.g, lusine, goldielocks, guillamino, institut fatima, the sight below, outlines, colch-ón vs. suma, the gaslamp killer… listen to them at SonarRadio www.sonar.es an initiative of
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News
Di Valentina Barzaghi
Dylan Dog: il film Il personaggio più celebre creato da Tiziano Sclavi per Sergio Bonelli Editore, sta diventando un film, la cui produzione made in U.S.A. è già iniziata. Il titolo della pellicola, molto probabilmente, sarà Death of night, mentre purtroppo il regista è il classico sconosciuto che non mi ispira fiducia: Kevin Munroe (lo sento nominare per la prima volta nella mia vita ora e ciò mi dà i brividi). L'attore scelto per la parte è quello dell'ultimo Superman (Superman Returns) Brandon Routh, che è un veterano quando si parla di supereroi e cattivo gusto... Va beh, diciamo che il film non nasce per nulla sotto una buona stella, ma la finisco subito di fare l'acida visto che non si può fare critica con i pregiudizi... oh madre... mi ero dimenticata... ci saranno gli zombie.... questa è una prova di stoicismo per il mio snobismo...
Atari riesuma i Ghostbusters Per celebrare il venticinquesimo anniversario dall'uscita in sala del primo episodio dei Ghostbusters, a giugno 2009 arriverà sugli scaffali dei negozi un nuovo videogame ispirato alla serie cult, con una storia inedita e proposto in sette diversi formati (Playstation 3, Playstation 2, PSP, Xbox 360, Windows PC, Wii e Nintendo DS). Scritto dagli autori originali della serie, Harold Ramis e Dan Aykroyd, il gioco riporta in vita i mitici "acchiappa fantasmi", restituendo loro anche le voci e le fattezze di chi aveva interpretato gli "originali cinematografici" (correva il 1984): Bill Murray (Peter Venkman), Dan Aykroyd (Raymond Stantz), Harold Ramis (Egon Spengler) e Ernie Hudson (Winston Zeddmore). Il videogame sarà ambientato di nuovo in una Manhattan infestata dai fantasmi e verrà distribuito da Atari. Non sto ad entrare nel dettaglio del videogame perché non è materia mia e potrei ricevere insulti meritatissimi, ma anche da profana, non vedo l'ora di vedere come sarà.
Winterbottom E La “The Shock Doctrine” Il regista di The Road to Guantanamo, Go Now e Benvenuti a Sarajevo (sì, anche quello di A Mighty Heart - Un cuore grande con J Lo... lo volevo rimuovere), insieme a Mat Whitecross prende spunto dall'omonimo testo di Naomi Klein per snocciolare al grande pubblico una teoria assodata: i grandi shock sono finalizzati a produrre dei cambiamenti radicali. Winterbottom parte da questo concetto, da tutta quella documentazione alla base delle terapie con elettroshock fatte negli anni '60 per andare oltre, fino al tentativo di dimostrare che le idee del Premio Nobel Milton Friedman stiano alla base del disfacimento del capitalismo occidentale. Le ipotesi dello studioso furono presentate per la prima volta nelle università di Chicago e la reale applicazione delle medesime, secondo Winterbottom e la Klein, è riscontrabile in molte pagine storiche: dal golpe di Pinoche in Cile ai desaparecidos argentini, dalla Russia di Yeltsin all'Inghilterra della Thatcher, fino ai recenti agglomerati bellici in Iraq e Afghanistan. Presentato per ora solo al Festival di Berlino nella sezione Panorama Dokumente, una pellicola da tenere d'occhio, se mai uscirà in sala. Per capire le tematiche di fondo e l'essenza della ricerca svolta, andate a cercarvi (anche su youtube) il video The Shock Doctrine realizzato da Alfonso Cuaron per il lavoro della Klein sul Disaster Capitalism.
Hollywood all'asta Il 30 Aprile e il I maggio presso il “Profile History” di Los Angeles, verranno messi in vendita circa 1100 cimeli, oggetti che presi per quel che sono (cose, appunto) non valgono nulla, ma che hanno fatto la storia del cinema, rendendo un personaggio inconfondibile, una scena speciale e un’attrice immortale. Tra i tanti infatti verrà messo all’asta il vestito utilizzato da Rita Hayworth per Gilda (1946), la pistola di Harrison Ford in Blade Runner o la spada laser usata nel primo Star Wars. Per questo shopping fuori dal comune, lontano dalle possibilità dell’90% dei residenti sul Pianeta sono state preventivate delle cifre davvero record. Il pezzo più costoso? Il poster originale di Frankenstein (1931), che potrebbe essere venduto tra i 200 e i 250 mila dollari. Alla faccia della crisi...
