7 minute read

ILARIA LA SVEDESE

STORIE - DI EDUARDO LUBRANO

UN’OCCASIONE SPORTIVA ALLA BASE DELLA SCELTA DI ILARIA ZANONIDI LASCIARE L’ITALIA PER LA SVEZIA, SETTE ANNI FA. OPPORTUNITÀ DIVENTATA POI UNA SCELTA DI VITA, ANCHE UNA VOLTA TERMINATA LA CARRIERA DA GIOCATRICE. IL NOSTRO VIAGGIO NELLA SUA STORIA

Advertisement

Sette anni in Svezia. È il remake del titolo del film con Brad Pitt “Sette anni in Tibet”? Tutt’altro. È – almeno per adesso – il tempo trascorso da Ilaria Zanoni da Milano, nel paese di Sua Maestà Carlo XVI Gustavo. Il 2014, e per la precisione il periodo tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno, è stato il periodo decisivo per “Iaia”, come la chiamano gli amici. Al termine della stagione precedente si erano disputati gli Europei, conclusi con l’ottavo posto dopo la finale persa con la Svezia (particolare da annotarsi...), mentre in quell’anno erano alle porte i Mondiali – a cui l’Italia non avrebbe partecipato – e c’era da prepararsi per gli Europei dell’anno seguente. Ilaria arriva in raduno e dopo le rituali visite mediche riceve l’ok per gli allenamenti.

Durante i quali si fa male al tendine del semimembranoso (un muscolo posteriore e mediale della coscia) ed ha bisogno di un’operazione. Nasce una querelle infinita su chi avesse la responsabilità dell’infortunio ed il relativo onere di pagare l’intervento. Fatto sta che in pieno agosto, Zanoni - in piena autonomia - viene operata a Pavia e si prepara a tre mesi di riabilitazione, senza squadra per la stagione perché nel frattempo il contratto con Parma era scaduto.

“Ed ecco che mentre son lì a fare i miei esercizi di recupero mi arriva una telefonata dall’Udominate Umeå, squadra svedese, molto a nord del paese, dove si raggiungono i 25 gradi sotto zero. Nella chiamata mi viene chiesto se mi interessasse vedere le loro strutture, la città e tutto il resto perché erano interessati a offrirmi un contratto. Uno dei loro dirigenti aveva fatto parte della spedizione svedese agli Europei e si era segnato il mio nome (il particolare di cui sopra, ndr). La squadra era disposta ad aspettare i miei tempi di recupero dall’infortunio. Per cui, ho accettato, sono rimasta “folgorata” e da quel momento non sono più tornata. E sono contenta della scelta che ho fatto”.

Nessun commento su una vicenda complicata ma solo una riflessione: buon per Ilaria che ha trovato la sua strada nella pallacanestro, lasciando l’Italia e la Nazionale, canotta che ha sempre indossato con grande orgoglio e onore.

Tre anni ad Umeå, con la partecipazione all’Eurocup, poi il trasferimento all’Alvik Stoccolma. La capitale, una città bellissima dove vive tutt’ora. “È stata una scelta dettata soprattutto dal desiderio di iniziare a costruirmi un futuro dopo il campo. Già nella squadra dell’Alvik ritmi, impegni e pressioni erano molto diversi visto che per esempio, ci si allenava la sera dando modo a tutte di lavorare o studiare durante il giorno. A Stoccolma le opportunità di lavoro erano e sono molto ampie, poi ci si è messa anche una questione sentimentale, così ho fatto le valigie e sono scesa di parecchi chilometri lungo questo bellissimo paese. E diciamo anche ad un clima più sopportabile...”

Nessuna nostalgia del campo? Eppure lei ha smesso ad un’età ancora giovane per un’atleta (Ilaria è nata nel 1986, ndr)?

“Se devo dire che ho del tutto superato la voglia di giocare direi una cosa non vera al cento per cento. Un po’ mi manca. Ma quando ho smesso – anche per l’ennesima operazione, questa volta all’anca - penso di avere fatto la scelta giusta per me, per il mio fisico, per il mio futuro e per l’amore che ho per questo sport. Un amore che in questi anni mi ha portato a vedere pochissime partite, forse anche per evitare che mi torni la voglia di cambiarmi e buttarmi di nuovo nella mischia. Sono serena, il mio lavoro di massaggiatrice – con specializzazione in massaggi sportivi – nel più grande centro di Stoccolma – mi soddisfa e mi rende bene anche economicamente. Non ho mai pensato ad una carriera di allenatrice o dirigente proprio perché ho deciso di staccare con l’ambiente”.

Lei ha giocato nelle migliori piazze del nostro campionato: Napoli, Ribera, Parma, Schio, Geas (dalla quale era partita da giovane), Taranto, Parma. Com’è la pallacanestro svedese?

