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ORA SI SUONA PER ELISA
from PINK BASKET N.10
by Pink Basket
COVER STORY di Giulia Arturi
ELISA PENNA, COME LA CELEBRE ‘BAGATELLA’ DI BEETHOVEN, RIEMERGE DOPO ANNI DI LONTANANZA PER PROPORSI AL MASSIMO LIVELLO IN NAZIONALE: UNA PARABOLA MAI VISTA. RIPERCORRIAMO LA SUA ORIGINALE CARRIERA CON QUATTRO PAROLE CHIAVE: SFIDA, AMERICA, TIRO, COELHO
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Sfida. Una parola che ricorrerà diverse volte nel corso di questa intervista. È una costante nella carriera di Elisa Penna. Sin da piccola, quando ha lasciato il Geas per fare due anni di esperienza al college Italia, la prospettiva di un salto di qualità ha avuto la meglio su paure e timidezza. Nel nome della pallacanestro Elisa è andata lontano dalla famiglia a soli 15 anni, è approdata in uno dei club più prestigiosi d’Italia a 17, ha attraversato un oceano a 19: “Effettivamente sono un po’ timida e a volte timorosa e affrontare nuove esperienze mi crea un po’ d’ansia. Ma ho fatto tutto per il basket: i grandi cambiamenti, le sfide, sono stati sacrifici fatti per la voglia di giocare e di realizzare i miei sogni. Ogni tanto, nei momenti di difficoltà in America, mi dicevo: ‘Basta, che ci sto a fare qua, al diavolo tutto me ne torno a casa’. Poi ci pensavo e mi ripetevo: ‘Vedrai che ti farà bene, sia come persona, sia per il basket’, allora stringevo i denti e andavo avanti. Per superare le mie difficoltà ho usato le risorse che prendo dall’amore per questo sport e la voglia di non arrendersi”.
Ripercorriamo la tua carriera. Come hai iniziato a giocare?
“Ho cominciato da piccolina a sei anni. Il basket è una questione di famiglia: mio papà giocava e la mamma portava sempre me, mia sorella e mio fratello (entrambi più grandi) in palestra per vederlo. Poi è stata la volta dei miei fratelli, allora io andavo sempre a prenderli finiti gli allenamenti. Sono cresciuta con il basket e inevitabilmente me ne sono innamorata anch’io”.
L’esperienza a Sesto è stata quella che ti ha lanciata. Zandalasini, Kacerik, Barberis, Gambarini: è stato un gruppo fondamentale per te?
“Sì, sicuramente. Mi muovevo fra atlete molto talentuose, sono state delle grandi stagioni, ed è stato bello potersi confrontare con giocatrici di così alto livello, tutte ragazze che oggi si vedono sui campi di A1 e A2”.
Facevi tanti chilometri per andare ad allenarti. Ti è mai pesato?
“Sinceramente no. Era un sogno essere in una società come il Geas, quindi era un sacrificio che facevo volentieri. Allora giocava anche mia sorella Jessica, quindi sul pulmino ero sempre in compagnia e la fatica di andare avanti indietro si sentiva meno. Poi c’era Giulio alla guida, un grande personaggio, i viaggi con lui erano uno spasso (Giulio ha guidato i pulmini del Geas per decenni, tuttora non si perde una partita, ndr)”.

Poi hai fatto un altro salto e sei andata al College Italia per due stagioni. Cosa ti aspettavi di trovare in quell’ambiente?
“Soprattutto rappresentava una sfida, ed è stato quello che effettivamente ho vissuto: in quell’occasione ero veramente lontana da casa e per me si trattava di un grande cambiamento. Mi è andata bene e sono stata fortunata ad aver incontrato un altro gruppo super, che mi ha fatto subito sentire parte della famiglia. Ero piccola e molto timida, ma ho trovato tante persone che mi hanno aiutato ad ambientarmi”.
Sei stata al College due anni e poi sei andata alla Reyer. Cosa ricordi di questo altro passaggio?