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Libri
Di Marco Velardi
Casabella 1928-2008 Ci sono vari modi di presentare settecentosettantadue numeri di una rivista, Chiara Baglione con Electa ha deciso di celebrare i primi 80 anni di Casabella con un volume, o forse meglio chiamarlo scherzosamente un mattone, un po’ per il peso ma anche per il colore arancione scelto per la bordatura di tutte le 800 pagine. Pagine che ripercorrono tutte le vite e le direzioni intraprese nel corso degli anni da una delle riviste di architettura più eleganti che sia mai stata pubblicata. Non ci credete? Basta poco a ricredersi,
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solo sfogliando alcuni degli impaginati ripubblicati fedelmente e ripercorrendo tutte le copertine dalla nascita ai giorni nostri. Si rimane a bocca aperta passando dal minimalismo di Giuseppe Pagano all’eclettismo di Ernesto N. Rogers, ritornando alla pulizia grafica di Gian Antonio Bernasconi e all’assurdità di Alessandro Mendini. Copertine che mostrano come Casabella non fosse solamente una rivista per architetti, ma un segno grafico importante nella storia dell’editoria internazionale. La prossima vol-
ta che sarete in una libreria o un’edicola ben fornita, buttate l’occhio e noterete quanti spunti vi ricondurranno a Casabella. Peccato per il prezzo scelto da Electa, un po’ proibitivo. www.electaweb.it Titolo: Casabella 1928-2008 Autore: Chiara Baglione Casa editrice: Electa Anno: 2008 Dimensioni: 30 x 25 cm Prezzo: 180.00 €
Tennis Courts Titolo: Tennis Courts Autore: Giasco Bertoli Casa editrice: Nieves Anno: 2009 Dimensioni: 25,5 x 19,5 cm Prezzo: 28.00 $
Campi da tennis, vuoti, abbandonati, ben curati, in mezzo al nulla, circondati da boschi, semplicemente campi da tennis, che Giasco Bertoli ci mostra in tutte le versioni possibili e immaginabili nel suo ultimo libro pubblicato dalla prolifica Nieves Books. Una serie accumulata in dieci anni di viaggi e girovagare. Soggetti del tutto diversi dagli scatti sensuali di Purple Sexe e di Madame Bovary C’est Moi, per cui Giasco era conosciuto proprio dieci anni fa. Anche se, in Tennis Courts rimane immutata la stessa sensazione di essere spettatori in estasi di un mondo che solo Giasco riesce a cogliere, pur essendo davanti agli occhi di tutti quotidianamente. Un libro che fa pensare e sognare all’estate, all’aria aperta e che sicuramente vi fare guardare il campetto sotto casa con un occhio più fotografico del solito. www.nieves.ch
Films
Gli scatti di William Klein prima o poi vi saranno passati sotto gli occhi, immagini forti, raccolte in libri epici come Paris+Klein, New York, Rome, Tokyo e Moscow, che hanno raccontato la storia della gente e delle strade di città in tutto il mondo. Ma a William Klein non bastava fare il fotografo e tra il 1965 e i primi anni ‘80 la sua attenzione si spostò alla cinematografia e così nacquero pellicole come Qui êtes-vous, Polly Maggoo?, Mr Freedom, Model Couple, The French, Muhammad Ali the greatest e molte altre racchiuse nel volume Films pubblicato alla fine degli anni novanta da PowerHouse. Un volume ancora disponibile oggi per dare una piccola visione d’insieme del genio che solo William Klein poteva essere. Storie di vita quotidiana, allegorie di super potenze internazionali, racconti di moda e anche critica sociale, con nessun film uguale all’altro, perché altrimenti ci si annoierebbe e questo nel fantastico mondo di Klein non è assolutamente permesso.www.powerhousebooks.com
Titolo: Films Autore: William Klein Casa editrice: PowerHouse Anno: 1999 Dimensioni: 33 x 23 cm Prezzo: 49.00 $
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Whaleless
A Cura di Giovanni Cervi. Contatti e info: verbavolant@pigmag.com
Un mondo senza balene. Inquinamento e pratiche di pesca insostenibili stanno mettendo a serio rischio la sopravvivenza dei grandi cetacei. Questo è uno spazio dedicato a chiunque voglia esprimere la propria indignazione, rabbia, vergogna, incredulità, preoccupazione… con ogni mezzo espressivo, dall’illustrazione alla canzone, dall’animazione alla fotografia e oltre. Visitate i siti internet www.whaleless.com e www.myspace.com/whaleless per ulteriori
Opera di Squp. Courtesy of Strychnin Gallery
informazioni e per visionare la gallery dei lavori giunti fino ad ora. Be creative, save a whale.
Fish Woman #1 Hai mai visto una balena? Viva? Purtroppo mai. Che rapporto hai col mare? Amo il mare per la sua dualità: è insieme calma e movimento, quiete e tempesta. Nel mare c’è proprio tutto: la vita dei pesci e la morte delle conchiglie. Se tu potessi scegliere di trasformarti in un abitante marino, quale sceglieresti? E perché? Ho un po’ di imbarazzo nel dover scegliere… forse, magari, un esoscheletro marino “morphizzato”: appartenente ad una specie non ancora catalogata ed in continua evoluzione; un po’ come sono i miei soggetti, a metà tra essere umano e animale marino, destinati ad adattarsi in futuri ambienti liquidi.
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Qual è il tuo elemento preferito tra aria, acqua, terra e fuoco? Perché? Decisamente l’acqua: ti permette di galleggiare e muoverti liberamente e in più direzioni. Adoro l’acqua per il suo grado mutevole e per le sue forme con cui appare in natura: solida come il ghiaccio, aeriforme come vapore acqueo. Singola come goccia e infinita come distesa d’acqua salata. Pensi che l'arte sia fine a se stessa o che debba avere un messaggio o un riflesso su chi guarda? L’arte è un mezzo di comunicazione e ci permette di codificare e ricevere molteplici messaggi. L’artista decide solo quali saranno i codici linguistici da adottare per permettere al fruitore di decodificare ed interpretare i
messaggi, secondo la propria sensibilità e la propria esperienza. Come descriveresti il mondo nel quale viviamo? Un mondo potenzialmente bello, ma che quotidianamente viene calpestato e deturpato: se non impariamo a conviverci e a rispettarlo presto sarà rovinato ineluttabilmente. L’evoluzione della scienza e della tecnologia deve essere a disposizione per la salvaguardia della natura e dell’uomo. La qualità della vita dovrebbe coincidere con il rispetto per ogni forma di vita. E come lo immagini tra 20 anni? Un futuro sempre più indefinibile e problematico: un fenomeno oggi preoccupante è lo scioglimento dei ghiacciai a causa del surriscaldamento terrestre come sta avvenendo, in modo piuttosto veloce, in Groenlandia. Ci dici qualche parola da associare al tuo modo di fare arte? Mutazione, adattamento, esoscheletri, involucri marini, corpi non catalogabili come specie. I soggetti dei miei lavori sono perlopiù esoscheletri, involucri, esseri a metà tra il mondo umano e mondo marino, senza un’identità definita se non quella di essere corpi in evoluzione, capaci di adattarsi anche in un possibile ambiente liquido. Faccio loro indossare un’estetica marina, in sintonia con l’ambiente in cui vivono: scarpe e armature interamente riviste con conchiglie, abiti mimetici che simulano gli aculei dei pesci palla e costumi fotosensibili allo spazio. Come hai realizzato questa balena? Fish Woman No.2 è un lavoro che prende spunto da alcune posizioni di danza, chiamate appunto posture a balena, del danzatore e coreografo americano Merce Cunningham, ideatore e sperimentatore di Life Forms, un software che permette la notazione dei movimenti di danza ovvero la registrazione dei movimenti dei danzatori. A cosa stai lavorando ora? In questo momento, sto conducendo una ricerca iconografica, mitografica e zoomorfica sulla rappresentazione del delfino nell’immaginario medievale. Hai un sogno/incubo ricorrente? Un sogno? Un viaggio: da Southampton a New York, in nave. www.myspace.com/squpsqup
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Webster
Di Raf “I feel Lucky” Mancuso webster@pigmag.com
Raf Mancuso è un detenuto dimenticato in un carcere dismesso; la sua unica libertà è la banda larga.
www.brokenships.com Che me ne faccio di quello spazzolino da denti che è rimasto a casa mia? Non ti voglio più vedere e l’ho già usato per pulire il cesso, immaginando che fosse la tua faccia. Ma nemmeno quello mi è bastato. Se ti vuoi liberare di qualcosa della tua ex, stronza, sentendoti al contempo compreso e più leggero contatta il Museo delle Relazioni Interrotte, nato in Croazia qualche tempo fa e che sta spopolando in tutto il mondo. Ad maiora.
Re:Snap! >> Arti folli nel mese dedicato alla Madonna. Sembra che mezzo mondo si sia concentrato per alzare il livello del nostro immaginario collettivo. Tra videoarte svizzera, scultori orientali, pittori austriaci e fotografi internazionali. Senza dimenticare Agatha, progetto nato nel 98 per Navigator (ricordate il vecchio browser?) e risorto in Ungheria. 134 PIG MAGAZINE
andrewbush.net
www.asgargabriel.com
osang.net
www.adamwallacavage.com
www.c3.hu/collection/agatha/
www.dontyoufeelbetter.com
www.hyungkoolee.net
www.hyungkoolee.net
www.pipilottirist.net
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Videogames
Di Janusz Daga (jan@pigmag.com)
PIG’s Most Played. Back to The Future 4: splatter e picchiaduro per tutti. Gli anni ’80 sono Duri a Morire. Resident evil 5 (PS3) Ottavo capitolo della serie survival horror più famosa del mondo. Per alcuni imperdibile, per altri una delusione. Decidiamo di giocarlo perchè proprio non si può ignorare. Gameplay identico al 4 con qualche aggiunta gustosa. La cosa più incredibile è l’aspetto grafico. Dieci e lode. Ambientazione africana assolutamente paurosa. Avere un compagno che ti guarda le spalle è un solievo, specialmente quando si affronta un’orda di infetti nelle baraccopoli. Il mal d’Africa non sarà un problema. Mad World (wii) Dagli autori di Okami, uno dei titoli più sanguinolenti del secolo. Lo abbiamo recensito a dovere mesi fa, ma merita un promemoria. Un picchiaduro che mette insieme Kenshiro incazzato e Sin City. Totalmente BW e sangue rosso sangue. Shading utima generazione e violenza gratuita. Prendete un tizio, bloccatelo dentro un copertone da camion, impalatelo dolcemente e stuzzicatelo con delle leggere testate. Quando sta per crepare, segatelo a metà e poi mettetelo nel bidone della spazzatura. Combo da 200.000 punti. Da servire caldissima in tavola. Street Fighter IV (PS3) Nel 1991, Capcom inventa il cabinato a 6 pulsanti. Unico scopo: devastare l’avversario di colpi e combo paurose. Rivoluzione nel mondo dei picchiaduro affidata al titolo che è poi diventato leggenda. Street
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Fighter 2. Uscito il quarto capitolo è già record di vendite. Si parla di oltre due milioni di pezzi in due settimane. Tutti i grandi personaggi del passato: Ryu, Ken, Chun-Li, Guile e quelli nuovi come Crimson Viper, Abel, El Fuerte e Rufus. Classica prospettiva 2D per un gioco totalmente 3D. Grafica paurosa per un ritorno ai grandi giochi del passato. Imperdibile. Commander Europe At War (DSi) Se vi piacciono gli stategici, impazzirete per questo. Seconda guerra mondiale, mappa ad esagoni. 12 diverse unità da comandare, 6 scenari di battaglie storiche. La parte militare si alterna a quella politica: si dovranno stipulare trattati, pensare agli approvvigionamenti, trovare le risorse per gli eserciti. Tenere conto dell’economia delle zone occupate e conquistate diventa fondamentale per vincere la guerra. Un vero e puro tattico old style. Finalmente! Grand Theft Auto: Chinatown Wars (DSi) Ottocentomila righe di codice per l’ennesimo capolavoro targato Rockstar. Sul piccolo di casa Nintendo prende vita un capolavoro. Probabilmente il miglior gioco per DS mai uscito. Livello grafico da urlo, gameplay vario e coinvolgente. Sembra strano ma quasi non ci si accorge di essere su un portatile. Le funzioni dei capitoli su Xbox e PS3 rimangono uguali, solo alleggerite per essere portabili. La storia è tutta made in china. Roba di spade, famiglie e droga. Huang Lee rulez.
C.so di Porta Ticinese 80 - Milano - 02 89056350- WWW.THESPECIAL.IT
Bang Your Head Randy “The Ram” lancia la sua sfida a calciatori e veline. E lo fa partendo da un videogame. Quando si è piccoli si guarda il Wrestling. Poi da grandi si smette di guardarlo. C’erano mille buoni motivi per accendere la tv e alzare il volume, è che dopo un po’ te li scordi, come ti scordi delle macchine radiocomandate e delle figurine. Forse è perché quando si è piccoli si vorrebbe essere grandi e forti. Invincibili e ammirati, mascherati proprio come i lottatori sul ring al centro dello schermo . Io per esempio, lo guardavo perché mi piaceva la telecronaca di Dan Peterson. Il suo strano accento commentava eventi made in USA che non era facile vedere in tv. Puro concentrato di vita americana: il pubblico in delirio, le dita di gommapiuma, giganti in calzamaglia che si sfidavano a colpi proibiti. Era l’Uomo tigre dal vivo, meglio di un videogame! Spettacolare e “fake”
quello che basta. Tanto mica si sapeva che era tutto finto, solo lo si ipotizzava. Poi però vinceva la voglia di credere e iniziava il match sul divano del salotto buono. Per un motivo o per l’altro, questo strano sport è ancora vivo e a distanza di vent’anni fa parlare di sé. Crea personaggi e fa sognare milioni di ragazzini con la maschera di Rey Mysterio sotto il letto (io avevo quella di Hulk Hogan). Se avete visto “the wrestler” capite cosa intendo. Questi uomini giganteschi si battono per qualcosa di più che non la cintura d’oro del Charro. Come bambini mai cresciuti, vogliono rimanere nel sogno in eterno. Arrivano dall’Isola che non c’è e giocano col Nintendo a cartucce. Proprio nel film con Mikey Rourke. Sul suo divano sgangherato, si gira la Vera Storia dei video-
Konami di muscoli e tutine alla Borat non ne vuol sapere. Lancia così Rumble Roses. Wrestling supersexy con lottatrici in bikini. Costumini in lattice, autoreggenti, pelle e borchie. Non male come alternativa ai baffi gialli di Hogan! 138 PIG MAGAZINE
games. Randy “The Ram” sfida il suo amico Adam di 9 anni. Randy nella sua roulotte ha il NES e una vecchio tubo catodico. I due si giocano un paio di match a Wrestle Jam. Poi, il “bambino” grande e quello più piccolo, hanno un breve scambio: Adam: So, you hear about Call of Duty 4? Randy: The what? [The Ram, suffering from hearing loss, leans in to hear Adam better.] Adam: Call of Duty 4. Randy: What? Adam: Call of Duty 4. Randy: Call it duty for? Adam: Call of Duty 4. Randy: Call of Duty 4? Adam: Yeah. It's pretty cool, actually.
Il primo gioco di Wrestling sviluppato da Nintendo fu Pro Wrestling (1986). Da uno o due giocatori, è tuttora nella top 200 dei migliori giochi Nintendo mai sviluppati. Una curiosità per chi non lo avesse mai finito: per finire il gioco è necessario battere Great Puma, campione della Video Wrestling Federation. Una specie di Uomo Tigre in calzamaglia.
