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L’AFRICA DI LIZ
from PINK BASKET N.26
by Pink Basket
ALTRI MONDI - DI GIULIA ARTURI
LIZ MILLS, AUSTRALIANA, RACCONTA LA SUA INCREDIBILE AVVENTURA COME COACHDI SQUADRE MASCHILI IN AFRICA, IN PARTICOLARE DELLA NAZIONALE KENIANA, CONDOTTA PER LA PRIMA VOLTA DOPO 28 ANNI AD AFROBASKET. “UBUNTU È UN PROVERBIO DI QUI CHE SIGNIFICA ‘IO SONO PERCHÉ NOI SIAMO’: È LA MIA FILOSOFIA”
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La notizia della qualificazione della Nazionale maschile del Kenya ad Afrobasket 2021 ha fatto particolare scalpore. Ma non tanto perché “Team Morans” non centrava l’obiettivo da 28 anni. Piuttosto perché alla guida della squadra c’era coach Liz Mills, un’allenatrice australiana. Caspita: una donna head coach nell’Africa Nera. Il rumore mediatico è stato impressionante: interviste da decine di televisioni, giornali e siti, dal Washington Post al quotidiano sportivo spagnolo As. È l’unica donna, al momento, che alleni una Nazionale maschile. Che non sia stato facile arrivare dov’è adesso ci mostra come le barriere da rompere sono ancora parecchie.
Pochi mesi fa si parlava di Becky Hammon, prima donna alla guida di una squadra Nba: ma si tratta ancora di una rarità. Da atleta donna tendo a stupirmi dello scalpore: per me è la normalità. La realtà è un po’ diversa: nella partita decisiva contro l’Angola, dopo il riscaldamento, coach Mills si avvicina alla sua sedia e si sente dire che è riservata all’allenatore. “Io sono l’allenatore”, risponde. Questo episodio, raccontato dal Washington Post, è lo specchio di quanto il progresso sia ancora faticoso. Coach Mills allena da un decennio nel continente africano; ma è una vittoria allo scadere, un’impresa sportiva, che la proietta in prima pagina su tutti i giornali. La potenza mediatica dello sport professionistico è tale da farne un veicolo imprescindibile dell’inclusione sociale, del cambiamento. Liz ha accettato di raccontarsi a Pink Basket. Scopriamo in questa intervista un personaggio tosto, pieno di idee e riflessioni: la storia di una donna ambiziosa dall’entusiasmo contagioso.
Come è iniziata la tua storia nella pallacanestro?
“La passione si è accesa quando io e la mia sorella gemella avevamo dieci anni e abbiamo iniziato a guardare la Women’s National Basketball League (WNBL), qui in Australia. L’esempio delle atlete e delle allenatrici ci ha spinto a giocare a nostra volta a 15 anni. Appena un anno dopo, a 16, ho iniziato ad allenare. Crescendo, guardavo Michelle Timms, Trish Fallon, Lauren Jackson, Penny Taylor. Nella lega australiana ho avuto la fortuna di vedere giocare delle bravissime atlete così come di veder allenare Carrie Graf, Jan Stirling e Karen Dalton. Sono state queste grandi donne e atlete ad avermi ispirato”.
La carriera da allenatrice era nella tua testa già da ragazza dunque.
“Ho giocato dai 15 ai 24 anni, ho smesso solo quando mi sono poi trasferita in Africa. Ho sempre voluto che lo sport facesse parte della mia vita, e nel momento di decidere che percorso di studi intraprendere all’università, mi sono dedicata interamente a perseguire una carriera da coach”.
Sei andata in Africa per la prima volta nel 2008, per una missione umanitaria. Cosa ti ha colpito di più di quella esperienza?
“Io e la mia gemella ci siamo innamorate della gente, della cultura dell’Africa. Le persone sono sempre state accoglienti. Ogni Paese ha una storia e una cultura ricchissima, tutte diverse. La natura, la fauna, i paesaggi sono mozzafiato. Per noi l’Africa è diventata presto casa lontano da casa”.
C’è un posto in particolare che ti è rimasto nel cuore?
“Le Victoria Falls a Livingstone, in Zambia. Una delle meraviglie del mondo. Il periodo in cui ho vissuto e lavorato a Lusaka, sempre in Zambia, è stato bellissimo. Ho stretto amicizie e sono cresciuta come persona. Di recente ho lavorato a Kigali, in Rwanda, posso dire che è una delle mie città preferite dell’Africa”.
Nel corso degli anni sei stata parte di diverse realtà cestistiche in Africa. Hai esperienze con squadre maschili in Zambia, Sud Africa, Rwanda. Come si è sviluppata la tua carriera?
“Dal 2011 sono stata assistente allenatrice e allenatrice di club, di squadre nazionali universitarie e di Nazionali. La prima esperienza è stata in Zambia, e senza quell’occasione di guidare squadre di club non sarei dove sono ora. Il mio primo ‘zonal tournament’ in Africa risale al 2012, nella Fiba Africa Zone 6 Club Championship. Partecipare a questo torneo mi ha dato l’ulteriore spinta per continuare nel mio percorso. In Zambia, ero head coach del club che aveva vinto il titolo e abbiamo giocato contro l’Angolan powerhouse club team’s d’Agosto, Petro e Interclube, oltre che contro squadre del Mozambico, Sud Africa e Botswana. Poter competere contro tutte queste realtà ha acceso la scintilla: non volevo fermarmi lì, ma mettermi alla prova contro queste realtà top e far parte dello sviluppo e della crescita del gioco nel continente”.