“Di nuovo una sfida: andare a Venezia ha significato entrare nel mondo senior. Quando sono arrivata la squadra era in A2, e per la prima volta mi confrontavo con gente molto esperta e anche più grande di me. Io allora avevo 17 anni, è stata un’esperienza che mi ha messo di fronte a situazioni di campo e di vita che al College Italia o negli anni delle giovanili non avevo mai affrontato. E in definitiva mi ha sicuramente aiutato a crescere”.
Poi hai scelto di mollare tutto e intraprendere un altro viaggio, questa volta negli Stati Uniti per la precisione alla Wake Forest University. Un’occasione che hai colto al volo o è maturata con il tempo?
“Era già da un po’ che avevo in testa l’idea del college in America, un sogno quello di andare nella patria del basket che però non avevo mai concretamente considerato. Pensavo di aver perso quell’occasione, ma al mio ultimo anno a Venezia mi dissero che ero ancora in età. Wake Forrest mi chiamò, gli mancava proprio il numero 4 e dissi di sì; avrei potuto dedicarmi al basket, ma anche studiare ed era quello che volevo: giocare a buon livello, migliorare e laurearmi. Ho scelto di studiare psicologia, era la soluzione perfetta”.
Tante altre ragazze come te in questi ultimi anni hanno fatto questa scelta. Per alcune si migliora di più negli Usa per altre meglio in Italia. La tua esperienza cosa ti ha insegnato? Hai mai avuto dubbi sulla tua decisione?
“No, mai. Ciò che sono diventata come persona e come giocatrice mi rende contenta del percorso che ho fatto, di come mi sono realizzata. Non so come sarebbero andate le cose se fossi rimasta in Italia, ma per me è stata la scelta giusta. Poi dipende dal modo in cui ognuno affronta la situazione, dalla serietà che ci mette e dalla capacità di saper sfruttare l’opportunità che ti viene offerta, in America come in Italia. Conta molto anche l’ambiente in cui ti trovi, l’impegno e la determinazione che si investono. Certo se vai al college, ovviamente vale anche se resti in Italia, per divertirti e uscire tutte le sere non migliorerai mai. In definitiva è un fatto soggettivo”.
Per quanto riguarda l’aspetto cestistico, in America in cosa pensi di essere davvero migliorata?
“Sicuramente al college mi sono costruita fisicamente. Sono arrivata magrolina e ora sono decisamente diversa sotto questo aspetto, anche se devo ancora lavorarci. Sul campo, invece, principalmente il tiro, che ho sviluppato grazie a tantissimi allenamenti individuali d’estate. Nella post season, l’assistente allenatore mi martellava su questo fondamentale, e passavamo le ore a lavorarci”.
Ti sei trovata bene anche sotto il profilo della cultura americana, basket a parte?
“È stato impegnativo all’inizio, perché è veramente tutto differente, soprattutto come le persone si approcciano a vicenda. Dopo il primo anno ho iniziato ad integrarmi davvero e a stare bene; infatti qualcosa dell’America mi manca, certi aspetti della loro vita, le persone. Per esempio, un’apparente banalità: là puoi andare in giro vestita come ti pare, anche se sembri appena scesa dal letto nessuno ci fa caso, a differenza dell’Italia dove vieni subito guardata con stupore. Ho capito perché gli italiani vengono indicati come icone di stile: non ci vuole molto, considerati gli standard americani (risata)!”.
Hai anche costruito dei rapporti umani importanti in questi anni?
“Sì, soprattutto con alcune mie compagne sono riuscita a instaurare dei bellissimi rapporti di amicizia. Infatti, ci sentiamo quasi ogni giorno, mi mancano!”.
Capitolo Nazionale: hai esordito prestissimo, tanti raduni e amichevoli, una lunga gavetta. Come l’hai vissuta? Ti sei sentita seguita dai tecnici anche se giocavi lontano?
“Sì, ho percepito un certo interesse degli allenatori nel seguirmi nel mio percorso, per vedere come crescevo, come miglioravo”.

Ora nell’ultima partita contro la Bielorussia hai segnato 27 punti, record in azzurro e ti ritrovi in una situazione un po’ unica: una delle giocatrici più forti e attese della Nazionale senza avere alle spalle un campionato giocato in Italia. Che effetto ti fa?