Randy: Really? Adam: (sighs) This game is so old... Randy: What's it about? Adam: It's a war game. Most all of the other Call of Dutys are, like, based on World War II, but this one's with Iraq. Randy: Oh yeah? Adam: You switch off between a marine and an S and S British special operative. So it's pretty cool. Ventitre anni bruciati in tre minuti. Peter Pan abbattuto da un F117 mentre torna a casa. L’estinzione della specie si materializza nelle differenze tra i due. Fortunatamente anche i giochi di Wrestling hanno avuto la
loro evoluzione. Decine di titoli sono passati da quando si caricava Pro Wrestling sul Famicom. Compriamo a Randy un plasma, una Playstation 3 e una copia di Legends of WrestleMania. Probabilmente non il titolo più bello apparso su console, ma di sicuro quello che più piacerebbe ai lottatori del passato. Un vero back to the future! Grandi leggende degli anni ’80 e ’90 a confronto. Andrew the Giant, Sgt. Slaughter, Ultimate Warrior, Jake "The Snake" Roberts, Hogan e King Kong Bundy. Nomi che ancora oggi danno un senso alle coreografie che li hanno resi celebri. Ci sono persino le intrusioni dei manger durante gli incontri con relativa rissa. L’aspetto grafico è scadente, le mosse
ripetitive e in generale sembra un titolo di dieci anni fa. Ma è proprio questo il suo bello. E’ immediato. E’ semplice e se quello che volete sono solo quindici minuti di gloria, allora fa per voi. Tra le mille possibilità di gioco, c’è anche quella di rivedere i grandi filmati storici del wrestling. I migliori incontri, le mosse magiche e i personaggi più incredibili. Una specie di videoteca storica dalla quale prendere spunto per gli incontri. A questo aggiungo una colonna sonora degna dell’epoca. Per quelli che come canta “the Boss”, My only faith’s in the broken bones and bruises I display.
Impossibile non ricordare in sala giochi il fantastico WWF Superstars di Technos (1989). Presenti all’appello tutti i grandi dell’epoca: Ultimate Warrior, Jim Duggan, Hulk Hogan, Macho Man Randy Savage. Ted Di Biase e Andrè The Giant da sfidare per il cinturone d’oro patacca. Qualche anno dopo, nel ’91 esce Wrestlefest sempre di Technos. Grande novità la cattivissima Royal Rumble da disputare in coppia. Casino assoluto sul ring. Il più delle volte si finiva per errore a riempire di mazzate il proprio compagno. Anche qui, tutti i grandi nomi di sempre: Hulk Hogan, Mr Perfect, Demolition, Ultimate Warrior, Ted Di Biase, Jack The Snake Roberts. Una certezza.
In attesa che Nintendo se ne accorga e lo renda disponibile per il download, Wrestle Jam rimane un capolavoro di retrogaming. Sviluppato appositamente per il film The Wrestler da Kristyn Hume e Randall Furino. Il team ha creato un gioco completo basandosi sugli 8 bit di Pro Wrestling e Acclaim’s WWF Wrestlemania. Sembra incredibile, a per dare al tutto un look “old school” ci sono volute settimane. Due personaggi totalmente giocabili: Randy "The Ram" Robinson e The Ayatollah. Intro screen, selezione del lottatore con otto diversi attacchi. Per dare il giusto tocco anni ’80, i programmatori hanno dovuto dimenticare le nuove tecnologie e i processori superveloci. Reazioni lente, pugni e calci senza troppe animazioni. Tocco finale, la colonna sonora. Composta da Joel Feinberg, "8-bit Wrestler” la trovate anche su Youtube.
Legends of Wrestle Mania sembra proprio un gioco di altri tempi. Persino la grafica è terribile. Il pubblico è così anni ’90 che a volte si sgrana in pixel. Tagli di capelli alla J Fox e t-shirt rock. Fantastico. Poche mosse, facile e intuitivo. Colonna sonora originale da urlo, presentazione di ogni personaggio come fosse oggi. Ci sono tutti, Coco con il suo pappagallo, Hulk che fa il gesto “urlate non vi sento” per incitare il pubblico. Persino i manager sono quelli originali. Se lo volete in ufficio, ricordatevi di applicare un timer. Rischiate di perdervi tutte le puntate dei Simpson.
Se cercate “Randy” vi diciamo già che online sono disponibili alcuni Mod da scaricare. Ne abbiamo trovato uno sviluppato per No Mercy con tanto di rughe e costume. Ram Jam! Ram Jam!
il titolo per Play3 contiene anche moltissimi filmati d’epoca. Scontri fra titani che hanno reso grande questo spettacolo. Per tutti quelli che hanno ancora la maglietta Hulkmania nell’armadio.
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