Il Kenya mancava la presenza ad Afrobasket da 28 anni. La qualificazione, con tanto di vittoria allo scadere contro l’Angola, è stata un capolavoro. Di cosa sei più fiera della tua squadra?
“Sono molto contenta di come la mia squadra ha gestito i momenti difficili durante tutto il periodo della preparazione mentre eravamo in Camerun. Poi, scendere in campo e riuscire a portare a casa la vittoria contro l’Angola, che ha vinto 11 volte il titolo, è stata un’impresa davvero notevole. Un successo contro una squadra di quel calibro ha reso la qualificazione ancora più speciale. La forza mentale e il coraggio dei miei ragazzi è quello di cui vado più orgogliosa. Non mollano mai, sono sempre pronti per competere e giocarsela, chiunque sia l’avversario”.
Cosa hai detto ai tuoi giocatori prima di quella partita?
“Avevamo tutti delle buone sensazioni. Credevamo davvero di poter vincere, anche prima della palla a due. C’erano vibrazioni positive tra di noi, sin dall’inizio di quella giornata. Anche quando all’intervallo eravamo sotto (un attimo prima eravamo a -15), continuavamo a dirci di come stavamo per fare la storia: non c’erano dei dubbi. Durante la partita è stato importante concentrarci sul nostro piano di gara ed eseguirlo. Sapevamo che se fossimo arrivati ancora in partita al quarto quarto la gara sarebbe stata nostra. E io non ho fatto altro che insistere su questo”.

Qual è la tua filosofia di gioco?
“Alla base della mia pallacanestro c’è la relazione che instauro con i miei giocatori, con gli altri allenatori, con lo staff, il management e i tifosi. Costruire e coltivare questi rapporti è fondamentale per creare una cultura di squadra. Un proverbio africano che rappresenta bene questa idea è ‘Ubuntu’: ‘Io sono perché noi siamo’. Questo sottolinea che una persona può realizzarsi al massimo solo nel momento che anche gli altri possono farlo”.
Un’allenatrice che guida una squadra maschile in Africa non è usuale, ha sollevato molta curiosità nell’ambiente. Hai mai dovuto affrontare pregiudizi?
“Purtroppo, nel corso della mia carriera, sia in Australia che in Africa ho dovuto confrontarmi con episodi di discriminazione e sessismo. Tuttavia, le squadre per cui ho lavorato mi hanno sempre accolto senza problemi di sorta. Sono ormai dieci anni che alleno in Africa, mi sono fatta strada e un nome in questa realtà. Posso sicuramente dire che ho dovuto essere molto preparata e lavorare di più per ottenere rispetto ed essere accettata.
Nel senso di dover compiere sempre uno sforzo extra, un pezzetto in più di strada. Anche per questo ho cercato di essere il più qualificata possibile. L’uguaglianza di genere è una questione globale, in Africa come in Occidente. Spero, nel mio piccolo, di poter aiutare a cambiare la narrativa che riguarda questo problema, in particolare nel mio ambito, e che si presentino sempre più occasioni per le allenatrici. Le Federazioni di tutto il mondo devono incoraggiare giovani ragazze ad allenare, ma soprattutto mettere nelle condizioni chi vuole perseguire questa strada di poterlo fare”.
Cosa hai imparato dalla tua carriera di allenatrice?
“Che tutto non si esaurisce con vincere o perdere, la cosa più importante sono i rapporti che si creano e il godersi il viaggio”.
L’Australia è una delle potenze mondiali dello sport: qual è il segreto?
“Lo sport è una religione in Australia. Si favorisce l’attività sportiva fin dalla giovane età. Lo sviluppo sia dello sport di base sia di quello di élite e l’attenzione alla formazione degli allenatori sono la chiave di questo successo”.
È diverso allenare gli uomini o le donne?
“Chi gioca a basket è uguale, a prescindere dal genere. Si tratta dei dettagli, dei fondamentali e dell’esecuzione. Che si parli di giocatori o giocatrici è indifferente”.
Che consiglio daresti ad una giovane ragazza che vorrebbe seguire la tua strada?
“Credi in te stessa, sii preparata, lavora sodo e sii la fautrice del tuo destino. Se non ci sono le opportunità, createne tu una”.
Cosa ti ha insegnato l’Africa?
“Di andare con più calma, di essere paziente e rilassata. Mi ha aiutato a vedere le cose in prospettiva, in particolare quando si tratta del tempo e di ciò che conta davvero”.
Il tuo sogno?
“Che abbia successo o meno, cerco sempre una lezione in quello che faccio. Cerco sempre un’opportunità per migliorare. Il mio prossimo sogno è quello di allenare una squadra maschile africana ai Mondiali o alle Olimpiadi”.