“Cerco di non pensarci. Non ho una grandissima autostima, che da un certo punto di vista è un problema, quindi in realtà non mi reputo una giocatrice così importante. Ogni volta che vado un campo cerco di dare il massimo, di fare quello che so fare. Poi se arrivano i 27 punti bene, altrimenti il mio contributo sarà un altro. Mi impegno sempre a fare la mia parte e quello che mi viene chiesto”.
Avverti una certa pressione o sei serena?
“Sono serena, non credo di sentire alcuna pressione da parte di fattori esterni. Cerco solo di giocare a basket e per quanto possibile di divertirmi; la pressione ti limita in tante cose, meglio farne a meno”.
C’è qualcosa nel tuo bagaglio tecnico su cui stai particolarmente lavorando?
“In questo periodo di raduno cerco di essere molto focalizzata sulla difesa. Al college usavamo tanta zona, la difesa 1vs1 era stata un po’ trascurata. In Nazionale è molto importante questo aspetto, coach Crespi ci mette molta enfasi e io sto cercando di dare il massimo perché capisco che è quello che serve e su cui si punta molto”.
Si respira un’aria di grande ottimismo durante la preparazione. Rispetto alla squadra che partecipò agli europei del 2017 vi sentite più forti, più preparate?
“Abbiamo sicuramente un sacco di voglia di riscattarci, perché ancora oggi il pensiero di quel fischio fa male e desideriamo ricucire quella ferita che tuttora è aperta. Andiamo agli europei per fare del nostro meglio e cercare di riprenderci quello che in quella partita del 2017 ci è stato in qualche misura strappato via”.
Avete seguito le partite delle calciatrici che al Mondiale stanno facendo grandi cose? I risultati delle Nazionali di solito sono di traino. Ti senti di rappresentare un movimento che sta crescendo?
“Sì, come tutta la squadra del resto. Stanno facendo un grande lavoro di comunicazione per farci conoscere al pubblico. È bello pensare che come gruppo aiutiamo un movimento femminile, nel nostro caso il basket, ad emergere, a rappresentare la donna nello sport”.
Tornerai a giocare a Venezia il prossimo campionato. Sei pronta per affrontare questa nuova, ennesima sfida?
“Sono molto felice. Prima di tutto perché finalmente sarò vicino a casa e potrò vivermi maggiormente la famiglia e gli amici. Sarà un’emozione, non posso dire di aver davvero mai giocato in A1 ed ecco quindi ancora una sfida: voglio vedere se oggi sono in grado di farlo. Non vedo l’ora di entrare in questo mondo con il quale ho già avuto un primo approccio, ma senza mai viverlo veramente”.
C’è una giocatrice o giocatore, o sportivo in genere al quale ti sei ispirata?
“Stimo molto Elena Delle Donne perché pur non essendo velocissima riesce a battere chiunque. Tra gli uomini dico Clay Thompson: perché il suo tiro è perfezione, bellissimo da vedere e molto efficace. E non è l’unica cosa che sa fare”.
Al di fuori del basket cosa ti interessa in particolare?
“Mi piace molto leggere, e il mio autore preferito è Paulo Coelho. Ho sempre sul comodino ‘Il manuale del guerriero della luce’, così posso di tanto in tanto tornare a rileggere una delle storie, scegliendo quella più adatta al momento che sto vivendo. Poi amo camminare in montagna e andare in giro in bici. Insomma, stare all’aria aperta a contatto con la natura”.
“Per Elisa”, Beethoven: uno dei pezzi di musica classica più famosi di sempre. La partitura originale si perse presto e ricomparve molti anni dopo. Assomiglia alla storia della nostra Elisa, una bomba ad orologeria innescata in modo silenzioso e che è tornata da lontano, quasi senza passaggi intermedi, per esplodere in Nazionale A. Non s’era mai visto. Del resto, come scrive l’amato Coelho, “Il guerriero sa che è libero di scegliere ciò che desidera: le sue decisioni sono prese con coraggio, distacco e, talvolta, con una certa dose di follia. Accetta le proprie passioni e le vive intensamente. Sa che non è necessario rinunciare all’entusiasmo delle conquiste: esse fanno parte della vita, e ne gioisce con tutti coloro che ne partecipano”.