“In linea con la cultura di questo paese dove tutti corrono. Sarà per proteggersi dal freddo, sarà perché c’è molto da fare. Sarà perché hanno il fisico. In campo si corre tantissimo. È una pallacanestro molto fisica e veloce. Magari rispetto a noi c’è meno tecnica e tattica ma quanto all’atletismo sono davvero super. Il mio inserimento in questo modo di giocare, dopo la riabilitazione, è stato graduale ma la preparazione che mi sono portata dietro dall’Italia mi ha aiutato molto. Il livello non è male perché le squadre giocano le coppe e le atlete più forti fanno parte delle formazioni che militano nei migliori campionati europei. Tutto ciò giova alla Nazionale che infatti negli ultimi anni è cresciuta. Ha un roster solido e può fare ancora meglio”.

Sembra di capire che non ha nessun rimpianto...

“Vero. Mi sono innamorata della Svezia, del modo di vivere con meno stress da subito. Forse ero predisposta. Forse la scelta che ho fatto è capitata nel momento giusto, magari a 20 anni non l’avrei fatta o meglio non l’avrei sostenuta così definitivamente. Più che rimpianti ho delle domande che mi faccio ogni tanto. Se quando ero a Napoli avessi accettato di provare ad andare a San Diego all’Università? Il contatto me lo aveva trovato un’amica. Oppure mi chiedo se le scelte che ho fatto col cuore sono state quelle giuste. Un esempio. Nel 2009, tornata da un infortunio al ginocchio andai a Schio ma dopo 4 mesi decisi di tornare al Geas, anche perché giocavo poco. È stato come tornare a casa, in un posto magnifico. Ma se avessi deciso di rimanere a Schio? Sono domande che mi portano anche dei bei ricordi. Per esempio alle sfide con la Comense, quando ero al Geas, fin dalle giovanili. O lo scudetto Juniores con la mia amica Giulia Arturi sempre a Sesto San Giovanni. No, non ho rimpianti”.

Però in questa intervista compare spesso la parola infortunio...Quanti ne ha avuti?

“Più che altro quanto sono stati strani? Quello al muscolo semimembranoso, quello all’anca, un buco nel tendine come Daniel Hackett. Per non parlare delle ginocchia ma questi infortuni vanno messi nel conto di chi fa il nostro sport. Ah! E quella volta a Ribera che a furia di cadere più volte sullo stesso punto del coccige si formò un ematoma e poi un’infezione per la quale pure fui operata... Lasciamo perdere. L’unica consolazione in questo senso è che sono sempre in contemporanea con il mio idolo: Derrick Rose! È capitato così tante volte che mi sono infortunata come lui nello stesso momento che quando si è fatto male mi chiama per sapere se anche io sto messa male...”

A questo punto di un’intervista si chiede sempre chi è la giocatrice più forte con o contro la quale ha giocato. Mettiamola così: con chi ha fatto più fatica a difendere?

“Facile e vale per tutte le domande: Chicca Macchi. Ricordo che ogni volta che dovevo fare una rimessa non vedevo niente per le sue braccia lunghissime e la sua mobilità. La fortuna è che ci ho anche giocato insieme e siamo diventate amiche, al punto che quando ci trovavamo da avversarie spesso ci marcavamo e ridevamo. Davvero una giocatrice straordinaria, che anche in una squadra di straniere forti, era un riferimento per il tiro decisivo. Ma voglio ricordare anche una ragazza che ho visto a Napoli, Vicky Bullett. Il classico centro con movimenti bellissimi, devastantespalle a canestro, persona meravigliosa, la prima ad arrivare in palestra, l’ultima ad andarsene. Che meraviglia...” Giusto per dare un’idea di chi è stata Bullett: classe 1967, con la Nazionale americana ha vinto un oro ed un bronzo alle Olimpiadi (Seul e Barcellona) ed un oro ai Mondiali in Malesia.

Bisogna immergersi nella realtà in cui si va a vivere. Quando sono venuta in Svezia ero la straniera: mi sono presa più tiri ed ho segnato ben più di prima.

Torniamo a lei “Iaia”. L’esperienza all’estero per una ragazza è così importante?

“Assolutamente. Ecco un’altra cosa che mi chiedo: se avessi fatto prima la scelta di lasciare l’Italia come sarebbe andata la mia carriera? Ma a prescindere da me io trovo che chi può deve farlo assolutamente. Oltre al fatto di viaggiare e conoscere altri mondi, culture e persone e quindi dare forma al proprio futuro dopo lo sport, c’è la questione della responsabilità personale e sportiva. Faccio il mio esempio. In Italia io ho sempre giocato per le mie qualità atletiche, di grinta, di difesa ma non sono mai stata una realizzatrice. Quando sono venuta in Svezia è cambiata la prospettiva: io ero la straniera e dunque era da me che si aspettavano qualcosa di più e così mi sono presa più tiri ed ho segnato ben più di prima. Certo bisogna immergersi nella realtà del posto nel quale si va a vivere, bisogna sforzarsi perché questo torna a proprio vantaggio. Io sono contenta”.

This article is from: